P come pace

testo di Gigi Anataloni, direttore di MC |


Ci sono 8.113 vocaboli che cominciano con la lettera «p» nel dizionario italiano. È un mondo di parole ricche di possibilità. Alcune sono indispensabili e parlano al cuore. La prima è Pace. Cominciamo ogni anno con la giornata per la pace (**). Una giornata che è preghiera, sospiro, speranza, ringraziamento e anche protesta. Preghiera, perché la vera pace si ottiene solo da Dio. Ringraziamento, perché la pace è un dono. Sospiro e speranza, perché richiede grande impegno, pazienza e perseveranza. Protesta, perché non si può stare zitti e passivi di fronte a chi, invece della pace, fomenta a tutti i costi la guerra. Guerre e conflitti insanguinano oltre 50 nazioni del mondo, soprattutto in Asia e in Africa, ma non solo. Intanto impinguano le casse dei potenti che, non contenti di produrre armi tradizionali, inventano e sfornano ordigni sempre più sofisticati e distruttivi in un’assurda corsa alla morte. Quante volte si può distruggere un pianeta? Di fronte a questa realtà occorre tirare fuori la parresia cristiana, una parola ben presente nel Nuovo Testamento per indicare il coraggio, l’audacia, la franchezza e la libertà di spirito del cristiano nel testimoniare e vivere la sua fede in colui che è la Parola di Vita e la vera pace del mondo.

La Parresia non manca certo a papa Francesco (***), il quale, tornando dal Giappone dopo la visita a Hiroshima e Nagasaki, ha detto parole chiare. «L’uso delle armi nucleari è immorale, […] e non solo l’uso, anche il possesso, perché un incidente o la pazzia di qualche governante, la pazzia di uno può distruggere l’umanità». Non so se avesse in mente qualcuno in particolare, ma a prescindere dal possesso o meno della bomba atomica, contiamo purtroppo un buon numero di governanti o capi popolo convinti che si ottiene di più con il potere autoritario e intimidatorio, con la guerra e il terrore che con il rispetto delle persone, l’impegno a eradicare povertà e ignoranza, a difendere i deboli, a custodire l’ambiente e a promuovere dialogo e giustizia. Altro che politica come servizio al bene comune e alle persone.

Persona, ecco un’altra parola importante che inizia con la «p». Avere la persona al centro e non il denaro, il potere, il prestigio. Persona e pace vanno insieme. Dove le persone sono calpestate, sfruttate, trafficate, discriminate, umiliate e mantenute nell’ignoranza, non ci può essere pace. Quando ci sono alcuni che si ritengono i «primi» sopra gli altri, non ci può essere giustizia. Quando si distruggono i ponti, si chiudono i porti e sbarrano le porte, non ci può essere pace. Ponti, porti e porte – realtà che implicano sempre due direzioni, una di entrata e una di uscita – sono comunicazione, apertura, incontro, accoglienza, tutti elementi indispensabili per costruire la pace.

Certo l’avventura della pace non è facile richiede poi un ultimo elemento essenziale: il Perdono, un’ultima parola iniziante con la «p» che non può essere dimenticata. Lasciarci perdonare e donare perdono è impegnativo perché cambia il nostro modo di relazionarci con noi stessi e con gli altri. Ci rende più umani o, forse, più divini, perché perdonare è amare e amare è «agire da Dio», essere «perfetti» come Lui, il Padre di tutti, perfetto e misericordioso.
Auguri e benedizioni per un 2020 di pace.

** Messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale della pace 2020

*** Vedi anche le «3P» di papa Francesco

P.S. Vedi l’editoriale (quasi simile) del novembre 2016 «Le tre P: pace, perdono, pazienza»


Haiti, 10 anni dal sisma

Il 12 gennaio 2010, alle 16,53, una potente scossa di terremoto devastò Port-au-Prince, la capitale di Haiti, e le città vicine. Le vittime non sono mai state contate, ma l’ordine di grandezza è 300mila. Fu una tragedia immane. Un punto di non ritorno per uno dei paesi più poveri del mondo.

Sembrava fosse arrivato il momento di rottura per far cambiare la sorte del paese, una specie di azzeramento, per ripartire su basi diverse.

Non fu così. Qualcuno, i soliti noti, ci mise lo zampino, bloccando ogni iniziativa di rinascita promossa dalla società civile.

Questo mese ricorrono i 10 anni da quell’evento. Ironia della sorte, oggi il paese sta attraversando la crisi socio-politica ed economica più grave degli ultimi tre lustri.

All’epoca MC pubblicò l’editoriale dal titolo «Alzati e cammina!», il cui incipit era: «Non esiste un altro posto così al mondo». Nel 2020 non ci siamo dimenticati di Haiti.

Torneremo presto a parlarvi di quel popolo straordinario, di chi ne ha impedito lo sviluppo, e della crisi attuale.

Intanto, il nostro ricordo va alle vittime, e ai loro cari.

Marco Bello




Battezzati e inviati

testo di Gigi Anataloni, direttore MC


Questo è il titolo del messaggio del papa per l’ottobre missionario di quest’anno (testo a p. 74). È un ottobre missionario speciale, non solo perché coincide con la celebrazione del Sinodo sull’Amazzonia che è atteso tra tante speranze e polemiche, ma anche perché in questa occasione «ho chiesto a tutta la Chiesa di vivere un tempo straordinario di missionarietà», scrive papa Francesco, per «rinnovare l’impegno missionario della Chiesa, riqualificare in senso evangelico la sua missione di annunciare e di portare al mondo la salvezza di Gesù Cristo, morto e risorto».

Provo a riflettere su queste due parole, battezzati e inviati, così ricche di significato.

Alcuni giovani, tra i molti che quest’estate sono stati in Africa nelle nostre missioni, sono rimasti scioccati dal sentirsi chiamare «missionari» dalla gente. Sentito una volta, potevano considerarlo uno sbaglio – in realtà nessuno di loro aveva mai pensato di dedicare tutta la vita alla Missione -, ma tante volte li ha fatti riflettere e non solo sul significato del loro essere in quell’angolo d’Africa, anche se solo per un mese, ma sul loro stesso modo di essere cristiani.

«Missionari» li ha definiti la gente, riconoscendo che non erano dei semplici turisti. Una verità profonda circa l’identità di ogni battezzato che, proprio perché tale, è immedesimato a Gesù e diventa partecipe della sua stessa missione di costruire un mondo secondo il progetto di giustizia di Dio.

Battezzati. Siamo talmente abituati a battesimi celebrati con poche gocce d’acqua versate sulla testa di un infante che stentiamo a ricordarci e assimilare il significato più profondo dell’essere «battezzati». Gesù «era angosciato» al pensiero del «battesimo nel quale sarò battezzato» (Lc 12,50), in continuità, ma più radicale di quello ricevuto quando Giovanni Battista l’aveva immerso nelle acque del Giordano, in un’esperienza di morte e rinascita solo simbolica. Il vero battesimo di Gesù è quello della morte in croce e sepoltura nel ventre della terra per resuscitare il terzo giorno. Essere battezzati, allora, non è semplicemente una formalità, è una scelta di vita. È scegliere tra il vivere secondo un modello di umanità centrato su avere, potere, successo, conformismo, interesse personale, e un altro stile di vita basato sulla legge dell’amore, dove l’io diventa noi e la mia felicità è far felice l’altro. È scegliere tra una vita secondo lo stile del padrone/boss e quella del servo/amministratore. È prendere posizione per contestare tutto quello che disumanizza: violenza, razzismo, volgarità, avidità, cupidigia, idolatria (cfr. Col 3,5-15) facendo scelte di pace, giustizia, sobrietà, accoglienza, solidarietà, rispetto, bellezza secondo lo stile per cui Gesù ha pagato con la sua stessa vita.

Inviati. Una parola tardo latina che vuol dire «essere mandati», essere sulla via, in movimento, in uscita. È sinonimo di apostolo e missionario. Solo che definirci apostoli ci spaventa, perché nessuno si sente all’altezza di Pietro e dei suoi compagni. Anche sentirci chiamare missionari ci mette a disagio, perché sembra una scelta troppo radicale che prende tutta la vita. È bello, invece, lasciarci provocare da questa parola che dà un senso profondo al nostro vivere quotidiano da discepoli di Gesù. Non siamo mandati come conquistatori ma come servi e come angeli (messaggeri), e «agnelli in mezzo ai lupi» (Lc 10,3), per essere «sale e luce» (Mt 5,13-14) e costruire un mondo nuovo di pace e amore secondo i criteri di giustizia (= la visione, il progetto, il sogno) di Dio stesso.

Siamo missionari con Gesù primo missionario, e con lui crediamo possibile dare forma a un mondo che sia quel giardino (paradiso) nel quale vivere la libertà e l’amore con se stessi e con gli altri (Gen 2,25) e da «puro di cuore» (Mt 5,8) passeggeremo con Dio (Gen 3,8) godendo la bellezza unica (Gen 1,31) del creato.

Il cammino in uscita è tutt’altro che una passeggiata, lo provano le centinaia di migliaia di cristiani martiri (lett. testimoni) del Vangelo anche oggi, battezzati nello stesso battesimo di Gesù, testimoni che pagano con la vita il loro credere in un mondo a misura di figli e figlie di Dio.




Faccia dura come pietra

Una moto rombante mi sveglia di soprassalto. Sono le 3 di notte. Nel silenzio per diversi minuti seguo le accelerate assordanti del superbiker che si dirige verso il cuore della città. Il sonno se n’è andato e mi domando che gusto ci sia a svegliare la gente così. Una bravata? Una scommessa con amici? Una dimostrazione di «onnipotenza» da postare sui social? Il grido di libertà di un paladino che non si lascia imbrigliare dalle regole di un perbenismo noioso?

Quale sia la risposta non lo so, la fantasia però mi spinge a immaginare il superbiker come uno che si ritiene il coraggioso contestatore di una società addormentata. Questo mi richiama altre immagini di eroi che spopolano nelle cronache quotidiane e sui social: ragazzi che si filmano mentre si prendono a botte in piazza, torturano un povero vecchio, terrorizzano un loro coetaneo, imbrattano muri, treni e monumenti, violentano compagne di classe, minacciano i loro insegnanti, saltano sui tetti, si fanno selfie in bilico sul vuoto, sfidano i divieti, pestano i migranti, rubano in un supermercato, bullizzano un senzatetto. Una lunga lista di oscenità, viste da alcuni come prove di «coraggio» e vissute come antidoto alla noia e al vuoto interiore.

Questi pensieri, poi, ne suggeriscono altri, ancora più cupi, che riguardano altri coraggiosi eroi, sprezzanti delle ipocrisie del politicamente corretto: quelli che dalle tribune politiche, o dai social, urlano di porti chiusi, «legittima» difesa, più armamenti, invasori da cacciare, difesa dei confini, prima gli italiani, Ong trafficanti di uomini, navi da demolire. Il tutto sulla testa del parlamento e della gente attraverso decreti d’urgenza sempre più aspri fatti circolare sui social (a beneficio dei «60 milioni» di fans) prima che nei documenti ufficiali del governo.

Ma queste cose non si devono pensare, né tanto meno scrivere su una rivista missionaria. «Vi siete svenduti alla sinistra? Cattocomunisti! Da quando in qua fate politica? Non sono affari che riguardano la missione. Guardate piuttosto alle vostre malefatte come Chiesa, all’Inquisizione, alle crociate, ai soldi del Vaticano. E i preti pedofili, e il papa eretico?» (per citare solo alcuni dei commenti più moderati che si trovano sui social).

Infine si intromette il Vangelo di Luca che ci sta accompagnando in questo anno 2019. Luca presenta Gesù che, dopo l’assassinio di Giovanni Battista, rende la sua faccia dura come pietra e comincia a marciare davanti ai suoi discepoli verso Gerusalemme dove sa che sarà «innalzato». I suoi sono convinti che «innalzato» significhi «portato in alto» (sulle spalle di schiavi) alla maniera dei grandi del tempo e secondo le aspettative popolari: per esprimere potere, autorità, prestigio, regalità, distruzione dei nemici. Lui invece è ben cosciente che il suo essere innalzato significherà andare sulla croce, come uno schiavo, un oggetto, e non come un uomo. Ancor meno come un re. Questo non lo ferma, anche se ne ha paura (vedi al Getsemani). Anzi, va avanti con più determinazione.

A quelli che desiderano seguirlo e che riescono a tenere il suo passo, non promette soldi, poltrone, privilegi, successo, popolarità, ma un «Dio vicino» in una vita sobria, essenziale, dura ed esigente, in una vita da nomade. Gesù educa i suoi a essere persone contente del «pane quotidiano», senza il peso e i legacci delle preoccupazioni, senza l’ansia per cose pur essenziali come la casa, il cibo, i vestiti. Vuole «angeli» (nel significato originale di messaggeri) la cui prima parola sia «pace a voi»: non l’annuncio di regole, riti, imposizioni, formalità, divieti, ma di gioia, festa, fraternità, bellezza, condivisione, comunione, amore reciproco, rispetto, accoglienza, perdono. Gesù cerca persone che lo seguano con coraggio e testimonino che Dio è amore e Padre di tutti, e ha un occhio di riguardo proprio per chi è disprezzato o ignorato da coloro che si ritengono «i buoni e giusti».

«Gli ultimi sono i primi»: non sono solo parole, ma una scelta di vita. Anche a costo di scandalizzare i «giusti», che per difendere il bene del popolo lo appendono alla croce.

Avere coraggio oggi non è fare le cose che raccolgono consensi, rendono popolari nel branco, fanno avere più voti, ma scegliere di stare dalla parte dell’uomo, «tutto» l’uomo, ogni uomo, perché uomo.


#ChiAmaVa è il claim scelto dall’equipe di comunicazione social della Fondazione Missio per il prossimo ottobre missionario. L’obiettivo della Campagna è di valorizzare il dinamismo della missione: chi ama si mette in movimento, è predisposto all’incontro e, come cristiano, trasmette la bellezza del Vangelo.



Puoi leggere o scaricare tutta la rivista in formato pdf. Clicca sull’immagine della copertina




Tutta colpa di…


testo di Gigi Anataloni, direttore di MC


Ne aveva fatte di tutti i colori quel giorno a scuola, tanto da farsi punire. Non semplicemente una sospensione, ma un buon numero di vergate di fronte a tutti dopo l’appello mattutino. Era poi venuto finalmente a parlarmi. «Che ti è preso?», gli ho chiesto. «Non lo so, ma non sono stato io. È stato il diavolo che me lo ha fatto fare».

È una storia di molti anni fa ormai, quasi una vita fa, quando ero nomade sulle piste del Nord del Kenya. Senza entrare nel merito della punizione corporale allora in uso in tutte le scuole, quello che mi interessa sottolineare ora è la scusa usata dal ragazzo per giustificare il suo comportamento: «Non sono stato io, ma il diavolo me lo ha fatto fare». Quando c’è di mezzo il diavolo, un poveraccio che può fare? Non è più lui il responsabile delle sue azioni.

I «poveri diavoli» di allora mi tornano in mente guardando a quanto succede oggi nel nostro bel paese. La caccia al colpevole sembra diventata uno sport nazionale. Le cose vanno male. Naturalmente «è colpa di…». Non mia, non nostra, ma colpa «loro», degli altri. In fondo, il diavoletto invocato allora dai «miei» ragazzi era una scusa su cui fare una bella risata, ma oggi non me la sento più di riderci sopra. Se qualcosa va storto non si cercano le cause, ma i colpevoli, i capri espiatori. E i colpevoli per antonomasia oggi sono i migranti (soprattutto se di pelle nera) e i rom che rubano il lavoro, le case, gli aiuti pubblici, la pace, la sicurezza, il buon nome.

Un paio di millenni fa, quando l’Italia era il «centro del mondo», non esisteva il problema dei migranti, ma si andava tranquillamente a conquistare altri paesi con guerra e razzie e si tornava a casa trionfanti con migliaia di schiavi esibiti come trofei e usati poi per coltivare i campi dei vincitori. E se per caso quei lavoratori stranieri avevano l’impertinenza di ribellarsi, ecco una bella crocifissione di massa come quella dopo la sconfitta di Spartaco: seimila crocifissi sulla via Appia tra Roma e Capua (uno ogni 30 metri circa), bel monito a chiunque osasse pensare che tutti gli uomini sono uguali.

Naturalmente i nostri antenati Romani non erano gli unici a pensarla così. Basta ricordare che il traffico di milioni di «migranti» dalle coste dell’Africa dell’Est verso la penisola arabica e il Golfo persico, iniziato da tempi immemorabili, non è mai finito (se si considera la libertà di cui godono le persone nella penisola). Per non essere da meno, noi europei (e cristiani) dell’età moderna, una volta «scoperta l’America» e capite le sue potenzialità economiche, ci siamo ben organizzati e abbiamo rifornito della necessaria manodopera, non proprio libera né volontaria, le nostre nuove colonie spogliando le coste dell’Africa dell’Ovest.

Ovvio, gli europei di oggi non hanno responsabilità delle cose fatte dai loro predecessori. Noi non siamo schiavisti come loro. Infatti, lo schiavismo di oggi non è colpa nostra, ma legge di mercato – per sopravvivere alla concorrenza -. Se oggi si trasferiscono le fabbriche in paesi dove i lavoratori costano meno e non hanno protezioni sindacali, e si riempiono i nostri campi di braccia fantasma controllate dai caporali, noi ci possiamo fare ben poco e, anzi, spesso diventiamo vittime a nostra volta. Se poi ci sono dei problemi, il sistema di sfruttamento ha una capacità di adattamento incredibile: giocando sull’indifferenza, sul bisogno, sulla lentezza delle istituzioni, sulla paura e sul potere della corruzione, si chiudono le tendopoli dei disgraziati, si fanno trasferimenti in massa, oppure si sistema il tutto con un bell’incendio. Non si risolve così anche il problema dei rifiuti?

Ritengo che ci sia bisogno che ciascuno prenda le sue responsabilità tenendo presenti alcuni punti che mi sembra dovrebbero essere ormai diventati chiari per tutti:

  • su questa terra o ci salviamo tutti insieme o nessuno si salva (il riscaldamento globale ne è un esempio: non si risolve costruendo isole per privilegiati, come non ci si salva dalla guerra atomica con i rifugi ma solo eliminando le atomiche e la guerra);
  • non ci sono persone di serie A e altre di serie B: ogni uomo ha la stessa dignità, gli stessi diritti, gli stessi doveri;
  • educazione, lavoro, casa, salute, pace e il poter stare a casa propria o il muoversi liberamente non sono privilegi di pochi, ma diritti di tutti; se uno non può avere tutto questo, o addirittura gli è impedito, è facile che cerchi strade alternative e violente per ottenerlo;
  • solo se si mette al centro la persona, ogni persona – non l’economia, il profitto e il potere -, si costruisce veramente un mondo «umano» dove ciascuno può vivere bene da «cittadino»;
  • scaricare le colpe delle proprie difficoltà e sofferenze su capri espiatori non risolve i problemi; aumentare la sofferenza degli altri non aumenta la nostra felicità;
  • la pace e l’armonia si costruiscono erigendo ponti, aprendo porte e creando relazioni paritarie, non innalzando muri e chiudendo porti.

 




Cari missionari, lettere a MC


Messaggi alienanti?

Gent. direttore
riportare su una rivista missionaria ciò che il sito Raiawadunia, curato dal comunista Montanaro (che ho letto anch’io), gestito da gente che non ha mai fatto niente per gli internati veri dei gulag sovietici, non quelli fasulli girati da blogger nigeriani guarda caso, è alienante. Se fosse vero che Scaroni ha dato tanti milioni per sondare l’esplorazione di greggio in Nigeria, perché il governo non li ha impiegati per far lavorare i maschi nigeriani? In fondo gli africani reclamano tasse per far usare il loro territorio alle multinazionali e questa non è una tassa? Uno stato è libero di chiamare chi vuole o lo devono fare solo le multinazionali americane e olandesi? Che il franco Cfa sia una convenzione vecchia lo sapevano solo gli addetti ai lavori e non le brave persone del parlamento europeo che hanno sfruttato e sfruttano l’Africa senza pagare nulla vedi Belgio nel Congo, ecc. Che questo giornale riduca la sua missione a scagliarsi contro questo governo lo trovo per nulla cristiano. Ogni stato ha diritto di accogliere chi vuole, inoltre con tutto il denaro che viene dato ai governi africani e le ricchezze del loro territorio, dovrebbero essere gli europei ad andare in Africa e non viceversa. L’Italia ha sempre avuto una sola grande ricchezza: la volontà di lavorare. E non dimentichiamo che il cristianesimo ha fondato l’Europa diventata lurida per colpa di atei, protestanti, calvinisti e banche e di finti cattolici che cadono nelle trappole dei relativisti. Riguardate le visioni di Leone XIII e le parole di Pio IX. Saluti.

Emiliano Errico
20/03/2019

Caro sig. Emiliano,
questo direttore o qualche giornalista di MC a volte segnalano su MC(e sullla sua pagina FB) anche degli articoli di Raiawadunia perché trovano che sono ben fatti e documentati. Grazie di avermi dato l’occasione di approfondire chi è Silvestro Montanaro che non conoscevo. I gulag della Libia non sono frutto della fantasia di blogger nigeriani, ma realtà ben documentate da rapporti dell’Onu e aggravatesi ancor prima di questo governo dopo la sciagurata campagna euroamericana contro Gheddafi interessata più a mantenere i nostri privilegi che al bene di quella gente.

I soldi che le multinazionali (petrolifere e non) investono in Africa putroppo non vanno nelle casse di quei paesi, ma nelle tasche dei corrotti per poter portare via a prezzi irrisori le materie prime che interessano al nostro sistema industriale e produttivo. È grazie a questa corruzione che si mantengono dittatori e oligarchie che rimpinguano le proprie casse a spese della loro gente e chiudono gli occhi di fronte ad abusi come smaltimento di rifiuti tossici, estrazione del petrolio e altre risorse energetiche, del coltan e altri minerali strategici (vedi articolo a pag. 12) , disboscamento dissennato di foreste e land grabbing. Questo rende possibile il furto sistematico di risorse strategiche pagate all’Africa «noccioline» in confronto al loro reale valore di mercato. Un esempio: il coltan sul mercato vale almeno 100$ al chilo, mentre ai minatori vanno solo 18 centesimi.

Questa rivista non si scaglia contro il governo, che rispetta come istituzione legittima e necessaria della nostra nazione. L’essere critici di comportamenti, decisioni ed esternazioni di alcuni dei nostri governanti fa parte del nostro diritto di cittadini di questo paese che, grazie a Dio, non è una dittatura ma una democrazia.

Che poi un paese abbia il diritto e dovere di vegliare su chi entra e chi esce, non è in discussione. È anche vero però che un paese non è isolato e come tale accetta tradizioni, usanze e leggi di valore universale codificate da trattati e convenzioni internazionali che sono fatte per proteggere le persone, non per dividere il mondo in buoni e cattivi, amici e nemici.

Denaro dato ai governi africani. Questo riporta a quanto già detto sopra per le multinazionali. Le statistiche dicono impietosamente che quanto abbiamo preso e prendiamo
(italiani, europei, americani, russi e cinesi) dall’Africa è molto ma molto di più di quello che diamo come contributo allo sviluppo, che spesso è ben al di sotto dei parametri che noi stessi ci siamo dati (dovrebbe essere almeno lo 0,7% del Pil di ogni paese; l’Italia dà il 0,26%). Basterebbe che pagassimo all’Africa il prezzo giusto delle materie prime che là prediamo e non ci sarebbe bisogno di alcun aiuto. In realtà oggi è l’Africa che aiuta noi e ci permette di mantenere il nostro livello di vita, e non noi che aiutiamo l’Africa.

Italiani grandi lavoratori. Non metto in discussione questo mantra. Probabilmente è stata questa voglia di lavorare che ha portato milioni di italiani a emigrare nelle Americhe e nei paesi del Nord Europa. O forse sono state anche le guerre. Cinque milioni sono emigrati dal Sud Italia dopo la cosiddetta unificazione. Milioni sono partiti dopo la vittoria della prima guerra mondiale. Altri milioni dopo la seconda. Oggi se ne vanno a decine di migliaia a causa della crisi economica che attanaglia il paese.

Non entro nel merito delle cosiddette radici cristiane dell’Europa, ma dopo papa Leone XIII e papa Pio IX abbiamo avuto molti altri papi e perfino un Concilio ecumenico.

Forse anche leggere criticamente Raiawadunia (che in swahili vuol dire «cittadino del mondo») può aiutare a disintossicarci da un’informazione a senso unico che ci lava il cervello e non ci aiuta a pensare.


Qualche riflessione

Buongiorno padre Gigi,
MC di marzo, appena ricevuto, mi offre l’opportunità di alcune riflessioni, nonché l’invio di un paio di testimonianze raccolte nel mio lungo peregrinare per il mondo alla ricerca di usi, costumi, tradizioni diverse, ma soprattutto di nuovi contatti umani.

Rinnovi e cancellazioni. Condivido pienamente il suo consiglio al signore che preferisce destinare i suoi aiuti a una fra le più conosciute (forse la più conosciuta) e reclamizzate Onlus. Nessuno mette in dubbio quanto questa organizzazione e altre che occupano stabilmente larghi spazi pubblicitari, facciano in positivo. Ma quando le percentuali sotto la voce «spese di rappresentanza» superano a volte il 70% qualche dubbio resta. E quando, viste le mie ripetute esperienze in terre di missione, qualcuno mi chiede consigli, rispondo di controllare sempre i bilanci (normalmente pubblicati) prima di dare il proprio contributo. Le spese non destinate all’obbietivo principale non dovrebbero mai superare il 15-20%.

Migrazioni, Viaggio della speranza.

Ho raccolto la testimonianza che riporto sotto in pieno deserto del Niger nel gennaio 2000 (19 anni fa), quando Gheddafi era ancora saldamente in sella e il sogno di una vita migliore in Europa era già diffuso nei paesi del Nord Africa, mentre da noi se ne parlava pochissimo. Per i politici italiani ed europei era un fenomeno irrilevante destinato a scomparire nel giro di poco tempo viste le difficoltà.

Come sempre, «avevano visto giusto».

© Mario Betrami

«Arriviamo in Libia, faccio un po’ di soldi e poi… via in Italia». Mi guarda e sorride Mohamed. Nei suoi occhi l’entusiasmo di chi sta per aprire un importante capitolo della sua vita, lasciando alle spalle un mondo che gli ha dato la vita, ma che non gli sa offrire i mezzi per continuarla. Dice di avere 18 anni, ma ne dimostra 16. Con lui, una trentina di giovani; suoi coetanei o poco più. Nei pressi, un vecchio autocarro di fabbricazione libica. È il loro Concorde, il loro treno, il loro autobus di linea.

Mohamed è uno dei tanti che lasciano l’Africa per il «viaggio della speranza». Lui è di qui. È nigerino. Ma, sulla pista che da Agadez porta a Bilma e a Dirkou, ne abbiamo incrociati parecchi di questi autocarri, sempre stracarichi, con giovani provenienti da altri stati di questa zona africana. Paesi anche non confinanti direttamente col Niger. Autocarri che, come autotrasportatori, fanno regolarmente la spola con la Libia. Mezzi già carichi di merce, su cui trovano posto 20-30 persone. In equilibrio precario. Appollaiate a grappoli. Aggrappate alle corde che reggono la merce, per non essere sbalzate fuori ogni 10 metri dalle enormi buche. In quelle condizioni viaggiano giorni e giorni. Allegramente. Senza lamentarsi. Tutto è accettato con filosofia africana, che non significa necessariamente rasse-
gnazione.

È solo un modo di vivere di chi, da generazioni, deve aspramente lottare per sopravvivere. Di chi ha la sofferenza come inseparabile compagna di viaggio. E non è che questa scomodissima tradotta venga regalata. È pagata profumatamente. La sola tratta Agadez-Libia costa circa 200mila lire (ca. 100 euro, ndr). E, per chi viene da altri paesi, la cifra è ben maggiore. Cifre spropositate per chi non ha di che vivere.

Arrivati in Libia, dicono, possono trovare qualcosa da fare. Ben pochi, però, hanno intenzione di fermarsi lì. La Libia sembra conceda una sorta di lasciapassare, di salvacondotto, per tentare poi il gran balzo verso l’Europa. L’Italia in particolare. Il paese dei loro sogni. La realizzazione dei loro progetti. La fine dei loro problemi.

È convinto Mohamed nel ribadirmelo in un più che accettabile francese. È l’unico del gruppo a parlarlo, anche se è la lingua ufficiale del Niger.

Stanno per ripartire. Non ho il coraggio di dirgli che, in Italia, le cose non stanno proprio così. Che non è così facile. Soprattutto per chi entra come clandestino. Sarebbe inutile. Sicuramente, non mi crederebbe. E, in ogni caso, il peggio che troverà da noi, potrebbe essere molto meglio di ciò che lascia qui.

Mario Beltrami
19/03/2019


Populismo?

Carissimo padre
ho letto il suo editoriale (agosto-settembre 2018) e sono molto perplesso sul suo contenuto.

Sono Veneto, faccio l’imprenditore, sono sposato con due figli. La nostra terra è sempre stata generosa, qui accogliamo tutti, non c’è alcun populismo, nessuna violenza o traccia di razzismo nei confronti delle persone di colore o verso altri extracomunitari. Anzi loro stessi si sono inseriti nella nostra cultura e sono sul libro paga di molti imprenditori come me che li pagano per il lavoro che fanno. Certo, ci sarà qualcuno che li sfrutta, spero pochissimi. Come facciamo a essere sicuri che tutti i nostri conterranei siano onesti? Se non lo sono non sarà certo per il colore della pelle, la disonestà non guarda al colore della pelle.

Il Veneto è una terra amministrata bene, che insieme alla Lombardia e al Piemonte ha contribuito a fare dell’Italia quella che è, un paese moderno per cui rammarica sentir parlare di populismo perché sappiamo che si parla di partiti politici fortemente radicati qui.

Ma le ripeto, il Veneto è amministrato bene, la sanità funziona, i trasporti funzionano, non è questo quello per cui aleggiano i politici? Venga qui da noi, a parte certe zone di degrado a Padova zona stazione, gli immigrati sono accolti, lavorano, pagano le tasse.

Detto questo, di cosa stiamo parlando quando si parla di populismo? Scandire con fermezza diritti e doveri non è il dovere di ogni buon padrone di casa? A presto

Carraro Francesco
08/03/2019

Caro sig. Carraro,
sono andato a rileggermi l’editoriale che lei cita.

    • Non ho accusato nessuna regione italiana né in particolare né in generale, anche se mi dispiace che proprio nelle regioni in cui sono nato e vissuto, oggi la voce più grossa la faccia una minoranza xenofoba nel silenzio di una maggioranza sana e generosa, ma confusa e un po’ impaurita.
    • Ho un grande rispetto e stima per chi si guadagna il pane col sudore della fronte e pratica la giustizia tirando avanti la carretta con fedeltà, amore e compassione nonostante le difficoltà. Sono queste le persone che rendono bella l’Italia.
    • Quanto alla maggiore o minore simpatia per questo governo, è chiaro che non condivido un modo di governare che si legittima con l’uso smodato di social, che è perennemente in campagna elettorale e usa un linguaggio perlomeno discutibile se non incitatore di odio e discriminazioni. Plaudo a quegli amministratori – come il sindaco di Riace – che davvero hanno a cuore il bene comune, sono attenti all’ambiente, a ogni persona e in particolare ai gruppi più deboli.
    • Scandire con fermezza diritti e doveri è più che giusto. Ma è sicuro che tutti i doveri siano davvero rispettati, anche quelli più onerosi, o invece si applicano solo quelli che fanno più comodo?
    • È vero che la disonestà non guarda il colore della pelle, ma spesso nei media questo è dimenticato e le persone vengono trattate con pesi e misure diverse. Prostituzione, caporalato, consumo di droga, abusi edilizi, evasione delle tasse, inquinamento dell’ambiente, corruzione… sono tutte «cose nostre», non ce le hanno portate i migranti che piuttosto ne sono diventati vittime o capri espiatori.

Non solo perdenti

Carissimo direttore,
ho letto con molto piacere su MC di marzo 2019, «4 chiacchiere con i perdenti» che mi ha stimolato ad inviare questi pensieri per richiamare il valore della memoria storica. Da sempre ne sono un cultore, non tanto per essere diventato «vecchio», ma perché nella memoria, come ricorda papa Francesco, ci sono le radici della nostra fede. Detto questo, voglio sottolineare perché mi ha molto colpito il suddetto articolo. Nel rileggere in questo periodo quaresimale un vecchio libro, «Vivere in Cristo» di Mario Corti S.J. (Edizioni La Civiltà Cattolica, 31/12/1951) nel capitolo «La preghiera è infallibile», a pag. 193 si legge: «Il 17 marzo 1649 tra torture inaudite, S. Gabriele Lallemant S.J., a trentanove anni, consumava l’olocausto della sua vita col martirio nel Canada. Appena caduto in terra, sfigurato con il capo spezzato dall’ultimo colpo di scure, un selvaggio gli spaccò il petto, ne estrasse il cuore palpitante, ne sorbì il sangue e lo divorò, certo di appropriarsi così dell’eroico coraggio del martire». Segue poi la descrizione del martirio così come è riportato fedelmente in MC da don Mario Bandera. Ecco, ho pensato «queste sono più di 4 chiacchiere con i perdenti», e non è solo pura coincidenza se ritroviamo, dopo quasi 70 anni, in un libro pur datato in molte parti per ragioni storiche (in quanto scritto prima del Concilio Vaticano II) dove viene richiamato il valore della preghiera. In questo senso richiamo il valore della memoria storica che ritrovo con piacere in «4 chiacchiere con i perdenti». Chiudo con un augurio a tutti i missionari ed un ringraziamento per don Paolo Farinella.

Pino Cadiani
28/03/2019


Mozambico: Ricardo

Il signor Ricardo è seduto in un angolo all’ombra, nella «Scuola industriale» di Tete, dove con sua moglie e i suoi 5 figli è alloggiato alla meglio con le altre 656 famiglie dopo la grave alluvione che ha colpito la nostra città di Tete, e i comuni di Doa, Mutarara, Angonia, Ikondezi. Ricardo aspetta che i funzionari della protezione civile distribuiscano il pranzo. Dopo una timida presentazione mi parla di sé e della sua storia.

Il suo terreno è lontano dal letto del fiume. Lo ha comprato e il comune lo ha autorizzato a costruire. La sua casa in mattoni aveva tre stanze e una sala grande, costruita con sudore e amore. Lui se la cava come falegname e idraulico. I bambini sono piccoli, il più grande frequenta la 6ª elementare, e la più piccola ha appena 5 giorni: è riuscito a portarli via dalla furia delle acque uno per uno, addormentati. Mezz’ora dopo ha visto la casa cadere, muro per muro, e le sue cose sparire sott’acqua. Letti, vestiti, cucina, frigorifero, sedie… tutto. «Non so come farò nel futuro».

Il caso di Ricardo è simile a quelli di centinaia di famiglie nella nostra diocesi di Tete, che ancora non sanno come e cosa faranno per alzarsi da questa tremenda disgrazia. Alcuni sono tornati alle loro terre, alloggiati in tende, altri ancora nella Scuola industriale; tutti aspettano che il governo assegni loro un terreno in un luogo più sicuro, ma con il timore si essere portati lontano da scuole e ambulatori.

Tutto è iniziato nella notte tra il 7 l’8 di marzo scorso. Le abbondanti piogge cadute nei comuni dell’altopiano di Tsangano e Angónia, dove hanno distrutto campi, villaggi, scuole e sei chiese, si sono riversate sul fiume Rowubwe, a marzo normalmente secco e senza un filo d’acqua. Il Rowubwe, non riuscendo a defluire nel fiume Zambesi già in piena, ha invaso  in poco tempo villaggi e campi, in un crescendo violento e drammatico.

Si parla di una trentina di morti accertati, ma anche di decine di dispersi. Resta ancora da sapere con esattezza la situazione dei comuni di Doa e Mutarara ancora coperti dalle acque, e dove l’accesso per strada è impossibile.

Dopo appena una settimana, le regioni del centro del Mozambico hanno vissuto un dramma ancora peggiore.

Il ciclone Idai (Idai è un nome di ragazza in Hindi, significa svegliarsi o amore, ndr) formatosi nel Canale del Mozambico, con una velocità fino a 220 Km/h ha raso al suolo la grande città di Beira, la città di Dondo, e centinaia di paesi e villaggi, e tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Pioggia e venti hanno devastato il centro del paese. Una vera catastrofe per ambiente, persone e strutture.
Una intera regione sommersa dall’acqua. Manca energia elettrica, comunicazioni telefoniche, acqua potabile. Strade interrotte. Villaggi isolati e sommersi. Scuole, ospedali, chiese, fabbriche, università… nulla è rimasto in piedi. Morti? Più di mille. Il colera ne sta mietendo altri.

In mezzo a tanta sofferenza, il paese intero, dal presidente all’ultimo cittadino, vive un momento di bellissima solidarietà. Aiuti da tutte le parti stanno arrivando a Beira perché non manchino cibo, acqua  e il necessario finché le cose possano tornare se non come prima, almeno vivibili e dignitose.

Padre Sandro Faedi,
amministratore apostolico di Tete

 




Franchezza


È una qualità tipica del cristiano che mi ha sempre affascinato. È sintetizzata nella parola greca parresia che ricorre più di trenta volte nel Nuovo Testamento (soprattutto in Giovanni, Atti degli Apostoli e Lettera agli Ebrei) ed è riferita sia a Gesù che ai suoi discepoli. Letteralmente vuol dire «libertà di dire tutto», con sfumature che vanno dall’imperturbabilità alla sincerità, con il rischio della sfacciataggine e dell’impertinenza e con i pregi della confidenza e della letizia.
Declinata come verbo indica il «parlare apertamente con coraggio» e l’«avere fiducia». Applicata a Gesù vuol dire che lui si esprime, soprattutto con i suoi discepoli, apertamente e senza sottintesi. Mentre gli Atti degli Apostoli presentano continuamente Pietro, Paolo e altri che annunciano con audace franchezza e senza paura le opere di Dio, senza lasciarsi intimorire da opposizioni, minacce, botte e carceri.

A inizio febbraio scorso, abbiamo avuto un assaggio della franchezza cristiana. Papa Francesco, durante il viaggio negli Emirati Arabi Uniti, ha incontrato il mondo islamico ottocento anni dopo l’incontro di san Francesco con il Sultano. Insieme all’imam Ahmad Al-Tayyeb di Al-Azhar, l’università del Cairo che è punto di riferimento per l’Islam sunnita, il papa ha
lanciato un documento di grande umiltà e coraggio che interpella ogni uomo in quanto membro della famiglia umana e cittadino del mondo.

Il documento affronta tutti i temi caldi che fanno soffrire l’umanità di oggi. Fa sue le speranze dei poveri, dei piccoli, degli ultimi, di ogni uomo in quanto uomo. Difende con passione questo nostro mondo minacciato da avidità, inquinamento e guerre. E fa un’operazione essenziale: rimette Dio al centro per aiutare l’uomo a ritrovare la sua identità più profonda e indicargli la modalità «bella»
di relazionarsi agli altri (praticando pace, giustizia, libertà, rispetto, compassione) e al creato (da «giardiniere» e non da padrone).

Il documento restituisce a Dio il suo volto più vero: quello del Dio misericordioso. È un «franco» rifiuto del Dio violento e intollerante dei fondamentalisti, di quello indifferente, pigro e godereccio dei materialisti, di quello tutto precetti, riti e incensi dei tradizionalisti.

«Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia -, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere*».

È «in nome di Dio» che «tutti gli esseri umani (sono) uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e (sono) chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace*».

Ed è «in nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere*». Da qui scaturisce la difesa dei «poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati*»; «degli orfani, delle vedove,
dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra
e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna*».

La franchezza di Francesco, capace di riconoscere con umile realismo gli errori della Chiesa e dei cristiani, gli permette di condividere con l’imam affermazioni forti che declinano il vero volto di Dio. Impariamo da Francesco, sia il santo che il papa, la franchezza che ci appartiene come figli e figlie di Dio, un Dio che ha rivelato il suo volto di amore e misericordia nell’incarnazione, passione, morte e risurrezione di Gesù.

Franchezza e Francesco, vengono dalla stessa radice: «franco», il nome di un popolo (quello dei Franchi) orgoglioso della sua libertà. Ma la nostra franchezza/parresia non è frutto di politica e di guerre. È un dono, fa parte della nostra identità profonda: in Gesù noi siamo davvero il popolo dei «Franchi», perchè liberati dalla schiavitù del peccato (che è tutto quello che disumanizza) possiamo vivere la libertà dell’essere figli e figlie di Dio, uomini creati a «sua immagine» e da Lui amati.

Per questo non permettiamo ad alcuno di zittire la nostra coscienza, di manipolarci con paure alimentate ad arte, di farci svendere la nostra umanità con false promesse di sicurezza, benessere
e privilegi. Mors tua vita mea (la tua morte è la mia vita), dice un proverbio. Invece noi diciamo: vita tua vita mea, cioè: «Chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera*».


(*) Citazione dal documento Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi – 4 febbraio 2019.




Caro Gesù bambino


Testo di Gigi Anataloni


Mi fa effetto scriverti una letterina di Natale, adesso che ho i capelli grigi. Non l’ho mai fatto, neppure da piccolo. Dalle mie parti, allora, si preferiva santa Lucia. E non occorreva neanche scrivere, bastava un po’ di crusca per il suo asinello. Oggi invece i bambini scrivono (o messaggiano) a Babbo Natale, alla Befana, a san Nicola, a santa Lucia… Allora è venuta anche a me la voglia di scriverti.

Caro Gesù bambino, mi hai proprio fatto una bella sorpresa. Sono venuto a cercarti perché mi avevano detto che eri nato in una stalla mentre i tuoi erano in viaggio, ti facevano dormire in una mangiatornia e non avevi il necessario. Un po’ sconsiderati i tuoi genitori a muoversi in quelle condizioni, anche se lo so che, poveracci, non avevano avuto scelta.

Trovarti è stato facile. C’era un sacco di gente là fuori. Ma non capivo bene. Oltre a quelli del villaggio c’erano storpi, zoppi, ciechi, sordi, poveri, bambini, pastori nomadi e stranieri: entravano da te con la faccia di circostanza e poi tutti uscivano con un sorriso radioso. Addirittura, c’erano dei poveracci che venivano fuori con un bel pane in mano e anche una schiacciata di fichi. E facevano festa lì fuori, davanti alla casa, come vecchi amici attorno al fuoco. Mi è venuto il dubbio di aver sbagliato posto.

Dopo un po’, sono riuscito a entrare anch’io. Non dalla porta principale, ma da quella che scendeva nella stalla sotto la casa. Il posto era spazioso, ma non grande. In un angolo, legati alla mangiatornia, c’erano una mucca e un asino, anzi due, e un solo basto attaccato a un piolo sulla parete. In un piccolo recinto alcuni agnelli e un vitellino dormivano tranquilli. C’era un uomo indaffarato a rifinire quello che sembrava un giogo per buoi. Accanto a lui, una donna era seduta sull’altro basto intenta a sistemare un cesto, non uno qualsiasi, ma quello da mettere sulla schiena dell’asino per portare il cibo per il viaggio, pane soprattutto, quello d’orzo dei poveri. Che la donna stesse preparando la cena? Ho guardato meglio. Nel cesto non c’era il pane, ma un bambino che dormiva tranquillo ben avvolto in un mantello, quello del papà. Finalmente, ti avevo trovato.

Mi sono avvicinato, con le mani piene delle cose che ti avevo portato per mostrare a tutti la mia generosità. Ho cercato l’attenzione di tua madre. Mi ha salutato sì, ma senza interesse per quello che avevo in mano. Sembrava avere occhi solo per te. Era evidente che ti amava. Ti mangiava con gli occhi, accarezzandoti piano.

In quel momento tu hai aperto gli occhi. Mi hai guardato e mi hai sorriso come se mi conoscessi da sempre e stessi aspettando proprio me. Non so che mi è successo allora. Posata la roba, sono caduto sulle ginocchia. Occhi negli occhi, ti ho guardato, anzi, mi sono lasciato guardare, dentro. Una dolcezza e una gioia grande mi hanno invaso. Ero venuto per accoglierti e far sfoggio di me. Invece sei stato tu che hai accolto me e mi hai fatto sentire atteso, amato, importante per te.
Ho capito allora il perché della festa che c’era là fuori, la gioia e la danza, la fraternità e l’incontro. Ero venuto a cercarti e ho scoperto che, invece, eri tu che cercavi me. Ero venuto per accoglierti e sono invece stato accolto; per darti le mie cose e hai preso il mio cuore. E quando sono uscito, mi sono unito alla festa, danzando attorno al fuoco, per condividere con tutti gli altri, non più sconosciuti e forestieri, la bellezza dell’essere amati da te.

Caro Gesù, scusa la mia storia di fantasia. In essa c’è una verità che rimane: che tu sei venuto a cercarmi e mi hai amato per primo. Non solo me, ma ogni uomo, indistintamente, anzi, personalmente. E questo è bello e continua a essere una Parola di speranza e di vita oggi per ciascuno. La tua fiducia in noi diventa la nostra fiducia negli altri, perché tu ci ami tutti come se ognuno fosse l’unico. La fiducia reciproca è una di quelle cose di cui abbiamo più bisogno, tentati come siamo di costruire muri, piantare paletti, etichettare, distinguere tra «noi e loro», imporre dei «prima» … «Non c’è pace senza fiducia reciproca», scrive Francesco nel messaggio per la giornata della pace che si celebra il prossimo primo gennaio. «Pace [che è] come la buona notizia di un futuro dove ogni vivente verrà considerato nella sua dignità e nei suoi diritti».

Venendo tra noi, tu ci hai già considerati degni del tuo amore, riconosciuti nella nostra dignità di figli e figlie di Dio. La mia preghiera è che possiamo imparare da te a trattarci gli uni gli altri come fai tu con noi. Grazie perché continui a guardarci con amore.




Sorella morte


Così san Francesco chiamava la morte, sorella. Come ha chiamato sorella l’acqua, ma mentre le sue parole sull’acqua, sul sole e la natura sono diventare patrimonio comune, immortalate in bellissimi canti, la sua affettuosa familiarità con la morte non ha fatto presa. La morte è più matrigna cattiva che sorella. Eppure la morte è parte del vivere.
Un giorno, una signora che ha fatto l’ostetrica per tutta la vita, mi ha raccontato che alla prima lezione di ostetricia l’insegnante aveva detto: «Ricordatevi che si nasce per morire». Non se l’aspettava, perché era là per imparare ad accogliere la vita, ma con quella frase l’insegnate aveva, quasi banalmente, collocato la morte al suo posto naturale.

Non sono in vena di pensieri tristi, anche se novembre è associato alla morte e alla visita ai cimiteri, ma oggi il pensiero della morte non mi dà né tristezza né ansia. Anzi, al contrario, il pensiero della morte mi stimola a vivere meglio e con maggiore intensità una vita degna di questo nome.

Ogni momento come se fosse il primo, ogni momento come se fosse l’ultimo. Con intensità e scopo, senza ansia o frenesia. Gustandolo, perché «ora» è il momento più bello possibile. Senza sprecare tempo nell’attesa del giorno fortunato, dell’occasione, della situazione ideale. Questo momento è un dono unico. È un dono, non un peso, da vivere facendo le «opere belle» che rendono gloria a Dio (cfr. Mt 5,16), scegliendo cioè «tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode» (Fil 4,8). Vivere al massimo, ora, senza aspettare domani, prepara a morire per andare nelle «buone mani» di Dio. Mani sulle quali è scritto il mio nome.

Sorella morte, grazie perché sei un invito a vivere. E a vivere «bene» e in «bellezza». Anche se non è facile. Ci sono giorni di grande fatica in cui sembra che il sole non sorga. Giorni in cui ti guardi intorno e vedi gente senza gioia vivere con aggressività, con atteggiamenti autolesionisti, senza amore, senza un sorriso, senza speranza. Gente incapace di guardare in alto, presa com’è dai suoi traffici, dai suoi interessi, dalle sue paure. E ti sembra che i tuoi sforzi «per un mondo migliore» siano inutili. Ti domandi «chi me lo fa fare?». Ti verrebbe la voglia di chiuderti in te stesso, di smetterla di preoccuparti per gli altri, eterno Don Chisciotte che lotta contro «i mulini a vento». E senti forte il peso della solitudine.

Ma tutto cambia se proprio nei giorni bui incontri un volto sorridente e una faccia amica, se hai attorno a te persone che condividono i tuoi stessi sogni, un gruppo, una comunità di fede e di amore che guarda nella stessa direzione.

Avere una comunità che ascolta la stessa Parola, celebra la stessa Speranza, vive la stessa Carità, brucia della stessa Fede. Con la quale ridere e piangere, pregare e amare, lottare e sognare. Che ti carica sulle spalle quando sei stanco o quando cadi e ti chiede il meglio di te quando sei forte. Una comunità dove si cammina insieme e ognuno dona quello che è, senza arrivismi e competizioni. Un «popolo» che fa esperienza di esodo passando dall’essere un branco di «belve» a una famiglia di «uomini».

Tutto cambia quando incontri una comunità che è Chiesa, una Chiesa che è comunità.

Sorella morte, quanto vorrei che tu fossi per ciascuno di noi una vera maestra di vita, e non, come succede spesso, una scusa per diventare egoisti, attaccati alle nostre cose, arroccati nel nostro io, timorosi di tutti, chiusi nel nostro «particolare». Insegnaci a vivere con intensità e amore ogni attimo, qui e ora, costruendo relazioni di fraternità con chi cammina con noi, accettando la nostra debolezza e quella degli altri, costruendo ponti e abbattendo muri e barriere, curando questa casa che ci è stata affidata perché sia il posto sempre più bello in cui vivere insieme nell’attesa.
Aiutaci ad essere pronti a nascere alla Vita. Tu che sei la porta della luce, facci entrare nel giardino di pace e armonia nel quale, carichi solo dell’amore donato, come bambini finalmente ci buttiamo nelle braccia del Padre che tanto ci ama e ha preparato per noi la festa più bella.




Chi non è contro di noi è per noi

C’è una scena interessante nel Vangelo di Marco: Gesù, per la seconda volta, cerca di far capire ai suoi discepoli che sta andando a Gerusalemme per essere ammazzato, e non per diventare re, come loro vorrebbero. Ma i discepoli non lo ascoltano. Anzi, discutono su come spartirsi il potere. E, già che ci sono, vogliono anche liberarsi da possibili concorrenti, per non perdere l’esclusiva. Giovanni e gli altri, infatti, cercano di fermare un tale che sta «scacciando i demòni» nel nome di Gesù senza essere del loro gruppo: non è «dei nostri»! Gesù però li sorprende: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,38-41).

Quella di Gesù nel brano di Marco 9 è una risposta che spiazza. Noi, di solito, preferiamo quella riportata da Matteo, simile ma opposta: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12.30), anche se, in Matteo, Gesù dice questa frase in un contesto del tutto diverso, parlando di lotta contro il male.

Marco ci presenta un tale che sta aiutando delle persone che vivono in situazioni disumanizzanti. Uno che, nel nome di Gesù, vuole ricondurli alla loro umanità. «Non è dei nostri», dicono i discepoli. Gesù però oppone alla categoria dei «diritti d’autore» e del monopolio, il dato di fatto che il bene, il bello, il giusto e il vero hanno una sola sorgente: Dio. E in Dio sono patrimonio di tutta l’umanità, di ogni uomo, anche fuori della cerchia dei discepoli, anche fuori della Chiesa, come ci insegna il Vaticano II. Nessun uomo, organizzazione, chiesa, partito o stato può vantare la proprietà o il brevetto del bene, così come a nessuno appartiene l’esclusiva del male che, infatti, serpeggia anche tra i discepoli.

Gesù ci insegna a guardare al bene attorno a noi senza gelosie e pretese di esclusiva, a saper riconoscere la mano e la presenza di Dio in ogni realtà positiva, in ogni persona, cultura, religione. Dove c’è bene e bellezza, giustizia e verità, dove si realizzano autentiche esperienze di umanizzazione, lì c’è Dio, perché l’amore di Dio, il suo Soffio di Vita, non si lascia ingabbiare e soffia dove, come e quando vuole (cfr. Gv 3,8).

Trovo questo detto di Gesù particolarmente attuale oggi, perché è un buon antidoto contro il fondamentalismo e la tentazione di ritenere di avere il monopolio del bene. Cose buone e giuste vengono dette e fatte anche da chi non crede in Gesù. Non ci sarebbe la missione senza queste parole di Gesù, perché uno dei primi doveri di un missionario è proprio quello di riconoscere i «semi di Verbo» (cfr. Ad Gentes 11b) e i «segni dei tempi» nelle più disparate realtà umane e culturali incontrate ai quattro angoli del mondo e anche nelle nostre società complesse dell’Occidente.

Per me è sempre stato motivo di grande gioia rendermi conto che l’azione di Dio mi ha sempre preceduto e mi ha fatto scoprire luoghi di bellezza incomparabile e incontrare persone «giuste» e innamorate di Dio anche nei posti più impensabili.

Credere in queste parole di Gesù è anche un disintossicante per chi vive la crisi del nostro tempo che spinge molti a credere che la nostra religione, la nostra cultura, il nostro modo di vivere sono i «migliori», mentre degli «altri» bisogna diffidare. «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?», chiedeva Natanaele (Gv 1,46) chiuso nel suo pregiudizio che solo l’incontro con Gesù ha dissolto.

Questa attitudine a riconoscere che l’azione di Dio ci precede e non ha confini e che ogni uomo – perché è immagine di Dio – è capace di bene, non significa avere poca stima di sé e della propria fede o pensare che tutto quello che è «altro» sia meglio. È piuttosto il saper riconoscere che la misura di tutto non sono «io», ma «Dio». Qualsiasi atto bello e vero, anche se compiuto da un ateo o da uno di un’altra cultura o religione o tendenza politica, è sempre dono di Dio, in Lui ha la sua sorgente: «Tutto coopera al bene di quelli che amano Dio» (Rm 8, 28) e «respirano» il suo Spirito.




Pazienza e missione

Editoriale su Pazienza e missione di Gigi Anataloni, direttore di MC |


All’inizio di maggio, il 4, parlando a braccio a «frati e suore» riuniti in un convegno internazionale di Istituti di vita consacrata e di Società di vita apostolica, Francesco, nostro amato papa, ha condiviso con loro la logica delle «tre p»: «Queste sono colonne che rimangono, che sono permanenti nella vita consacrata. La preghiera, la povertà e la pazienza».

Il nostro superiore ha invitato i miei confratelli e me a leggere e meditare quel discorso soprattutto perché tra fine maggio e inizio giugno ci incontriamo per una settimana allo scopo di decidere il nostro piano d’azione per i prossimi anni qui in Italia. Un’impresa non facile tenendo conto delle nostre forze, della nostra età e di questo nostro tempo tutt’altro che entusiasticamente cristiano.

Non entro nel merito della «p come preghiera», anche se è la chiave di volta di tutto (è il «prima santi» del nostro beato Allamano). Sulla «p come povertà» noto che la «povertà» che pesa di più è l’invecchiamento generale del nostro istituto in Italia e la mancanza di ricambio generazionale. Vedersi invecchiare senza avere qualcuno a cui passare il testimone è la cosa che pesa di più e sconvolge. Tutti noi, tanti anni fa, siamo partiti da una Chiesa italiana vibrante e piena di vitalità per andare ai quattro angoli del mondo dove abbiamo sperimentato la gioia dell’annuncio del Vangelo, affascinati e meravigliati dall’incredibile azione dello Spirito nei posti più remoti e improbabili. Siamo rientrati in Italia, spesso perché acciaccati, e abbiamo trovato seminari chiusi, parrocchie accorpate e chiese vuote in un paese dove edifici e opere cristiane diventano reperti da Ministero dei Beni culturali e l’essere e il pensare cristiani tendono a essere sempre più relegati nel più stretto ambito privato e le tradizioni cristiane sono o fagocitate dalla logica del mercato (vedi Natale) o addirittura impedite nella loro manifestazione pubblica in nome del pluralismo. Uno shock tremendo, da indurre a chiedere a noi stessi: «Ma abbiamo sbagliato tutto»? Se non fosse che il sistema sanitario italiano – a dispetto delle molte critiche che si fanno – è tra i migliori, la tentazione sarebbe quella di abbandonare il paese e andare a morire là dove abbiamo lasciato il nostro cuore e ci sono tanti giovani missionari che hanno voglia di partire verso le frontiere più remote del mondo.

Un passaggio del discorso di Francesco mi ha colpito: quello del «p come pazienza», soprattutto laddove il papa sottolinea che la pazienza va mano nella mano con la speranza. Tutt’altro che rassegnazione e tristezza, quindi. Tutt’altro che arrendersi all’ineluttabile. La pazienza, alimentata dalla speranza, è forza per costruire il futuro. Non solo, è soprattutto capacità di vedere che il futuro si sta costruendo nonostante le nostre debolezze e contraddizioni, perché c’è Qualcuno che lo crea in modo imprevedibile e sorprendente.

In sé, il papa non ha detto niente di nuovo. Questo tipo di pazienza è radicato nella tradizione cristiana. Noi preti e missionari dovremmo saperlo bene. Eppure, almeno per me, le parole di Francesco hanno avuto un sapore nuovo e quanto mai attuale. Suonano come un campanello d’allarme e una provocazione per noi missionari italiani tentati dalla rassegnazione e paghi di prepararsi a morire bene e nel modo più dignitoso possibile. Non abbiamo bisogno del «sopportare pazientemente le avversità» ma della vera pazienza che ci fa vivere guardando in avanti, sapendo che «sia che dormiamo, sia che vegliamo» il seme cresce da solo e porta frutto, e che Dio dà agli «Abramo e Sara» di ieri, di oggi e di sempre il figlio atteso anche se ormai vecchi, sterili e anche increduli.

Per noi missionari italiani – mi permetto di generalizzare perché la realtà dell’invecchiamento e della mancanza di giovani italiani tra i nostri ranghi è un fatto che riguarda un po’ tutti gli istituti maschili e femminili – vivere questo tipo di «pazienza che è speranza» è l’ultima frontiera della missione. È un dovere di fedeltà e riconoscenza verso Colui che ci ha mandato e verso tutte le persone che abbiamo amato e continuiamo ad amare anche «ai confini» della terra. È un atto di amore e fedeltà nei confronti di tutti quelli che hanno dato e danno la loro vita per un mondo più giusto e più bello come monsignor Oscar Romero, suor Leonella Sgorbati, abbé Albert Tongiumale-Baba in Centrafrica, don Juan Miguel Contreras Garcia in Messico, don Mark Ventura nelle Filippine, Asia Bibi prigioniera in Pakistan, i migranti affogati nel Mediterrano.

La pazienza, poi, è un modo di essere di cui siamo debitori soprattutto a chi ha perso la speranza, ingannato dalle false promesse di un mondo edonista e materialista che copre i suoi fallimenti con fake dreams e fake news. E agli anziani abbandonati alla solitudine, ai giovani senza lavoro, ai nuovi poveri, alle famiglie disgregate, a chi è abortito. Vivere con pazienza, in forza della debolezza, fragilità e povertà vissute sulla propria pelle, diventa davvero un proclamare la «buona notizia» che la Vita è più forte della morte, l’Amore vince tutto e la Bellezza non tramonta mai. È continuare a essere testimoni della Pasqua del Signore, oggi.

Gigi Anataloni