Missione donna

Scrivo queste righe durante il mese missionario. Un mese che comincia con la memoria di santa Teresa di Lisieux e si conclude con quella della beata Irene Stefani. La prima, vissuta solo 24 anni, è protettrice delle missioni, pur non essendoci mai stata; la seconda, missionaria della Consolata, è morta di peste in Kenya a 39 anni, mentre serviva i poveri. Due giovani donne innamorate di Dio, due che hanno fatto della dedizione incondizionata lo scopo della loro vita. Due donne consumate dall’amore.

A esse, voglio aggiungere suor Carola Cecchin, beatificata il 5 di questo mese. Un’altra missionaria di inizio Novecento in Kenya, detta «mamma buona». Anche lei bruciata dall’amore e «sepolta» nelle acque del Mar Rosso.

Nonostante debba tantissimo a suor Irene e ai suoi scarponi logori (ho letto la sua biografia «Gli scarponi della gloria» quando avevo 12 anni), non mi è mai venuto spontaneo pensare alla missione al femminile. Ma sempre di più è doveroso farlo, a maggior ragione in questi giorni segnati da figure femminili che, nel bene o nel male (lasciamo a voi giudicarlo), segnano la storia: la
regina Elisabetta; la leader della nuova maggioranza parlamentare in Italia, Giorgia Meloni; le donne iraniane che non si lasciano intimorire dal maschilismo violento mascherato di religione di alcuni loro connazionali. Senza contare tutte le donne che costituiscono lo zoccolo duro e la maggioranza dei membri attivi delle parrocchie.

Come scordare, poi, che noi missionari della Consolata abbiamo la nostra ispirazione e il nostro modello proprio in una donna, la madre di Gesù, che noi, con i torinesi, chiamiamo affettuosamente Consolata?

In questo nostro tempo le donne sono protagoniste. Anche se a volte mi lasciano quantomeno confuso, come nella battaglia per far riconoscere l’aborto un diritto, oppure come nell’accettazione acritica di mode, spesso determinate da stilisti uomini, che di rispetto per la dignità della donna hanno ben poco.

Sono protagoniste, purtroppo, anche della cronaca che ci racconta un crescendo di violenze contro di loro, indice di grande confusione negli uomini, impreparati a una relazione paritaria con esse. Questo disagio è ancora più evidente in paesi del Sud del mondo, dove, grazie all’educazione e a tanti progetti mirati al loro empowerment, le donne stanno scoprendo una nuova dignità con la quale gli uomini non riescono a tenere il passo, aumentando comportamenti violenti e alcoolismo e lasciando sulle donne il peso della famiglia. Peso che, con la crisi che tutti stiamo vivendo, diventa sempre più gravoso.

Un altro ambito di violenza sulle donne è quello del traffico di persone, che vede proprio in loro la «merce» primaria da buttare nel vortice della prostituzione e nel mercato della pornografia online. Questi si nutrono, come ricordato da un recente rapporto presentato al parlamento francese, di violenze estreme proprio su donne e bambini. Non ultimo, in questo scenario, è l’aumento della schiavitù, anche nei nostri paesi che si ritengono così orgogliosamente superiori agli altri (vedi pag. 56). Corollario di questa nuova schiavitù è l’utero in affitto, che pure è rivendicato come diritto da alcuni che hanno grande influenza sui social.

Il nostro paese ha incoronato capo della nuova maggioranza in parlamento una donna. Non credo che questo basti da solo a risolvere i problemi di discriminazione e violenza. Come non basta lo scrivere aggettivi che finiscono con un asterisco o senza l’ultima consonante per creare nuove relazioni di rispetto della dignità di ogni persona. Chi è stato come me in Africa, ha usato lingue inclusive, ma ha sperimentato quanto maschilismo e sessismo ci fosse nella società. Senza un reale cambio di mentalità, espedienti linguistici come l’omissione delle ultime lettere delle parole per indicare un genere «neutro» rischia di essere solo un intervento cosmetico.

Le tre sante che hanno fatto da corona al mese missionario, non hanno fatto teorie, ma hanno vissuto una mentalità nuova centrata sull’amore, facendosi serve – non padrone – degli altri, fino a dare la propria vita perché le persone che hanno incontrato potessero essere vive, libere e amate. Ci hanno mostrato la strada, quella che Gesù indica per «farsi servi» gli uni degli altri.

L’augurio è che tutti la percorriamo.




Fuoco per dono


Due parole ronzano nella mia testa di questi tempi quando penso a «missione»: «perdono» e «fuoco».
«Fuoco» è stata al centro dell’omelia di papa Francesco il 27 agosto scorso quando ha creato i venti nuovi cardinali, tra cui il nostro Giorgio Marengo, il più giovane di tutti e vescovo di quella che certamente è una delle «diocesi» più piccole del mondo, forse battuta solo da Kirghizistan e Afghanistan.
«Perdono», invece, è stata la parola chiave del «Festival della missione», celebrato a Milano alla fine di settembre. E non semplicemente «perdono», ma «perdono», con quel «per» evidenziato allo scopo di sottolineare la dimensione della gratuità come essenziale della missione.
La gratuità è la qualità più tipica dell’azione di Dio nei nostri confronti tramite Gesù Cristo, e quella fondamentale della missione e della Chiesa. Ma è anche lo stile di ogni vero missionario, che fa del donarsi l’anima del suo apostolato.
Donarsi fino a consumarsi, come legna sul fuoco, come ha fatto padre Camillo Calliari, ad esempio, che ha speso tutta la sua vita per i poveri del Tanzania mantenendo una grande umiltà e non si è mai lasciato gonfiare da un po’ di notorietà venutagli attraverso quel libro affettuoso e ammirato con cui Giorgio Torelli lo ha ritratto, «Baba Camillo».
Il «per dono» del festival di Milano ci ha ricordato il lavoro fatto «per dono» dai grandi missionari e missionarie, come quello fatto dai tanti che si sono lasciati consumare nell’anonimato più assoluto, senza rumore, facendo bene il bene negli angoli più remoti della terra.
Mentre online ascoltavo l’omelia di papa Francesco al concistoro, ho pensato alla mia infanzia, quando la legna e il fuoco erano parte della vita quotidiana, e questo ha suscitato in me ricordi intensi e immagini indimenticabili. Come quella del grande falò di primavera dalle fiamme altissime fatto con i tralci potati dalla vite, un fuoco bellissimo che creava gioia e festa, salutando i freddi intensi dell’inverno e alimentando le speranze di una primavera foriera di prosperi raccolti. Oppure il ricordo invernale delle rosse braci nello scaldino infilato sotto le coperte per creare una coccolosa isola di calore in cui ci si tuffava velocissimi per dormire nella stanza gelida. E le lunghe sere d’inverno passate seduto dentro, proprio dentro, il grande camino nella casa del nonno al caldo rassicurante e duraturo dei ceppi di castagno o di gelso che si consumavano adagio riscaldando la notte, mentre si abbrustolivano le castagne.
Quei ricordi indelebili mi aiutano a capire con vividezza quanto ha detto papa Francesco: «[Il] fuoco, che qui è la fiamma potente dello Spirito di Dio, è Dio stesso come “fuoco divorante”
(Dt 4,24; Eb 12,29), Amore appassionato che tutto purifica, rigenera e trasfigura. […] C’è però un
altro fuoco, quello di brace. Lo troviamo in Giovanni, nel racconto della terza e ultima apparizione di Gesù risorto ai discepoli, sul lago di Galilea (cfr 21,9-14). Questo fuocherello lo ha acceso Gesù stesso, vicino alla riva, mentre i discepoli erano sulle barche e tiravano su la rete stracolma di pesci. E Simon Pietro arrivò per primo, a nuoto, pieno di gioia (cfr v. 7). Il fuoco di brace è mite, nascosto, ma dura a lungo e serve per cucinare. E lì, sulla riva del lago, crea un ambiente familiare dove i discepoli gustano stupiti e commossi l’intimità con il loro Signore».
Questo fuoco che brucia «con mitezza, con fedeltà, con vicinanza e tenerezza» è lo stile vero della missione. Solo così essa può comunicare «la sua [di Dio] magnanimità, il suo amore senza limiti, senza riserve, senza condizioni, perché nel suo cuore [quello di Gesù e quindi quello del missionario da Lui mandato] brucia la misericordia del Padre».
Mi piace pensare a questo fuoco «mite, nascosto e che dura a lungo». Quanti missionari e missionarie, ma anche catechisti e volontari, stanno riscaldando così il mondo, senza chiasso. Segno di una speranza che non muore, di un amore che è più forte di tutte le guerre, di tutti i bla bla di tanti politici che pensano solo ad apparire, di una fedeltà che non cerca l’applauso, ma ha a cuore le persone concrete, i più deboli e piccoli, i più lontani e ignorati, i più martirizzati e sfruttati. Per dono, come la luce del sole che sorge ogni giorno, senza mai aspettarsi un grazie, ma felice di vedere i semi germogliare, gli uccelli volare, gli uomini danzare. Per dono, consumandosi fino alla fine, per un mondo dove germogli fraternità, amore e bellezza.




Sussurrare


Il 10 luglio la piccola Chiesa cattolica in Mongolia compirà trent’anni. È la data in cui è «rinata» in quel paese dove pure il cristianesimo era arrivato oltre un millennio fa. È una Chiesa piccola, quella mongola, neanche 1.500 cattolici e due preti nativi, ma è giovane e bella e piena di speranza e vitalità. In più, proprio in questi giorni, ha ricevuto un dono inaspettato: il suo vescovo, monsignor Giorgio Marengo, missionario della Consolata, compare nella lista di coloro che verranno nominati cardinali nel prossimo Concistoro del 27 agosto. Sarà il più giovane.

Quella mongola è una Chiesa di periferia che «sussurra il Vangelo al cuore dell’Asia», come scriveva padre Giorgio nel giugno 2018 su MC. «La missione sta nel mettere in comunicazione il “cuore” con il Vangelo e nell’innescare quel delicato processo di dialogo e crescita nel quale nessuno dei due interlocutori rimane indifferente all’altro. Ecco perché vorrei parlare della missione come di un “sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia”, prendendo in prestito l’espressione usata al sinodo per l’Asia del 1999 da Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India): perché ritengo che per parlare del mistero di quest’incontro, sia più efficace un’espressione evocativa, un’immagine, piuttosto che una teoria o un “paradigma” missionario».
E continuava: «Il verbo “sussurrare” allude a una relazione. Nel nostro caso, una relazione con Dio ricevuta come dono e coltivata come scelta d’intimità, preghiera, dialogo vitale. Noi missionari siamo chiamati a sussurrare al cuore di Dio e a lasciare che Colui che ci manda a essere sue epifanie presso i popoli asiatici sussurri al nostro cuore. Siamo chiamati a metterci in relazione con le persone alle quali siamo inviati, alla vicinanza, all’immersione nel loro mondo.

Due persone si sussurrano a vicenda qualcosa solo quando sono in confidenza. Non si sussurra all’orecchio del primo che capita. E quello che si comunica nel sussurro è qualcosa di profondo, di vitale, che esige un certo pudore, un’aura di mistero, oltre che di rispetto».

Sussurrare non è una strategia, né una tattica, ma un modo di essere e di relazionarsi con gli altri. Richiede confidenza, rispetto, familiarità, fiducia. È vicinanza e intimità. Per questo, forse, può diventare un verbo di grande rilevanza oggi, quando invece i messaggi, se messaggi sono, vengono urlati, imposti, lanciati come bombe. Più «urlati» sono, più like ricevono, più visualizzazioni contano, più «veri» appaiono per chi li riceve. Senza lasciare spazio per la riflessione, l’approfondimento e il confronto.
Sussurrare diventa anche una sfida per quei politici che lanciano slogan per dire tutto e il contrario di tutto con l’occhio agli indici di ascolto e ai consensi elettorali. È una provocazione per i grandi della terra che pensano di comunicare con quindici metri di tavolo tra loro o di conquistare il mondo a suon di cannonate.

Papa Francesco, quando parla di una «Chiesa in uscita», dimostra di avere a cuore la sfida del «sussurrare il Vangelo». Non più una chiesa di potere, ma una «famiglia». Una vera «parrocchia» (che etimologicamente vuol dire «vicinato»), cioè comunità di vicini, i quali si parlano, si ascoltano, si incontrano, hanno cura gli uni degli altri e dell’ambiente. Persone che reagiscono al terribile anonimato della nostra società che mette gli uni contro gli altri nello stesso palazzo, che isola le famiglie, che proibisce ai bambini di giocare nel cortile – se mai c’è – e costringe a far festa con amici e famigliari nei ristoranti o nei centri commerciali, perché l’appartamento è troppo piccolo per accogliere tutti e, soprattutto, si rischia di disturbare. Una società che non permette più nemmeno di piangere i propri cari nell’intimo della casa, e incoraggia invece ad affidarsi alle efficentissime (e falsamente personalizzate) «case del commiato» che offrono, tutto incluso, anche il servizio religioso.

La logica del sussurro contesta il rumore, l’esibizione, la pubblicità, la fretta. Ama il silenzio, l’incontro personale. Il sussurro non usa la forza, non fa tappare le orecchie, ma apre il cuore. È vicinanza e rispetto. Non giudica. Sussurrare è come il vento tra le foglie. È esserci senza imporsi, senza mettersi al centro, rispettando i tempi dell’altro, senza pressioni e ricatti.

Il sussurro è il modo con cui Dio ci parla, con una Parola che va al cuore. «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20)».




Ascoltare con il cuore nell’orecchio


A fine mese, il giorno dell’Ascensione, si celebrerà la 56ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Il tema, «Ascoltare con l’orecchio del cuore», può stupire: abituati a una comunicazione incalzante, infatti, rischiamo di scordare che l’ascolto è preliminare al comunicare. Tanto più oggi, quando i canali della comunicazione si moltiplicano creando una cacofonia che disorienta. La tentazione, da parte dell’utente, è quella di tapparsi le orecchie, o di lasciare filtrare frammenti disparati e senza logica, oppure di sintonizzarsi su un solo canale, una sola voce, escludendo tutti gli altri.

Succede anche nel campo più specifico dell’informazione: stampa, radio, Tv, siti web e social, fino a ieri erano dominati dal Covid-19, da fine febbraio, invece, dalla tragedia dell’Ucraina. Un tale diluvio di notizie ha una conseguenza: l’assuefazione al peggio e il disinteresse verso altri drammi, altrettanto e, a volte, più gravi.

Ecco allora perché è importante – come scrive papa Francesco nel suo messaggio per la giornata – porre l’attenzione sul verbo «“ascoltare”, decisivo nella grammatica della comunicazione e condizione di un autentico dialogo. In effetti, stiamo perdendo la capacità di ascoltare chi abbiamo di fronte, sia nella trama normale dei rapporti quotidiani, sia nei dibattiti sui più importanti argomenti del vivere civile». Senza un vero ascolto rischiamo di perdere la visione globale e di concentrarci solo su quanto ci tocca «hic et nunc», qui e ora, facendo diventare quel problema l’unico e il più importante. Senza un vero ascolto, sentiamo solo quello che ci tocca da vicino, disinteressandoci del resto del mondo, come se non fosse il «nostro mondo».

Questo «disinteresse» si può quantificare. Ricordo un esercizio semplice di quando feci la scuola di giornalismo: cronometrare per una settimana il tempo dato alle singole notizie nei telegiornali. Lo facessi oggi, a parte l’Ucraina, raccontata con un pathos che tende a spingere l’opinione pubblica a non vedere alternative al riarmo, e qualche necessaria coda sul Covid-19, probabilmente non registrerei quasi niente riguardo alla Siria, con i suoi milioni di profughi (resi quasi invisibili), le drammatiche distruzioni di città e gli eccidi. Pochi minuti andrebbero al Libano, e niente allo Yemen di cui parlano solo i ripetuti appelli di Amnesty international, Amref o Medici senza frontiere. È sparito anche l’Afghanistan che pure l’estate scorsa per qualche settimana è stato al centro di tutti i notiziari. Poi, chi parla di Somalia, Mozambico, Sudan, Etiopia, Centrafrica, Congo Rd, Nigeria, Burkina Faso, Niger? Mai sentito parlare di ciò che succede in Venezuela, Colombia, Messico, Nicaragua? Quanti secondi sono stati dati al terremoto di Haiti dello scorso agosto? Qualcuno dedica tempo alla siccità che attanaglia molti paesi del Sud del mondo e alla fame che ne consegue? E questi sono solo alcuni degli esempi possibili.

Il recente viaggio di papa Francesco a Malta, ha messo in rilievo un’altra difficoltà di ascolto del nostro mondo, e non solo quello dei media: quella verso i migranti che attraversano il Mare nostrum, affogati, respinti o mal accolti.

Di fronte a tutto questo, ecco l’importanza di un ascolto vero. Un ascolto che non sia un semplice origliare, che sia antidoto al parlarsi addosso, che non si preoccupi degli «indici di ascolto», che non cerchi conferma di quanto già si sa, ma impari a discernere la verità, sia rispettoso della persona, favorisca l’incontro e la comprensione reciproca, diventi vero dialogo, trovi l’intuizione di strade diverse da proporre.

«L’ascoltare è dunque il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare. Per offrire un’informazione solida, equilibrata e completa è necessario aver ascoltato a lungo. Per raccontare un evento o descrivere una realtà in un reportage è essenziale aver saputo ascoltare, disposti anche a cambiare idea, a modificare le proprie ipotesi di partenza». E non solo per il buon giornalismo, ma per la vita di tutti i giorni.




La guerra è una pazzia


«Cari fratelli e sorelle,
in Ucraina scorrono fiumi di sangue e di lacrime. Non si tratta solo di un’operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria. Le vittime sono sempre più numerose, così come le persone in fuga, specialmente mamme e bambini. In quel paese martoriato cresce drammaticamente di ora in ora la necessità di assistenza umanitaria. Rivolgo il mio accorato appello perché si assicurino davvero i corridoi umanitari, e sia garantito e facilitato l’accesso degli aiuti alle zone assediate, per offrire il vitale soccorso ai nostri fratelli e sorelle oppressi dalle bombe e dalla paura. […] La Santa Sede è disposta a fare di tutto, a mettersi al servizio per questa pace. […] La guerra è una pazzia! Fermatevi, per favore! Guardate questa crudeltà!» (papa Francesco, Angelus, 6/3/2022).

«La guerra è una pazzia». Non poteva essere più esplicito papa Francesco. Eppure tutto è stato pianificato da tempo con una gelida lucidità: dall’aumento del costo del gas per coprire le spese della guerra alle esercitazioni militari per giustificare il colossale dispiegamento di truppe, dalla campagna di fake news al corteggiamento di nuovi alleati tra politici e imprenditori, dal controllo societario di banche all’acquisizione di grandi fette di società dell’energia. E noi siamo stati a guardare, ignari e increduli, assopiti nel nostro benessere, sicuri che non ci avrebbe toccato e, soprattutto, dimentichi di quello che è davvero la guerra.

Quelli vecchi come me, i figli del ‘68, hanno in qualche angolo della memoria le parole dei nonni o dei genitori che invitavano a non sprecare perché «durante la guerra» si grattava anche il fondo della pentola, e «grazie averne». Dalla Seconda guerra mondiale in poi, in Europa abbiamo vissuto l’avventura della pace con un progresso apparentemente inarrestabile, con un benessere, fluttuante sì, ma così diffuso da permetterci di sprecare: cibo, vestiti, energia, ambiente. Sì, ci sono state guerre in questi anni, ma in paesi lontani, a parte quella degli anni ‘90 nell’ex Jugoslavia, alcune totalmente ignorate, altre esorcizzate nelle nostre canzoni.

Nel 2003 questa rivista ha pubblicato un memorabile numero speciale, poi diventato un libro Emi, intitolato «La guerra, le guerre». La lista dei paesi in conflitto era impressionante. Quel lungo elenco è ancora tristemente attuale, anzi si è allungato: Yemen, Siria, Libano, Libia, Niger, Mali, Mozambico, Burkina Faso, Haiti, Myanmar solo per citarne alcuni.

Nel frattempo, le spese militari sono cresciute in tutto il mondo, anche nei paesi ufficialmente in pace. Il club atomico si è allargato, si sono costruiti missili sempre più sofisticati, potenti e ipersonici, i mercenari sono diventati anche più forti degli eserciti regolari e comodi, perché rispondono al potente di turno piuttosto che a governi e a leggi internazionali.

Trentuno anni fa, era il 21 febbraio 1991, 36° giorno dall’inizio della prima guerra del Golfo, monsignor Tonino Bello, allora presidente di Pax Christi, diceva alla trasmissione Samarcanda: «Il mio desiderio è quello del cessate il fuoco, perché non è possibile, non è accettabile, non è pensabile che ancora oggi, con tutto il progresso che abbiamo fatto, con tutta la cultura che abbiamo alle spalle, della gente debba essere massacrata in questo modo. È osceno. Io credo che ci vergogneremo domani per la nostra mancanza di insurrezione di coscienza». E aggiungeva: «La guerra tutto può partorire, fuorché la pace e la giustizia». «La pace non arriverà finché non si fa giustizia».

Queste parole sono attualissime. In Iraq non c’è ancora pace, neppure nella vicina Siria dove i Russi hanno testato la loro arte della guerra, e tantomeno in Afghanistan, invaso e poi abbandonato a se stesso. In nessuno di quei paesi la guerra ha portato pace, perché non ha costruito giustizia, non ha ridato dignità ai poveri, prospettive ai giovani, lavoro, educazione e sicurezza a tutti.

Don Tonino Bello chiamava a una «insurrezione di coscienza». Per noi missionari significa stare con chi le guerre le paga sulla propria pelle, così come fanno i nostri in questi giorni nelle due comunità in Polonia aperte all’accoglienza dei profughi. Ma anche i missionari nel Nord del Kenya, in Etiopia, in Mozambico, nel Nord del Congo, in Venezuela, in Colombia, in Messico, in Costa d’Avorio, a Roraima in Brasile, dove ci sono guerre di fatto, non dichiarate, e che non fanno certo notizia.




Tra dubbi e profezia


Il 2022 è iniziato un po’ in sordina, azzoppato dalla variante Omicron che sta condizionando la vita di mezzo mondo. Omicron, nell’alfabeto greco, è la lettera «o», presente due volte nella parola mondo e nel suo omologo greco cosmo. Invece di essere come le ruote di una bicicletta (o di una moto), è diventata come due macigni che appesantiscono e frenano.
Ventuno anni fa siamo entrati in pompa magna nel terzo millennio, ma guardando a quanto sta succedendo nel mondo, verrebbe da dire che siamo tornati alla preistoria. Con tutto il rispetto per la preistoria, quando forse si viveva più «umanamente» di quanto facciamo noi oggi, quando un guaio combinato da qualcuno aveva conseguenze solo locali. Nonostante oltre cinquemila anni di storia documentata, nonostante la conoscenza e lo studio di religioni e filosofie di tutti i popoli, nonostante il progresso scientifico e tecnologico e gli incredibili sviluppi della comunicazione, nonostante tutto questo, stiamo vivendo la distruzione ambientale, l’aumento delle ingiustizie sociali e delle guerre, con i ricchi che diventano più ricchi a spese dei poveri, degli sfruttati e della salute del nostro pianeta, e i potenti che, invece di investire nella pace, usano la guerra e l’intolleranza per dominare, sostenuti dalle derive fondamentaliste delle grandi religioni, anche del cristianesimo.

Viene da domandarsi: perché questo imbarbarimento? Perché non abbiamo imparato nulla dalla storia? Perché duemila anni di cristianesimo sembrano persi nel dimenticatoio di fronte alla logica del profitto, del consumismo, del benessere, del materialismo? Com’è che moltiplichiamo leggi e regolamenti e non cambiamo il cuore?

Come può succedere che un capo di stato chieda – applaudito – che l’aborto diventi un diritto umano universale pari al diritto alla vita, alla libertà in tutte le sue espressioni, alla sicurezza, all’istruzione, al riposo e al gioco, al cibo, alla casa e al lavoro?

Sappiamo poi molto bene che se ci fosse una guerra atomica tutti e tutto ne pagheremmo il prezzo. Perché, allora, sembra impossibile liberarsi dalle armi atomiche? Perché troppe nazioni rifiutano di ratificare il Trattato di non proliferazione nucleare, promosso dalle Nazioni Unite?

Terribile è poi l’ipocrisia sui migranti. Si trovano i soldi per costruire muri, per armare e mantenere reparti di polizia specializzati contro i migranti, come la discutibile guardia costiera libica, si costruiscono campi che diventano il limbo in cui sono fatti sparire, ma poco viene fatto per curare le cause che sono all’origine di un così grande esodo di genti: povertà, sfruttamento, dittature, guerre, persecuzioni, cambiamento climatico. E poi si chiudono tutti e due gli occhi sul caporalato, la tratta delle persone, il traffico della prostituzione, lo sfruttamento dei lavoratori in nero, il lavoro dei bambini, le nuove forme di schiavitù. E si rifiuta lo jus soli. Fa poi comodo usare i migranti per la propaganda politica come se essi fossero la causa di tutti i mali, come se davvero tenerli fuori dai nostri confini risolvesse i nostri problemi di lavoro, sicurezza, sanità, giustizia sociale, invecchiamento della popolazione, spopolamento.

Nell’elenco ci sarebbe da aggiungere il rinascere del razzismo, la manipolazione della storia, il crescere dell’ignoranza, l’incapacità di dialogo, il narcisismo sociale e politico, l’illusione che l’avere di più dia più felicità, l’aggressività sui social, la contraffazione mediatica, l’invasione della privacy.

Mentre scrivo mi arrabbio con me stesso, perché sono bravo a elencare, a fare liste, a piangermi addosso. Ma a cosa serve?

In tutto questo c’è una luce di speranza, una profezia di vita e libertà. Ci è offerta dai poveri del mondo, con i quali vivono tanti dei miei confratelli e consorelle missionari. Poveri che hanno una resilienza incredibile e un’infinita voglia di riscatto. Viene dal guardare a quella croce che domina nelle nostre chiese, che è sui muri di tante stanze, che è al collo di tante persone. Una croce, un crocefisso, che durante questo tempo di quaresima siamo invitati a reincontrare perché non rimanga solo un segno esterno. Il «prendere la croce e seguirlo» deve diventare un modo di essere e uno stile di vita che promuova la vita, ogni forma di vita, tutta la vita. Che sia una via alternativa al tran-tran disumanizzante e cosificante del consumismo, alla logica del più forte e del più ricco, alla rassegnazione alla paura, all’ansia per il futuro, alla chiusura all’altro. Una verità che decodifichi le fake news, gli inganni, le alienazioni dell’uomo e, invece, promuova un uomo libero e liberante, creativo, resiliente e soggetto della storia, non spettatore rassegnato.

 




Per costruire la pace: educazione, lavoro e dialogo


Papa Francesco, nel messaggio per il 1° gennaio, giornata mondiale della pace, indica tre ambiti necessari per costruire una pace duratura: educazione, lavoro e dialogo. Tre spazi d’azione non scelti a caso, ma che richiamano alcuni degli obiettivi di sviluppo sostenibile che le Nazioni Unite si sono proposte di raggiungere entro il 2030, e per i quali nel 2000 hanno anche lanciato il Global Compact per le aziende con dieci obiettivi nel campo dei diritti umani, del lavoro, dell’ambiente e della lotta alla corruzione.

Questi tre ambiti, definiti ovviamente con una terminologia diversa, sono parte integrante del metodo missionario dell’Allamano. Egli ha voluto infatti che i suoi missionari, fin dall’inizio, fossero in dialogo profondo con la gente, imparandone la lingua, conoscendone i costumi, entrando nel cuore della cultura. Allo stesso tempo, da subito ha promosso l’educazione, stimolato anche dal capo kikuyu Karoli, che a Tuthu, in Kenya, nel 1902, volle i missionari soprattutto per iniziare una scuola. E poi, il nostro fondatore, vedeva nel lavoro uno strumento per «elevare l’ambiente», migliorare la vita, vincere la povertà, rendere le persone soggetti della propria storia.

Di questi tre ambiti, quello che oggi mi tocca di più è il lavoro: guardo, infatti, alla situazione che stiamo vivendo e provo sgomento di fronte alla sua assurdità. Una multinazionale licenzia dipendenti tramite una videoconferenza in Zoom. Un’altra licenzia via mail. Non si contano poi quelle che spostano le loro fabbriche da un paese all’altro per pagare salari da fame ed essere libere da vincoli sindacali, ambientali, fiscali… A Cabo Delgado, in Mozambico, le multinazionali dell’energia e dei minerali preziosi, sostenute da politici corrotti, cacciano pescatori e cercatori di rubini locali per costruire la loro mega «città estrattiva», riducendo la popolazione locale alla fame e disperazione (e fomentando una guerra civile). Lo stesso avviene in Congo, dove, invece di pagare il giusto e le relative tasse, le multinazionali preferiscono finanziare bande armate che garantiscano coltan, legname e quanto altro a prezzi stracciati, lasciando la gente locale nella fame, nell’insicurezza e nell’asservimento più totale che non risparmia i bambini.

Da noi, i giovani faticano a trovare un lavoro stabile, e quello che trovano è sottopagato e frustrante. Allo stesso tempo nascono (e muoiono) pseudo cooperative – che di per sé dovrebbero curare anzitutto il benessere dei propri soci – all’unico scopo di manipolare manodopera a salari da fame, e magari coprire quello che in realtà è caporalato bello e buono. Altro che «eliminare tutte le forme di lavoro forzato e obbligatorio» o «assicurarsi di non essere, seppure indirettamente, complici negli abusi dei diritti umani», come dichiarano due degli obiettivi del Global Compact.

Aggiungi poi i dati offerti dal World inequality report 2022, pubblicati il 7 dicembre, con i quali si documenta che la diseguaglianza tra ricchi e poveri è aumentata ancora: il 50% della popolazione mondiale (i poveri) possiede il 2% della ricchezza totale; il 40% (la classe media) il 22%; il 10% (i ricchi) il 76% di tutto, con il 38% concentrato nelle mani dell’1% (i super ricchi). Questo è reso possibile e accelerato, tra l’altro, dalla pandemia del Covid-19, ma pure da «una concorrenza all’ultimo sangue tra le multinazionali, giocata anche attraverso il trasferimento della produzione in quei paesi dove la miseria è così acuta da indurre la gente a lavorare per salari miseri e senza alcuna tutela» (Francesco Gesualdi, Avvenire 8/12/2021).

Photo by Gautam Dey / AFP

Qualcuno dirà che questi non sono fatti che riguardano una rivista missionaria. Tutt’altro.
I nostri confratelli sono inseriti nelle zone più calde del mondo, interpellati quotidianamente dalla sofferenza della gente con cui condividono vita, sogni, dolori e speranze. Dall’Etiopia al Congo, dalle foreste dell’Amazzonia alle immense pianure della Mongolia, dalle periferie urbane di quattro continenti (Europa compresa) ai campi minati dell’Angola. Lì sono e lì rimangono, radicati in Colui che sulla croce, donando la sua vita, ha reso possibile un mondo nuovo che mette al centro l’uomo nella sua integralità.

Guardando Lui, in questo nuovo anno, diventiamo insieme inguaribili costruttori di pace.





Con gli occhi di Luz

Luz ci guarda dritto negli occhi. Lo sguardo della piccola messicana in copertina, che mi piace chiamare «Luz» (luce), va dritto al cuore. Il suo sorriso, pulito e pieno di speranza, è un canto alla vita, un inno alla gioia. Questo sguardo bello e fiducioso mi rapisce e mi sento guardato dentro. Non sono più solo gli occhi di Luz che mi fissano. Forse è la suggestione del Natale che ormai si avvicina, ma sento come fosse lo sguardo dello stesso Bambino Gesù che mi cerca. Quello sguardo che certamente ha rubato il cuore dei pastori, dei Magi e di quanti sono andati a visitarlo nella stalla di Betlemme. Occhi che hanno visto dentro ciascuno di loro, li hanno conosciuti e amati e hanno parlato loro, mettendoli di fronte alla verità di se stessi. Guardati da quel bambino, ognuno ha capito che non era arrivato lì per caso, ma che Lui li attendeva da sempre.

Gli occhi di Luz sono gli occhi di milioni di altri bambini nel mondo. Non tutti sono felici: troppe volte sono occhi terrorizzati dalla violenza della guerra, annebbiati dalla fame, spenti dalla malattia, tristi per l’assenza d’amore, pieni di paura per gli abusi, angosciati per lo sfruttamento. Sempre però sono occhi che interpellano la tua umanità. Occhi che, con semplicità e candore, credono ancora che ogni persona sia capace di amare.

Un desiderio, un grido e una speranza che, oggi più che mai, sono delusi da troppi adulti. E non solo in Afghanistan e Yemen, Siria e Haiti, Nigeria e Venezuela, tanto per ricordare alcuni dei punti più caldi del dolore dell’umanità. L’elenco delle situazioni di morte potrebbe riempire pagine, una lista senza fine nella quale comparirebbe anche la nostra bella Italia, diventata un paese dove non è più appetibile nascere, e dove si nasce sempre meno.

Dedicata a Madina

Per questo Natale, auguro a tutti noi di lasciarci guardare dagli occhi di tutti e tutte le «Luz» del mondo. Che i nostri occhi non si lascino riempire e incantare dalle luci abbaglianti di strade e centri commerciali, luci che del vero Natale non hanno più niente, segno come sono di un invito al consumismo più sconsiderato che porta spreco, inquinamento e sfruttamento. Che non siano ammaliati dalle forme, colori e immagini accattivanti della moda, del nuovissimo gadget tecnologico, del modello di macchina ultimo grido. Che non siano accecati dagli ammiccamenti dei cartelloni pubblicitari o degli schermi che titillano la nostra vanità, incoraggiano e giustificano il nostro egoismo, gratificano le nostre pigrizie.

Auguro invece che i nostri occhi si lascino interrogare mettendo in questione il nostro stile di vita, le nostre abitudini, i pregiudizi che ci rendono così sicuri. Che ci lasciamo guardare dentro per imparare a vedere noi stessi e il mondo attorno a noi in modo nuovo, per scoprire che possiamo essere soggetti di speranza e cambiamento e non semplicemente ripetitori e continuatori di uno stile di vita senza amore e senza futuro.

In questo tempo di Natale mettiamo pure con amore la statuina di Gesù Bambino nel nostro presepio, ma non accontentiamoci di quella. Cerchiamo invece gli occhi veri del Bambinello in quelli delle persone che incontriamo, a cominciare dal nostro vicino di casa che spesso neppure conosciamo; dalle persone che partecipano con noi alla messa, con le quali magari non condividiamo neppure un «ciao»; da quelle persone che incrociamo ogni giorno.

Lasciamoci disturbare dagli occhi della piccola Madina Hussein, travolta da un treno in Serbia (copertina di MC 1-2/2018), da quelli radiosi della bimba di cui non conosciamo il nome che esce dalla tenda a Lesbo (MC 3/2021) o da quelli tristi del bimbo lavoratore del Myamnar (Mc 08-9/2021).

Non occorre andare indietro nel tempo per cercare gli occhi di Gesù, non è neppure necessario andare lontano. Basta farsi prossimo.

Guardare e lasciarsi guardare con gli occhi di Gesù Bambino. Scopriremo di essere «fratelli, sorelle, padri e madri, figli e figlie» in una grande famiglia, dove ami e sei amato, dove piangi con chi piange affinché il pianto si tramuti in danza alla musica dell’amore.




Compassione

testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


È il 4 ottobre, il giorno di san Francesco. Un messaggio su whatsapp mi allerta che ci sono state delle uccisioni a Suguta Marmar e a Porro, due località del Kenya che forse a voi non dicono niente, ma che a me fanno sobbalzare il cuore. Suguta Marmar è stata la «mia» prima missione nel 1989, appena arrivato. Porro (pronunciato Porò) è villaggio samburu a due passi da un punto panoramico che offre una visione di sogno della Rift Valley. Il crinale dell’altopiano di Porro segna la linea di separazione tra due tribù di pastori, i Pokot (nella valle) e i Samburu (sulla montagna). In tempi di siccità, però, non c’è confine che tenga. In più, soprattutto in tempo di elezioni, quando politicanti senza scrupoli distribuiscono armi e munizioni ai giovani guerrieri, scoppiano scontri cruenti. Chi ci rimette di più di solito sono donne, vecchi e bambini.

Il messaggio ricevuto oggi mi richiama alla mente un episodio del 2006 (ma avrebbe potuto essere uno qualsiasi degli altri anni). Al mercato di Porro scoppia un diverbio tra pastori samburu e pokot. Si viene alle armi. Dei giovani pastori pokot sono uccisi, uno è ferito grave. È presente un mio ex chierichetto, attivista di pace e riconciliazione per conto della diocesi di Maralal. Incurante dell’ostilità dei presenti, raccoglie il ferito, se lo lega sulle spalle e, in moto, su strada sterrata, lo porta all’ospedale distante 25 km. Lì, nella capitale dei Samburu, a chi gli domanda perché abbia portato «quell’animale», risponde che lui ha visto «solo un uomo». Il ragazzo si salva.

Anche nel messaggio del 4 ottobre, si racconta di un fatto molto simile. Allo stesso mercato di Porro c’è stato un attacco di Pokot. John, il giovane parroco – anche lui un tempo mio chierichetto -, è corso. Due samburu, padre e figlio, sono a terra senza vita, accanto la figlia più piccola dell’uomo con il polpaccio trapassato da una pallottola. Ha preso la bimba tra le braccia e, camminando sulla «Via della Pace», la strada costruita anni fa da padre Aldo Vettori (+2008) per promuovere la pace tra le comunità, è arrivato alla missione. Saltato in macchina l’ha portata allo stesso ospedale, dove è stata curata. Chiedo al vescovo di Maralal, monsignor Virgilio Pante, come giudica la situazione. La risposta è laconica: «Troppi fucili». Il che, conoscendolo, esprime in estrema sintesi la tristezza per una realtà che non migliora nonostante gli anni di grandissimo impegno a promuovere il disarmo, il dialogo, la pace e la riconciliazione tra i vari gruppi etnici della regione. C’è sempre qualcuno che specula sulla pelle dei poveri, specialmente in tempo di elezioni (e non solo in Kenya), e porta più consensi fornire armi (o fake news d’odio) che costruire giustizia, creare lavoro e assicurare cibo, medicine ed educazione di qualità.

Commento questi due episodi, piccoli e periferici in confronto a tanti altri che accadono nel mondo, citando papa Francesco che il 7 ottobre, in occasione dell’incontro di preghiera per la pace organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, ha detto: «Con parole chiare incoraggiamo a questo: a deporre le armi, a ridurre le spese militari per provvedere ai bisogni umanitari, a convertire gli strumenti di morte in strumenti di vita. Non siano parole vuote, ma richieste insistenti che eleviamo per il bene dei nostri fratelli, contro la guerra e la morte, in nome di Colui che è pace e vita. Meno armi e più cibo, meno ipocrisia e più trasparenza, più vaccini distribuiti equamente e meno fucili venduti sprovvedutamente. I tempi ci chiedono di farci voce di tanti credenti, persone semplici, disarmate, stanche della violenza, perché chi detiene responsabilità per il bene comune si impegni non solo a condannare guerre e terrorismo, ma a creare le condizioni perché essi non divampino».

E ha invitato a vincere l’indifferenza e l’assuefazione «alla violenza e alla guerra, al fratello che uccide il fratello quasi fosse un gioco guardato a distanza, indifferenti e convinti che mai ci toccherà. […] Ma con la vita dei popoli e dei bambini non si può giocare. Non si può restare indifferenti. Occorre, al contrario, entrare in empatia e riconoscere la comune umanità a cui apparteniamo, con le sue fatiche, le sue lotte e le sue fragilità. […] Oggi, nella società globalizzata che spettacolarizza il dolore ma non lo compatisce, abbiamo bisogno di “costruire compassione”. Di sentire l’altro, di fare proprie le sue sofferenze, di riconoscerne il volto. Questo è il vero coraggio, il coraggio della compassione, che fa andare oltre il quieto vivere, oltre il non mi riguarda e il non mi appartiene».

Lasciarci prendere dalla compassione, allora, diventa davvero una rivoluzione nella nostra vita, perché ci fa vedere gli altri con il cuore, e ci fa sentire e agire come parte della grande famiglia umana.

Gigi Anataloni


Disegno makua dedicato alla beata Irene Stefani, Nyathaa, madre compassionevole, la cui festa ricorrre il31 ottobre

Disegno Makua Sirima a matita dedicato alla Beata Irene, di Afonso Murupala
Sr Irene catechista evangelizzatrice.
L’artista concentra la sua composizione su un piede, è un piede sinistro che nella lingua macua sirima é il piede femminile, materno, è il piede divino, namulico. In questo contesto totalmente matriarcale della biosofia e teologia macua sirima, l’artista orchestra gli eventi di Nipepe con Sr Irene Matriarca di Nipepe: è sempre lei
– la grande antenata guidata dallo Spirito Santo,
– ispirata da Dio Luna solidale con le stelle (antenati)
– interviene salvando, curando, obbligando le armi della guerra a tacere.
La composizione ha però altre significative novità. La pianta del piede femminile è circondata da un rosario (l’arma e vessillo che Sr Irene mai abbandonava nel suo andare missionario), la cui croce coincide significativamente con la croce della chiesa di Nipepe.
Si tratta di un piede femminile materno di una missionaria evangelizzatrice e catechista,
– un piede che va, annuncia e porta altri piedi a Gesù
– raffigurato dalla elegante gazzella (agnello di Dio nel NT).
– I piedi dell’evangelizzatore devono portare altri piedi a Gesù, inserirli nel ventre del serpente boa,
– così tutto diventa Gesù e allo stesso tempo Gesù diventa tutto (camaleonte),
– assumendo tutti i colori, le culture, i cammini previ che Dio storico salvifico ha tracciato nella storia del mutthu (cfr. Col 3,11) .
I tre animali possono essere assunti come archetipi cristologici, ma anche come metafore di una metodologia missionaria che declina e coniuga fluidamente la dinamica della interculturalità e interreligiosità, la continuità con la discontinuità e alterità. (padre Frizzi Giuseppe)




L’uomo al centro

«Naufragio nel Mediterraneo, minori annegati», «Spari sui migranti», «La strage», «Migranti, 139 morti», «Corpi di bimbi sulla spiaggia», titoli come questi sono di casa sui nostri quotidiani o alla Tv. Sono titoli rivelatori di una sofferenza infinita nel mondo, di abusi e sfruttamento, di lacrime e sangue. Sono titoli che non ci toccano più, perché ormai ci siamo abituati alla sofferenza dei poveri, alla loro morte.

«Dobbiamo scrollarci di dosso l’indifferenza e l’abitudine alle cose, anche l’abitudine alla morte.

Abituarsi alla morte è la cosa più terribile. La gente sta morendo, e sono migliaia e migliaia di persone che muoiono e a noi non interessa. Sono altri, sono diversi, non sono dei nostri. Questa è nostra colpa e responsabilità. […] Ma noi aspettiamo il prossimo naufragio e poi sappiamo che ce ne sarà un altro. Questo è terribile, perché […] nessuno più se ne sente responsabile. Fa paura. Stiamo diventando gente senza cuore. Non riusciamo più a commuoverci. Io sono amareggiato e preoccupato, perché è come se la società di oggi dovesse per forza dividersi in due: i buoni e ricchi (da una parte) e i poveri [e i] cattivi (dall’altra). Ma una società come questa, quale futuro avrà?».

Queste sono parole del cardinal Francesco Montenegro, già arcivescovo di Agrigento dal 2008 fino all’inizio del 2021, in un’intervista con il direttore della rivista Nigrizia, Filippo Ivardi, in occasione della Giornata internazionale del mar Mediterraneo, l’8 luglio scorso.

Il cardinale offre poi una provocazione a noi cristiani: «Qui entra in ballo anche la Chiesa. Purtroppo c’è una Chiesa che tace, una Chiesa che sembra non abbia niente da dire, rassegnata. Ma la rassegnazione non è una virtù del Vangelo. Quando uno si rassegna, ammazza il Vangelo, perché il Vangelo parla di speranza, parla di Pasqua, e una Chiesa che non desidera la Pasqua per gli altri è una Chiesa che non sta più vivendo la sua fedeltà. Allora assistere a queste scene di morte, adattarsi a queste situazioni, è aver perso umanità».

Poi una provocazione forte. «È più facile mettersi davanti all’Eucarestia, che non parla, non si muove, dove soltanto io posso dire e divento protagonista dell’incontro, e il Signore è costretto a tacere e ad ascoltarmi. È più difficile mettersi dinanzi all’altro sacramento. Perché il Signore ha scelto questi [due] sacramenti per rappresentarlo: l’Eucarestia e i poveri». Così, però, il Vangelo perde il suo senso e diventa un libro di racconti, una storia da insegnare. Ma il Vangelo non è soltanto qualcosa che si insegna, «perché il Vangelo è l’incontro con Qualcuno. E questo qualcuno purtroppo è inquietante, perché ha scelto delle strade che a noi non piacciono. Lui ce l’ha detto, chi lo vuol seguire deve prendere la sua croce, deve essere pronto a seguire una strada diversa. E il povero è la strada diversa che ci propone». E non basta dare l’elemosina che ci permette di sentirci buoni, perché «il povero è colui che ci giudica. Domani, alla porta del paradiso troveremo i poveri, quelli che cercavano il pane, l’acqua, il vestito, e saranno loro a decidere quale sarà la nostra sorte futura». Sarebbe importante, allora, annunciare forte questo messaggio, invece spesso lo sussurriamo soltanto. Il Signore ci ha detto che dovremmo salire sui tetti a gridare, ma noi preferiamo le nostre nenie nel chiuso delle nostre case e chiese. Invece lui ci ha detto che preferisce l’odore di uomo che quello dell’incenso.

Conclude con una costatazione amara il cardinale: al centro della nostra società «non c’è l’uomo, ma il denaro». Per questo «noi ricchi abbiamo bisogno dei poveri, perché senza di loro non potremmo stare in piedi. Allora inventiamo la povertà, anche se poi la nascondiamo».

Così, la lista dei titoli si allunga: «Licenziati in 422 con una email», «Congo RD, bambini schiavi del coltan», «Capo Delgado, 600mila in fuga nella lotta per il controllo delle risorse», «Amazzonia in fiamme», «Invasione di garimpeiros nelle terre indigene», «Caporalato e sfruttamento», «Aumento dei prezzi di beni di prima necessità», «Ilva e inquinamento», «Meno manutenzione, più profitti», «Eswatini in fiamme», «Eswatini, arresti, morti, incendi e violenze». Chissa se riusciamo a farci toccare da qualcuno di essi («Eswatini? mai sentito nominare!»), specialmente in questi tempi di Covid-19 ed emergenza climatica che hanno visto l’aumento esponenziale della povertà e l’arricchimento scandaloso di pochi. Chissà se i cosiddetti potenti della terra (e i dittatori palesi e mascherati in aumento) hanno ancora orecchie per sentire e cuore per cambiare.
È urgente tornare a mettere l’uomo al centro. Tutto l’uomo, ogni uomo, il più povero per primo.