Da terra nullius a terra privata
testo di Paolo Moiola |
L’assalto all’Amazzonia pare diventata un’invasione inarrestabile. Soprattutto con la spinta del capitano Bolsonaro e dell’emergenza pandemica. I popoli indigeni, ultimo baluardo difensivo, ne stanno pagando le conseguenze. Ma il problema è mondiale, se l’Amazzonia è «patrimonio dell’umanità». Come da tempo afferma papa Francesco.
Si dice che su internet si possa comprare di tutto. Pare un’esagerazione, invece è la realtà. L’ultima conferma è arrivata da un’inchiesta della Bbc, la televisione pubblica inglese. Un lavoro giornalistico pregevole, ma molto inquietante. I corrispondenti dal Brasile hanno infatti scoperto che su Facebook, la più grande rete sociale del mondo, sono in vendita pezzi di Amazzonia. Lotti protetti di grandi o grandissime dimensioni (si parla di mille campi da calcio) e, si noti bene, senza alcun titolo di proprietà regolare, trattandosi di boschi dello stato o di riserve indigene.
A tal punto di indecenza è arrivato il disprezzo per la legge e la morale. Difficile stabilire una graduatoria di colpevolezza: il social ospitante, gli inserzionisti o le autorità governative.
«È nostra!»
È da tempo che l’Amazzonia è sotto attacco. Avviene in tutti i nove paesi amazzonici, ma soprattutto in Brasile, che ne ospita oltre il 60 per cento. Qui la situazione è precipitata con l’arrivo al potere del capitano Jair Messias Bolsonaro. Questo militare di piccolo cabotaggio e ammiratore della dittatura non ha mai nascosto il proprio pensiero fondato sul populismo neoliberista. Nel suo discorso del 24 settembre 2019 (primo anno del suo mandato), davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, aveva affermato l’impegno solenne per la difesa dell’ambiente affermando che l’Amazzonia è praticamente intoccata. Ma, soprattutto, aveva detto: «L’Amazzonia è nostra, non dell’umanità».
A Bolsonaro aveva risposto non un presidente, ma papa Francesco, considerato da molti come il leader più autorevole del pensiero ambientalista. L’Amazzonia, ha precisato il papa nell’esortazione apostolica Querida Amazonia, «è anche “nostra”» (QA 5).
«Terra di nessuno»
È dal Brasile, principale paese amazzonico, che è necessario partire per inquadrare la situazione. Una situazione molto grave, che la pandemia ha peggiorato.
La filosofia del governo Bolsonaro è chiara. La difesa dell’Amazzonia e dei suoi abitanti originari è considerata un intralcio allo sviluppo economico e all’arricchimento individuale. Pertanto, ogni legge ambientale va superata e ogni difensore (organizzazione o persona) reso impotente. I popoli indigeni vanno scacciati dalle loro terre o eliminati (culturalmente più che fisicamente) perché costituiti da esseri inferiori, incapaci di comprendere i principi economici che regolano la società bianca.
Francesco parla di «una falsa “mistica amazzonica”». Scrive il papa al punto 12 di Querida Amazonia: «È noto infatti che dagli ultimi decenni del secolo scorso l’Amazzonia è stata presentata come un enorme spazio vuoto da occupare, come una ricchezza grezza da elaborare, come un’immensità selvaggia da addomesticare». È da questa concezione dell’Amazzonia come «terra nullius» che, oggi come ieri, deriva la sua invasione da parte di: fazendeiros (latifondisti dell’agrobusiness), madeireiros (tagliaboschi), garimpeiros (minatori) sotto lo sguardo disattento se non l’ombrello protettivo dello stato. Uno stato intenzionato a completare la strada da Porto Velho a Manaus, nota come Br-319, che aprirebbe nuovi, pericolosissimi varchi nell’Amazzonia.
In tutto questo, il metodo più subdolo perché ammantato da un falso alone di legalità («bianca») è quello conosciuto come grilagem (land grabbing, in inglese), l’accaparramento di terre. Il sistema generalmente riguarda terre pubbliche o terre occupate da secoli da popoli indigeni o comunità tradizionali (come quilombolas e ribeirinhos).
Secondo un’associazione legale di Bahia (Associação de Advogados de trabalhadores rurais no estado da Bahia, Aatr), il fenomeno del grilagem è passato nel tempo da una falsificazione rudimentale dei documenti (dando loro un’apparenza di vecchiaia utilizzando escrementi di grilli, da cui il nome) a procedimenti più sofisticati per trascrivere le false proprietà nei registri immobiliari. È così che i latifondi per l’allevamento bovino o le monocolture (soia, soprattutto) si sono incrementati a dismisura e i loro proprietari, veri e presunti, si sono insediati nei parlamenti (bancada ruralista) per promuovere leggi in loro favore, contro l’ambiente e i popoli indigeni.
Una delle norme più vergognose studiate dal governo Bolsonaro è proprio la regolarizzazione delle terre pubbliche illegalmente occupate, in una parola il condono del grilagem (Medida provisoria 910 nota come «MP da grilagem», trasformata in progetto di legge 2.633/2020).
Le invasioni dei minatori illegali sono brevi nel tempo, ma forse ancora più nefaste: una volta ottenuto il prodotto (oro, in primis), lasciano la zona devastata per passare a un’altra.
Le immagini dei territori amazzonici dopo il passaggio dei garimpeiros sono più impressionanti di una foresta abbattuta o bruciata, di un pascolo occupato da migliaia di vacche o di un terreno coltivato a soia transgenica. Sono «cicatrici nella foresta» come le definisce il titolo di un recente (marzo 2021) rapporto redatto dall’associazione indigena guidata da Davi Kopenawa (Hutukara associação yanomami, Hay) e dall’Instituto socioambiental (Isa). E si tratta di cicatrici profonde: nel solo 2020, sul territorio degli Yanomami le aree degradate sono aumentate di 500 ettari, soprattutto lungo i letti dei grandi fiumi (Uraricoera,
Mucajaí, Catrimani e Parima). L’attività mineraria, viene osservato, non è più quella dell’uomo solitario che cerca l’oro con strumenti artigianali. Oggi è diventata un’attività d’impresa con investimenti importanti in macchinari, materiali e logistica e l’utilizzo di aerei, elicotteri e barche. I vari addetti vengono normalmente pagati in grammi d’oro.
Inoltre, la vicinanza forzata con i garimpeiros ha prodotto tra gli indigeni un’esplosione di casi di malaria (le aree disboscate facilitano la diffusione delle zanzare) e di Covid-19, oltre che di avvelenamento da mercurio (utilizzato dai minatori).
Complicità internazionali
Se non ci fossero sbocchi di mercato per i prodotti amazzonici, verrebbero meno le motivazioni economiche e speculative di latifondisti, tagliaboschi e minatori.
Un rapporto prodotto da un’altra organizzazione indigena (Articulação dos povos indígenas do Brasil – Apib con Amazon Watch, 2020) concentra l’attenzione sulle «complicità nella distruzione» dell’Amazzonia da parte di imprese, banche (tra cui GP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America), istituti finanziari e società di fondi d’investimento stranieri (come la BlackRock, la più grande del mondo).
«Ogni giorno – si legge all’inizio del rapporto -, la soia, la carne, i minerali e altre materie prime prodotte su larga scala in Brasile sbarcano nei porti dei paesi di Europa, Sud America, Cina, Stati Uniti e altri mercati globali. Molte volte, queste merci lasciano dietro di sé ferite di abusi dei diritti umani e di devastazione ambientale che minacciano il futuro della più grande foresta tropicale del mondo e i suoi popoli e, di conseguenza, il futuro del nostro clima». «Non c’è dubbio – si legge ancora – che sia l’avanzata illegale sulle terre indigene che la distruzione dilagante dei biomi brasiliani sono collegati direttamente ai vantaggi estrattivi ottenuti dall’iniziativa privata».
L’accusa è chiara e non smentibile: «La devastazione della più grande foresta pluviale del pianeta, con le sue gravi implicazioni per la stabilità climatica, non può essere intesa semplicemente come una questione brasiliana, ma come una tragedia resa possibile e potenziata dai mercati globali. Dalle società che acquistano e commerciano materie prime, le quali guidano la deforestazione e i conflitti per la terra, alle istituzioni che finanziano i comportamenti illeciti degli attori complici della distruzione, il capitale globale è decisivo per il mantenimento di un sistema economico fallimentare e del potere politico di coloro che lo difendono».
Se non bastasse questo rapporto, a confermare le complicità internazionali nella distruzione dell’Amazzonia provvede Beef, banks and the brazilian Amazon, un lavoro di Global Witness (dicembre 2020). Secondo questo studio, le tre principali compagnie brasiliane della carne – Jbs (la più grande al mondo), Marfrig e Minerva – esportano i loro prodotti in tutto il globo, rifornendo anche grandi catene di supermercati.
Si stima che, in Brasile, il 70% delle terre disboscate sia ora popolato da bovini, tanto che il paese ha la seconda mandria più grande del mondo. Oggi in Brasile ci sono più mucche che persone: 232 milioni contro 211. Il 40% dei bovini si trovano in territorio amazzonico.
Come aiutare la resilienza indigena
I popoli indigeni sono i soli in grado di convivere con l’ambiente naturale dell’Amazzonia (Fao-Filac, 2021; Ipam, 2021). Non si tratta soltanto di una correttezza storica (visto che ne sono gli originari abitanti), ma anche di una constatazione scientifica: le foreste in territorio indigeno si sono conservate in modo migliore delle altre consentendo tra l’altro la preservazione della biodiversità e la stabilità climatica. Demarcare e titolare i territori occupati da popoli indigeni sarebbe, dunque, un investimento per il futuro.
Come abbiamo visto, oggi la situazione pare però indirizzata in senso opposto. La resilienza messa in atto dai popoli indigeni non è sufficiente a fermare un’invasione e una distruzione che coinvolgono attori poderosi. Per fare effettivi passi avanti, occorrerebbe un coinvolgimento maggiore dei non indigeni e, in particolare, dei cittadini occidentali. Infatti, pur in presenza di innumerevoli denunce scientifiche, giornalistiche e – come abbiamo visto – papali, molti obiettano che così va il mondo e che non si può fare nulla per cambiare la situazione dell’Amazzonia. Che non sia facile è certamente vero, ma è altrettanto vero che non è impossibile se si assumono comportamenti da consumatori informati e responsabili. Per esempio, rifiutando di acquistare prodotti e merci legate allo sfruttamento dell’Amazzonia e dei suoi popoli o respingendo trattati commerciali insostenibili come quello tra Unione europea e paesi del Mercosur (riquadro pag. 20).
Una spinta arriva anche dal citato rapporto di Apib-Amazon Watch che, dopo aver criticato la nostra complicità, si conclude con una nota di incoraggiamento: «Il momento di agire è ora. C’è ancora tempo».
Paolo Moiola
L’Amazzonia sui media italiani
Gli anaffettivi e i miracolati
Era stata una piacevole sorpresa vedere un’inchiesta della Rai sulla situazione dell’Amazzonia. Un lavoro accurato (*). Poi, però, si è tornati alla «normalità». Il 12 febbraio il Corriere della Sera ha pubblicato un lungo articolo sugli Yanomami scadendo nei luoghi comuni (parlando, ad esempio, di alta aggressività e violenza anaffettiva). Francesca Casella, direttrice di Survival International Italia, ha scritto una lettera di protesta al direttore del quotidiano milanese. Il giornale si è però mostrato recidivo in fatto di completezza informativa.
Domenica 28 marzo un articolo e un video sul sito hanno raccontato con toni entusiastici la sopravvivenza nella foresta per 36 giorni di un brasiliano precipitato con il suo Cessna. Riducendo a fatto secondario che quell’uomo facesse un volo illegale per portare materiale ai garimpeiros, i minatori illegali che imperversano indisturbati nei territori indigeni.
Anche il New York Times ha raccontato (sempre il 28 marzo) la storia. Tuttavia, l’articolo ha pubblicato una foto dell’Amazzonia aggredita e ha dato ampio spazio al motivo del viaggio: «Il suo (del sopravvissuto, ndr) racconto, tuttavia, ha anche messo in luce l’industria mineraria illegale del Brasile, che è fiorita negli ultimi decenni nei territori indigeni e in altre parti dell’Amazzonia che dovrebbero essere santuari». Il quotidiano Usa ha anche descritto il pentimento del protagonista.
Quello stesso giorno, al Tg3 delle 19,00 è stato trasmesso un servizio in cui si descriveva l’avventura nella foresta del pilota miracolato. Peccato che, anche in questo caso, non sia stata detta una sola parola sul motivo per il quale quell’uomo sorvolasse con il suo piccolo aereo quella parte della foresta amazzonica. Volendo dare la notizia, correttezza e professionalità giornalistica avrebbero dovuto suggerire un’informazione completa. Bene che una persona si sia salvata da un incidente. Benissimo, aggiungiamo noi, che un carico di strumenti di morte e distruzione sia andato perso e che, dal fatto raccontato nella sua completezza, più persone possano comprendere cosa significhi il business delle miniere illegali (garimpos).
P.M.
L’accordo Unione europea-Mercosur
«Auto per carne e soia»
L’accordo di libero commercio (Free trade agreement, Fta) tra l’Unione europea (Ue) e i paesi aderenti al Mercosur (Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay) è del luglio 2019. Il Centro studi della Confindustria ha commentato (17 febbraio 2020) positivamente («un buon inizio») l’intesa, vedendo un aumento delle esportazioni italiane verso «un mercato di 260 milioni di consumatori». L’accordo però non è ancora in vigore perché non è stato ratificato dai governi dei vari paesi, ma soprattutto perché sono emerse criticità e lacune, molto gravi soprattutto per l’ambiente e i popoli indigeni.
L’accordo in questione mira a facilitare le esportazioni degli uni e degli altri: carne (bovina e da pollame), soia e zucchero dal Mercosur; auto e macchinari dall’Europa. In America Latina, i costi ambientali e sociali, già altissimi ora in assenza dell’intesa, esploderebbero. Più carne, soia e canna da zucchero richiederebbero infatti più aree da adibire a pascoli e terreni agricoli. Sarebbe un’ulteriore spinta a un insano e ingiusto sistema di produzione fatto di latifondi e monocolture, a scapito delle foreste, della biodiversità, del clima, dei piccoli agricoltori, dei popoli indigeni. I più drastici (ma, purtroppo, non lontani dal vero) hanno sintetizzato l’accordo Fta in una formula: «Auto per carne e soia da deforestazione».
Verrebbero eliminati quote e dazi import-export, ma anche le cosiddette «barriere commerciali non tariffarie», che significa tagliare o alleggerire norme ambientali e sanitarie (per esempio, in materia di agrotossici, ormoni della crescita e organismi geneticamente modificati), nonché diritti dei lavoratori e, in ultima istanza, dei consumatori. Significa – è stato ancora sottolineato – innescare una guerra dei prezzi con i piccoli produttori europei costretti a ridurre costi e qualità per poter rimanere sul mercato.
A parte i decision makers (politici, imprese transnazionali e lobbisti), in tanti hanno smontato la presunta bontà dell’intesa win-win («io vinco-tu vinci»): ecologisti, Ong cattoliche e ambientaliste (come Greenpeace), sindacati europei e latinoamericani, un gruppo di quasi 200 economisti.
Quest’accordo Ue-Mercosur non va ratificato. Non per questioni ideologiche, politiche o economiche, ma perché è insostenibile e anacronistico.
P.M.
(*) Rimando: «Guerra all’Amazzonia», Rai3, Presa Diretta, 8 febbraio 2021, reperibile sui siti della Rai.
Il libro:
- Corrado Dalmonego-Paolo Moiola, Nohimayu, Emi, settembre 2019.
Archivio MC:
- Roque Paloschi, Fratello indigeno, sorella Amazzonia, giugno 2020.
- Paolo Moiola (a cura di), Amazzonie, dossier sul Sinodo panamazzonico, gennaio-febbraio 2020.