Moldavia: Il riscatto passa per il ballo

Testo e foto di LUCA SALVATORE PISTONE |


La Moldavia, ex repubblica dell’Unione Sovietica, è considerata il paese più povero d’Europa. Con 3,5 milioni di abitanti su una superficie pari a quella di due regioni italiane, si sta svuotando: molti sono coloro che migrano all’estero e il paese vive di rimesse. Qui la danza è un’eccellenza, e molti giovani cercano di diventare ballerini e ballerine professionisti.

Il Collegio nazionale di coreografia di Chişinău, la capitale, è uno dei grandi motivi di orgoglio della Moldavia, il paese più povero d’Europa. Da questo istituto sono usciti ballerini che hanno calcato i più prestigiosi palcoscenici mondiali.
Le famiglie degli studenti fanno enormi sacrifici per coprire parte delle spese dei corsi. Puntano molto sui propri ragazzi, nella speranza che questi abbiano successo all’estero e che possano contribuire economicamente al loro sostentamento.

«La nostra scuola – spiega Eugen Gîrnet, da oltre vent’anni il direttore artistico del Collegio – ha un’antica tradizione, simile a quella delle altre ex repubbliche sovietiche. Siamo nati nel 1952 e da allora abbiamo formato più di 300 ballerini professionisti di danza classica e danza tradizionale moldava. Molti di loro, oltre ad aver partecipato ad autorevoli concorsi internazionali, sono stati primi ballerini in famose compagnie. Vienna, Berlino, Praga, Mosca e San Pietroburgo, solo per fare qualche esempio».

Un ballerino in casa

Il Collegio nazionale di coreografia si trova nella trafficata via Mihai Eminescu, nel pieno centro della capitale Chişinău. Un edificio spartano, in perfetto stile sovietico, in buone condizioni. L’istituto dipende direttamente dal ministero della Cultura, che provvede al pagamento delle rette degli allievi. Il percorso di studi ha di norma una durata di otto anni e copre la fascia di età dieci-diciotto anni. Una decina di studenti, tra ragazzi e ragazze, vengono ammessi annualmente al Collegio tramite audizione.

«Svetlana! Alza di più quella gamba. Quante volte te lo devo ripetere? Allora non hai imparato proprio nulla?». L’insegnante Veronika è severissima. Nessuna delle aspiranti ballerine professioniste osa fiatare durante la lezione. Sono tutte molto attente alle sue parole e sfuggono le sue occhiatacce. Si guardano al grande specchio di fronte a loro per vedere se stanno facendo i giusti movimenti alla sbarra.

In un angolo della palestra c’è un vecchio pianoforte con il quale un’anziana musicista russa, elegantissima col suo chignon alto, accompagna ogni passo di danza. Oggi il repertorio prevede Vivaldi, Mozart e Beethoven. Anna, questo il suo nome, sbuffa sommessamente quando Veronika le fa cenno di interrompere la musica per rimproverare le sue allieve. E, ancora di più, quando l’insegnante fa provare dei passi di danza moderna inserendo nello stereo un cd della cantante Beyoncé.

Eugen, il direttore, non distoglie mai lo sguardo dalla sbarra. Con una mano davanti alla bocca, parla a bassissima voce per non disturbare la lezione: «I moldavi amano molto il balletto. Anche se lo stato continua a tagliarci i fondi, lavoriamo sempre duramente e con dedizione perché svolgiamo la professione più nobile che c’è. Una volta avere in famiglia una ballerina o un ballerino era un grande onore, oltre che un modo per uscire dalla miseria. Per alcuni genitori è ancora così, ma per molti altri no. Per i propri figli preferiscono carriere più sicure come quella del medico, dell’ingegnere o dell’avvocato. Professioni che è meglio esercitare all’estero».

Fanalino di coda

Con un Pil pro capite nominale inferiore ai 2mila euro all’anno, la Moldavia si afferma come il paese più povero d’Europa. Ancora lontana dall’ingresso nell’Unione europea, questa ex repubblica dell’Unione Sovietica di appena 3,5 milioni di abitanti si sta svuotando: poco meno della metà della sua popolazione risiede infatti all’estero. In Europa occidentale, professioni umili come muratore, bracciante agricolo e, in particolar modo, badante, rendono molto di più di professioni qualificate in patria.

Sono l’Italia, la Spagna e il Portogallo le principali mete dei migranti moldavi. Tutti paesi che fino a dieci anni fa si potevano raggiungere solo se muniti di visto. Poi, con l’ingresso della Romania nell’Ue, i numerosi moldavi con origini rumene hanno cominciato a chiedere la doppia cittadinanza per usufruire dei vantaggi di un passaporto comunitario.

I mezzi di trasporto, invece, rimangono sempre gli stessi: pullmini malconci da dodici posti, spesso senza finestrini, che in due o tre di giorni no stop arrivano a destinazione. Molto contenuto il prezzo del biglietto: intorno ai 40 euro la sola andata per Milano; 55 euro per Madrid; 80 euro per Lisbona.

Un’economia di rimesse

«È del tutto comprensibile che la gente se ne vada dalla Moldavia», aggiunge Eugen. «Qui lo stipendio mensile di un funzionario pubblico con la laurea è di circa 150 euro. Un pensionato, quando gli va bene, riceve mediamente poco più di 50 euro.

Il problema grosso è che il costo della vita è quasi pari a quello dell’Europa dell’Ovest. Gli elettrodomestici, gli affitti, fare la spesa, la benzina. Tutto è carissimo. Fuori dalla Moldavia se lavori in nero o in regola puoi guadagnare dagli 800 ai 1.500 euro al mese. Buona parte di quello che intaschi lo mandi a casa per mantenere la tua famiglia. Senza le rimesse degli emigrati la Moldavia morirebbe di fame. Più di quanto già non accada».

Ricerca di nuovi talenti

Eugen, ex ballerino che in gioventù si è esibito in mezza Europa (anche in Italia, a Catania e Firenze), si vanta di avere un grande fiuto nello scovare talenti. Ogni estate, prima che le audizioni per accedere al Collegio nazionale di coreografia abbiano inizio, gira per tutto il paese a caccia di nuove promesse. Sei anni fa, nel villaggio di Trusheni, a 20 chilometri da Chişinău, incontrò Mihaela Buruiana, che all’epoca aveva dieci anni. Slanciata, gambe lunghe e caviglie fini. Il fisico di una ballerina. Le lasciò l’indirizzo della scuola. Perché non tentare un’audizione?

«Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Un signore gentile, dalla faccia buona, lasciò dei volantini all’ingresso della mia scuola. Era il direttore Eugen». Mihaela si esprime con un’eleganza pari a quella mostrata alla sbarra. «Non avevo mai mosso un passo di danza prima né la cosa mi aveva mai interessato più di tanto. Però poi mi immaginai con ai piedi le scarpette da ballerina e la sola idea mi rese felice. Tornai a casa e ne parlai con mia madre. Mi vide molto entusiasta e accettò di portarmi qui al Collegio per un provino. L’insegnante testò la mia muscolatura e disse che avevo le giuste caratteristiche per studiare danza classica e, chissà, diventare un giorno una ballerina professionista. All’inizio fu molto dura perché ero indietro rispetto alle mie compagne di corso, ma in breve tempo riuscii a recuperare e a mettermi al loro livello».

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La famiglia di Mihaela

Un’ora per andare e una per tornare. È quanto impiega Mihaela per raggiungere il Collegio dal suo villaggio e per ritornare a bordo di un autobus sempre affollato. A Trusheni, poche vie male asfaltate, la ragazza vive con la madre Elena e con il padre Anatoly in una modesta villetta su un solo piano. Anatoly è da poco tornato in patria dopo aver fatto per ventidue anni l’operaio in una fabbrica di ferro in Russia. Elena, casalinga, coltiva nell’orticello di casa poche verdure che tenta di vendere ogni mattina nella piazzetta di Trusheni. Il fratello maggiore di Mihaela fa il muratore in Portogallo e, quando può, manda qualche soldo ai genitori.

L’ospitalità della famiglia Buruiana è a dir poco squisita. Anatoly fa diverse capatine in cantina dalla quale rispunta con ogni genere di alimento sotto aceto preparato con le sue mani. Dai classici cetrioli, alle acciughe, passando per le pesche e l’anguria. E vino e brandy, sempre di sua produzione. Mostra pure un paio di cincillà, di cui ha un piccolo allevamento nel retro della casa. «Con queste bestiole ci ha confezionato una bella e calda pelliccia per me. La prossima è per Mihaela», interviene la moglie.

«A Mosca – racconta Anatoly – avevo un buon lavoro. Ma per i gravi problemi di salute di mia suocera ho dovuto fare ritorno in Moldavia. Ora lavoro in una piccola fabbrica di mattoni: faccio un turno di 24 ore consecutive e poi riposo per tre giorni. La paga è bassissima ma non ho trovato di meglio. Approfitto del tempo libero per prendermi cura delle altre bestie. Sapete, ho anche diversi polli ruspanti… Almeno un giorno a settimana vado a Chişinău a vedere la mia bambina che si allena. La osservo da una finestra perché non voglio che si distragga e ogni volta mi commuovo. È bravissima».

I fondi che non ci sono

Anatoly ed Elena sono molto orgogliosi della loro figlia. La ragazza ha già vinto un’importante competizione in Romania ed è stata la sola moldava a partecipare a un rinomato concorso a San Pietroburgo alcuni mesi fa. «Il Collegio – chiarisce Elena – è gratuito ma se uno studente vuole prendere parte a questi appuntamenti deve pagarseli da solo. Quasi tutti i nostri risparmi sono destinati ai viaggi di Mihaela, crediamo molto in lei. Purtroppo recentemente mia madre è mancata e abbiamo dovuto anche chiedere un prestito in banca per il funerale. Adesso non abbiamo soldi a sufficienza per coprire le spese di un’altra gara che si terrà tra non molto in Spagna».

Dalla sua stanza da letto, mentre fa i compiti, Mihaela sente tutto ciò che dicono Elena e Anatoly. Confida di essere molto grata ai genitori per i sacrifici che ogni giorno fanno per lei e che non perderà mai la speranza di diventare una ballerina di fama mondiale. «Per me il balletto è un’opportunità per vivere una vita migliore. Grazie al duro lavoro ho imparato ad avere molta più fiducia in me stessa. Col balletto sono cresciuta, ora capisco che la vita è piena di sfide da affrontare. Arriverà il mio momento, ne sono certa. E potrò ricambiare quanto la mia famiglia fa per me».

Luca Salvatore Pistone


ARCHIVIO MC

MC ha pubblicato un servizio approfondito sulla Moldavia nell’ottobre 2014: Danilo Elia, I sogni europei di Chişinău,
e un altro sulla Transnistria, la regione separatista, nel luglio 2014: Danilo Elia, Lenin abita a Tiraspol.




Chi dice donna dice… dono


Quest’anno, per la nostra campagna di Natale, parliamo di donne: tanto preziose quanto poco valorizzate in molti dei paesi nei quali lavorano i missionari della Consolata. Le seguiamo in tutte le fasi della loro vita: bambine, ragazze, adulte, anziane, studentesse, lavoratrici, madri, nonne.

«Tanto tempo fa in un discorso fatto all’Onu dissi che volevamo che gli uomini facessero qualcosa per noi. Quel tempo è passato. Non chiederemo agli uomini di cambiare il mondo, lo faremo noi stesse». Così si è rivolta al World Economic Forum di Davos lo scorso gennaio Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace 2014, attivista pachistana per il diritto all’istruzione che nel 2009 i talebani cercarono di zittire sparandole alla testa. Malala ha esortato ogni donna e bambina a farsi sentire, denunciando le discriminazioni e violenze che vedono nelle loro comunità e nelle loro società.

Se le donne e le bambine del mondo decidessero di farsi sentire tutte contemporaneamente, il pianeta diventerebbe un posto piuttosto rumoroso. Risuonerebbero, infatti, le parole di protesta di 34 milioni di bambine in età da scuola elementare che non sono in classe; più forte di tutte sarebbe la voce di 15 milioni di potenziali alunne – 9 milioni nella sola Africa – che probabilmente in un’aula non ci metteranno mai piede.

Si sentirebbe inoltre il lamento del miliardo e duecento milioni di donne che nel corso della vita hanno subito violenza fisica o sessuale almeno una volta e di 750 milioni di donne che si sono sposate prima dei 18 anni. Oggi continuano a essere costrette al matrimonio almeno 23 bambine al minuto, per un totale di 12 milioni all’anno@. Si udirebbe senz’altro il grido di dolore – e in questo caso non è un’espressione retorica – di 200 milioni di donne e bambine che hanno subito una forma di mutilazione genitale in trenta paesi del mondo@.

Questo coro è solo immaginario; ma le singole voci sono reali e ben distinguibili. I nostri missionari le ascoltano ogni giorno nel loro lavoro, cercando di fare loro da megafono e di trovare risposte efficaci.

Spose invece che alunne

Loyangallani, Kenya

Tra i Turkana (nel Nord Ovest del Kenya, distribuiti nelle contee del Turkana, Samburu e Marsabit), nascere femmina in una famiglia di pastori nomadi significa spesso dover rinunciare alla scuola. Lo sanno bene i missionari che operano a Loyiangalani e che da circa dieci anni portano avanti un’iniziativa di alfabetizzazione per bambini (destinati a essere pastorelli) e bambine (destinate al matrimonio precoce) che non sono mai andati a scuola.

La contea Turkana è una di quelle che ha il tasso di scolarizzazione più basso: solo metà dei bambini vanno a scuola, contro il 92% della media nazionale. Per le femmine, l’abbandono scolastico è ancora più probabile e i matrimoni precoci ne sono una causa.

Nella contea Samburu, dove si trova il Wamba Catholic Hospital – gestito dalla diocesi di Maralal di cui è vescovo monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata – la situazione delle bambine è ancora più complessa. Qui, secondo uno studio dell’Unicef (esteso anche ad altre quattro aree dove vivono i gruppi etnici Masaai, Pokot, Somali e Rendille) al problema dei matrimoni precoci si affianca e si lega quello delle mutilazioni genitali femminili (Mgf o – in inglese – Fgm, female genital mutilation). Su un campione di quasi 5.300 donne intervistate, per Wamba i dati sono preoccupanti: la mutilazione (escissione della clitoride senza infibulazione, la quale, quest’ultima, comporta anche la cucitura della vagina, ndr) riguarda il 95% delle donne di 18-49 anni e il 57% delle bambine fra i 10 e i 17@.

Alcuni punti sulla Mgf

La questione delle mutilazioni genitali femminili è complessa e va capita bene nel suo contesto. L’esperienza dei nostri missionari e missionarie evidenzia che:

– è una pratica ben radicata nella tradizione culturale di molti (non tutti) popoli africani;
– non viene praticata per ragioni igieniche e non è un fatto privato;
– è sempre legata a due riti di alto significato culturale e sociale, come l’iniziazione o il matrimonio;
– è il segno della nuova identità sociale della bambina (o giovane) che, con il rito, diventa «adulta».

Si tratta dunque di un fenomeno culturalmente complesso e radicato, al punto che molte ragazze chiedono di essere sottoposte all’escissione prima di iniziare la scuola secondaria per non essere escluse o umiliate dalle loro compagne. Per contrastare questa pratica non basta quindi dire «no alle Mgf»: occorre aiutare la comunità a creare forme alternative e socialmente accettate di rituali di passaggio e iniziazione.

L’abolizione delle Mgf o la loro sostituzione con altri riti devono conciliare il diritto della persona all’integrità del proprio corpo con la sua esigenza di essere pienamente inserita, accettata e rispettata nella sua società e cultura.

Il peso dei condizionamenti sociali

Ragazza samburu con gli ornamenti del giorno del «taglio»

Che la pressione sociale e la mancanza di consapevolezza dei propri diritti spingano molte donne a prendere posizioni che le danneggiano è confermato anche dal dato riportato in un rapporto Unicef del 2014. Nel mondo, quasi la metà delle adolescenti (15-19 anni) pensa che un marito o un partner siano giustificabili se picchiano la moglie o la compagna in alcune circostanze: se la moglie litiga con il marito, esce senza avvertirlo, trascura i bambini, rifiuta di avere rapporti sessuali o brucia il cibo. In Africa subsahariana, Medio Oriente e Nord Africa le adolescenti convinte di questo superano la metà@.

In America Latina, la Colombia è uno dei paesi con il tasso più alto di violenza contro le donne, incluse le giovani dai 15 ai 19 anni, da parte di un marito o di un partner: il 37%@.

Il lavoro dei nostri missionari in questo paese si è recentemente arricchito di un metodo di formazione che si chiama «pedagogia della cura» e che nella zona di Puerto Leguizamo coinvolge gli studenti delle scuole superiori in percorsi di controllo e gestione delle frustrazioni e della rabbia e di risoluzione pacifica dei conflitti interpersonali. Anche attraverso questi percorsi si sta tentando di eliminare la violenza che spesso nasce «in contesti familiari caratterizzati da abuso di alcol, machismo e povertà» e che nella stragrande maggioranza dei casi hanno nelle bambine e nelle donne le principali vittime.

Le barriere invisibili

Gli ostacoli che impediscono alle donne di avere accesso a istruzione e sanità non sono sempre facili da individuare: solo una relazione costante e ravvicinata con le comunità può permettere di scorgerli e rimuoverli. Spesso, infatti, questi ostacoli derivano dalla reticenza ad affrontare temi considerati tabù, come il ciclo mestruale, oppure dal delicato equilibrio nei rapporti fra uomo e donna all’interno della famiglia.

Unicef stima che le scuole prive di servizi igienici adeguati nei paesi a basso reddito siano circa la metà. E basta che una scuola manchi dei servizi perché le ragazze rinuncino ad andare a lezione durante il periodo mestruale. Questo problema, stando ai dati diffusi dall’Unesco, interessa una ragazza su dieci in Africa subsahariana, causando per ciascuna una riduzione del venti per cento del tempo passato sui banchi e, a volte, il totale abbandono del percorso scolastico.

Ecco perché la costruzione di bagni nelle scuole primarie e secondarie è una delle esigenze che i responsabili dei nostri progetti sul campo non mancano di fare presenti@.

Povera sanità

Quanto all’accesso ai servizi sanitari di base: ci sono ostacoli evidenti come la mancanza di strutture, e poi altri meno visibili, ma ugualmente determinanti, come le resistenze culturali. Un esempio è il lungo dialogo tra i missionari della Consolata di Dianra, Costa d’Avorio, e le comunità locali per decidere la costruzione di alcuni centri di salute nei villaggi legati al dispensario di Dianra Village (vedi Cooperando, MC Aprile 2017). Poiché lì le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi (e quindi andare dall’équipe medica per se stesse o i figli), i missionari hanno dialogato con i leader comunitari perché tutti fossero sensibilizzati sull’importanza dell’assistenza sanitaria.

La Costa d’Avorio ha uno dei tassi di mortalità materna più alti dell’Africa subsahariana (645 madri decedute ogni 100mila nati vivi nel 2015@) e quasi tre donne su dieci partoriscono senza l’assistenza di personale qualificato.

Il difficile accesso al mercato del lavoro

La partecipazione attiva delle donne alla vita economica di una comunità genera benefici per tutti. Uno studio McKinsey del settembre 2015 ha stimato che, se le donne fossero economicamente attive alla pari degli uomini, il Pil mondiale aumenterebbe di 28mila miliardi entro il 2025. Se ogni paese, anche non raggiungendo la completa parità di genere, si impegnasse almeno a «copiare» il vicino più virtuoso nel garantire alle donne la partecipazione alla vita economica, l’aumento del Pil sarebbe comunque pari a 11mila miliardi di dollari a livello globale, con un aumento del 12% in Africa e del 14% in America Latina. La sola India vedrebbe aumentare la sua crescita del 16%. Per i paesi in via di sviluppo presi nel loro insieme la fetta di aumento del Pil sarebbe di circa 4mila su 11mila miliardi di dollari@.

Il World Economic Forum ha stilato una classifica dei paesi del mondo che misura la parità di genere: i quattro più vistuosi sono l’Islanda, la Norvegia, la Finlandia e il Ruanda, mentre il primato negativo va allo Yemen, seguito da Pakistan, Siria e Ciad.

Nonostante le numerose conferme del loro valore, le donne rimangono a livello globale meno pagate e più probabilmente disoccupate o occupate in lavori precari rispetto agli uomini. Su di loro ricade quasi sempre l’incombenza di occuparsi dei familiari, si tratti di bambini, anziani o malati.

Investire sulle donne

Le esperienze dei nostri missionari confermano che investire sulle donne paga: i numerosi progetti di piccola imprenditoria e microcredito in RD Congo, Kenya, Costa d’Avorio hanno consentito alle donne di sostenere le proprie famiglie, pagare le spese mediche e coprire i costi per l’istruzione dei figli. Il microcredito che i missionari gestiscono nel Nord della Costa d’Avorio ha percentuali di restituzione del prestito che non scendono mai sotto il 98%. A Camp Garba, in Kenya, il lavoro con le donne dei gruppi etnici turkana e borana iniziato con un progetto di agricoltura e sartoria è stato fondamentale nel ricostruire i rapporti fra le comunità all’indomani degli scontri che nel 2012 opposero i due gruppi etnici e che avevano portato alla morte di trenta persone, alla distruzione di 150 case e all’esodo forzato di tremila sfollati. Oggi, un gruppo consolidato di donne turkana, borana e somale continua a collaborare per mandare avanti le attività ed è riuscito a coinvolgere altri membri della comunità in un progetto di allevamento di bestiame.

Le incerte prospettive per le donne anziane

Il mondo sta invecchiando, avverte la prestigiosa rivista scientifica inglese The Lancet: nel 2015 le persone sopra 60 anni di età erano 900 milioni, nel 2050 saranno due miliardi e la maggior parte di queste vivrà nei paesi in via di sviluppo, principalmente in Asia. Ma anche l’Africa subsahariana vedrà i suoi anziani triplicare: dagli attuali 53 milioni a 150. Eppure, lamenta il direttore dell’International Longevity Centre all’Università di Cape Town, Sebastiana Kalula, nell’agenda politica dei governi africani il fenomeno e il tema di come affrontarlo non appaiono fra le priorità. L’invecchiamento interesserà maggiormente le donne, che tendono a vivere più a lungo degli uomini sia nei paesi ad alto reddito che in quelli più poveri@. A questo fenomeno se ne combinano altri due: in primo luogo, la migrazione verso le città porterà i due terzi della popolazione mondiale a vivere in centri urbani; inoltre, la precarietà del lavoro spingerà le persone a lavorare più a lungo e più lontano da casa. Un possibile effetto del combinarsi di invecchiamento, inurbamento e precarietà potrebbe essere che le donne anziane non solo non saranno accudite dai familiari più giovani, ma potrebbero trovarsi loro stesse costrette a occuparsi dei loro nipoti. Già oggi, la condizione degli anziani abbandonati, ammalati e in povertà assoluta è ben nota ai missionari della Consolata che a Sagana, Kenya, gestiscono una casa per le anziane o che a Guiúa, in Mozambico, hanno avviato un programma per anziani malnutriti fra i quali le donne sono la maggioranza.

Chiara Giovetti


CAMPAGNA

DI NATALE 2018

Un dono…
per riparare i danni

«Chi dice donna dice danno», recita un detto popolare. Nel detto può esserci del vero, a patto di completarlo: «Chi dice donna dice danno… che lei subisce». Ogni giorno, in tutto il mondo.
Il nostro impegno è da sempre quello di proteggere, promuovere e valorizzare le donne, ma quest’anno vogliamo fare di più: ci impegneremo a eliminare i danni che le donne subiscono e aiutarle a dimostrare alle comunità quanto la loro presenza sia un dono.

Vuoi aiutarci?

❤ Con 10 euro puoi donare il materiale didattico a una bimba
nei nostri asili.
❤ Con 10 euro garantisci a una donna un parto sicuro,
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per un’anziana seguita nei nostri centri.
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per l’alfabetizzazione delle donne.
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della scuola primaria.




Popoli indigeni e alfabetizzazione


In agosto e settembre cadono due ricorrenze che riportano l’attenzione su due temi mai come oggi attuali: la giornata internazionale dei popoli indigeni del mondo (9 agosto) e la giornata internazionale dell’alfabetizzazione (8 settembre).

Era il 1994 quando le Nazioni Unite hanno fissato nel 9 agosto la giornata internazionale dei popoli indigeni. È stato scelto questo giorno perché in esso cade l’anniversario della prima riunione del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sui Popoli indigeni, che aveva avuto luogo nel 1982.

Di fatto, l’ingresso delle popolazioni indigene fra i temi all’attenzione dell’Onu è storicamente avvenuto attraverso la porta dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo) che si occupa dei popoli indigeni sin dagli anni Venti, quando l’organizzazione «madre» non era ancora l’Onu, bensì la Lega delle Nazioni.

Il motivo per cui l’Ilo, a suo tempo, ha portato alla ribalta il tema indigeno è che una serie di studi sui lavoratori rurali avevano mostrato come gli indigeni rappresentassero, all’interno di questa categoria, un gruppo piuttosto significativo e altrettanto discriminato.

Uno dei primi aspetti che le organizzazioni internazionali hanno tentato di affrontare è stato quello della definizione di popoli indigeni. Un primo contributo sostanziale è stato la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite durante la sua 62ª sessione in New York il 13 settembre 2007@.

Poi, in un rapporto del 22 novembre 2017, Decent Work for Indigenous and Tribal Peoples in the Rural Economy@, l’Ilo ricorda che: «Non esiste una definizione universale di popoli indigeni e tribali, ma la Convenzione Ilo sui Popoli Indigeni e Tribali del 1989, N. 169, fornisce un insieme di criteri soggettivi e oggettivi che vengono applicati congiuntamente per identificare chi sono questi popoli in un determinato paese».

Il criterio soggettivo sia per i popoli indigeni che per quelli tribali è il sentimento di appartenenza, cioè il sentirsi parte di un gruppo. I criteri oggettivi sono poi, nel caso dei popoli indigeni, il fatto di discendere da popoli che abitavano in quella zona all’epoca della colonizzazione, della conquista o della definizione degli attuali confini dello stato. A questo si aggiunge un secondo criterio oggettivo, cioè il fatto di conservare in tutto o in parte le proprie istituzioni sociali, economiche, culturali e politiche, a prescindere da quale sia il loro status giuridico.

Baragoi, Kenya

Chi è indigeno?

I criteri oggettivi riguardanti i popoli tribali, invece, sono il fatto di avere condizioni sociali, culturali ed economiche che li distinguono dalle altre componenti della comunità nazionale e l’avere uno status regolato in tutto o in parte dalle loro consuetudini e tradizioni o da leggi o regolamenti speciali.

Il rapporto del 2017 precisa, inoltre, che «data la diversità dei popoli che cerca di proteggere, la Convenzione usa la terminologia inclusiva di popoli “indigeni” e “tribali” e attribuisce a entrambi lo stesso insieme di diritti. Ad esempio, in alcuni paesi latino-americani il termine “tribale” è stato applicato ad alcune comunità afro discendenti».

La Convenzione, si legge sul sito di Survival, una delle organizzazioni più attive nel sostenere i diritti dei popoli indigeni, è importante perché «riconosce i diritti di proprietà della terra dei popoli tribali e stabilisce che essi debbano essere consultati ogniqualvolta vengono varati leggi o progetti di sviluppo che possono avere un impatto sulle loro vite. […] riconosce, inoltre, le pratiche culturali e sociali dei popoli tribali, garantisce il rispetto delle loro tradizioni e chiede che le loro risorse naturali vengano protette». A oggi è stata ratificata da 22 stati prevalentemente latinoamericani e, fra gli europei, solo da Danimarca, Olanda, Norvegia e Spagna.@

Per fare alcuni esempi, e limitandosi ad alcuni dei popoli con i quali i missionari della Consolata lavorano, sono identificati come popoli indigeni: i Pigmei in Rd Congo, i Turkana, i Samburu, i Masaai in Kenya, gli Yanomami, i Makuxì in Brasile, i Guarani-Kaiowá, i Toba, i Tupi-Guarani in Argentina.

South Horr, Kenya

Un quadro complesso e variegato, dunque, come lo è la realtà dei popoli indigeni ai quali ad oggi appartengono circa 370 milioni di persone che vivono in 90 stati e parlano una larga maggioranza delle lingue del mondo, le quali, secondo le Nazioni Unite, sono tra 6.000 e 7.000.

Ma ci sono anche alcuni elementi che accomunano la condizione delle popolazioni indigene: il rapporto Ilo indica che queste costituiscono il 5% della popolazione del pianeta ma al tempo stesso rappresentano il 15% dei poveri del mondo e la loro aspettativa di vita, riporta il Programma Onu (Undp) per lo sviluppo, è di 20 anni più bassa rispetto ai non indigeni@. Sono loro che si prendono cura di circa un quinto della superficie terrestre e proteggono quasi l’80% della biodiversità rimanente sulla Terra.

Quest’anno, la giornata del 9 agosto fa da preludio a una serie di iniziative che si terranno nei mesi successivi. Infatti, il 2019 è stato dichiarato Anno internazionale delle lingue indigene@.

«Nonostante il loro valore immenso», si legge nel Piano d’azione per l’organizzazione dell’anno internazionale, «le lingue di tutto il mondo continuano a scomparire a tassi allarmanti. […] Secondo il Forum permanente sulle questioni indigene, non meno del 40% delle circa 6/7.000 lingue parlate nel 2016 rischiavano di scomparire. Il fatto che molte di queste sono le lingue indigene mette a rischio le culture e i sistemi di conoscenza a cui appartengono quelle lingue».

Altro evento che vedrà come protagonisti i popoli indigeni sarà nell’ottobre 2019 il Sinodo sull’Amazzonia. Nella presentazione del documento di preparazione all’Assemblea speciale per la Regione Panamazzonia si insiste molto sulla «urgenza dell’ascolto», sulla imprescindibilità dell’ascoltare i popoli che abitano l’Amazzonia e i popoli indigeni in particolare@ (cfr. MC luglio 2018).

Bayenga, Congo RD

Alfabetizzazione, va meglio ma non basta

L’8 settembre si celebra la giornata internazionale dell’alfabetizzazione. Nel 2017 Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, aveva diffuso alcuni dati statistici aggiornati@: il tasso di alfabetizzazione globale fra le persone da 15 anni in su aveva raggiunto l’86%, dato che aumentava al 91% se si considerava solo la fascia d’età fra i 15 e i 24 anni. Tuttavia, sottolineava Unesco, 750 milioni di persone nel mondo erano analfabete e due terzi di queste erano donne, mentre i giovani fra 15 e i 24 anni non in grado di leggere e scrivere erano 102 milioni.

I tassi più bassi di alfabetizzazione si registrano nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale e sono inferiori al 50% in venti paesi: Afghanistan e Iraq in Asia; Benin, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Senegal, Sierra Leone e Sud Sudan, in Africa, e Haiti in America Latina.

Quanto ai bambini in età da scuola primaria e secondaria fino a 14 anni, secondo i dati 2016 non sono a scuola 63 milioni fra i 6 e gli 11 anni e 61 milioni fra i 12 e i 14 anni. Non solo: fra quelli in classe il problema è la qualità dell’insegnamento. Secondo un rapporto Unesco del 2014 i cui dati sono tuttora citati@, dei 650 milioni di bambini delle scuole primarie 250 milioni non stanno imparando in modo sufficiente le basi della lettura e della matematica. Di questi, quasi 120 milioni non sono arrivati alla quarta classe, mentre i restanti 130 milioni sono a scuola ma non hanno raggiunto gli standard minimi di istruzione. Questi bambini, precisa il rapporto, spesso faticano a capire una frase elementare e non hanno una preparazione adeguata per il passaggio alla scuola secondaria.

Anche nell’ambito dell’alfabetizzazione e dell’istruzione i popoli indigeni sono spesso penalizzati rispetto agli altri membri della comunità nazionale in cui vivono. Le principali cause sono la carenza di adeguate strutture e di personale qualificato nelle aree indigene e anche il mancato rispetto delle specificità delle culture nei programmi scolastici e nei metodi di insegnamento. Tutto questo fa sì che l’istruzione per i popoli indigeni sia non solo difficilmente accessibile ma anche espressione di una cultura imposta e lontana da loro.

Dianrà, Costa d’Avorio

I progetti dei missionari della Consolata

L’etno educazione è un ambito nel quale alfabetizzazione e cultura indigena trovano un terreno comune. Padre Corrado Dalmonego, che dal 2010 segue diverse attività di etno educazione con gli Yanomami del Catrimani (Roraima, Brasile), riporta che gli obiettivi dell’etno educazione sono quelli di «costruire con le comunità un processo specifico, differenziato, interculturale e bilingue, a partire dalle conoscenze e da una pedagogia propri. L’etno educazione non si riduce solo alla scuola, e neppure solamente all’alfabetizzazione; nasce dal modo di essere Yanomami e si espande attraverso tutte le relazioni interetniche».@

Iniziative che vanno in questa direzione sono in corso anche nella terra indigena di Raposa Serra do Sol, sempre in Brasile, ad esempio a Linha Seca, dove padre Joseph Musito ha seguito la realizzazione delle aule per la scuola Indio Luiz. «Questa scuola», scrive padre Joseph, «non ha solo il ruolo di trasmettere agli alunni le conoscenze sulla società moderna, ma anche la storia e i valori tradizionali attraverso i racconti orali, i canti, le danze, il disegno, le consuetudini e la lingua indigena».

Quanto alle iniziative con i popoli indigeni dell’Africa, ricordiamo la scuola itinerante che padre Andrés García Fernández sta portando avanti a Bayenga, nel Congo Rd, con i pigmei Bambuti@. Si tratta di un percorso prescolare rivolto ai bambini di 33 insediamenti nella foresta, realizzato «con metodi il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti» (cfr. MC giugno ‘17).

Al di là dell’ambito dell’istruzione, poi, il lavoro dei missionari della Consolata con i popoli indigeni consiste anche nell’accompagnare le comunità nel loro sforzo di mettersi in relazione con la cultura dominante senza esserne travolte. È il caso, ad esempio, dei progetti di promozione dell’artigianato Warao o delle attività generatrici di reddito legate alla sartoria nella zona di Tucupita, in Venezuela (vedi MC luglio 2018).

Altra iniziativa che ha come principale obiettivo quello della promozione, valorizzazione e difesa della cultura indigena è il Centro di documentazione Indigena dei missionari della Consolata a Boa Vista, Brasile. Fratel Carlo Zacquini, veterano della missione in Roraima, vi ha riunito le testimonianze e i materiali che, insieme a diversi suoi confratelli, ha raccolto in 53 anni di lavoro con gli Yanomami.

Infine, vale la pena di citare un’iniziativa di alfabetizzazione non legata a popoli indigeni ma attiva in uno dei paesi con tassi di analfabetismo intorno al 50%. A Dianrà, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata organizzano corsi rivolti a circa 220 persone fra adulti e bambini in abbandono scolastico. Si svolgono presso i locali della missione della Consolata e nell’apatam (paillote) costruito a questo scopo in un villaggio vicino. Anche Marandallah, la missione a 80 chilometri da Dianra, ha realizzato progetti dedicati a chi non ha potuto ricevere un’istruzione scolastica o ha dovuto interromperla: fra il 2013 e il 2015 grazie al sostegno dell’Opera di Promozione dell’Alfabetizzazione nel Mondo (Opam) è stato possibile costruire degli apatam e dotarli di impianto fotovoltaico.

Chiara Giovetti

Tucupita, Venezuela

 




Parlare di Isis ai bambini

Recensione di Luca Lorusso su libri riguardanti l’Isis |


Quando eventi traumatici, come gli attentati dell’Isis, irrompono nella vita quotidiana

Quando la vita di ogni giorno è toccata, a volte sconvolta nelle sue certezze, da notizie di eventi tragici come le violenze dell’Isis, s’impone ai genitori e agli insegnanti il dovere di andare in soccorso dei loro piccoli. Rassicurando, spiegando, infondendo fiducia. Per farlo, gli adulti devono lasciarsi interrogare, documentarsi, riflettere, senza il timore di apparire ignoranti, essi stessi in cerca di senso.

 

Terrorismo, stragi, violenze. Dobbiamo raccontarle ai nostri bambini? Dovremmo far conoscere ai nostri figli o alunni eventi traumatici come quelli causati dall’Isis in paesi lontani e vicini, o anche altri eventi come terremoti, catastrofi, incidenti aerei, che vengono raccontati da tutti i mezzi di comunicazione con toni e immagini allarmanti?

L’Isis uccide 25 persone, tra cui diversi bambini e 9 giornalisti, a Kabul, in Afghanistan, in un duplice attentato il 30 aprile. Boko Haram attacca una moschea e un mercato in una città del Nord della Nigeria provocando 86 morti il 2 maggio. Uomini armati uccidono 17 persone tra cui un prete cattolico a Bangui, nella Repubblica Centrafricana lo stesso giorno.

Il racconto concitato di avvenimenti dolorosi irrompe nella tranquilla vita quotidiana delle nostre famiglie.

Il 14 luglio 2016 un camion fa strage sul lungomare di Nizza. Negli stessi giorni un uomo, armato di ascia ferisce diverse persone su un treno in Germania. Di nuovo in Germania, a Berlino, il 19 dicembre 2016 un altro camion travolge la folla al mercatino di Natale, uccidendo 12 persone. L’attentatore, Anis Amri, il 23 dicembre viene ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia a Sesto San Giovanni, Milano, praticamente sotto casa di ciascuno di noi.

L’insicurezza entra in casa (tramite lo schermo)

«Il mondo che sembrava chiuso fuori dalla porta di casa, improvvisamente vi fa un ingresso irruento», scrive Alberto Pellai nel primo dei tre capitoli del volume Parlare di Isis ai bambini, edito da Erickson nel 2016. Se da un lato la fruizione di notizie come quelle sopra citate porta con sé una quota positiva di conoscenza, dall’altro porta anche il rischio di attivare nei bimbi un profondo senso di pericolo – anche all’interno delle mura domestiche – che l’adulto deve saper affrontare. «Gli adulti hanno il compito di comunicare ai più piccoli che loro sanno tenere il controllo della situazione». Ai volti spaventati di uomini e donne intervistati dai telegiornali sul luogo dell’accaduto deve fare da contrappeso lo sguardo attento e pacato, non allarmato, del genitore, la sua capacità di verbalizzare la paura con parole rassicuranti e, magari, con l’attenzione fisica di un abbraccio protettivo.

«Quando si assiste a un evento tragico in televisione si è dentro a un flusso di parole e immagini ad alto impatto emotivo. Spesso siamo noi adulti i primi a venire così attratti e spaventati che quasi ci dimentichiamo che nella stessa stanza c’è un bambino che sta osservando le medesime immagini. Ma che al contempo vede il nostro volto teso e spaventato, ascolta i nostri commenti sconcertati e atterriti».

L’adulto – scrive Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva, nel suo testo pieno di esempi e utili suggerimenti – deve saper tranquillizzare senza negare le emozioni che la notizia, la foto, il servizio al Tg provocano. In questo modo aiuta il bambino a integrare la tempesta emotiva con la comprensione dell’evento e della sua condizione di protezione e sicurezza.

Genitori e insegnanti in ricerca

I genitori e gli insegnanti dovrebbero parlare anche dei motivi che stanno dietro alle violenze raccontate dai media? «Certamente», sostiene Dario Ianes, curatore del libro, «ma spesso non sanno bene quali sono le cause di quello che accade, non sanno documentarsi… e non vogliono apparire ignoranti, anche se sarebbe invece un ottimo insegnamento mostrarsi adulti che si attivano in una ricerca razionale, il più possibile libera da pregiudizi, di informazioni indipendenti». Quando l’Isis entra in casa da uno schermo, quindi, il nostro compito è quello di interrogarsi ad alta voce – provando a darsi delle risposte ragionevoli – sulle questioni che fanno da sfondo, da causa, da motore di quegli eventi. Accanto al compito di rassicurare i piccoli, c’è anche quello di dichiarare la nostra poca conoscenza e di impegnarci ad approfondirla.

Uno strumento per tutto ciò può certamente essere il libro di cui scriviamo, Parlare di Isis ai bambini. Al primo capitolo di Alberto Pellai, intitolato L’adulto competente aiuta emotivamente il bambino, ne seguono, infatti, altri due che inquadrano l’Isis da diversi punti di vista: la storia del Medio Oriente, la storia dell’Islam, la situazione sociale e culturale dei paesi musulmani, le relazioni internazionali, la riflessione filosofica, politica e militare sulla violenza. Il primo dei due, Geografia concettuale dello Stato Islamico è scritto dal funzionario internazionale Marco Montanari, il secondo, Cercare di comprendere l’Isis nella complessità, da Riccardo Mazzeo, editor di Erickson, con il filosofo e sociologo francese Edgar Morin.

Luca Lorusso




Somalia, terra di martirio. La beatificazione di suor Leonella Sgorbati

Testi di Enrico Casale e Marco Bello |


La Cattedrale di Mogadiscio dedicata alla Consolata così come è oggi dopo essere stata bombardata.

Il 26 maggio prossimo, a Piacenza, sarà beatificata suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata. Il 17 settembre 2006 a Mogadiscio suor Leonella è stata freddata con sette colpi sparati a bruciapelo da due killer che non sono mai stati né indagati né giudicati. Con lei è morto anche il somalo musulmano Mahmmed Mahmud, sua guardia del corpo. Suor Leonella aveva 65 anni, di cui 36 passati al servizio in Kenya e poi in  Somalia. Infermiera e formatrice di infermieri, aveva cercato di seminare la pace nel cuore di ragazze e ragazzi senza speranza nel futuro. Ci piace credere che ci sia riuscita, anche perché la scuola da lei fondata continua a funzionare. Vogliamo ricordare in queste pagine la sua storia, intimamente legata alla Somalia, il non-paese, che tuttavia esiste. Anche se ce lo siamo dimenticato.

Marco Bello


Indice:


Il paese inesistente.

La situazione oggi e le forze in campo

Eccetto le due zone autonome non riconosciute, Somaliland e Puntland, la Somalia resta altamente instabile. Il governo è debole e sostenuto (poco) dall’estero. Chi comanda sono i clan e i miliziani jihadisti. Restano presenti sul terreno eserciti di diverse aree del mondo. Mentre il turco Erdogan aumenta i suoi legami (e la sua influenza).

Jazera Beach, la spiaggia di Mogadiscio oggi – AFP PHOTO / Mohamed ABDIWAHAB

Quella somala è la storia di un fallimento nazionale e internazionale. Dal 1991, con la caduta del presidente dittatore Mohammed Siad Barre, il paese del Corno d’Africa vive in una costante instabilità politica e militare. La vecchia Somalia, diventata indipendente nel 1960, è ormai spezzata in tre tronconi. Al Nord, il Somaliland che si è dichiarato indipendente ed è politicamente stabile, ma che finora non è stato riconosciuto a livello internazionale. Nel centro, la regione del Puntland che, sebbene ancora formalmente legata a Mogadiscio, è diventata autonoma, con una propria struttura amministrativa e militare. Infine, il Sud dove le fragili istituzioni di Mogadiscio sopravvivono grazie all’aiuto della comunità internazionale. Le rivalità tra i clan e, soprattutto, la forza di al Shabaab, una milizia legata ad al Qaeda che controlla ampie parti del territorio, mina la possibilità di una ripresa per il paese. A ciò si aggiunge una nuova minaccia: la nascita delle prime cellule dell’Isis formate da ex miliziani fuoriusciti da al Shabaab e da guerriglieri.

Un vento di speranza

Il 16 febbraio 2017, poco più di un anno fa, sulla Somalia soffiava un vento di speranza. Dopo un complesso processo elettorale (che non prevedeva il suffragio universale, ma il voto di grandi elettori espressione dei clan) è stato eletto presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo. La fiducia riposta in lui si basava su un curriculum di tutto rispetto. Ambasciatore della Somalia negli Stati Uniti d’America dal 1985 al 1989, dall’ottobre 2010 al giugno 2011 aveva ricoperto la carica di primo ministro. Non solo, ma, da anni, Farmajo possiede la doppia cittadinanza somala e statunitense, un dettaglio che gli garantisce un sostegno aperto da parte del governo di Washington.

La sua elezione ha quindi destato molte aspettative nella popolazione che ha visto in lui la personalità in grado di portare il paese fuori dalla palude politico-militare in cui è impantanato. Ma il compito è, in realtà, molto difficile. Oggi, la Somalia è uno dei paesi più poveri del mondo: il 43% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e dipende quasi totalmente dagli aiuti umanitari, il cui flusso però è compromesso dall’insicurezza generale e dai continui furti. La siccità, una successione di raccolti poveri e un rapido aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e del carburante hanno aggravato la condizione socioeconomica somala causando varie crisi alimentari. Attualmente, più di sei milioni di somali, su un totale di circa 14 milioni, necessitano di cibo e un milione è fuggito all’estero per cercare scampo.

«Il presidente Formajo – spiega mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio – sta facendo del suo meglio. A volte, però, ho l’impressione che le istituzioni statali stiano in piedi solo grazie all’appoggio esterno. Il sostegno estero è comunque relativo perché i partner internazionali hanno loro agende che non sempre coincidono con quella somala. Il presidente dovrebbe impegnarsi maggiormente a sganciarsi dai meccanismi interni ed esterni che lo vincolano, per cercare l’unica cosa che conta veramente: l’appoggio della popolazione più che l’appoggio internazionale».

Sospetti Al Shabaab – UN Photo/Tobin Jones

Eserciti stranieri

Attualmente c’è una massiccia presenza militare straniera nel paese. Dal 2007, l’Unione africana, con l’autorizzazione delle Nazioni unite, mantiene una forza composta da 21mila soldati e 550 poliziotti. Ne fanno parte reparti di Burundi, Etiopia, Ghana, Gibuti, Kenya, Nigeria, Uganda e Sierra Leone. Il ruolo di Amisom, questo il nome della missione, è stato fondamentale nel contrastare il diffondersi delle milizie jihadiste. Ma la missione ha comunque pagato un prezzo altissimo in vite umane. I dati ufficiali non sono mai stati diffusi, ma si stima che nei combattimenti siano morti almeno duemila soldati.

Anche l’Unione europea mantiene un proprio contingente nel paese con il compito di formare i militari del neonato esercito somalo. Questa missione, denominata Eutm Somalia, è comandata da un generale italiano e fa perno su un nucleo di soldati italiani. Nel paese ci sono anche altre presenze militari. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nello scorso autunno ha portato il contingente a stelle e strisce a 500 uomini, il numero più elevato dal 1992 quando le truppe americane parteciparono all’operazione «Restore Hope». La Gran Bretagna ha poi una propria base a Baidoa nella quale le truppe speciali formano i soldati di Mogadiscio.

Arrivano i turchi

Sullo scenario somalo è comparso recentemente anche un nuovo attore: la Turchia. A ottobre, Ankara ha inaugurato in Somalia la sua più grande base militare all’estero. Nella grande struttura, che a regime ospiterà più di diecimila soldati, i militari turchi addestreranno i colleghi somali. Costata cinquanta milioni di dollari, la caserma è più di un’installazione militare. Essa è il segno del forte sostegno che il governo di Ankara offre a quello di Mogadiscio.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha recentemente rafforzato i legami con la Somalia sulla base della comune adesione agli ideali dell’islam politico. Erdogan ha visitato Mogadiscio due volte. Nel 2011 è stato il primo leader non africano in vent’anni a visitare la nazione devastata dalla guerra. Negli ultimi tempi è nata una collaborazione che ha avuto forti ricadute sul terreno. Aziende pubbliche e private turche hanno costruito scuole, ospedali e infrastrutture. Il governo di Ankara ha offerto molte borse di studio e ad alcuni ragazzi somali è stata offerta la possibilità di studiare in Turchia. Anche l’interscambio commerciale è in rapida crescita. Nel 2010 le esportazioni turche in Somalia ammontavano a 5,1 milioni di dollari, nel 2016 a 123 milioni. Nel giro di sei anni la Turchia è passata dal 20° al 5° posto tra i principali esportatori in Somalia.

Guy Oliver/IRIN

E l’Italia?

L’impegno turco supera ormai di gran lunga quello dell’Italia, ex potenza coloniale che, fino alla caduta di Siad Barre, ha avuto un solido rapporto con la Somalia. Attualmente, secondo quanto riporta il quotidiano finanziario «Il Sole 24 Ore» (del 18/01/2018, ndr) dei 165 milioni stanziati da Roma il 21 dicembre 2017 per la cooperazione internazionale, 13 sono destinati a cinque progetti che verranno realizzati in Somalia. Il primo prevede lo stanziamento di 3,7 milioni di euro al Fondo fiduciario delle Nazioni unite che promuove iniziative per il consolidamento dello stato di diritto in Somalia. In questo contesto, per esempio, «è prevista la ristrutturazione dell’edificio della Corte suprema e la costruzione della prigione dello stato regionale di Galmudug per migliorare le condizioni delle struttura nazionale giudiziaria». «Il secondo progetto stanzia 3,2 milioni di euro per finanziare il programma Farms Ifad e, in particolare, per migliorare in modo sostenibile la sicurezza alimentare della comunità del Puntland», con particolare attenzione agli sfollati. «Il terzo progetto contribuisce ad affrontare le sfide legate alla ricostruzione e allo sviluppo infrastrutturale della Somalia distrutte dal conflitto. E lo fa con uno stanziamento di un milione di euro a favore del Somalia Infrastructure Trust Fund della Banca africana di sviluppo. Il quarto progetto stanzia tre milioni per lo sviluppo di filiere produttive agro tecnologiche nelle regioni centrali e meridionali del paese». L’ultimo progetto, due milioni di euro, andrà ad «agevolare e sostenere gli sforzi del governo somalo e delle autorità regionali nella lotta alla disoccupazione e contribuire così alla stabilizzazione della regione del Corno d’Africa».

Rovine dell’hotel Al-Uruba – AU-IST/Tobin Jones

I fondamentalisti

Nonostante questi sforzi in campo politico, militare ed economico, continua nel paese la forte instabilità. Al Shabaab non controlla più le grandi città costiere, ma ha comunque una solida presenza nelle province dell’entroterra. Governata a lungo da Abdi aw-Mohamed, alias Godane (ucciso da un bombardamento Usa nel 2014), nel 2015 la milizia islamica è stata scossa da faide interne che sembravano averne minato la solidità e la capacità operativa. In quei giorni si pensava che i jihadisti fossero stati sconfitti e che si potesse, in qualche modo, riportare la pace in Somalia. Sotto la direzione di Abu Ubaidah però le formazioni islamiche hanno ripreso la loro compattezza e sono tornate ad organizzare attacchi contro le forze dell’Amisom, le ambasciate, i luoghi frequentati da stranieri.

A fianco di al Shabaab, hanno preso vita anche alcune cellule legate allo Stato islamico. Guidate da Abdulqadr Mumin, ex predicatore in Gran Bretagna e Svezia, per il momento hanno piccole dimensioni, ma si sono dimostrate capaci di unire i clan e i sub-clan più piccoli e da sempre esclusi dalla politica somala. Di esse fanno parte, oltre agli ex militanti di al Shabaab delusi, anche miliziani stranieri provenienti dal Medio Oriente dopo la sconfitta dell’Isis in Iraq, Libia e Siria.

«Sì, l’Isis è presente in Somalia – conferma mons. Giorgio Bertin -. Anche la stampa locale ne ha parlato. Le cellule avrebbero base soprattutto nel Puntland, la regione semiautonoma». La presenza dei miliziani di al Baghdadi desta preoccupazione perché in un video reso pubblico a dicembre i jihadisti invitano a «dare la caccia» ai non credenti e ad attaccare le chiese e i mercati. Gli Usa hanno lanciato raid con droni partiti dalle basi in Etiopia, contro gli affiliati dell’Isis facendo numerose vittime.

Ma gli attentati da parte degli islamici continuano, soprattutto a Mogadiscio, la capitale. Basta ricordare l’attacco del 14 ottobre 2017, uno dei più sanguinosi degli ultimi anni, con oltre 300 vittime. «Gli attacchi sono numerosi – afferma mons. Bertin -. Per la popolazione locale la situazione è meno drammatica. Lo è soprattutto per gli stranieri che vedono colpiti i loro luoghi di ritrovo e per questo motivo hanno bisogno di protezione. Quello che è auspicabile è che la popolazione si ribelli a questi attentati e che sia sempre più unita alle forze di sicurezza, e a quelli che cercano di riportare un po’ di legge e ordine in Somalia».

Enrico Casale

Ethiopian National Defence Forces in Hudur, capitale di Bakol Somalia – AU UN IST/Mohamud Hassan


Dall’indipendenza a Formajo

Cronologia essenziale

  • Il presidente della Somalia Mohamed Abdullahi Mohamed – AFP PHOTO / SIMON MAINA

    1960, 1 luglio – Proclamazione dell’indipendenza. Aden Abdullah Osman Daar viene eletto presidente.

  • 1969, 21 ottobre – Colpo di stato dell’esercito, il Consiglio rivoluzionario supremo designa Mohamed Siad Barre, comandante in capo dell’esercito e ispiratore del colpo di stato, come presidente. È rieletto nel 1979 per la seconda volta, e nel 1986 per il terzo mandato.
  • 1988, aprile – Firma di un accordo di pace con l’Etiopia, dopo la guerra dell’Ogaden del 1977-1978.
  • 1989, 9 luglio – Il vescovo cattolico mons. Pietro Salvatore Colombo viene ucciso con un solo colpo di pistola al cuore, nei pressi della cattedrale. L’assassino resterà sconosciuto. Nel 1991 non c’è più nessuno a custodire la cattedrale che durante la guerra civile – iniziata quell’anno e ancora in corso – sarà saccheggiata, bombardata, distrutta e le tombe dei vescovi violate per opera di forndamentalisti islamici.
  • 1989, 14 luglio – Manifestazione dopo l’arresto di capi spirituali musulmani radicali (450 morti).
  • 1990, 6 luglio – Allo stadio di Mogadiscio la guardia presidenziale spara sulla folla che contesta il discorso di Siad Barre. Le vittime sono 62.
  • 1990, agosto – Alleanza di diverse fazioni ribelli, inizia un’offensiva per rovesciare il presidente.
  • 1991, 26 gennaio – Il presidente Mohamed Siad Barre viene destituito. Al suo posto Ali Mahdi Mohamed.
  • 1991, 18 maggio – Il Nord si dichiara indipendente con il nome di Somaliland e capitale Hergheisa.
  • 1991, 18 novembre – Il presidente Ali Mahdi Mohamed viene rovesciato dal generale Mohamed Farah Aidid.
  • 1992, 3 dicembre – Inizia l’operazione militare Restor Hope, eseguita dagli Usa sotto l’egida delle Nazioni Unite.
  • 1993, 23 marzo – Risoluzione dell’Onu che crea l’Operazione delle Nazioni Unite in Somalia (Onusom II).
  • 1993, 3 ottobre – Nella battaglia di Mogadiscio vengono uccisi 18 militari statunitensi e un casco blu per la caduta di un elicottero abbattuto dai miliziani. I morti somali sono centinaia. È il fallimento di Restor Hope.
  • 1994, 20 marzo – La giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin, entrambi italiani, sono assassinati a Mogadiscio. Stavano conducendo un’inchiesta sui rapporti tra funzionari italiani e Siad Barre, alla fine degli anni Ottanta. Lavoravano anche su una pista di traffici illeciti di armi e rifiuti.
  • 1994, 29 marzo – L’ultimo militare statunitense lascia il paese. Un anno dopo finisce la missione Onusom II.
  • 1996, 1 agosto – Muore il presidente Aidid, gli succede il figlio Hussein Mohamed Farah.
  • 1998, 1 agosto – Il Puntland, nel Nord Est, si dichiara regione autonoma.
  • 2003, 5 ottobre – La missionaria laica Annalena Tonelli viene assassinata con un colpo alla nuca, a Borama, nel Somaliland, dove dirige un centro medico.
  • 2004, agosto – Inaugurazione a Nairobi di un parlamento di transizione in esilio. A dicembre Abdullahi Yusuf Ahmed è eletto presidente di transizione.
  • 2006, febbraio – Prima sessione del parlamento di ritorno dall’esilio, a Baidoa.
  • 2006, febbraio – Scontri a Mogadiscio tra «i signori della guerra» e i miliziani delle corti islamiche. Vinceranno questi ultimi.
  • 2006, 4 settembre – Firma di un accordo di pace provvisorio tra il governo di transizione e le corti islamiche. I negoziati falliranno a novembre.
  • 2006, 17 settembre – Assassinio di suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata, a Mogadiscio. I responsabili non saranno mai giudicati.
  • 2006, dicembre – L’Etiopia entra in guerra contro le corti islamiche e conquista Mogadiscio insieme al governo di transizione.
  • 2007, gennaio – Gli Usa iniziano dei raid aerei nel Sud del paese contro i jihadisti.
  • 2007, febbraio-aprile – L’Onu autorizza una missione africana per il mantenimento della pace, Amisom. Il governo si installa a Mogadiscio, dove continuano i combattimenti.
  • 2008, agosto – Gli islamisti riprendono Kisimayo.
  • 2009, aprile – Imposizione della Sharia, la legge islamica.
  • 2009, settembre – I miliziani di al Shabaab dichiarano la loro alleanza ad Al Qaeda. Continuano gli attentati contro membri del governo e del parlamento, l’Amison e anche la moschea di Mogadiscio.
  • 2011 – L’Onu decreta lo stato di «emergenza fame» in diverse regioni somale.
  • 2012, settembre – Hassan Cheikh Mohamoud è eletto presidente dai deputati e subito scampa a un attentato.
  • 2017, febbraio – Mohamed Abdoullahi Formajo eletto presidente. A ottobre un attentato a Mogadiscio causa oltre 300 vittime.

Ma.Bel.

Forze della Missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) a Kismayo – Phil Moore/IRIN


Leonella Sgorbati,

formatrice di pace in mezzo alla guerra. La suora con il cuore «extra large»

Se lo aspettava, in fondo al suo cuore, il martirio. Il rischio era grande, eppure ogni giorno andava nell’ospedale spinta dall’amore per i suoi studenti e dalla fede in Dio. Pur molto amata in Kenya, dove aveva insegnato e curato per 30 anni, aveva scelto di stare a Mogadiscio per
costruire con le ragazze e i ragazzi che formava come infermieri un futuro migliore. Perché ci credeva, suor Leonella, che un giorno anche la Somalia avrebbe visto la pace.

Sono le 12,30 di domenica 17 settembre 2006. Suor Leonella Sgorbati, 65 anni, sta attraversando la strada che separa l’Ospedale Sos, dove lavora, dal Villaggio Sos, dove vive con altre quattro consorelle, missionarie della Consolata. Torna a casa dopo la consueta mattinata di lezione. A Mogadiscio la situazione è molto difficile e gli stranieri sono presi di mira. Le sorelle non si allontanano mai dai due compound, eccetto che per recarsi all’aeroporto quando devono uscire dal paese. Anche per attraversare quell’unica strada, le suore hanno la scorta.

Nel breve tempo dell’attraversamento, due uomini compaiono da dietro un taxi e fanno fuoco su suor Leonella e Mohammed Mahmud, la sua guardia del corpo, che muore subito. Suor Leonella viene trasportata all’ospedale, dove muore poco dopo con sette proiettili in corpo. Le sue ultime parole sono: «Perdono, perdono, perdono».

A quasi dodici anni da quel giorno, grazie a un grande lavoro delle sue consorelle, la missionaria sta per essere beatificata, il 26 maggio a Piacenza. «Nel marzo dell’anno scorso è stato riconosciuto il martirio di suor Leonella – ci racconta suor Renata Conti, postulatrice generale -. Nel Capitolo del 2011 decidemmo di iniziare la causa di beatificazione. Abbiamo così raccolto la documentazione e realizzato un’inchiesta diocesana approfondita, ascoltando molti testimoni. Il presidente della commissione d’inchiesta era monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia. I risultati ci hanno dato ragione e papa Francesco ha emesso il decreto di beatificazione lo scorso 8 novembre».

Infermiera e formatrice

Giunta in Kenya nel 1970, infermiera, lavora nel Consolata Hospital a Mathari, Nyeri e al Nazareth Hospital in Kiambu nei pressi di Nairobi. Si rimette poi a studiare ottenendo due diplomi di livello universitario e diventando formatrice di infermieri. Un passaggio fondamentale della sua esistenza. «Il lavoro in ambito sanitario le fece, ben presto, capire quanto fosse fondamentale preparare personale qualificato che, poco per volta, potesse assumere i ruoli fino allora portati avanti dalle suore. Per fare questo, era necessario istituire delle scuole per infermieri. Suor Leonella sognava in grande: non si sarebbe mai accontentata di qualsiasi risultato, voleva raggiungere alti livelli di qualità. Non era facile, oggettivamente, sebbene fosse entusiasta e capace, alle volte doveva piegarsi di fronte alla difficoltà o impossibilità», scrive suor Renata in un documento sulla vita della beata. «Assunta la direzione della scuola per infermieri a Nkubu, nel Meru (Kenya), una delle sue prime preoccupazioni fu quella di conciliare le regole con la formazione: era infatti chiara per lei l’esigenza di un sistema di insegnamento che includesse una formazione integrale dei giovani. Era proprio il suo punto fermo, ci teneva che gli studenti crescessero umanamente e spiritualmente, che diventassero dei professionisti competenti, ma anche degli operatori sanitari con un cuore accogliente, al servizio della persona che avevano davanti».

La superiora col sorriso

Dal 1993 al 1999 è superiora regionale delle missionarie della Consolata in Kenya, rieletta per due mandati consecutivi. È molto amata, per il suo sorriso accogliente e per un cuore grande. Durante le visite come superiora spesso cita l’Allamano: «Bisogna avere tanta carità da dare la vita. Noi missionari siamo votati a dare la vita per la missione».

Scrive su una circolare per le consorelle del Kenya: «Noi, sia individualmente, che come comunità, dobbiamo renderci disponibili al processo dell’incarnazione del Figlio in noi per poter essere la consolazione del Padre. Cosa significa questo in pratica? Significa accogliere che il Figlio sia libero in ciascuna di noi, in me, libero di perdonare attraverso la mia persona a chi mi reca offesa, libero di spezzare il pane della bontà, della comprensione nella comunità, libero di farmi percorrere l’itinerario che il Padre ha fatto fare a lui, con le scelte che il Padre indica. […] Libero di amare attraverso di me con l’amore più grande, l’amore che va fino alla fine, che è più forte dell’odio e dell’inferno, nella verità, nella pratica di ogni giorno e di ogni momento».

Una scuola per la Somalia

Nel 2001 viene chiamata in Somalia, per fondare una scuola per infermieri sul modello di quella che ha diretto in Kenya.

Il paese ha già vissuto 10 anni di guerra. «L’ospedale Sos era l’unica struttura sanitaria di Mogadiscio che lavorasse in ambito pediatrico a titolo gratuito. Era stata questa Ong (Kinderdorf International) a progettare la scuola per infermieri e a coinvolgere le missionarie della Consolata nella partecipazione e realizzazione del Somali Registered Community Nursing», scrive suor Renata. «La gente la voleva fortemente: erano dieci anni che non si formavano infermieri e medici in Somalia».

Ma il paese è allo sbando e il fondamentalismo musulmano ha oramai preso piede e ogni attività condotta da stranieri, per di più cristiani, è guardata con sospetto. Continua suor Renata nel suo scritto: «In Somalia, al di là della fatica, le sfide erano molteplici su tutti i fronti: anzitutto, il metodo formativo di suor Leonella doveva essere adeguato alla nuova situazione di insegnamento come esigevano le autorità civili. Era, inoltre, indispensabile una formazione integrale che servisse a far crescere i giovani umanamente, in modo da poter servire meglio la vita fragile e ferita dei malati. Come proporre, però, i valori su cui lei aveva sempre fatto leva, in un ambiente musulmano? Si dovevano ricercare elementi comuni tra cristianesimo e islam. Era necessario dimostrare che le nozioni scientifiche che lei promulgava non erano contro il Corano. Bisognava convincere i ragazzi, e l’ambiente in generale, che lei non faceva proselitismo, anzi, che rispettava e valorizzava il dialogo interreligioso. Eppure, c’era chi non ci credeva e pensava che suor Leonella usasse la scuola per convincere i giovani a farsi cristiani».

Una presenza costante

Le missionarie della Consolata erano arrivate in Somalia nel 1924, inviate, in quel tempo, dal fondatore Giuseppe Allamano in persona, che aveva detto al primo gruppo: «Partite, andate tra musulmani; sarà un campo duro, arido, non importa, lavorate, seminate, non aspettate frutti per cinquant’anni, poi il seme frutterà». Da allora c’era sempre stata una presenza costante, divenuta l’unica cattolica ufficiale. Ma nel 1991, a causa della guerra, le religiose hanno dovuto ridurre drasticamente le attività. Vi è rimasto un piccolo gruppo, di quattro, talvolta cinque sorelle, che lavorano come volontarie all’ospedale Sos Kinderdorf International, Ong presente nel paese dal 1983, che opera in favore dei bimbi senza famiglia o in difficoltà. «Una presenza che la Santa Sede di chiedeva di mantenere», spiega suor Renata.

L’assassinio di suor Leonella e della sua guardia del corpo spezza questa continuità. «Noi saremmo rimaste – ci racconta suor Renata – ma l’Ong ci impose di andare via. Il giorno stesso del viaggio della salma di suor Leonella a Nairobi, le nostre sorelle dovettero partire. E non siamo mai più tornate. Tuttavia diciamo che per noi la Somalia non è “chiusa”, ma “sospesa”; ci fosse uno spiraglio di luce potremmo eventualmente tornare».

Quando è arrivata in Somalia suor Leonella non c’erano scuole per infermieri in tutto il paese. Lei ne ha creata una di buon livello e riconosciuta dall’Oms sia per ragazzi che ragazze.

«Inoltre, lei era simpatica, gioviale, capace di farsi voler bene. I giovani, i suoi allievi la adoravano. E anche questo era mal visto, perché i radicali musulmani dicevano che convertiva i ragazzi al cristianesimo. Era una novità formare anche le ragazze. Di fatto si dava una speranza a questa gioventù, ma questo non è piaciuto ai fondamentalisti islamici perché formare i giovani è, per loro, un rischio». Con tutta probabilità è questo il motivo per cui è entrata nel mirino di qualche gruppo islamista.

Pressioni e intimidazioni

«In quel paese non era permessa l’evangelizzazione, si poteva solo testimoniare il Vangelo con la vita. La Somalia era, ed è, per il 99.99% musulmana con forze interne tendenti all’estremismo islamico. Vi erano manifestazioni frequenti e reazioni impreviste e violente nei confronti dei pochi cristiani, e questi erano costretti a visitare le suore di nascosto perché avevano molta paura di venire scoperti. I fondamentalisti cercavano, con tutti i mezzi, di forzare le sorelle, quattro in tutto, ad abbracciare la loro fede. Suor Marzia Feurra (superiora della comunità, oggi in missione a Gibuti, ndr) più volte fu assediata dai fondamentalisti perché diventasse musulmana: non potevano accettare che la loro gente fosse curata e aiutata da cristiani.

Sul giornale locale scrissero molte volte contro l’Ong Sos e contro le suore, avvertendo la gente di guardarsi bene da loro perché stavano cercando di fare proseliti. La gente, però, non dava peso a quanto veniva scritto, sapeva che era solo propaganda, ed ebbe sempre una grande fiducia nelle sorelle. Tutto questo e altro ancora, richiedeva una prudenza non comune perché non si era mai sicuri se il fratello che ti stava dinanzi era un amico o un nemico», racconta suor Renata.

Inoltre nel periodo in cui suor Leonella viene uccisa, c’è molta tensione a livello mondiale. Il 12 settembre, 5 giorni prima dell’uccisione, papa Benedetto aveva pronunciato il discorso di Ratisbona, nel quale una citazione dell’imperatore bizantino Manuele II il Paleolgo1, è stata ritenuta particolarmente offensiva per i musulmani, e in un clima già incendiario, ha creato reazioni a livello planetario. Dall’indignazione di alcune cariche islamiche ufficiali, alle manifestazioni di piazza, a violenze contro chiese e strutture cattoliche nel mondo, fino a minacce di morte verso il papa stesso.

Ratzinger esprimerà poi «vivo rammarico» per quelle reazioni sottolineando che: «Il mio era un invito al dialogo franco e sincero». Ma il danno è compiuto e chi vuole approfittare della situazione internazionale, e soprattutto dell’impunità che garantita da questa tensione, lo ha già fatto.

«“Noi dobbiamo dimostrare ai cristiani chi siamo”, dicevano nelle moschee. Ma gli unici cristiani in Somalia erano le nostre sorelle», ricorda suor Renata.

Una presenza che continua

Un fatto importante è che la scuola per infermieri fondata e organizzata da suor Leonella è ancora funzionante. «Il livello è un po’ sceso, ma continua a formare giovani», assicura la postulatrice. «È gestita oggi da ragazzi e ragazze che suor Leonella ha formato e fatto crescere. Lei aveva questo approccio: formare le persone locali affinché prendano in mano le opere». Una visione lungimirante dunque, che non si ferma al tempo di una presenza esterna, ma vuole gettare radici profonde.

Perché il martirio

Suor Simona Brambilla, superiora delle Missionarie della Consolata, ricorda così la beata: «Rivisitare il percorso di suor Leonella fino al suo martirio e oltre, significa venire a contatto col mistero della vita di una persona amata e amante. Significa affacciarsi su una vita che è porta tra cielo e terra, tra grande e piccolo. Significa essere ammesse a varcare, con trepidazione e gratitudine, una soglia sacra, una porta di Dio. Questo è il senso del nostro celebrare suor Leonella: celebrare un mistero di amore e dolore, di vita e di morte, intrecciate in un sacro, fecondissimo abbraccio; celebrare la consegna totale di Leonella al suo sposo, ma anche di Dio alla sua sposa.

Così, suor Leonella consegnava la sua vita: “La tua vita, il tuo amore, il tuo sangue… riceva la mia vita, il mio amore, il mio sangue… mi sento povera, incapace, accoglimi ugualmente, sono certa del tuo amore e della tua accoglienza”».

Chiediamo a suor Renata i suoi sentimenti sulla beatificazione: «Sono molto felice perché io ci credo a questo martirio. Non è stato un incidente. Suor Leonella si è preparata a questo evento, per tutta la vita. Nel cuore ha sempre avuto un’adesione costante al Signore, anche con alti e bassi come ognuno di noi. Era una persona molto radicale, nelle sue scelte». Il governo italiano di allora a non ha fatto nulla per scoprire la verità sull’assassinio della connazionale. Il ministro degli Esteri era Massimo D’Alema. Ricorda suor Renata: «Non fecero assolutamente niente. All’inizio dell’inchiesta ecclesiastica, avevo tentato andando alla Farnesina, ma mi hanno detto: “È meglio che non indaghi, è meglio non esporsi”. Inoltre non c’è stato nessun processo in loco. Abbiamo accolto questo fatto con dispiacere, ma non c’è stato alcun intervento da parte ufficiale».

Le spoglie di suor Leonella sono portate a Nairobi, dove il 21 settembre 2006, viene celebrato il funerale alla presenza di tantissima gente, autorità, missionarie e missionari, operatori dell’Ong, amici.

«Suor Leonella è morta inseguendo la visione di una Somalia stabile e pacifica – dice monsignor Giorgio Bertin durante l’omelia per il suo funerale2. «Lei era convinta che una nuova Somalia, guarita dal flagello della guerra civile è possibile. […] La sua vita, il suo sorriso e la sua innocenza ci dicono che un mondo nuovo è possibile, una nuova Somalia è possibile. Lei fu ispirata dalla convinzione che il nuovo mondo che Gesù è venuto ad annunciare è già cominciato qui sulla Terra. E non è una coincidenza che morì insieme a un uomo musulmano. […] Vivere insieme, nonostante le differenze, richiede la conversione del cuore, speranza, determinazione e perseveranza».

Marco Bello

Note

(1) «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava».
(2) Agenzia Cisa, 21 settembre 2006.


«Ho vissuto con una santa»

Il ricordo di suor Marzia, che è stata in Somalia con suor Leonella

Funerale e sepoltura di sr Leonella Sgorbati

Suor Leonella era una persona del tutto normale, con le sue doti e le sue fragilità. Amava la sua vocazione e la sua famiglia religiosa, metteva tutto il suo entusiasmo nel realizzare la missione che Dio le aveva affidato e pur di realizzarla non guardava al sacrificio.

Amava le sorelle, ed era sempre presente alle attività comuni, la ricreazione per lei era sacra.

Anche nei momenti di tensione per la difficile situazione che stavamo vivendo a causa della guerra, lei aveva sempre quel senso di «humor» e cercava di tirarci fuori.

Penso che facesse la differenza l’intensità d’amore con cui lei agiva, facendo sì che le cose ordinarie diventassero straordinarie.

Suor leonella aveva un fuoco dentro che la divorava e questo si percepiva nel suo comportamento: voleva aiutare tutti, salvare tutti, si prendeva a cuore i problemi di ognuno e scherzosamente diceva che avrebbe voluto ritirare tutti i fucili della Somalia.

Aveva un carattere molto forte e volitivo con la sua tenacia e costanza riusciva a superare tante situazioni difficili e di rischio. La chiamavamo il «vulcano», sempre in eruzione. Aveva idee e progetti nuovi da presentare, tutti molto belli e utili per la gente, ma dovevamo fare i conti con la situazione che stavamo vivendo, che non ci permetteva di espanderci perché eravamo persone non gradite, e in tanti modi eravamo tenute d’occhio e sotto controllo.

Molte volte ci siamo trovate in situazioni veramente difficili e queste richiedevano da noi un discernimento non facile: «Partire o restare?». Partire voleva dire mettere in salvo la nostra vita che ha il suo valore. Restare voleva dire rischiare, ma di fronte alle necessità della gente nessuna di noi si sentiva di lasciare la missione, perché l’ospedale SOS era l’unico centro che aiutava i poveri e salvava tante vite.

Al mattino arrivando in ospedale si vedeva molta gente che pazientemente aspettava il proprio turno per essere visitata: donne a rischio della vita per i parti difficili, bambini disidratati e denutriti ecc. Di fronte a queste emergenze dimenticavamo tutti i nostri problemi ed eravamo felici di stare con la gente e donare loro un aiuto concreto. Ci dava tanto coraggio la parola del nostro padre fondatore, il Beato Allamano, che incoraggiava la fedeltà alla missione anche a costo della vita.

Quando suor Leonella è giunta in Somalia la situazione religiosa e politica andava sempre più deteriorandosi, e la lotta tra i gruppi si faceva sempre piu serrata, creando sempre nuovi focolai di guerra che davano tanta insicurezza.

Al contrario del Kenya, un paese libero dove la chiesa è una forza, la Somalia è un paese chiuso e a rischio, dove tutto è sotto controllo e la piccola chiesa viveva come nelle catacombe. Nessun segno religioso, tutto era stato distrutto, la cattedrale bruciata e le chiese rase al suolo.

L’unico Tabernacolo presente in Somalia era in casa delle suore e noi eravamo l’unica presenza di chiesa, anche se avevamo la messa solo ogni tre mesi, perché era impossibile la presenza di un sacerdote, la presenza di Gesù Eucaristia ci dava tanta energia e tanta forza per continuare il cammino.

Il pensiero di tenere questa piccola presenza di Chiesa Cristiana in un paese totalmente musulmano ci dava tanta speranza e ci aiutava a superare le tante difficoltà di ogni giorno.

Per suor Leonella la Somalia ha avuto un impatto molto forte. Per lei questa impotenza è stata come un martirio, ma non si è mai scoraggiata, mai ha ceduto le armi, e anche se con tanta fatica, ha sempre cercato di ubbidire alla limitazione dell’ambiente perché Gesù Eucaristia era la sua forza.

suor Marzia Feurra

Annalena Tonelli


Gli italiani uccisi in Somalia, terra dell’impunità

Quattro omicidi. Quattro italiani. Tanti sospetti. Mons. Salvatore Colombo, Annalena Tonelli, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono le vittime di quattro casi che collegano in modo misterioso e drammatico l’Italia alla Somalia.

Monsignor Salvatore Colombo

Quella di mons. Salvatore Colombo è una storia dimenticata. Vescovo di Mogadiscio, viene assassinato il 9 luglio 1989. L’assassino è rimasto senza nome né volto, e non si sa perché abbia ucciso il prelato e se, dietro quell’omicidio, ci fossero mandanti eccellenti. È stato il regime a ucciderlo? Oppure c’erano altri interessi? Una possibile pista, ricostruita da «Avvenire», potrebbe essere quella delle tante ombre della cooperazione italiana in Somalia. Un ex agente dei servizi segreti italiani Aldo Anghessa è perentorio: «Monsignor Colombo era contro la Giza, cioè una delle maggiori imprese italiane in affari con il regime di Barre». Questo lo portò a scontrarsi contro i poteri forti di Mogadiscio. Il vescovo inoltre si rifiutava di distribuire gli aiuti della Caritas come chiedeva Barre, che pretendeva andassero a chi diceva lui. Anche questo potrebbe avergli attirato le ire del dittatore somalo. Nessuno ha mai indagato. E oggi, dopo la distruzione della cattedrale di Mogadiscio e dei suoi archivi, ricostruire la vicenda e risalire ai colpevoli è diventato impossibile.

Su di lui si può leggere: Massimiliano Taroni. Mons. Salvatore Colombo, vescovo dei poveri e martire della carità, Ed. Velar, 2009.

Annalena Tonelli

Anche il caso di Annalena Tonelli rimane (in parte) irrisolto. Forlivese, laureata in legge a Bologna, si trasferisce a Nairobi a 26 anni come missionaria laica. Da quel momento non lascia più l’Africa e lavora per aiutare poveri e ammalati. «Il mio primo amore – dirà – furono i malati di Tbc, la gente più abbandonata, più respinta, più rifiutata». La Tonelli studia una cura per guarire la Tbc in sei mesi contro i 12 o i 18 necessari fino ad allora, ma gli ammalati devono rimanere nel luogo di cura, non a casa. Lei mangia pochissimo, dorme quattro ore a notte, possiede due tuniche e uno scialle e si concede solo, ogni tanto, un po’ di caffè. Di fronte all’emergenza Aids, inizia a occuparsi anche dei malati colpiti da quel virus. Si attira le invidie dei capi locali. Alcuni di essi organizzano manifestazioni contro di lei perché «accoglie i malati di Aids e contagia una comunità di puri». La accusano poi ingiustamente di prendere i contratti dell’Onu senza coinvolgerli e consultarli. Nonostante i tentativi di riappacificazione, le tensioni rimangono. Il 5 ottobre 2003, Annalena viene uccisa con un colpo di fucile nel suo ospedale di Borama, in Somaliland.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

Oscuri anche i motivi della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, giornalista e cineoperatore della Rai, freddati il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Da allora processi, commissioni parlamentari e inchieste giornalistiche non sono riusciti a fare chiarezza sulla vicenda. Ciò che si sa è che i due giornalisti del Tg3 erano in Somalia per seguire il ritorno in patria del contingente italiano inviato in missione di pace nel Corno d’Africa. La Alpi però stava indagando su un traffico di armi e rifiuti tossici che coinvolgeva «i signori della guerra» locali e navi provenienti dall’Italia. Nel caso si mescolano interessi italiani e somali, depistaggi. Le note del Sismi (servizi segreti italiani) del 1994 confermano i risultati di molte inchieste giornalistiche svolte negli anni: «Ilaria Alpi è stata uccisa perché indagava su un traffico di rifiuti e armi. I mandanti vanno ricercati tra militari somali e cooperazione». Sono passati ormai 24 anni e ricostruire una verità giudiziaria è sempre più complesso. Non rimane che tessere le fila di un contesto politico e militare per ottenere almeno una verità storica.

Enrico Casale

20 ottobre 2017. preghiera in piazza dopo l’attacco terroristico del 14 ottobre che ha lasciato 276 persone uccise e oltre 300 ferite –  AFP PHOTO / Mohamed ABDIWAHAB


Un sacerdote a Mogadiscio

Incontro con il cappellano militare degli italiani

È un’eccezione: oggi un prete cattolico in Somalia può essere solo quello dell’esercito. Padre Stefano Tollu spiega la sua scelta e ci racconta, da una posizione di osservazione privilegiata, la vita nella capitale somala e gli incontri clandestini con i rarissimi cristiani di quel paese. Una comunità che si autodefinisce «in via di estinzione».

È l’unico sacerdote cattolico a Mogadiscio. Un prete in un mondo musulmano. Non è un parroco e neppure un religioso. È il cappellano del contingente militare italiano di Eutm, la missione di formazione e addestramento delle forze armate somale. Padre Stefano Tollu non è però estraneo all’Africa. Per anni ha servito come salesiano in Angola e Kenya. Oggi la sua missione è, forse, più difficile di quella svolta un tempo: offrire assistenza spirituale ai militari e al personale delle organizzazioni internazionali in un contesto particolare come quello somalo. Un ambiente complesso nel quale ha avuto occasione di incontrare anche il leader della piccola comunità cristiana locale che vive nascosta.

Missionario con le stellette

La strada di padre Tollu dall’Angola alla Somalia non è stata facile né lineare. È lui stesso a raccontarla: «Nasco come salesiano di don Bosco e, dopo gli studi di filosofia, ho vissuto undici anni in Angola e Kenya dove mi sono formato teologicamente e pastoralmente. Nel 2015, al mio ritorno in Italia, ho preso la scelta sofferta di non continuare a servire il Signore nei salesiani. È emersa la possibilità di svolgere il servizio presso l’Ordinariato militare. Ho accettato. Nel 1991-92 avevo svolto il servizio militare di leva negli alpini. Quello è stato un momento fondante della mia personalità e della mia spiritualità. Allo stesso tempo, ho sempre avuto amici nelle forze armate. Come capellano lavoro tra professionisti, spesso messi alla prova da situazioni complesse, alle quali rispondono con sacrificio e dedizione, non sempre riconosciute».

Non porta armi, non ha una preparazione militare. Il suo è un servizio spirituale. «L’esperienza missionaria mi ha aiutato molto – continua -, poiché mi ha dato la capacità dell’ascolto e della temperanza, ma anche la propensione all’elasticità e all’incontro verso l’altro. In questa nuova dimensione ho scoperto una purificazione interiore del mio servizio sacerdotale, laddove è aumentata la mia attenzione non al “fare”, ma all’essere strumento del Signore. È stato per me traumatico il non sentirmi compreso in questa mia scelta. Tante persone che per anni mi sono state vicine sono rimaste sorprese dal mio andare con i militari. Sono stato etichettato come “prete guerrafondaio” o traditore, parole forti che mostrano come non sia compreso il nostro servizio da tanti fratelli cristiani. Ho scoperto però in queste sofferenze, grazie alla preghiera e alla sana solitudine, la forza necessaria per camminare in questa nuova strada della mia vocazione».

Padre Stefano incontra i militari, li visita nei loro uffici, parla e scherza. Entra in confidenza con loro. E i militari si aprono a lui. Gli raccontano i loro problemi spirituali e personali. Nella sua diversità si sente sempre missionario «poiché sono in costante movimento, andando alla ricerca dell’altro, del fratello, porgendogli e condividendo con lui il Signore, nella mia fragile povertà umana». Lo scorso anno gli viene offerta la possibilità di tornare in Africa al seguito della missione italiana in Somalia. Padre Tollu accetta.

Soldati dell’AMISOM – AU UN IST/Ilyas A. Abukar

Somalia blindata

«L’opportunità di svolgere la mia missione all’estero mi fa sentire a casa – osserva -. Sono al servizio del contingente italiano, ma con il permesso del mio vescovo e delle forze armate, mi sono messo a disposizione del personale non italiano, assistendo anche i lavoratori ugandesi presenti nella nostra base, i soldati del Burundi della base accanto alla nostra, i lavoratori di Fao, Nazioni Unite e Ong. Le mie messe sono una bellissima Babilonia di preghiere in italiano, francese, inglese, kirundi, swahili e altre lingue ancora».

A Mogadiscio è l’unico sacerdote cattolico. In tutta la Somalia, compresi i pastori protestanti, i religiosi cristiani sono quattro o cinque. «Il cappellano militare del contingente del Burundi, padre Albino, lavora nel Nord della Somalia – osserva padre Stefano -. In sei mesi ci siamo visti due volte. Con piacere accompagno i suoi ragazzi di nazionalità burundese ed è una bellissima testimonianza di unità della Chiesa. Ho avuto il piacere di celebrare l’Eucarestia del Natale con il pastore Rodriguez, battista, cappellano degli Usa. Lui si trova a Gibuti e, nell’impossibilità di seguire i suoi connazionali qui a Mogadiscio, ha chiesto la mia disponibilità. La risposta era scontata poiché, prima ancora che me lo chiedesse, mi ero messo a disposizione di tutti». Difficile invece per lui incontrare i musulmani. «La realtà islamica è frammentata con leader legati a diverse scuole coraniche – chiarisce -. Non ho avuto il piacere di incontrarli. Mi auguro che, nel futuro, una volta liberato il paese dalle infiltrazioni terroristiche, si possano creare le condizioni per corrette e benevoli relazioni con i fratelli di fede islamica».

Il primo ministro della Somalia, Abdiweli Sheikh Ahmed, ferma un accordo col governo del Puntland il 14 ottobre 2014 – Unisom

Cristiani nascosti

Più complessa invece la relazione con i somali. La situazione di insicurezza in cui versa il paese, i continui attentati (3-4 volte a settimana a Mogadiscio) impediscono un ruolo strutturato all’esterno della base. «Quando esco con i militari, accompagnandoli nei luoghi dove svolgono l’addestramento delle truppe somale – osserva -, lo faccio sempre rispettando le norme di sicurezza. Giubbotto antiproiettile, elmetto e un soldato che rimane sempre al mio fianco. Raramente posso uscire e, quando ciò accade, è per condividere un pezzetto della quotidianità di una parte dei miei ragazzi».

La Somalia però lo ha impressionato. Così diversa dal Kenya e dall’Angola che ha conosciuto in passato eppure non così disastrata come viene presentata all’estero. «Quando ho attraversato Mogadiscio ho avuto la sensazione di una città spaventata, con la popolazione abituata a convivere con la paura, con l’insicurezza, con la non progettazione del futuro – racconta -. Rispetto a Luanda, capitale dell’Angola, tuttavia, ho notato maggiore pulizia e una migliore organizzazione. Un esempio: nella favelas della Lixeira dove ho vissuto per anni c’era un solo dentista per un milione di persone. Qui ne ho visti svariati. Allo stesso tempo, la militarizzazione della città, in risposta alle orribili azioni di al Shabaab, mi rattrista».

Nei suoi giorni nella capitale somala ha avuto l’occasione di fare un’esperienza unica per un sacerdote: incontrare i cristiani somali che, pur perseguitati, continuano a professare la loro fede in clandestinità e fra mille pericoli. Ho potuto conoscere Mosè – racconta padre Tollu -: è un cristiano cresciuto nella realtà del Protettorato italiano e poi nella Somalia indipendente, ma ancora molto legata al nostro paese. In molti lo considerano il portavoce dei cattolici somali. Lui definisce la sua comunità come una realtà in via di estinzione». Da una ventina di anni a questa parte ha infatti preso piede una versione intollerante della fede coranica. Al Qaeda e la sua filiale locale, al Shabaab, sono una minaccia continua per i musulmani non fondamentalisti e per i cristiani. Negli ultimi mesi si è poi affacciato anche lo Stato islamico che ha creato le prime basi nel Puntland. Un ulteriore pericolo per i cristiani locali. Il rischio arriva anche all’interno delle stesse famiglie dei cristiani. È ancora padre Tollu a parlare: «Mosè mi ha raccontato che “quelli nati dagli anni ‘90 in poi”, così li ha chiamati, sono diventati intolleranti e non comprendono i loro vecchi che professano il cristianesimo. Allora gli anziani fuggono, si allontanano dai loro figli e dai loro nipoti, perché potrebbero far loro del male». Mosè ha mostrato a padre Tollu una lista di cristiani morti recentemente, alcuni per cause naturali, altri per cause violente. «Gli ho promesso di ricordarli nella Santa Messa – dice padre Tollu -. Mosè, triste in volto, mi ha risposto: “Ecco lui e lei sono stati uccisi dai figli dei loro figli. Ormai la violenza è nelle case e noi, che siamo rimasti in pochi, rischiamo la vita ogni giorno”».

I pochi fedeli cattolici non possono avere un’assistenza spirituale continua. «Al momento – conclude – non esistono le condizioni di sicurezza per un sacerdote per svolgere serenamente il suo servizio a Mogadiscio. Mi auguro che in futuro, una volta liberato il paese dalle infiltrazioni terroristiche, si possano ricreare le condizioni minime per la presenza cristiana nella città. Ho promesso di pregare per loro durante la Messa. Siamo uniti nella preghiera quotidiana, fratelli in Cristo perseguitati e obbligati a nascondere la nostra fede».

Enrico Casale

Bambini somali a scuola nel campo di rifugiati di  Dollo Ado, Ethiopia. – J. Ose/UNHCR


Video su suor Leonella Sgorbati

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Tanzania: Maria e Consolata due sorelle in una


Testo di Marianna Micheluzzi MC A – Foto di Angelo Dutto |


L’università di Iringa, in Tanzania, da quest’anno 2017 ha due nuove studentesse eccezionali, Maria e Consolata. Due sorelle unite non solo dal sangue, ma dal fatto di condividere parte dello stesso corpo. Orfane dalla nascita e dotate di una brillante intelligenza, le due sorelle stanno sfidando il futuro e i pregiudizi con tanta voglia di vivere e il sorriso sulle labbra.

Una sera di vent’anni fa, in un villaggio rurale nei pressi di Ikonda, in Tanzania, una giovane donna in attesa della nascita del suo primo figlio, fu presa all’improvviso dalle doglie del parto. Il sospirato evento, in cui col marito aveva riposto tante aspettative, era ormai prossimo.

In Africa il parto è ancora l’avvenimento più naturale del mondo, se non ci sono complicazioni. Così però non fu per quella giovane mamma e le donne del vicinato se ne resero subito conto. L’istinto e, soprattutto, la consumata esperienza le aveva messe in allarme. Non era un travaglio normale, si presentava sin dall’inizio molto difficile tanto che le alte grida della partoriente arrivavano lontano, si può dire, fino in foresta.

Così le vicine si diedero subito da fare e cercarono un mezzo di fortuna, una specie di furgoncino di un commerciante che abitava nelle vicinanze. Tra sobbalzi ripetuti su una strada impossibile e con condizioni atmosferiche non ideali, l’uomo del camioncino e il marito della partoriente arrivarono all’ospedale di Ikonda con la puerpera che, per il troppo dolore patito, era ammutolita e con lo sguardo inespressivo.

L’ospedale di Ikonda, nato ad opera dei Missionari della Consolata e dalla collaborazione fattiva di tanti benefattori, era il più vicino e l’unico della zona attrezzato per situazioni complesse come, appunto, lo era questo parto. E di parti a Ikonda se ne affrontavano e se ne affrontano tanti. E quasi tutti, ieri come oggi, vanno a buon fine.

Non mancarono ovviamente le dovute attenzioni anche al nuovo ingresso nel reparto di ostetricia da parte del medico incaricato di assistere la donna e degli altri sanitari. Tutti, accoglienti e comprensivi, si diedero un grande da fare senza risparmio di forze e di mezzi. Era urgente un parto cesareo, pena la perdita di madre e figlio. Ma, incredibile e fuori da ogni immaginazione, dall’utero della donna uscirono nientemeno che due gemelle siamesi, unite in un corpo solo dallo stomaco in giù. Inseparabili.

Si fece tutto il possibile per tenere in vita le due piccole e la mamma. Ma quest’ultima, qualche giorno dopo, non ce la fece e lasciò orfane le sue creature che neanche aveva avuto modo di vedere. La prostrazione dopo il parto non le consentiva, su consiglio dei sanitari, di sopportare un’emozione troppo forte e, manco a dirlo, una vista straziante. Che poi straziante, diciamocelo in sincerità, lo sarebbe stato per chiunque, fosse stato pure in perfetta forma fisica, se non dovutamente preparato.

Così le due bimbe, senza mamma e con il papà senza i mezzi necessari per occuparsi di loro, una volta superate le primissime difficoltà, furono battezzate subito con i nomi di Maria e Consolata e vennero affidate a suor Magda, una generosa missionaria della Consolata. E suor Magda non solo le allevò amorevolmente rispondendo a tutti i loro bisogni come alimentazione e igiene (gestione nient’affatto semplice), ma provvide anche ai primi rudimenti della loro formazione come solo avrebbe potuto fare la loro mamma. Quando tuttavia gli impegni del servizio missionario per suor Magda aumentarono, com’era inevitabile che fosse, e le bambine cominciarono a essere grandicelle, si pensò di trovare una famiglia a cui affidarle. E non fu difficile, grazie a quella solidarietà molto diffusa in Africa per cui i bambini che non hanno genitori spesso trovano abbastanza facilmente una famiglia che si prende cura di loro. Una donna, una madre di famiglia, residente nei pressi dell’ospedale si offrì e Maria e Consolata furono affidate a lei.

Non poteva essere diversamente perché anche il papà delle due bambine, dopo un certo girovagare nelle città vicine (lui diceva di andare alla ricerca del lavoro), provato nel fisico per gli stenti e per il troppo bere, dopo qualche anno dalla perdita della moglie morì.

Per Maria e Consolata, coccolate e conosciute da tutti, missionari e missionarie e amici vari di servizio o passaggio nella missione, a Ikonda ci furono gli anni della scuola materna e delle elementari vissuti con buon profitto. Ormai pronte per la scuola secondaria si pensò che le due, date le buone premesse quanto a impegno, avrebbero potuto continuare gli studi a Ilamba, in un collegio retto anch’esso dalle missionarie della Consolata. E quindi ecco il primo trasferimento per le sorelle Mwikikuti, che non ci stavano nella pelle all’idea di poter proseguire negli studi.

Tanto Maria che Consolata sono sempre state molto vivaci intellettualmente e tenaci nel prefiggersi obiettivi e poi raggiungerli, collaborando in piena armonia e guardando al futuro sempre con grande ottimismo, nonostante gli inevitabili limiti della loro fisicità.

Il Signore prende ma dà pure. Quello che Maria e Consolata non hanno rispetto alle loro coetanee, lo hanno ricevuto in dono, senza merito alcuno, in intelligenza e cuore. Sono sempre sorridenti e ottimiste. È raro vederle tristi. E la Provvidenza ha fatto il resto per loro. Quella Provvidenza che si chiama benefattori. Ossia uomini e donne che testimoniano Cristo e nella preghiera e nel concreto perché aperti alla fratellanza universale e capaci di gettare ponti.

La bella notizia è che Maria e Consolata Mwikikuti, finita con successo la secondaria, quest’anno stanno frequentando a Iringa l’università nella facoltà di Scienze della Formazione e intendono conseguire, a completamento del ciclo di studi, la laurea. Proprio come altri loro coetanei. Era il loro sogno, anche se non osavano immaginare che sarebbe potuto un giorno divenire, a tutti gli effetti, realtà.

Se oggi si domanda loro come stanno vivendo questa esperienza universitaria, prima si scherniscono un po’, cioè si nascondono timidamente dietro un sorriso che muove a tenerezza, consapevoli che si tratta di un’impresa che richiede tantissimo impegno, ma, tenaci quali sono, fanno poi capire con chiarezza che non hanno nessuna intenzione di mollare.

Auguri, allora, a Maria e a Consolata. Saremo felici d’essere assieme a voi, al traguardo, per fare festa. Una festa più che meritata.

Marianna Micheluzzi

Il Consolata Hospital Ikonda

Si trova nel distretto di Makete, trenta chilometri prima di Makete sulla strada da Njombe. Si tratta di uno dei tre ospedali del distretto. Gli altri sono l’Ospedale luterano di Bulongwa (distante cinquanta chilometri) e il Makete District Hospital (trenta chilometri).

È posizionato sugli altopiani meridionali della Tanzania, a 2.050 metri sul livello del mare, con inverni molto freddi ed estati afose. È un istituto cattolico privato, che appartiene fin dalla sua origine (1963) ai missionari della Consolata, ai quali il 25 febbraio 1961 il capo Kiluswa, il capo dei capi di quell’area dell’Ukinga, chiese loro di aprire un ospedale nella zona.

E il 7 ottobre 1968, ampliato di necessità, l’ospedale fu inaugurato dall’allora presidente del Tanzania, Julius Nyerere. L’obiettivo prioritario era quello di ridurre la mortalità infantile e di supportare le mamme in gravidanza, che spesso morivano di parto. La missione del Consolata Hospital Ikonda oggi resta quella di fornire assistenza sanitaria generale alla popolazione della zona, anche attraverso una clinica mobile, e di promuovere l’accesso alle cure sanitarie per coloro che sono bisognosi, con una particolare attenzione per i bambini, le donne e le persone affette da malattie croniche. È registrato dal 1997 presso il Ministero della Sanità tanzaniano e fa parte della Cristian Social Services Commission (Cssc). Ma da piccolo ospedale con sessanta posti letto nel 1968, il Consolata Hospital è diventato una grande struttura con 322 posti letto e 274 membri del personale. Nel 2016 ha effettuato oltre 85 mila visite ambulatoriali. I parti effettuati sono stati 1.600, 14 mila le ospedalizzazioni, circa 6.500 gli interventi chirurgici. Gli esami di laboratorio sono stati oltre 220 mila, le visite effettuate dalla clinica Hiv/Aids poco meno di 24 mila.

M.M.

Morning Star School – Ilamba

A un’ora di macchina da Iringa, passando per Ipogoro e risalendo l’altopiano, il viaggiatore si trova immerso in un verde che più verde non si può. Paesaggi mozzafiato si susseguono allo sguardo.

L’aria è gradevole. E non ricorda affatto l’afa insopportabile e il sole impietoso cui si è avvezzi in terra d’Africa. In mezzo a queste colline, a Ilamba, c’è una scuola secondaria, la Morning Star, gestita dalle suore missionarie della Consolata.

Con l’aiuto di generosi benefattori e di alcune associazioni umanitarie italiane e non solo, qui è stato possibile realizzare, a piccoli passi, ma con tenacia, una scuola professionale per i ragazzi e le ragazze del posto, quelli con poche possibilità economiche.

Nella scuola secondaria di Ilamba ci sono vari rami di specializzazione. Per i maschi c’è falegnameria, agricoltura e allevamento; per le ragazze, invece, corsi di maglieria e poi di taglio e cucito. Professionalità utili e di certo spendibili al termine dei corsi.

Ma, oltre alla scuola secondaria professionale, ultimamente è nato un corso di liceo ben frequentato. E, nelle vicinanze, c’è pure un asilo per più piccini.

Il liceo, quello stesso che hanno frequentato negli anni Maria e Consolata Mwikikuti, è il fiore all’occhiello. Aver impiantato il liceo, tra le altre cose, ha avuto, in particolare per la zona, un significato ben preciso. Molti ragazzi e ragazze di Ilamba, pur impegnandosi, non riuscivano a conseguire il titolo di studio frequentando le normali scuole statali cittadine. Tanti, troppi intoppi e di natura differente.

In questo modo si veniva a creare quella che da noi per definizione è la piaga della dispersione scolastica e, soprattutto, a seguire tanta emarginazione.

Cose non buone in un contesto difficile quanto a opportunità d’inserimento nel mondo del lavoro.

Nel liceo della Morning Star c’è disciplina certamente, come deve esserci, e c’è serietà professionale da parte dei docenti ma c’è anche tanta disponibilità ad accogliere e affiancare nel percorso scolastico coloro che, sulle prime, possono incontrare delle difficoltà nell’apprendimento.

Di casi del genere con esito positivo le missionarie possono raccontarcene tanti. Ragazzi e ragazze all’inizio in difficoltà, ben guidati hanno imboccato in seguito il percorso giusto e, dopo il liceo, hanno frequentato persino l’università a Iringa e si sono laureati. Proprio come oggi è nelle aspettative delle sorelle Maria e Consolata Mwikikuti.

Un’ultima nota: il liceo è gestito interamente da personale tanzaniano, dal preside fino all’ultimo insegnante e al personale non docente.

Tuttavia le suore della Morning Star, donne che non mollano, sono comunque attente vigilatrici di tutto l’andamento, affinché ogni cosa vada per il verso giusto. E i «frutti», almeno finora, sono buoni.

M.M.

 




È nato un bambino. Aiutiamolo a crescere


Quest’anno a Natale vi proponiamo di iniziare a seguire insieme a noi un bambino durante i suoi primi anni di vita. E di aiutarci a farlo nascere e crescere garantendogli sanità e istruzione.

Mi chiamo Emmanuel, sono nato il 25 dicembre del 2009. Abito in una casa sotto un grande albero di mango. Ma se volete venire a trovarmi questo non vi sarà di grande aiuto per farvi arrivare a casa mia: ci sono almeno dieci case, nel mio villaggio, che stanno sotto un grande albero di mango. Dovete chiedere di Emmanuel il figlio di Marie, quella che fa la cuoca nell’asilo dei missionari.

Dice mamma che quando sono nato l’asilo era chiuso per le vacanze e lei era ad aiutare papà nel campo di manioca. Ha sentito che stavo arrivando, allora papà l’ha fatta sedere sul portapacchi della bici e ha pedalato fino al posto dove nascono i bambini. È una casetta di mattoni, più grande della nostra e si chiama dispensario. Dentro ci sono due persone vestite di bianco: una è un infermiere, poi c’è una signora che aiuta le mamme a far nascere i bambini.

Queste cose non le so perché me le ricordo, ero troppo piccolo. Le so perché adesso mamma aspetta la mia sorellina e ogni tanto io e mio fratello piccolo la accompagniamo al dispensario. Dice mamma che deve andarci per fare la visita: vuol dire che quelle persone vestite di bianco le guardano la pancia, ascoltano il suo cuore e il suo respiro. Una volta lei aveva la febbre: le hanno punto un dito con un ago e le hanno preso una goccia di sangue. Le hanno detto che aveva la malaria, poi le hanno dato delle medicine e una zanzariera nuova: la nostra aveva troppi buchi e la mamma si era ammalata per quello.

Per mia sorella che sta per nascere siamo stati al dispensario già tre volte, ma dice mamma che quando aspettava mia sorella maggiore non ci andava mai: il dispensario non c’era ancora e mamma ha fatto tutto da sola. Beh, non proprio da sola: c’era una signora del villaggio che aiutava le mamme. C’è ancora, abita nella casa vicino alla strada grande, adesso è un po’ vecchia ma aiuta ancora i bambini a nascere. Però non tutti, dice mamma, più o meno uno sì e uno no@.

Poi i missionari, quelli dell’asilo dove lavora mamma, hanno aperto il dispensario. Ora molte mamme vanno a fare la visita, ma non sempre. Ad esempio, fra le nostre vicine di casa quattro aspettano un bambino. Una viene sempre con noi alla visita, due sono andate una volta sola. La quarta, invece, non ci va mai@.

Mamma ha provato a convincerla, ma lei niente: dice che suo marito non vuole, che ha bisogno nei campi, e poi lui non si fida di quelle persone vestite di bianco. Secondo me fa male a non fidarsi di loro: sono gentili, spesso ascoltano anche il mio cuore e il mio respiro. Poi mettono mio fratello dentro una specie di scatola di legno e gli avvolgono un braccialetto intorno a un braccio, scrivono dei numeri su un quaderno e a volte danno a mamma un sacchetto con dentro delle cose per lui.

Un giorno ho visto un bambino piccolissimo, con i capelli strani, un po’ gialli. Era con sua sorella più grande, non so dove fosse la sua mamma. Hanno messo pure lui nella scatola di legno, gli hanno avvolto il braccialetto intorno al braccio e lo hanno anche infilato con le gambe penzoloni in una specie di sacco bucato: era per pesarlo, ha detto l’infermiere. A sua sorella hanno dato un sacchetto molto più grande di quello che hanno dato a noi e l’infermiere ha parlato con lei per tanto tempo. Dice mamma che adesso quel bambino devono curarlo bene e che deve mangiare delle cose per non essere più così piccolo e per non avere più i capelli gialli.

Di bambini così all’asilo dove lavora mamma non ce ne sono: secondo me è perché lei è la cuoca più brava di tutte. Le cose che prepara fanno diventare grandi i bambini e non fanno venire i capelli gialli. Lo so, perché all’asilo sono andato anche io e ora ci va mio fratello. Adesso ha lui la mia tazza rossa, quella che usavo per bere, e ha anche il mio piatto verde, dove le maestre mi mettevano la pappetta e le altre cose da mangiare. È giusto così, la pappetta è per i bimbi piccoli, io ormai sono grande e non posso più andare all’asilo. Anche se mi piacevano le cose che facevo lì, specialmente disegnare e cantare insieme agli altri.

All’asilo ho anche imparato a contare, ma non so ancora contare tutto: una volta ho provato a contare quanti passi ci sono per andare alla mia scuola, ma sono molti più di venti! Mia sorella grande andava nella mia stessa scuola che sta in un villaggio più grosso. Lei dice che doveva camminare mezz’ora, ma io non so quanti passi sono mezz’ora.

Alla mattina io cammino fino alla scuola con due bambine e altri due bambini del mio villaggio. È bello perché mentre camminiamo ci facciamo degli scherzi e un po’ ci fermiamo a giocare. Per un po’ di tempo Irene, una delle due bambine, non è più venuta a scuola con noi. Dicono gli altri che la sua mamma è stata male di nuovo e che lei ha dovuto stare a casa per aiutarla a guardare i fratelli più piccoli. Il loro papà non c’è mai, guida un camion ed è sempre in viaggio@  e la mamma deve fare tutto da sola. Anche l’anno scorso sua mamma si era ammalata e ci è mancato poco che la mia amica perdesse l’anno.

Ora è tornata e io sono contento, perché è quella che mi sta più simpatica e anche perché è la più brava della classe. Dice mamma che tutti i bambini devono andare a scuola ma che per le bambine è tutto molto più difficile. Però da quest’anno lei ha un amico nuovo, un bambino che abita in un paese lontano, il paese – dice papà – da cui arriva quel missionario che viene spesso a trovarci in classe e si ferma a parlare con le maestre. Questo bambino e i suoi genitori ora regaleranno a Irene, e a tutti i bambini come lei, i quaderni, i libri, le matite, il grembiule e tante altre cose che servono per la scuola. Così la sua mamma potrà riposarsi un po’ di più e non si ammalerà tutti gli anni e Irene non dovrà più smettere di venire a scuola per aiutarla.

Una volta Irene mi ha detto che lei da grande vuole essere come la signora del dispensario che fa nascere i bambini e che io potrei diventare come l’infermiere. Mi sembra una buona idea, così potremo continuare a farci gli scherzi e fermarci a giocare, la mattina, mentre camminiamo insieme per andare al dispensario.

Emmanuel

Emmanuel è un bambino come tanti, anzi, è tanti bambini in uno. La sua storia è ispirata alle migliaia di storie che abbiamo ascoltato nei dispensari, nelle maternità, nei centri nutrizionali, negli asili e nelle scuole primarie che i nostri missionari gestiscono nel mondo. Abbiamo collocato il nostro piccolo narratore in un villaggio rurale africano, ma molte delle situazioni che vive sono condivise dai suoi coetanei nelle immense periferie delle grandi città o nelle terre di popoli indigeni o nelle zone aride dell’America Latina, e simili anche a quelle di altri popoli che vivono di pastorizia, come in Mongolia.

Quello che Emmanuel non ci ha raccontato – perché nessun bambino dovrebbe poter raccontare una cosa del genere – è che nei paesi meno sviluppati su mille bambini nati vivi quattro donne muoiono ancora per cause legate alla gravidanza (nell’area euro ne muoiono sei ogni centomila)@, mentre sessantotto bambini su mille non arrivano a compiere cinque anni. Settantotto, considerando la sola Africa subsahariana. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, tredici su cento di queste morti sono causate dalla polmonite, nove dalla diarrea, sei da ferite varie e cinque dalla malaria.

Secondo i dati Unicef@ «tra il 1990 e il 2015, la malnutrizione cronica è calata da 255 milioni a 156 milioni di bambini, è però aumentata in Africa Occidentale e Centrale, passando da 19,9 milioni a 28,3 milioni.

Nel 2015, oltre 50 milioni di bambini sotto i 5 anni sono risultati affetti da malnutrizione acuta, di cui 17 milioni da malnutrizione acuta grave: la metà dei bambini vivevano in Asia meridionale ed un quarto in Africa subsahariana». Nello stesso anno «circa 92 milioni di bambini sotto i 5 anni risultavano sottopeso».

Nei paesi meno sviluppati solo un bambino su cinque va all’asilo. Eppure, sempre più studi confermano che i bambini che hanno ricevuto un’istruzione preprimaria ottengono migliori risultati negli studi successivi e sono più al riparo dal rischio di essere malnutriti grazie al sostegno nutrizionale che ricevono alla scuola materna. Dei bambini in età da scuola primaria, uno su cinque non è in classe@: si tratta di oltre sessanta milioni di bambini, di cui più della metà in Africa.

Chiara Giovetti




Colombia: Nel Caquetá la pace passa per la scuola


In un luogo dove meno te lo aspetti, alle porte di una cittadina amazzonica, sorge una scuola molto particolare. I suoi studenti provengono da sperduti villaggi e hanno vissuto la guerra civile. Vi si insegnano materie tecniche, ma soprattutto si vuole ricostruire il tessuto sociale. E far crescere negli studenti quella cosa stupenda chiamata autostima.

Fa caldo umido a San Vicente del Caguán. Siamo nel Caquetá, uno dei dipartimenti amazzonici della Colombia. San Vicente è anche noto per essere «il comune più deforestato dell’America Latina», dicono alcuni. Il vasto dipartimento, con una superficie pari a poco meno di un terzo di quella dell’Italia, si estende dalle pendici della cordigliera orientale all’Amazzonia profonda. Qui vivono meno di mezzo milione di persone, e ben quattro milioni di vacche. Parte della foresta ha infatti lasciato il posto ad ampi pascoli. Esistono tuttavia ancora molte zone e comuni raggiungibili solo via fiume, perché non ci sono strade.

San Vicente è anche uno dei comuni colombiani che più sono stati colpiti dalla guerra civile durata 52 anni. Oggi, all’indomani degli accordi di pace firmati tra il governo del presidente Juan Manuel Santos e le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) il 26 settembre 2016 (si veda MC novembre 2016 e maggio 2017), si respira un’aria diversa. Da un lato c’è speranza per questa nuova opportunità di costruire e vivere in pace, ma dall’altro è forte la preoccupazione per una situazione inedita ed equilibri che stanno rapidamente cambiando. La gente, in generale, ha poca fiducia nel governo ed è sospettosa. Per questo motivo non è troppo propensa a parlare della situazione e di quello che potrebbe succedere.

Nel frattempo Álvaro Uribe Vélez, il precedente presidente (di cui Santos fu ministro della Difesa), e il suo gruppo di destra hanno fatto una massiccia propaganda anti accordi di pace, sostenendo che, grazie a Santos, le Farc hanno guadagnato molti privilegi, e saranno presto in parlamento ed eleggibili alle varie cariche amministrative.

I combattenti delle Farc stanno smobilitando (a metà giugno era già stato consegnato il 60% delle armi) e si concentrano in 23 zone e 8 accampamenti in tutto il paese. Occorre prevedere per loro un programma di reinserimento sociale, ovvero formazione, educazione secondaria e talvolta primaria, in quanto molti di loro sono nati e cresciuti nella guerriglia e quindi lontano dalle città e dai centri di educazione formale. Il «post conflitto» è ormai il termine sulla bocca di tutti gli addetti ai lavori (enti statali, Ong, organismi ecclesiali e religiosi), e la sua gestione è la sfida più importante per stabilizzare il paese con una pace vera e duratura.

Il Vicariato

A San Vicente, e nell’ampio territorio di sua competenza, il Vicariato apostolico è la struttura con maggiore autorevolezza e credibilità. Al suo capo c’è da 18 anni monsignor Francisco Javier Múnera Correa, missionario della Consolata colombiano. Durante i lunghi anni di guerra sacerdoti, suore e laici sono stati gli unici a poter intervenire sempre e ovunque nel Vicariato. Una vasta area, che nel febbraio 2013 si è divisa con la creazione del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano, e oggi si estende per 31.000 km quadrati (come Piemonte e Liguria insieme). Il Vicariato, grazie alla sua pastorale educativa e alla pastorale sociale, è oggi il più importante attore di sviluppo di tutta l’area del Caquetà.

«Oggi una delle grandi preoccupazioni – ci confida un operatore del Vicariato – è la cosiddetta “dissidenza”, ovvero quelle frange delle Farc che non hanno accettato gli accordi di pace, e restano in armi nella selva». In particolare, il comune di Cartagena del Chairà, sembra influenzato da questa dinamica. «Altre forze, inoltre, si affrettano a occupare i territori fino a ieri controllati dalle Farc, che ora se ne stanno andando. Qui ci sono narcotrafficanti, criminali comuni e fuoriusciti dalla guerriglia che si riciclano». Incontriamo il responsabile della pastorale sociale, padre Juan Pablo de los Rios, anche lui missionario della Consolata: «Nei prossimi anni vogliamo concentrarci su tre aree di lavoro principali: la cura della Casa comune, ovvero dell’ambiente, il cammino di perdono e riconciliazione nel post conflitto e la democrazia partecipativa. Questa è una terra di grandi profitti economici: caucciù, legname. Poi la coltivazione estensiva (illegale) della coca. E sopra tutti la deforestazione per l’allevamento estensivo di bestiame. Ma nei pressi di San Vicente c’è anche una zona di estrazione petrolifera (oggi ferma perché il prezzo del greggio a livello internazionale è troppo basso e non conviene pomparlo, ndr). Tutti fattori questi che hanno contribuito alla distruzione ambientale.

Vogliamo lavorare per formare quelli che chiamiamo “artigiani del perdono” e, inoltre, non meno importante, far assumere alla gente il ruolo che le conferisce la Costituzione, in termini di partecipazione attiva e godimento dei propri diritti».

La scuola della cittadella della speranza

A pochi chilometri da San Vicente, sulla strada per Neiva, con il fiume Caguán da un lato e circondata da una macchia di foresta dagli altri, sorge la Ciudadela Juvenil Amazonica Don Bosco. Qui le suore della Consolata stanno realizzando un’opera molto particolare.

Ci accoglie la dinamica suor Blanca Rubiela Orozco Gomez, colombiana. Una vera forza della natura.

«La Ciudadela è nata nel 1994 per volere dell’allora vescovo monsignor Luis Augusto Castro come scuola primaria e secondaria per i contadini, fondata dai salesiani – ci racconta -. Nel 2013 questi consegnarono la struttura al Vicariato, che decise di affidarlo a noi, suore della Consolata».

Da allora la Cittadella è cambiata: «La nostra missione è formare i giovani che provengono dall’ambiente rurale, ovvero quelli più emarginati e con meno possibilità di studiare». La struttura offre due corsi superiori completi, da tecnico agrario e di allevamento e trasformazione di alimenti e tecnico in programmazione di sistemi con approfondimento in umanità. Quest’ultimo corso, di avanguardia, insegna ai giovani l’utilizzo dell’informatica applicata all’agraria e all’allevamento, con lo scopo di renderli più competitivi. Per accedervi, i criteri sono molto particolari: «Essere contadino o di famiglia contadina, vulnerabile (diremmo di basso reddito, ndr) e accettare la condivisione e il desiderio di lavorare nei campi».

Mentre visitiamo la scuola, che pare un vero campus, suor Rubiela snocciola fiera i dati sulle ultime promozioni, facendo notare come si sia passati il primo anno da una trentina di studenti maschi a 50 di cui circa la metà ragazze.

Oltre alle lezioni pratiche, nella fattoria didattica i ragazzi hanno la possibilità di cimentarsi con diversi tipi di colture e allevamenti. Spicca per originalità la coltivazione del camu-camu (myrciaria dubia), frutto amazzonico ad altissimo contenuto vitaminico che viene utilizzato per produrre succhi. Gli allevamenti didattici di polli, maiali e pesci sono anche produttivi e utili per generare entrate economiche per la scuola.

Tutta una sezione è occupata dai laboratori di trasformazione alimentare, utilizzati dagli studenti per imparare a produrre formaggio, dolce di goiaba, dolce di latte, succhi e yogurt.

Cambio di livello per la scuola

Attualmente è in corso il processo di trasformazione della scuola da istituto tecnico a centro di educazione universitaria: «Stiamo facendo accordi con diverse università sia del Caquetá sia nazionali, e con il ministero dell’Educazione per elevare il livello dei nostri corsi e omologarli a programmi universitari di medicina veterinaria, ingegneria agricola e ingegneria degli alimenti».

«Qui gli studenti non pagano i corsi, perché, tranne pochissimi, non ne hanno le possibilità», racconta ancora suor Rubela. «Esistono diverse possibilità, come le borse di studio dei municipi».

Ma, spiega la suora, questa non è solo una scuola tecnica, «qui vogliamo ricostruire il tessuto sociale. Facciamo formazione umana, etica e puntiamo a sviluppare l’autostima dei nostri studenti. Per questo lavoriamo molto sull’ambiente umano e sul post conflitto».

«Ricordo un ragazzo che ha terminato l’anno scorso. Un campesino di 22 anni. Arrivò alla scuola in ritardo di due settimane. Veniva da lontano. Io lo accolsi e non gli chiesi perché. Gli chiesi se era interessato ai corsi e gli dissi di andare a lavarsi che avrebbe cominciato il giorno seguente. Mentre gli parlavo non mi guardava neppure negli occhi. Alla fine dell’anno era stato uno degli allievi migliori. Al momento di salutarci mi abbracciò forte e mi ringraziò. In quell’anno era cresciuto soprattutto il modo di vedere se stesso».

Contadini digitali

Suor Rubela è al colmo della soddisfazione quando ci presenta Alberto, un giovane (18 anni) istruttore di uno dei corsi delle «Scuole digitali contadine (Escuelas digitales campesinas)».

Il progetto è in linea con l’Action cultural popular, nata molti anni fa, che utilizzava le trasmissioni radio per l’alfabetizzazione e la formazione nelle zone più remote. «Questo è un plus fornito dalla scuola: corsi brevi per piccoli gruppi di studenti. E si svolge in parte con insegnamento in sede e in parte a distanza grazie a una piattaforma informatica». Così corsi come: alfabetizzazione digitale, leadership, conoscenza dell’ambiente, associazionismo per creare impresa, pace e convivenza, adattamento al cambiamento climatico e comunicazione e giornalismo rurale sono un fiore all’occhiello della scuola. Presto saranno anche disponibili i corsi di pesca responsabile, diritti umani nelle comunità rurali e progetto di vita in campagna.

Si tratta di corsi di perfezionamento frequentati da giovani dai 16 ai 35 anni. «Esistono accordi con i direttori di diverse scuole nel dipartimento, che ci mandano studenti meritevoli per questi corsi della scuola digitale», annuisce soddisfatta suor Rubela. La ricaduta è anche sulle comunità da cui arrivano i ragazzi, perché la metodologia prevede di coinvolgere le famiglie. Nell’anno 2015-2016 sono stati circa 2.000 gli studenti formati con le scuole digitali.

Anche monsignor Francisco Javier Múnera, amministratore apostolico del Vicariato di San Vicente del Caguán è molto soddisfatto del lavoro tecnico e umano svolto alla Ciudadela. Guarda ancora più avanti e ha in mente nuovi sviluppi. «C’è un evidente interesse del governo – ci dice -, in particolare dei ministeri dell’Educazione e del Postconflitto nella creazione di centri di formazione per gli ex combattenti». Un progetto in linea con il livello universitario, ma con corsi specifici per i guerriglieri smobilitati, in un luogo strategico dove la guerriglia ha avuto un ruolo importante e molto vicino alla realtà rurale dalla quale arrivano le ex Farc».

La pace ha molti nemici

Mentre scriviamo arriva la notizia dell’ignobile attentato realizzato con una bomba in un centro commerciale di Bogotà in un affollato sabato pomeriggio. La prima sensazione è che si tratti di gruppi che vogliono destabilizzare l’attuale governo e quindi l’importante processo di pace che ha intrapreso. L’anno prossimo in Colombia ci saranno le elezioni presidenziali. Né Alvaro Uribe né Manuel Santos si potranno ricandidare. Ma i loro gruppi rispettivi si fronteggeranno e, a seconda di chi vincerà, il processo degli accordi di pace potrebbe avere una battuta d’arresto (nel primo caso) oppure andare avanti, pur nelle molte difficoltà di una realtà così complessa.

Marco Bello


Dalla «Zona di distensione» al viaggio del Papa

Adesso occorre voltare pagina

A San Vicente del Caguán la guerra ha colpito duro. Ma è stato anche un municipio di sperimentazione sociale. Qui i missionari della Consolata sono presenti dal 1951. Incontro con il vescovo mons. Múnera.

Monsignor Francisco Javier Múnera Correa è missionario della Consolata da oltre 40 anni e da 18 è vescovo nel Vicariato apostolico di San Vicente del Caguán. Ricorda sempre con passione e nostalgia gli anni trascorsi in missione, nel Nord del Kenya. Ci accoglie sulla terrazza di casa sua, circondata da alcuni lussureggianti alberi e ci ricorda che i missionari della Consolata compiono oggi 70 anni di presenza in Colombia.

Monsignor Múnera, San Vicente è stato (un posto) molto strategico durante il conflitto armato, perché?

«Voglio precisare che io sono il secondo vescovo di San Vicente, dopo mons. Castro, che è stato padre fondatore di questo vasto Vicariato. Lui si è impegnato molto sul tema della pace, anche in prima persona per la liberazione di militari e poliziotti sequestrati dalla guerriglia. È sempre stato un uomo chiave per avvicinare le parti, anche nella negoziazione che ha portato ai recenti accordi di pace.

All’inizio del 1999, quando presi il suo posto, in quest’area stava iniziando una esperienza particolare: la cosiddetta “Zona di distensione”. Un territorio grande quanto la Svizzera che comprendeva oltre a San Vicente altri quattro comuni nel dipartimento del Meta. Erano in corso delle trattative di pace e questa regione fu lasciata sotto il controllo politico e militare delle Farc-Ep. Esercito, polizia e stato si erano ritirati. Rimase solo il sindaco tra le autorità statali. C’era una polizia civica, formata da elementi della popolazione civile e uomini della guerriglia. Questo ha consentito alle Farc di sentirsi sicure per portare avanti il negoziato con il governo del presidente Pastrana.

Ma dopo tre anni, il 20 febbraio 2002, il presidente dette un ultimatum, dicendo che finivano i dialoghi e i guerriglieri avevano 24 ore per andarsene. Mons. Castro spiega questo fallimento dicendo che erano dialoghi tra orbi: le Farc vedevano solo le loro richieste di giustizia, ma non fecero niente per la pace; il governo voleva la pace ma senza fare concessioni per la giustizia. In quegli anni le Farc erano ancora molto forti. Il governo, che aveva avuto delle batoste sul piano militare, utilizzò quel periodo per rafforzare l’esercito e la sua strategia.

Con la Zona di distensione, per un tempo lungo si è mantenuto un territorio senza conflitto, ma nel resto del paese era terribile. La stessa Zona di distensione si era convertita in una specie di rifugio per i guerriglieri. Quegli anni sono stati più calmi qui perché non c’erano scontri. I guerriglieri gestivano anche la giustizia. Abbiamo subito alcune arbitrarietà, ma la gente ha imparato a convivere con loro e viceversa. La Chiesa ha appoggiato il processo di pace come presenza morale, ma molti settori sociali non erano favorevoli alle Farc perché avevano subìto maltrattamenti da parte loro».

Poi c’è il cambio di presidenza … e di marcia.

«A maggio del 2002 Alvaro Uribe vinse le elezioni e da agosto fino allo stesso mese del 2010 sono stati otto anni molto duri. Il piano del governo era portare le Farc ad arrendersi. Scontri, bombe, sofferenze, uccisioni, sfollati e rifugiati. Io ho aiutato persone a uscire dalla zona per andare ad esempio in Canada. Chiunque la guerriglia riteneva collaboratore dell’esercito diventava obiettivo militare, e con lui la sua famiglia. Intanto parte della popolazione si era messa ad appoggiare la guerriglia. Erano molte le violazioni dei diritti umani da entrambe le parti.

L’esercito riduceva l’accesso dei viveri a San Vicente e qui eravamo isolati. La strategia era duplice: lotta anti guerriglia e lotta anti narcos. Perché in gran parte del territorio c’era la produzione della coca, appoggiata dalla guerriglia. Il conflitto armato è durato molto tempo proprio perché ha trovato nel narcotraffico i soldi per finanziare le armi.

La Chiesa ha cercato di mantenere sempre un posizionamento vicino alle vittime.

Con Uribe il rapporto di forza si è invertito. Gli Usa hanno appoggiato il governo colombiano con gli ingenti finanziamenti del Plan Colombia. Le Farc facevano rapimenti, anche eccellenti, ma Uribe li ha colpiti duramente, con grandi costi».

Come si è arrivati agli accordi di pace?

«Le posizioni delle parti si erano indurite. Quando è arrivato Santos alla presidenza (2010), ha subito cercato una via per la pace. Nonostante fosse stato lui a infliggere duri colpi alle Farc nella veste di ministro della Difesa di Uribe. Nel 2012 sono iniziati i colloqui. Quattro anni di negoziati. Durissimi ma molto più seri, con due principi: negoziare anche durante il conflitto e “nulla è accordato finché tutto non sia accordato”.

Le Farc si sono rese conto che militarmente non avrebbero vinto. Inoltre la pressione della comunità internazionale è stata molto grande sia su di loro sia sul governo. A quest’ultimo faceva ricatti di tipo economico minacciando l’azzeramento degli investimenti. In primo luogo l’Unione europea e poi gli Usa, che con l’arrivo di Barak Obama al potere sono stati decisivi. Lo scenario politico internazionale era cambiato, il governo avrebbe avuto meno appoggi per la guerra.

Gli accordi di pace non risolvono tutto ma aprono la strada per la soluzione a tanti altri problemi che erano stati messi in secondo piano. Ad esempio per la prima volta, dopo 50 anni, il budget per l’educazione ha superato quello della guerra. Avevamo un esercito con più di 500mila uomini, in un paese con grandissime disuguaglianze. Ad esempio il livello di infrastrutture per l’educazione di questa regione è molto basso».

Ma il no al referendum ha segnato una battuta d’arresto?

«La vittoria del no è stata costruita suscitando l’indignazione, mettendo paura. È servito per modificare certe cose degli accordi, perché alla gente sembrava che le concessioni del governo alle Farc fossero troppo generose. Alcuni dicevano: se vince il sì diventeremo un’altra Venezuela o un’altra Cuba. La destra più dura, diceva che eravamo quasi al punto di vincerli militarmente, quindi per loro è stata una sciocchezza arrivare a una trattativa, con la quale le Farc hanno ottenuto di più con una via politica, rispetto a quello che avrebbero ottenuto militarmente. Questo è vero, ma è il prezzo della pace.

Anche per la chiesa è stato molto difficile: vescovi, preti e popolazione si sono divisi sulle due posizioni. Molti vescovi dicevano: “La pace sì ma non così”. Come Conferenza episcopale abbiamo deciso di aiutare la gente a formarsi e informarsi e dare un voto per il futuro del paese. Ma non potevamo schierarci per votare sì o no. Alcuni membri della chiesa e gruppi ecclesiali si sono invece sbilanciati e hanno fatto apertamente campagna, per uno dei due campi.

Per molta gente c’è sfiducia e risentimento nei confronti delle Farc, ma anche sfiducia verso il presidente, che sembrava avesse concesso loro tutto.

In realtà riforme come quella agraria, che le Farc chiedono, sono necessarie al di là della guerriglia».

Quali sono i maggiori problemi del paese oggi?

«Adesso che non c’è più il conflitto (c’è ancora con il gruppo Eln con il quale esiste una trattativa), viene fuori la corruzione terribile di questo paese. A tutti i livelli, della classe politica ed economica. Dagli anni ‘70 – ‘80 in poi il narcotraffico ci ha rovinati. Siamo un paese che era costruito su valori molto forti. Poi è arrivata una classe politica con mentalità del denaro facile, abbondante, a qualsiasi costo. Questo ci ha rovinato la testa, la cultura, i valori, creando quella che mons. Castro chiama la “narco mentalità”. Adesso c’è anche un effetto boomerang, ovvero un gran consumo interno di droga. Ma con speranza diciamo che sperimentiamo già giorni diversi. Anche se questa nazione non si rallegra con gli accordi, perché per le grosse città non cambia molto. È in questa periferia che sentiamo il cambiamento».

Le Farc controllavano territori, adesso ci sono altri soggetti che cercano di entrare?

«Sì, è terribile. I dissidenti e i gruppi criminali si sostituiscono alle Farc. Molti hanno paura che si rafforzi il paramilitarismo, che in alcune zone, come nel Cauca è appoggiato dai grandi latifondisti.

La Colombia è una nazione con più territorio che stato. Le frontiere non son controllabili. Riempire con le istituzioni il vuoto che lascia la guerriglia è una delle grosse sfide. È il passo dall’illegalità alla legalità. In alcune aree il riferimento erano le Farc, tramite l’imposizione con le armi. Passare a un esercizio di democrazia vera, partecipativa, sarà difficile sia per la guerriglia, sia per le comunità che sono state sempre sottomesse. Molta gente preferiva che le Farc non smobilitassero: “Chi ci salverà poi?”. La popolazione non ha mai avuto fiducia nello stato perché ha solo conosciuto la repressione militare a causa di narcotraffico e guerriglia. Occorre un processo educativo».

Nel 2018 ci saranno le elezioni presidenziali. Cosa succederebbe se vincesse qualcuno contrario agli accordi?

«Se vincesse la destra potrebbe ostacolarli. Le Farc hanno avuto fiducia. Loro fanno i conti, sono strategici. Entreranno in politica e la sanno pure fare, sono abili a costruire le alleanze. Questi sono periodi in cui otterranno rappresentanti in camera e senato e punteranno a consolidare il partito».

Cosa vi aspettate dal viaggio del Papa, che verrà tra il 6 e l’11 settembre?

«Papa Francesco ci ha sempre invitati a fare un passo per costruire un paese riconciliato. Credo che se noi fossimo capaci di fare politica senza le armi, da entrambe le parti, sinistra e destra, potremmo farcela.

È un paese che ha bisogno di ricostruirsi, di costruire un concetto di nazionalità, con tutta questa ricchezza che ha, plurietnica e multiculturale. Penso che il papa ci spingerà verso una cultura dell’incontro, della fratellanza. Scoprire la grandezza del riconoscerci cittadini, compatrioti, avere un orizzonte comune, in un paese in cui possiamo stare bene tutti, andando oltre alle diseguaglianze. Il papa ci aiuterà a girare questa pagina dolorosa, tragica, macondiana (irreale, ndr) per essere una nazione sostenibile, progredendo in un livello di democrazia partecipativa, e costruzione del bene pubblico».

Marco Bello




Brasile: dal folclore cultura e vita


In un mondo dominato dalle tecnologie digitali, dove molti ragazzi trascorrono troppo tempo di fronte a smartphone o computer, un’esperienza che aiuti a riscoprire fiabe, storie, filastrocche e danze tradizionali è davvero contro corrente.

È quello che hanno vissuto per una settimana tra il 22 e il 26 agosto scorso i ragazzi del Kilombo do Kioiô, a Salvador de Bahia, Brasile, per celebrare la giornata nazionale del folclore popolare.

I ragazzi del Kilombo non sono diversi dai loro coetanei di tutto il mondo e tutto quello che è digitale li affascina rischiando di far dimenticare loro le tradizioni popolari del loro stesso paese e di sradicarli dalla propria cultura. Per questo il gruppo di educatori di sostegno scolastico del Kilombo hanno proposto ai ragazzi di riscoprire i giochi, le fiabe e le danze dei loro coetani dell’era predigitale.

Saltare la corda, ascoltare storie come quella della «Mula senza testa» o danzare il «Bumba meu boi» erano attività comuni dell’infanzia nata prima del 1990 in Brasile, ma i ragazzi del Kilombo le ignoravano o le avevano viste solo in televisione.

La parola folclore dice rispetto delle manifestazioni culturali di un popolo. Queste manifestazioni possono essere raccolte e catalogate in libri, ma diventano parte della vita soprattutto quando sono trasmesse da nonno a nipote, da padre a figlio, attraverso la tradizione orale e l’immersione totale. Tutto può essere folclore: dalle fiabe che la mamma racconta per far addormentare i figli al canto dei bambini che fanno il girotondo durante la ricreazione a scuola, dalle danze tradizionali degli schiavi africani alle leggende della foresta amazzonica che alimentano l’immaginazione popolare. Tutto questo è folclore. E ogni regione del Brasile ha le sue esperienze.

Per questo gli insegnanti e i volontari del Kilombo hanno cercato di valorizzare elementi tipici dei cinque angoli del Brasile. Dal Nord i bambini hanno preso dagli Indios le danze tipiche come il carimbò e la ciranda, e le leggende di Curupira, il bambino con i piedi girati indietro che protegge la foresta, del Boto, il delfino rosa del fiume che si trasforma in un bambino, e quella Mãe-D’água, la bella sirena.

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Dal Sud del Brasile sono state riprese la danza della chula e la festa dell’uva e di Nostra Signora dei naviganti, e la fiaba di Saci-pereré, un bambino nero con una gamba sola, che usa un cappuccio rosso (come quello dei nani di Biancaneve) e vive nella foresta.

Dal Sudest hanno appreso leggende come quella del Lobisomen, l’uomo che si trasforma in lupo durante la luna piena, e la storia della Mula-sem-cabeça, una donna trasformata in una mula che ha il fuoco al posto della testa e vaga per sette città.

Dalla regione centro Ovest hanno scoperto la folia de reis, una festa in onore dei Re magi che portarono doni a Gesù bambino.

Il Nordest, la regione in cui si trova il Kilombo, ha dato il frevo (danza acrobatica con ombrellino), il bumba-meu-boi (danza con maschere rappresentanti un bue), il maracatu (parate in costume) e le cirandas (danze cantate che si fanno danzando in cerchio), tutte manifestazioni che arricchiscono la cultura locale.

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Oltre ad ascoltare le leggende, hanno potuto anche fare disegni, cuocere cibi tipici, partecipare a scioglilingua come la trava lingua (ripetizione di parole complicate e di difficile pronuncia) e «obbedire» alla boça de foo, nella quale uno che comanda dà ordini divertenti che devono essere eseguiti.

Tutti questi momenti si sono certamente fissati nella mente dei ragazzi che hanno partecipato al programma di recupero scolastico. Queste memorie saranno conservate e trasmesse non soltanto per il bene degli amici o dei familiari, ma anche per le future generazioni e anche per la cultura stessa del Brasile. Così il folclore popolare continuerà a far parte della loro vita, anche in un mondo sempre più informatizzato.

Diniz Viera

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Radio la fatica diversi


Nata a Nueva Loja nel 1992, Radio Sucumbíos ha una forte connotazione sociale e interculturale. Dopo aver superato le difficoltà causate dai cambi e dalle incertezze nella direzione del Vicariato apostolico della locale provincia, oggi l’emittente è alle prese con una grave crisi economica. Come accade per molti altri media comunitari torna un dilemma: è possibile fare un lavoro informativo ed educativo al di fuori delle logiche mercantili?

Nueva Loja. A lato dell’entrata principale, davanti a un piccolo prato, campeggia un grande murale a colori con sette volti: ci sono quelli delle etnie native (Kichwa, Siekopai, Cofán, Shuar, Siona), un volto afro e uno in rappresentanza dei contadini meticci. Lo slogan dà il senso della filosofia e dell’obiettivo di Radio Sucumbíos: «Lavoriamo per l’interculturalità». L’emittente, nata su impulso di mons. Gonzalo López Marañón, carmelitano scalzo, al tempo Vicario apostolico dell’omonima provincia, ha visto la luce nel 1992. Era, quella, un’epoca in cui Sucumbíos aveva poche vie di comunicazione e i suoi abitanti – popoli indigeni e gente venuta da fuori – scarse possibilità di interazione.

Nel corso degli anni molto è cambiato. L’economia petrolifera ha trasformato – spesso in peggio – tutta la regione amazzonica. Oggi nella provincia ci sono una trentina di emittenti, ma Radio Sucumbíos copre un territorio più ampio delle concorrenti. Fa parte delle reti Aler e Corape, in cui confluiscono molte emittenti accomunate da tre caratteristiche: sono comunitarie, sono popolari, sono educative. Nel 2016 la radio del Vicariato ha compiuto 25 anni. Anni di soddisfazioni, ma anche di aspri conflitti.

Una radio inclusiva

A guidarci nella visita dei locali dell’emittente è Marilú Capa Galarza, giornalista, cornordinatrice del settore informativo e conduttrice del radiogiornale (El comunicador).

Marilú, che indossa una maglietta della radio, parla con coinvolgente entusiasmo. Ci conduce subito negli spazi dell’area giornalistica.

Su una grande lavagna sono segnati gli appuntamenti della settimana: la fiera dell’artigiano, il servizio trasporto sicuro, l’acqua potabile a Nueva Loja. Nella stanzetta a fianco un’altra lavagna riporta l’elenco delle interviste. Sulle sedie davanti ai computer sono appoggiati dei giubbotti a maniche corte con la scritta «prensa Sucumbíos» stampata sulle spalle. «Siamo 3 giornalisti fissi più altri due collaboratori dai vicini cantoni di Shushufindi e Orellana». Oggi a Radio Sucumbíos lavorano in tutto 14 persone, ma fino a pochi anni fa erano 23. Su una parete sono appese decine di foto e Marilú, con pazienza, ci racconta le più significative. «Questa radio – commenta – non appartiene a noi: è una radio della gente. Lo dimostra il fatto che in tutti i conflitti che abbiamo avuto la cittadinanza ci ha difesi». La nostra guida ci conduce quindi nel grande archivio storico: vi sono raccolti, in splendido ordine, dischi in vinile, Cd, Vhs, cassette, strumenti tecnici oramai datati.

Entriamo in una sala di registrazione dove sta lavorando Pilar Guaizo, conduttrice di Rostros y Rastros (volti e tracce), un programma del sabato. «Parliamo di personaggi della storia e persone di oggi che hanno fatto un lavoro importante nel campo dei diritti umani e della difesa ambientale. In sostanza, è una trasmissione educativa».

Passiamo in un altro studio dove si sta trasmettendo La trocha, un programma d’intrattenimento. Il conduttore, Miguel Angel Rosero, è un concentrato di energia ed entusiasmo.

Accanto alla consolle spicca un cartello in kichwa: «Allì Shamushka Kai Anki Sucumbiosma». «Benvenuti a Radio Sucumbíos», ci traduce Marilú. La ricerca dell’interculturalità è certamente un punto di merito dell’emittente di Nueva Loja.

Incontriamo German Tapuy, giovane indigeno di etnia kichwa che si occupa del programma in kichwa, trasmesso dal lunedì al sabato dalle 4 alle 5,30 del mattino. La sua trasmissione si chiama Jatarishunchik, che significa «Alziamoci». «Affronto gli argomenti più vari – ci spiega lui con un po’ di timidezza -. Tutto ciò che interessa le cinque nazionalità indigene che vivono in questa provincia».

Nel fine settimana c’è anche un programma destinato al popolo afro dal titolo di Voces y Jolgorio (voci e baldoria), condotto da Antonia Guerrero. «Anche se ci sono poche migliaia di afrodiscendenti, abbiamo deciso che era importante dare spazio anche a loro», spiega Marilú.

«Siamo una radio inclusiva», conferma Amado Chavez, direttore della programmazione. Che vuole anche ricordare il suo programma, Machetes y Garabatos: «Trattiamo argomenti molto pratici: coltivazioni agricole, allevamento, pescicoltura».

Per non essere come le altre

Victor Gómez Barragán è direttore di Radio Sucumbíos dal giugno del 2015. Tra la fine del 2010 e l’inizio del 2012, con il cambio alla guida del Vicariato, gli Araldi al posto dei Carmelitani scalzi (leggere riquadro a pag. 53), l’emittente è al centro di aspre polemiche che ne mettono in forse la stessa sopravvivenza. All’epoca Victor non era direttore, ma quelle vicende sono rimaste impresse nella sua mente.

«Gli Araldi volevano una radio che invece di seguire le marce contadine, le proteste civili, le manifestazioni popolari, le problematiche di genere seguisse soltanto le messe e trasmettesse soltanto preghiere. Senza cioè parlare di un Dio vivo che sta nei campi, accanto ai poveri e agli indigeni. Volevano licenziare tutto il personale e fare la radio con soltanto tre volontari».

L’emittente ha resistito, ma il prezzo pagato è stato molto alto. La contesa religiosa tra i Carmelitani (riuniti nel movimento Isamis) e gli Araldi si trasformò presto in lotta politica ed economica. Con schieramenti e divisioni, anche tra familiari e amici. «Molte di quelle ferite ancora adesso non sono rimarginate», ammette Victor, che oggi però ha altre preoccupazioni.

«Abbiamo sempre dovuto combattere – racconta – con le difficoltà economiche. Ma ora la situazione si è aggravata a causa della crisi che, a partire dal 2015, si è abbattuta sul paese. La prima conseguenza è stata la riduzione della pubblicità che proveniva dalle entità governative e dalle imprese private. Inoltre, essendo noi collocati in una zona petrolifera, a causa della caduta dei prezzi del greggio molte imprese locali hanno chiuso, il commercio è diminuito e con ciò anche gli investimenti pubblicitari».

In questo momento, confessa con visibile dispiacere Victor, l’emittente ha alcuni mesi di ritardo nel pagamento degli stipendi ai propri dipendenti.

«È diventato molto difficile sostenere un progetto di comunicazione come quello che offre Radio Sucumbíos. Se non arriverà l’appoggio di qualche entità non governativa, potremo sopravvivere soltanto riducendo il personale e i programmi. Questo non vogliamo che succeda perché ci trasformeremmo in una delle tante radio che offrono soltanto musica e qualche altro programma senza alcun interesse per le problematiche sociali e comunitarie».

E verrebbe meno il motto che ha guidato Radio Sucumbíos in questi suoi primi 25 anni di vita: fare un giornalismo con responsabilità sociale.

Quando occorre schierarsi

«Se c’è una perdita di petrolio, noi la denunciamo subito. Non abbiamo compromessi con il potere, sia esso quello politico che quello economico. Un mezzo di comunicazione non può sempre essere neutrale o imparziale. Quando c’è una violazione di un diritto umano, quando c’è un disastro ambientale, devi schierarti. E Radio Sucumbíos si è sempre schierata a fianco della gente, dei contadini, degli indigeni».

Paolo Moiola

(fine 7.a puntata – continua)