Da terra nullius a terra privata

testo di Paolo Moiola |


L’assalto all’Amazzonia pare diventata un’invasione inarrestabile. Soprattutto con la spinta del capitano Bolsonaro e dell’emergenza pandemica. I popoli indigeni, ultimo baluardo difensivo, ne stanno pagando le conseguenze. Ma il problema è mondiale, se l’Amazzonia è «patrimonio dell’umanità». Come da tempo afferma papa Francesco.

Si dice che su internet si possa comprare di tutto. Pare un’esagerazione, invece è la realtà. L’ultima conferma è arrivata da un’inchiesta della Bbc, la televisione pubblica inglese. Un lavoro giornalistico pregevole, ma molto inquietante. I corrispondenti dal Brasile hanno infatti scoperto che su Facebook, la più grande rete sociale del mondo, sono in vendita pezzi di Amazzonia. Lotti protetti di grandi o grandissime dimensioni (si parla di mille campi da calcio) e, si noti bene, senza alcun titolo di proprietà regolare, trattandosi di boschi dello stato o di riserve indigene.

A tal punto di indecenza è arrivato il disprezzo per la legge e la morale. Difficile stabilire una graduatoria di colpevolezza: il social ospitante, gli inserzionisti o le autorità governative.

Il capitano Jair Messias Bolsonaro, dal 2019 presidente del Brasile. Foto: Alan Santos / PR.

«È nostra!»

È da tempo che l’Amazzonia è sotto attacco. Avviene in tutti i nove paesi amazzonici, ma soprattutto in Brasile, che ne ospita oltre il 60 per cento. Qui la situazione è precipitata con l’arrivo al potere del capitano Jair Messias Bolsonaro. Questo militare di piccolo cabotaggio e ammiratore della dittatura non ha mai nascosto il proprio pensiero fondato sul populismo neoliberista. Nel suo discorso del 24 settembre 2019 (primo anno del suo mandato), davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, aveva affermato l’impegno solenne per la difesa dell’ambiente affermando che l’Amazzonia è praticamente intoccata. Ma, soprattutto, aveva detto: «L’Amazzonia è nostra, non dell’umanità».

A Bolsonaro aveva risposto non un presidente, ma papa Francesco, considerato da molti come il leader più autorevole del pensiero ambientalista. L’Amazzonia, ha precisato il papa nell’esortazione apostolica Querida Amazonia, «è anche “nostra”» (QA 5).

Papa Francesco abbraccia Raoni, noto leader indigeno di etnia caiapó (maggio 2019). / Vatican news

«Terra di nessuno»

È dal Brasile, principale paese amazzonico, che è necessario partire per inquadrare la situazione. Una situazione molto grave, che la pandemia ha peggiorato.

La filosofia del governo Bolsonaro è chiara. La difesa dell’Amazzonia e dei suoi abitanti originari è considerata un intralcio allo sviluppo economico e all’arricchimento individuale. Pertanto, ogni legge ambientale va superata e ogni difensore (organizzazione o persona) reso impotente. I popoli indigeni vanno scacciati dalle loro terre o eliminati (culturalmente più che fisicamente) perché costituiti da esseri inferiori, incapaci di comprendere i principi economici che regolano la società bianca.

Francesco parla di «una falsa “mistica amazzonica”». Scrive il papa al punto 12 di Querida Amazonia: «È noto infatti che dagli ultimi decenni del secolo scorso l’Amazzonia è stata presentata come un enorme spazio vuoto da occupare, come una ricchezza grezza da elaborare, come un’immensità selvaggia da addomesticare». È da questa concezione dell’Amazzonia come «terra nullius» che, oggi come ieri, deriva la sua invasione da parte di: fazendeiros (latifondisti dell’agrobusiness), madeireiros (tagliaboschi), garimpeiros (minatori) sotto lo sguardo disattento se non l’ombrello protettivo dello stato. Uno stato intenzionato a completare la strada da Porto Velho a Manaus, nota come Br-319, che aprirebbe nuovi, pericolosissimi varchi nell’Amazzonia.

In tutto questo, il metodo più subdolo perché ammantato da un falso alone di legalità («bianca») è quello conosciuto come grilagem (land grabbing, in inglese), l’accaparramento di terre. Il sistema generalmente riguarda terre pubbliche o terre occupate da secoli da popoli indigeni o comunità tradizionali (come quilombolas e ribeirinhos).

Secondo un’associazione legale di Bahia (Associação de Advogados de trabalhadores rurais no estado da Bahia, Aatr), il fenomeno del grilagem è passato nel tempo da una falsificazione rudimentale dei documenti (dando loro un’apparenza di vecchiaia utilizzando escrementi di grilli, da cui il nome) a procedimenti più sofisticati per trascrivere le false proprietà nei registri immobiliari. È così che i latifondi per l’allevamento bovino o le monocolture (soia, soprattutto) si sono incrementati a dismisura e i loro proprietari, veri e presunti, si sono insediati nei parlamenti (bancada ruralista) per promuovere leggi in loro favore, contro l’ambiente e i popoli indigeni.

Una delle norme più vergognose studiate dal governo Bolsonaro è proprio la regolarizzazione delle terre pubbliche illegalmente occupate, in una parola il condono del grilagem (Medida provisoria 910 nota come «MP da grilagem», trasformata in progetto di legge 2.633/2020).

Le invasioni dei minatori illegali sono brevi nel tempo, ma forse ancora più nefaste: una volta ottenuto il prodotto (oro, in primis), lasciano la zona devastata per passare a un’altra.

Le immagini dei territori amazzonici dopo il passaggio dei garimpeiros sono più impressionanti di una foresta abbattuta o bruciata, di un pascolo occupato da migliaia di vacche o di un terreno coltivato a soia transgenica. Sono «cicatrici nella foresta» come le definisce il titolo di un recente (marzo 2021) rapporto redatto dall’associazione indigena guidata da Davi Kopenawa (Hutukara associação yanomami, Hay) e dall’Instituto socioambiental (Isa). E si tratta di cicatrici profonde: nel solo 2020, sul territorio degli Yanomami le aree degradate sono aumentate di 500 ettari, soprattutto lungo i letti dei grandi fiumi (Uraricoera,

Mucajaí, Catrimani e Parima). L’attività mineraria, viene osservato, non è più quella dell’uomo solitario che cerca l’oro con strumenti artigianali. Oggi è diventata un’attività d’impresa con investimenti importanti in macchinari, materiali e logistica e l’utilizzo di aerei, elicotteri e barche. I vari addetti vengono normalmente pagati in grammi d’oro.

Inoltre, la vicinanza forzata con i garimpeiros ha prodotto tra gli indigeni un’esplosione di casi di malaria (le aree disboscate facilitano la diffusione delle zanzare) e di Covid-19, oltre che di avvelenamento da mercurio (utilizzato dai minatori).

In Brasile, è sempre più diffuso il fenomeno dell’accaparramento e della privatizzione delle terre pubbliche. Foto The Intercept Brasil.

Complicità internazionali

Se non ci fossero sbocchi di mercato per i prodotti amazzonici, verrebbero meno le motivazioni economiche e speculative di latifondisti, tagliaboschi e minatori.

Un rapporto prodotto da un’altra organizzazione indigena (Articulação dos povos indígenas do Brasil – Apib con Amazon Watch, 2020) concentra l’attenzione sulle «complicità nella distruzione» dell’Amazzonia da parte di imprese, banche (tra cui GP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America), istituti finanziari e società di fondi d’investimento stranieri (come la BlackRock, la più grande del mondo).

«Ogni giorno – si legge all’inizio del rapporto -, la soia, la carne, i minerali e altre materie prime prodotte su larga scala in Brasile sbarcano nei porti dei paesi di Europa, Sud America, Cina, Stati Uniti e altri mercati globali. Molte volte, queste merci lasciano dietro di sé ferite di abusi dei diritti umani e di devastazione ambientale che minacciano il futuro della più grande foresta tropicale del mondo e i suoi popoli e, di conseguenza, il futuro del nostro clima». «Non c’è dubbio – si legge ancora – che sia l’avanzata illegale sulle terre indigene che la distruzione dilagante dei biomi brasiliani sono collegati direttamente ai vantaggi estrattivi ottenuti dall’iniziativa privata».

L’accusa è chiara e non smentibile: «La devastazione della più grande foresta pluviale del pianeta, con le sue gravi implicazioni per la stabilità climatica, non può essere intesa semplicemente come una questione brasiliana, ma come una tragedia resa possibile e potenziata dai mercati globali. Dalle società che acquistano e commerciano materie prime, le quali guidano la deforestazione e i conflitti per la terra, alle istituzioni che finanziano i comportamenti illeciti degli attori complici della distruzione, il capitale globale è decisivo per il mantenimento di un sistema economico fallimentare e del potere politico di coloro che lo difendono».

Se non bastasse questo rapporto, a confermare le complicità internazionali nella distruzione dell’Amazzonia provvede Beef, banks and the brazilian Amazon, un lavoro di Global Witness (dicembre 2020). Secondo questo studio, le tre principali compagnie brasiliane della carne – Jbs (la più grande al mondo), Marfrig e Minerva – esportano i loro prodotti in tutto il globo, rifornendo anche grandi catene di supermercati.

Si stima che, in Brasile, il 70% delle terre disboscate sia ora popolato da bovini, tanto che il paese ha la seconda mandria più grande del mondo. Oggi in Brasile ci sono più mucche che persone: 232 milioni contro 211. Il 40% dei bovini si trovano in territorio amazzonico.

Come aiutare la resilienza indigena

I popoli indigeni sono i soli in grado di convivere con l’ambiente naturale dell’Amazzonia (Fao-Filac, 2021; Ipam, 2021). Non si tratta soltanto di una correttezza storica (visto che ne sono gli originari abitanti), ma anche di una constatazione scientifica: le foreste in territorio indigeno si sono conservate in modo migliore delle altre consentendo tra l’altro la preservazione della biodiversità e la stabilità climatica. Demarcare e titolare i territori occupati da popoli indigeni sarebbe, dunque, un investimento per il futuro.

Come abbiamo visto, oggi la situazione pare però indirizzata in senso opposto. La resilienza messa in atto dai popoli indigeni non è sufficiente a fermare un’invasione e una distruzione che coinvolgono attori poderosi. Per fare effettivi passi avanti, occorrerebbe un coinvolgimento maggiore dei non indigeni e, in particolare, dei cittadini occidentali. Infatti, pur in presenza di innumerevoli denunce scientifiche, giornalistiche e – come abbiamo visto – papali, molti obiettano che così va il mondo e che non si può fare nulla per cambiare la situazione dell’Amazzonia. Che non sia facile è certamente vero, ma è altrettanto vero che non è impossibile se si assumono comportamenti da consumatori informati e responsabili. Per esempio, rifiutando di acquistare prodotti e merci legate allo sfruttamento dell’Amazzonia e dei suoi popoli o respingendo trattati commerciali insostenibili come quello tra Unione europea e paesi del Mercosur (riquadro pag. 20).

Una spinta arriva anche dal citato rapporto di Apib-Amazon Watch che, dopo aver criticato la nostra complicità, si conclude con una nota di incoraggiamento: «Il momento di agire è ora. C’è ancora tempo».

Paolo Moiola


L’Amazzonia sui media italiani

Gli anaffettivi e i miracolati

Era stata una piacevole sorpresa vedere un’inchiesta della Rai sulla situazione dell’Amazzonia. Un lavoro accurato (*). Poi, però, si è tornati alla «normalità». Il 12 febbraio il Corriere della Sera ha pubblicato un lungo articolo sugli Yanomami scadendo nei luoghi comuni (parlando, ad esempio, di alta aggressività e violenza anaffettiva). Francesca Casella, direttrice di Survival International Italia, ha scritto una lettera di protesta al direttore del quotidiano milanese. Il giornale si è però mostrato recidivo in fatto di completezza informativa.

Domenica 28 marzo un articolo e un video sul sito hanno raccontato con toni entusiastici la sopravvivenza nella foresta per 36 giorni di un brasiliano precipitato con il suo Cessna. Riducendo a fatto secondario che quell’uomo facesse un volo illegale per portare materiale ai garimpeiros, i minatori illegali che imperversano indisturbati nei territori indigeni.

Anche il New York Times ha raccontato (sempre il 28 marzo) la storia. Tuttavia, l’articolo ha pubblicato una foto dell’Amazzonia aggredita e ha dato ampio spazio al motivo del viaggio: «Il suo (del sopravvissuto, ndr) racconto, tuttavia, ha anche messo in luce l’industria mineraria illegale del Brasile, che è fiorita negli ultimi decenni nei territori indigeni e in altre parti dell’Amazzonia che dovrebbero essere santuari». Il quotidiano Usa ha anche descritto il pentimento del protagonista.

Quello stesso giorno, al Tg3 delle 19,00 è stato trasmesso un servizio in cui si descriveva l’avventura nella foresta del pilota miracolato. Peccato che, anche in questo caso, non sia stata detta una sola parola sul motivo per il quale quell’uomo sorvolasse con il suo piccolo aereo quella parte della foresta amazzonica. Volendo dare la notizia, correttezza e professionalità giornalistica avrebbero dovuto suggerire un’informazione completa. Bene che una persona si sia salvata da un incidente. Benissimo, aggiungiamo noi, che un carico di strumenti di morte e distruzione sia andato perso e che, dal fatto raccontato nella sua completezza, più persone possano comprendere cosa significhi il business delle miniere illegali (garimpos).

P.M.

Quest’incredibile immagine, catturata dalla Stazione spaziale internazionale (Iss, 24 dicembre 2020), mostra i fiumi «sporchi» d’oro nel dipartimento peruviano di Madre de Dios dove migliaia di minatori illegali stanno disboscando e inquinando l’ambiente in maniera irreparabile. Foto ISS-Nasa.


L’accordo Unione europea-Mercosur

«Auto per carne e soia»

L’accordo di libero commercio (Free trade agreement, Fta) tra l’Unione europea (Ue) e i paesi aderenti al Mercosur (Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay) è del luglio 2019. Il Centro studi della Confindustria ha commentato (17 febbraio 2020) positivamente («un buon inizio») l’intesa, vedendo un aumento delle esportazioni italiane verso «un mercato di 260 milioni di consumatori». L’accordo però non è ancora in vigore perché non è stato ratificato dai governi dei vari paesi, ma soprattutto perché sono emerse criticità e lacune, molto gravi soprattutto per l’ambiente e i popoli indigeni.

L’accordo in questione mira a facilitare le esportazioni degli uni e degli altri: carne (bovina e da pollame), soia e zucchero dal Mercosur; auto e macchinari dall’Europa. In America Latina, i costi ambientali e sociali, già altissimi ora in assenza dell’intesa, esploderebbero. Più carne, soia e canna da zucchero richiederebbero infatti più aree da adibire a pascoli e terreni agricoli. Sarebbe un’ulteriore spinta a un insano e ingiusto sistema di produzione fatto di latifondi e monocolture, a scapito delle foreste, della biodiversità, del clima, dei piccoli agricoltori, dei popoli indigeni. I più drastici (ma, purtroppo, non lontani dal vero) hanno sintetizzato l’accordo Fta in una formula: «Auto per carne e soia da deforestazione».

Verrebbero eliminati quote e dazi import-export, ma anche le cosiddette «barriere commerciali non tariffarie», che significa tagliare o alleggerire norme ambientali e sanitarie (per esempio, in materia di agrotossici, ormoni della crescita e organismi geneticamente modificati), nonché diritti dei lavoratori e, in ultima istanza, dei consumatori. Significa – è stato ancora sottolineato – innescare una guerra dei prezzi con i piccoli produttori europei costretti a ridurre costi e qualità per poter rimanere sul mercato.

Il grafico mostra le conseguenze reali a cui porterebbe l’applicazione dell’accordo di libero commercio tra l’Unione europea e i paesi del Mercosur. Immagine Friends of the Earth – Europe (modificata MC).

A parte i decision makers (politici, imprese transnazionali e lobbisti), in tanti hanno smontato la presunta bontà dell’intesa win-win («io vinco-tu vinci»): ecologisti, Ong cattoliche e ambientaliste (come Greenpeace), sindacati europei e latinoamericani, un gruppo di quasi 200 economisti.

Quest’accordo Ue-Mercosur non va ratificato. Non per questioni ideologiche, politiche o economiche, ma perché è insostenibile e anacronistico.

P.M.

(*) Rimando: «Guerra all’Amazzonia», Rai3, Presa Diretta, 8 febbraio 2021, reperibile sui siti della Rai.

Una pista clandestina per i piccoli aerei dei garimpeiros nel pieno della foresta amazzonia e della terra indigena degli Yanomami. Foto Hutukara Associação Yanomami (Hay) / Instituto Socioambiental (Isa).

Il libro:

  • Corrado Dalmonego-Paolo Moiola, Nohimayu, Emi, settembre 2019.

Archivio MC:




Montagne e valli alpine: Il futuro delle «Terre alte»


C’è un mondo vicino a noi che spesso non conosciamo. Sono le montagne e le valli alpine. Qui stanno accadendo cambiamenti interessanti. Vecchi e nuovi abitanti sperimentano innovativi modelli di vita. Cittadini venuti da molto lontano portano le loro idee e speranze. Questi luoghi sono patrimonio di tutti, ma occorre viverli e prendersene cura. Altrimenti, un giorno, tutti pagheranno il conto.

«Dislivelli è un’associazione culturale nata a Torino nel 2009. È composta da due anime: ricercatori universitari e comunicatori specializzati nel campo delle Alpi e della montagna». Chi parla è Maurizio Dematteis, giornalista, che ha lavorato per diverse testate dedicate alla montagna e si è occupato anche di migrazioni e cooperazione internazionale. È tra i fondatori di Dislivelli e l’attuale direttore responsabile della testata dislivelli.eu. «Il tentativo che facciamo noi che ci occupiamo di montagna è di studiarla e comunicarla. Perché vediamo che nell’opinione pubblica c’è ancora una visione della montagna stereotipata, e i messaggi che passano sui media mainstream sono legati allo sci, al pesce fresco in alta quota, dando un’immagine sbagliata, che serve solo a chi vuole fare cassa con la montagna».

La montagna è altro. Ha una propria economia, servizi, e soprattutto, diventa appetibile al turismo quando è vissuta. Se è abbandonata è meno interessante. «Dislivelli vuole dare il giusto posto ai territori montani e aiutare uno sviluppo sostenibile di queste terre», continua Dematteis.

L’associazione pubblica articoli e ricerche sul suo sito e una rivista mensile scaricabile gratuitamente in pdf. Due o tre numeri l’anno sono stampati, quando si trova un finanziamento ad hoc. «La distribuzione la facciamo noi, attraverso una nostra rete e i punti legati a Sweet mountains (vedi oltre, ndr). La si trova nei rifugi e nella nostra sede al castello del Valentino, dove nacque il Club Alpino Italiano».

Dislivelli realizza anche ricerche di taglio sociologico. «Sono realizzate da ricercatori del Politecnico di Torino e dell’Università. Adesso stiamo portando avanti la ricerca sui “turismi” in montagna, che nel prossimo autunno vogliamo presentare alla Regione Piemonte. Vogliamo far capire alle istituzioni che il turismo responsabile in montagna inizia ad avere numeri interessanti.

Flussi tra montagna e città

Nella vostra ultima ricerca, Intermont, esaminate i rapporti tra la montagna e la città. «Sì, è una ricerca durata due anni durante i quali abbiamo tentato di misurare i flussi, di tutti i tipi, tra la montagna e la città: rimesse, lavoro, materie prime. Abbiamo cercato di capire se lo scambio è bilanciato o no, e abbiamo fatto delle proposte di miglioramento dove non lo è. Il terreno di ricerca è stata la Città metropolitana di Torino (ex Provincia di Torino). Abbiamo visto un flusso di materie prime verso la città: acqua, legname, prodotti agricoli e caseari. Ma anche di pendolari. Questi ultimi sia per lavoro, sia per usufruire di servizi che in montagna non ci sono più. Abbiamo trovato un grande sbilanciamento dei flussi. Si pensa che i turisti portino rimesse in montagna, in realtà sono molto maggiori quelle dei montanari che lavorano in città e fanno i pendolari. Questa è la prima voce economica del territorio».

I territori alpini affrontano anche delle spese. «Le maggiori sono quelle per usufruire di servizi. Ci sono molti viaggi di persone che vanno in città per questioni sanitarie, studio, o anche solo per acquisti. Sono soldi che dalla montagna si riversano in città. Se i servizi fossero organizzati un po’ meglio sarebbe meno oneroso rimanere a vivere nelle valli alpine».

«Poi c’è la questione dell’acqua, che viene quasi tutta dalla montagna. Su questo ci sono dei riconoscimenti, ovvero le risorse delle Aato (Autorità dell’ambito territoriale ottimale). Quello che invece non è contabilizzato è l’ecosistema ambientale, cioè l’assorbimento di CO2, i benefici ambientali che la montagna dà a chi vive in città. Se poi si parla di dissesto idrogeologico, e si riconosce che il paesaggio montano è un bene comune, allora in qualche modo si deve tutelare. La montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti crolla. Occorre dunque fare una riflessione generale per capire dove si trovano le risorse per il mantenimento di questo paesaggio di cui usufruiscono tutti. Se no, si verificano fatti molto gravi, costosi a livello economico e talvolta di vite umane».

Servizi addio

Dalla ricerca Intermont si comprende che la riduzione dei servizi nei territori montani comporta delle conseguenze negative per l’economia generale del paese. Perché gli abitanti delle montagne, dovendo spendere una quota di reddito maggiore rispetto ai cittadini per usufruire degli stessi servizi, hanno meno risorse economiche da impiegare nella crescita del territorio. Se non si può tenere un presidio ospedaliero in tutti i paesi, si deve organizzare la rete dei trasporti in modo che le persone possano raggiungerli rapidamente.

Anche per l’educazione vale lo stesso discorso. Dice Dematteis: «Occorre organizzare dei servizi che rendano appetibili questi territori, altrimenti tutti i discorsi cadono e la gente li abbandona. Scuola, sanità e lavoro sono i primi punti».

Ma la Città metropolitana cosa fa? «Sulla questione trasporti stanno cercando di aprire a formule innovative, far entrare il privato, ma c’è una legislazione che non aiuta, un piano regionale dei trasporti che ha grossi vincoli.

Esiste tuttavia un progetto pilota nelle Valli di Lanzo, al quale partecipa anche Dislivelli. Ci sono due ingegneri dei trasporti che stanno pensando come organizzare meglio questo servizio nelle tre valli. Si sono detti: facciamo un budget considerando un discorso globale sulla valle, tenendo in conto chi ci vive e si sposta, studenti, lavoratori, ma anche coloro che sono accolti temporaneamente, come i numerosi richiedenti asilo».

Migranti in quota

A proposito di questo tema, da mesi sono comparsi in paesi e paesini di montagna gruppi di africani, a piedi o in bici. Oppure li incontriamo sui mezzi pubblici che giungono nei più remoti comuni. Altri chiedono autostop lungo la strada. Sono i «nuovi» abitati della montagna, richiedenti asilo ospiti di strutture nelle valli alpine. Ma ci chiediamo se c’è un reale interesse per un giovane migrante africano, o siriano, di farsi una nuova vita in montagna.

«Abbiamo fatto una ricerca su questo tema dal titolo Montanari per forza, che si contrappone all’altro lavoro che avevamo fatto, Montanari per scelta, sul ritorno di vita in montagna.

In realtà non ci sono ragazzi stranieri che vogliono andare in montagna, vengono assegnati lì con progetti di emergenza, perché il prefetto ha un elenco di realtà che possono accogliere. Queste creature arrivano in posti che mai si sarebbero immaginati. Con la nostra ricerca volevamo capire se può esistere un incontro tra l’esigenza di un territorio e nuovi potenziali abitanti. Un territorio che in alcune zone si spopola, è soggetto ad abbandono, avanzamento del bosco nei vecchi coltivi, dissesto idrogeologico. Un territorio che ha bisogno di persone, di braccia. Dall’altra parte c’è un movimento migratorio globale, con giovani che arrivano nel nostro paese, magari perseguitati, cacciati dalla loro terra, che cercano un progetto di vita nuovo».

«La risposta è sì. Esistono progetti davvero interessanti: a volte arrivano in 20, poi magari in 2 o 3 rimangono stabilmente. E questo fa la differenza per diversi comuni».

Ma i residenti non sempre vedono in tutto questo un vantaggio. Anzi. «Proprio nelle Valli di Lanzo la gente era arrabbiata con le cooperative che hanno portato i migranti. I comuni non erano stati avvertiti, e non hanno potuto preparare il territorio. Allora la gente si chiude, come direbbe il sociologo Aldo Bonomi, nella “comunità del rancore”, effetto comprensibile quando si ignora un fenomeno».

Rancore o accoglienza?

Ma, sempre in Valle di Lanzo, ci racconta Dematteis, si è generato un movimento volontario di società civile, che ha dato origine all’associazione Morus onlus, con una trentina di volontari attivi e il presidente Marino Poma. L’associazione ha creato il Coro Moro (vedi MC luglio 2016) e il Morus team, una squadra di calcio che ha vinto nella sua categoria. Di recente hanno ideato il Morus Style, ovvero realizzano vestiti e li commercializzano in un negozio a Torino.

«Tutto questo è nato grazie a un movimento volontario, che ha creato una “comunità dell’accoglienza” che si contrappone a quella del rancore. Oggi molti di loro si trovano una sera alla settimana e discutono. Questo fa bene a tutta la valle, mi diceva Poma. Ha rivitalizzato un tessuto sociale che era venuto un po’ meno. Inoltre alcuni ragazzi stranieri si sono fermati a vivere sul posto».

Sono casi d’integrazione, che però devono essere accompagnati, altrimenti possono nascere problemi in seguito.

«Ad esempio a Entracque, in valle Gesso, un imprenditore senza scrupoli ha comprato due vecchie strutture, che erano colonie estive, e vi ha messo 60 migranti. Il sindaco lo ha saputo il giorno stesso, e questo ha creato grossi problemi in un paese di 140 anime. E poi li lascia lì senza dare loro servizi necessari e dovuti, incassando 35 euro al giorno per ogni ospite».

Un caso positivo è quello del parco delle Alpi liguri dove si sta realizzando un progetto «Parco solidale». Il presidente del parco, Paolo Sasotto, ha fatto un accordo con la questura, fer fare lavoro volontario ai ragazzi: pulizia dei sentieri e recupero di terreni del parco abbandonati, dove il bosco sta avanzando.

«Molti ragazzi che migrano sognano la città. Ma quando arrivano si rendono conto che l’Europa non è come pensavano. In qualche caso si inseriscono sui territori dove sono arrivati. Sono numeri piccoli ma il territorio ha bisogno di queste persone».

Turismo «dolce»

Come accennato, una importante risorsa per la montagna è il turismo, ma stiamo assistendo a un grande cambiamento di questo settore. «Oggi il turismo in montagna è diviso in due modelli ben precisi. Uno che ha logiche d’investimento industriale: strutture grosse, necessità di molta promozione, di grandi investimenti anche pubblici e capitali non territoriali e l’altro è il turismo artigianale. Rispetto anni ‘80 e ‘90 c’è un grosso cambiamento.

Mentre quello industriale si sviluppa in pochi comuni sull’acro alpino italiano, quello artigianale è molto più capillare.

Quello industriale, basato soprattutto sullo sci, ha tre mesi di lavoro all’anno e in quel periodo deve pompare tantissimo. La stagione inoltre si è accorciata, si gioca in un periodo molto limitato, per questo è molto aggressivo.

Quello artigianale si sviluppa su 10-11 mesi. Si tratta di strutture che stanno aperte tutto l’anno. Da dieci anni a questa parte il turismo industriale è in calo, perché i costi sono aumentati, e se non hai innevamento artificiale sei tagliato fuori. Ad esempio in Trentino sono molto avanti sull’innevamento artificiale, così sono riusciti a far andare bene la stagione passata. In Piemonte invece l’Associazione impianti a fune chiede alla Regione di investire su questo, ma occorrono grossi capitali».

Il turismo artigianale è, sembra, la nuova frontiera. «Anche chiamato esperienziale è un turismo responsabile, sostenibile e rispettoso dell’ambiente, che si prefigge di legare il paesaggio con la fruizione dei prodotti, vini, formaggi, cultura, architettura e valorizzare le differenze e peculiarità di ogni luogo. Ha un investimento limitato perché non ci sono infrastrutture, si collega piuttosto alla sentieristica e cartellonistica.

Dislivelli ha creato Sweet Mountains, una rete che conta 300 realtà che fanno accoglienza, sulle Alpi in Piemonte. Il luogo dove vai a dormire, un rifugio, un bed&brekfast, un piccolo albergo, ti racconta un territorio. Sono collegati ad una serie di attività loclai “satelliti”, come il formaggiaio, l’ecomuseo, la guida naturalistica, i corsi di canoa. Con Sweet Mountains abbiamo creato tante micro reti che fanno lavorare tutti.

È un turismo in crescita in Italia. È già molto diffuso in Germania, Austria, Svizzera e in Francia.

I cittadini vogliono conoscere le terre alte, in modo diverso. È cambiata la fruizione di questi posti ed è un fenomeno che può portare grandi novità positive ai territori montani.

Ci siamo accorti che in Piemonte questo turismo non era rappresentato tra le altre istanze di settore. Per questo all’inizio di quest’anno abbiamo creato T.r.i.P. Montagna, dove la sigla sta per: Turismo responsabile in Piemonte. È un coordinamento che tiene insieme 700 professionisti della montagna: il Collegio regionale guide alpine del Piemonte, l’Associazione italiana guide ambientali naturalistiche, l’Associazione gestione rifugi alpini e posti tappa, la rete Sweet mountains, Dislivelli e Cantieri d’alta quota. E io ne sono il presidente».

Vado a vivere in montagna

Maurizio ha appena pubblicato il suo ultimo libro «Via dalla città, la rivincita della montagna» (Derive approdi, 2017), nel quale esamina il fenomeno del ripopolamento delle valli alpine.

«Si può parlare proprio di fenomeno, non si tratta di casi isolati, come negli anni ‘70 erano quelli noti come neo rurali. Quelle erano persone che rompevano nettamente con la città per andare in montagna a isolarsi, e fare una vita senza luce elettrica, ecc. Oggi invece si tratta di persone globalizzate, con formazione medio alta, con idee e un minimo di disponibilità economica. Vedono in questi territori delle opportunità di sviluppare progetti di vita, economici, sociali, famigliari. È un cambiamento epocale, perché si tratta di luoghi definiti svantaggiati, marginali, ma loro li vedono con occhi nuovi e ne intuiscono le potenzialità che fino a pochi anni fa nessuno vedeva, perché il modello imperante era urbano ed era difficile capire che anche in montagna ci sono dei valori. Poi sono cambiate le sensibilità su ambiente, energie rinnovabili, e questo fa sì che certi territori siano di nuovo appetibili. Ma la differenza è che queste persone pretendono servizi, non vogliono isolarsi.

Così la rinascita di alcuni luoghi montani passa attraverso i nuovi montanari che vengono da fuori, perché quelli nativi faticano a vedere le opportunità della loro terra. Questi invece arrivano con occhi diversi». Così le valli alpine diventano laboratorio di innovazione, di sperimentazione di nuovi modelli di vita.

«La montagna, se ha un minimo di servizi, è un posto dove ci sono opportunità inattese.

Il modello tradizionale in montagna è finito, e questo ci dispiace. Ma si sono aperti spazi nei quali inventare un altro modello, c’è una grossa libertà. E ci sono materie prime che puoi utilizzare. Sono due elementi che rendono questi territori ottimi per le innovazioni.

Abbiamo un esempio in Val Varaita, dove sono arrivati giovani e si è arrestato lo spopolamento. Un gruppo di loro si è detto: facciamo un progetto di valle, endogeno, senza chiedere soldi all’Europa o alle banche, che si sostenga sulle risorse che abbiamo qui. Le risorse sono: acqua, legno, animali di allevamento e selvatici e prati. Hanno realizzato un progetto integrato che ha creato reddito, che in parte è stato reinvestito in servizi per la valle. Hanno inventato Gestalp, società con la quale hanno realizzato e gestito due centraline idroelettriche. In seguito hanno realizzato altre centrali innovative, sempre per produrre energia elettrica.

Hanno anche recuperato la canalizzazione dei prati da sfalcio, e l’associazione allevatori ne ha beneficiato. Il tutto è partito otto anni fa e oggi conta 12 posti di lavoro che diventeranno 20 nel 2025. Per una valle come quella diventa la principale attività.

Una cosa così in città non si può fare, perché non ci sono spazi ne risorse, tutto è blindato. Per questo dico che questi neo montanari sono persone avanti, una vera e propria avanguardia».

Marco Bello