Le Società Benefit: una realtà in crescita


Una grande ambizione: essere un nuovo modello economico alternativo alla vecchia concezione di impresa orientata solo al profitto. Dal vecchio modello industriale e societario prendono l’obiettivo di generare utili e ricchezza, e dal mondo del no profit quello di essere impegnate al servizio del bene comune. È solo un cambio di pelle o una risposta genuina ai bisogni del nostro tempo?

Oltre la metà della popolazione mondiale oggi possiede un buon tenore di vita, ma vive in un mercato saturo che porterà il suo benessere a diminuire. Al contempo, quasi tre miliardi di persone hanno ancora bisogno di tutto. In Italia, nel prossimo quinquennio, mancheranno poco meno di 100 miliardi di Euro per coprire la spesa sanitaria e i bisogni sociali. Lo stato se n’è sempre occupato da solo o sostenendo privati che non hanno rischiato di tasca propria: perciò, se alla fine il modello non è stato efficiente, chi ci ha rimesso è sempre stato «solo» il contribuente.

Mentre i bisogni della popolazione crescono e aumenta la domanda sociale, i governi si trovano in una crescente condizione di ristrettezza di risorse. Ma i bisogni insoddisfatti sono un problema irrisolto che non conviene a nessuno e allora si devono cercare altre risorse. Questo richiede un approccio nuovo che non sia il solito aumento delle tasse. Nel mondo ci sono imprenditori e finanzieri che hanno iniziato a ragionare sulla possibilità che il connubio impresa-finanza possa essere utilizzato anche per generare maggior benessere sociale e soddisfare gli interessi di tutte le parti: secondo loro l’impresa può creare risorse e generare impatto sociale e la finanza può essere un vero moltiplicatore di ricchezza.

Nasce la «Società Benefit»

Alle svariate «forme giuridiche d’impresa» esistenti se n’è quindi aggiunta una nuova: la Benefit Corporation (società Benefit – B Corp). Le sue origini risalgono al 2006 e hanno portato alla formalizzazione nel 2010, negli Usa, della forma giuridica delle B Corp, che ora esiste in 31 stati degli Usa, e che ha stimolato la recentissima nascita in Italia delle «Società Benefit». Nel 2014 le prime B Corp italiane certificate (da B Lab, una organizzazione no profit a cui tutte le società Benefit fanno riferimento, vedi www.bcorporation.eu) hanno promosso un progetto politico e giuridico la cui disciplina è entrata in vigore a partire dal 1 Gennaio 2016.

Il 26 febbraio dello stesso anno le prime cinque aziende italiane hanno trasformato la propria forma giuridica da mera società for profit a società Benefit e da allora decine di altre aziende italiane si sono trasformate (alla data odierna sono più di 80). Attualmente nel mondo sono oltre 2.000 le B Corp certificate e si stima che altre 50.000 stiano valutando la propria identità per ottenere la certificazione. Città come New York City hanno addirittura dato vita a progetti come il Best for NYC, per incoraggiare imprenditori sociali a stabilire le loro attività sul proprio territorio, per il miglioramento dell’intera città e delle proprie attività di welfare.

Primi in Europa

Una volta tanto l’Italia ha fatto scuola e ha introdotto, prima in Europa e prima al mondo fuori dagli Usa, le società Benefit per consentire a imprenditori, manager, azionisti e investitori di distinguersi sul mercato attraverso una forma giuridica virtuosa e innovativa. Tali società rappresentano l’evoluzione del concetto stesso di azienda poiché, mentre le società tradizionali esistono con l’unico scopo di creare profitto e distribuire dividendi agli azionisti, le società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

A differenza delle altre organizzazioni non profit (Onlus, Aps/Associazioni di promozione sociale, Imprese Sociali, ecc.) le società Benefit mantengono sì lo scopo di lucro, ma a questo aggiungono il perseguimento di uno o più effetti positivi o la riduzione di effetti negativi su persone, comunità, territorio e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse. Il tutto in modo responsabile, sostenibile e trasparente con una gestione che richiede ai manager un serio bilanciamento tra l’interesse dei soci e l’interesse della collettività.

Un profitto condiviso

Il profitto come obiettivo primario è sempre stato il criterio dominante nei processi decisionali ma molti ora vedono questo come un ostacolo nella creazione di valore a lungo termine per tutti gli stakeholder (o attori, secondo la Treccani: «Chi ha interessi nell’attività di un’organizzazione o di una società, ne influenza le decisioni o ne è condizionato»), inclusi gli azionisti stessi, i cosiddetti shareholder. Gli azionisti sono sempre più coscienti che non si può più solo speculare sul breve termine e che comportamenti non in linea con l’aspettativa dei clienti alla lunga penalizzano, perché questi non comprano più né prodotti né servizi. Il meccanismo è analogo a quanto è successo nel biologico, dove c’erano individui che volevano un prodotto più sano e più rispettoso dell’ambiente e, mentre all’inizio questo rappresentava solo una nicchia, oggi è diventato un vero settore di mercato.

Le società Benefit pertanto vanno oltre un semplice modello di breve periodo e prendono in considerazione tutte le parti interessate nelle loro decisioni: ciò garantisce loro la flessibilità necessaria a creare valore per tutti gli stakeholder nel lungo periodo, anche a fronte di cessioni parziali e acquisizioni, entrata di nuovi manager, capitali, passaggi generazionali o quotazioni in borsa.

Non i migliori del mondo ma migliori per il mondo

Non appare trascurabile anche il fatto che i nuovi talenti per lavorare scelgono le aziende che hanno un impatto sociale positivo. È un fatto importante che il 77% dei millenials affermi che «lo scopo dell’azienda è parte fondamentale del motivo per cui hanno scelto di lavorare in essa». I millennials (generazione nata tra i primi anni ‘80 e il 2000, ndr) costituiscono da soli oltre il 50% della futura forza lavoro, che diventerà il 75% entro il 2025.

Inoltre, le informazioni non finanziarie sono diventate fondamentali poiché la maggior parte degli investitori ritiene che le imprese non siano adeguatamente trasparenti in merito ai rischi non finanziari e quasi la metà degli investitori esclude determinati investimenti sulla base di informazioni non finanziarie (come impatto sull’ambiente, inquinamento e riciclo, trattamento dei dipendenti in particolare le donne, uso di materie prime certificate, non essere associati con produzione e vendita di armi, ecc.). In fondo non si vuole un’azienda che sia «la migliore del mondo» ma «migliore per il mondo».

Ridefinire il «valore»

Aristotele pensava che ci fosse un «giusto prezzo per ogni cosa» e Marx pensava che il valore fosse generato dal lavoro ma, più di recente, la maggior parte degli economisti ha accettato che l’unico concetto di valore che abbia senso nasce dall’interazione tra domanda e offerta sui mercati: «qualcosa ha valore solo se qualcuno è disposto a pagare per essa». Tale definizione di valore costringe gli economisti a osservare il comportamento reale, piuttosto che cercare di scoprire realtà nascoste. Molti elettori sono disposti a pagare le tasse per le forze di polizia e le scuole primarie e molti governi sono in grado di fornire questi servizi. Molti donatori sono disposti a finanziare l’assistenza sanitaria per i bambini nei paesi in via di sviluppo e molte associazioni locali sono in grado di fornire tale assistenza. In questi ambiti, analizzare il valore sociale non è difficile, perché i legami tra ciò che vogliono i finanziatori e ciò che i fornitori possono offrire è chiaro. Ma, per altre questioni sociali i legami tra domanda e offerta sono carenti e, in alcuni casi, la domanda effettiva può mancare perché finanziatori, politici o privati cittadini non percepiscono un bisogno come sufficientemente urgente da giustificare l’impiego delle loro risorse.

Consorzio Auxilium

A Torino, nel 2016, è nato il Consorzio Auxilium, facente capo a una generazione di imprenditori che credono nelle società Benefit e che desiderano, al contempo, promuovere un approccio culturale al tema del valore di impresa che non sia basato solo in termini di profitto.

Attraverso gli strumenti legali e finanziari messi a disposizione dal mondo delle Sb, essi hanno la possibilità di spiegare ai stakeholder e ai shareholder come le risorse investite in tali aziende possono contribuire al raggiungimento di risultati coerenti con la propria mission, generando al contempo un impatto sociale positivo.

Al Consorzio si aderisce per spirito mutualistico e di interesse reciproco, ma anche con l’obiettivo dichiarato che una percentuale del fatturato generato per mezzo degli scambi promossi dal Consorzio sia destinata ad alimentare attività sociali di vario genere, a partire dall’ambito locale. Nel suo primo anno di vita il Consorzio ha dato lavoro a famiglie «trovate» davanti ai supermercati della Città, promosso corsi di italiano per l’integrazione degli stranieri, attivato progetti di formazione, finanziato progetti di cooperazione sociale e internazionale… e siamo solo all’inizio.

Paolo Rossi*

* Ha una laurea in Economia e master in Sviluppo umano e ambiente, con esperienze di studio, volontariato e lavoro all’estero; è presidente della Col’Or Ong, impegnato nel Consorzio Auxilium e assegnista di ricerca presso l’Università del Piemonte Orientale.

Bibliografia e Sitografia

Barrow CJ, Valutazione dell’Impatto Sociale: una introduzione, Hodder Arnold, London, UK, 2000
Becker Henk. A. e Vanclay F. (a cura di), The International Handbook of Social Impact Assessment, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, UK, 2006
Boltanski L., Laurent T., Sulla giustificazione: Economie di ciò che conta, Università di Princeton Press, Princeton, NJ, 2006
Chouinard Y. E Stanley V., The Responsible Company: what we’ve learned form Patagonia’s firts 40 years, Patagonia Books, Ventura, CA, USA, 2011
Dewey J., Teoria della Valutazione, Università di Chicago, 1939
Edmondson B., Ice cream social: the struggle for the soul of Ben&Jerry’s, Berret-Koehler Publisher, Oakland, CA, USA, 2014
Honeyman R., The B Corp handbook, Berrett-Koehler Publishers, USA, 2014
Lazzaroni M., Agora partnership: structuring a seed stage investment in Nicaragua, INCAE Business School, 2005
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http://www.auxilium.company
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https://www2.deloitte.com/content/dam/Deloitte/global/Documents/About-Deloitte/gx-millenial-survey-2016-exec-summary.pdf
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http://www.youtube.com/user/bcorporstions
http://www.societabenefit.net/news/




Congo Brazzaville: non solo petrolio


Un paese semisconosciuto. Spesso confuso con il suo vicino, il più noto Congo RD. Ma è uno dei principali produttori africani di petrolio. E i rapporti con l’Italia sono molto stretti, da mezzo secolo. Non tra i popoli, ma tra i vertici e i tecnici delle imprese petrolifere. Cerchiamo di sapee di più.

Tra Italia e Repubblica del Congo c’è un’amicizia di lunga data. Il mastice che tiene uniti i due paesi è il petrolio. Dal 1968, l’Eni, la società italiana di idrocarburi, estrae greggio e continua a fare prospezioni nei fondali marini e sulla terra ferma della nazione africana. Non è un caso che il premier italiano Matteo Renzi nella sua prima visita in Africa, nel luglio 2014, abbia incluso una tappa proprio a Brazzaville, la capitale del Congo. E in quella visita si premurò di incontrare il presidente Denis Sassou Nguesso. Esiste quindi un solido sodalizio d’affari. Per noi italiani Brazza è un partner strategico, come lo sono Angola, Mozambico, Algeria, Nigeria e, un tempo, Libia.

Un mare di greggio

L’economia della Repubblica del Congo – anche chiamata Congo Brazza – dipende in gran parte dal petrolio. Il paese è uno dei cinque grandi produttori dell’Africa subsahariana (insieme ad Angola, Nigeria, Gabon e Mozambico). Secondo i dati foiti dal Fondo monetario internazionale, l’«oro nero» assicura l’80% delle entrate del bilancio statale. Il greggio viene estratto soprattutto da giacimenti offshore (cioè al largo delle coste), ma esistono riserve anche sulla terraferma, così come notevole è la presenza di sabbie bituminose dalle quali è possibile ricavare petrolio (sebbene con procedimenti molto inquinanti e costosi). Il Congo Brazza ha pure importanti giacimenti di gas che però non riesce a sfruttare appieno perché manca una rete di distribuzione (nonostante rappresentino un’ulteriore potenziale fonte di ricchezza).

«Il Congo – spiega Antonio Tricarico, analista dell’associazione Re:Common, che a più riprese si è occupato della situazione congolese – punta anzitutto allo sfruttamento dei giacimenti marini. E questo per due motivi: in primo luogo perché nei fondali congolesi il petrolio è abbondante e le riserve promettono bene, in secondo luogo perché i giacimenti petroliferi congolesi sono relativamente vicini alla costa e quindi più facilmente sfruttabili. Alcuni anni fa, quando il prezzo del greggio era abbastanza elevato, il Congo ha investito nello sfruttamento delle sabbie bituminose e dei biocombustibili. Il progetto però è rimasto limitato alla fase esplorativa, probabilmente perché non era più conveniente rispetto alla produzione offshore e sulla costa. Oggi il governo punta soprattutto sulla concessione delle tradizionali licenze di sfruttamento». Secondo l’Energy Information Administration (ente statistico sull’energia del governo Usa), il paese ha riserve di petrolio che ammontano a 1,6 miliardi di barili. Un patrimonio che potrebbe portare sollievo a quella ampia fascia (46,5%) di popolazione che vive ancora sotto la soglia di povertà e potrebbe garantire energia al 65% di congolesi che ancora vivono senza elettricità.

Sventola il tricolore

Questa ricchezza però fa gola a molti. E infatti sul territorio di Brazza operano compagnie statunitensi, francesi, portoghesi, angolane. E, come già detto, anche l’italiana Eni. La società di San Donato opera nella nazione africana da 48 anni. È impegnata sul fronte dell’estrazione di petrolio, del gas naturale e delle sabbie bituminose. Secondo quanto riporta il sito Eni (www.eni.it), nel 2015 in Congo sono stati estratti un totale di 103mila barili al giorno tra gas e petrolio, cioè poco meno di quanto si estrae in Nigeria (137mila barili) e più di quanto viene ottenuto dai pozzi in Angola (101mila). La produzione è concentrata nei giacimenti di Zatchi, Loango, Ikalou, Djambala, Foukanda e Mwafi, Kitina, Awa Paloukou, M’Boundi, Kouakouala, Zingali e Loufika. Proprio quest’anno, 2016, l’Eni ha aumentato la produzione e prevede di toccare i 14mila barili al giorno. L’attività degli italiani si è concentrata soprattutto sull’estrazione marina.

Il blocco Marine XII sembra quello più promettente: si stima che i vari giacimenti di quest’area abbiano riserve di gas e petrolio per circa 6 miliardi di barili. Ma le esplorazioni continuano e gli ingegneri del «Cane a sei zampe» pensano che altre risorse siano ancora disponibili. L’Eni inoltre è attiva anche nella produzione di corrente elettrica. Nel 2007 ha infatti siglato un accordo con Brazzaville per la realizzazione di centrali elettriche che utilizzano il gas flaring, cioè il gas associato all’estrazione di petrolio. Questo gas, invece di essere rilasciato nell’atmosfera (è molto inquinante), viene portato, attraverso un gas-dotto di 55 km, nell’area di Djeno dove sono state realizzate due centrali che producono energia.

«I rapporti tra Congo ed Eni sono ottimi – osserva Tricarico -. Una piccola curiosità: Claudio Descalzi, l’attuale amministratore delegato dell’azienda del “Cane a sei zampe”, ha fatto una parte importante della sua carriera proprio in Congo e si è sposato con una donna congolese. Al di là dei pettegolezzi, la società italiana, in questi ultimi anni, ha rafforzato la sua presenza nel paese africano che è diventato sempre più strategico per i piani alti di San Donato. Nei prossimi anni, se non nei prossimi mesi, l’Eni dovrebbe addirittura acquisire alcune delle licenze ora in mano a Total. Quest’ultima pare invece volersi progressivamente sganciare da Brazzaville. L’Eni è quindi un attore chiave nel paese ed è destinato a diventarlo sempre di più in futuro».

Petrolio opaco

Il settore petrolifero congolese però alimenta un sistema opaco, in cui è difficile definire con esattezza i confini tra la legalità e la complicità con un sistema politico non trasparente, e poco rispettoso delle procedure democratiche. La questione che ha destato maggiore perplessità negli osservatori è il decreto presidenziale (non ancora trasformato in legge) approvato nel 2014. Esso prevede l’obbligo di rinnovo delle concessioni petrolifere e, in tale contesto, la cessione di una percentuale che va dall’8 al 10% (in alcuni casi fino al 25%) delle concessioni a società congolesi. Ciò non esclude lo sfruttamento dei giacimenti da parte delle compagnie straniere, ma impone una presenza sempre più importante di società congolesi nel settore degli idrocarburi.

Nel 2014 l’Eni ha venduto proprie partecipazioni in quattro campi petroliferi a una società che si chiama Aogc (Africa oil & gas corporation). La notizia della cessione a Aogc è emersa durante l’assemblea degli azionisti dell’Eni il 13 maggio 2015. «La Aogc è stata proposta come partner da Eni o dal governo congolese?», ha chiesto Elena Gerebizza, azionista e rappresentante delle due Ong Global Witness e Re:Common. «Non siamo stati noi a sceglierla», ha risposto Claudio Descalzi. L’Aogc non è una società qualsiasi. Nel consiglio di amministrazione siedono Denis Gokana, consigliere del presidente Sassou Nguesso, e alcuni funzionari pubblici. Nel 2005 l’azienda è finita nel mirino dell’Alta corte di giustizia inglese che l’ha inserita in una lista di società offshore create per distrarre i ricavi petroliferi congolesi. Secondo una ricerca di Global Witness, la Aogc sarebbe anche servita per pagare i salati conti dello shopping parigino di Denis Christel, figlio del presidente Sassou Nguesso (spesso i dirigenti africani amano fare compere nelle capitali europee, ndr).

Ma quello dell’Aogc non è l’unico caso che desta perplessità. «Nel periodo 2003-2005 – continua Tricarico – esistevano in Congo varie società petrolifere che io definirei di facciata, perché prendevano appalti dalla società nazionale degli idrocarburi e poi utilizzavano i soldi a beneficio della famiglia presidenziale. In questi mesi, nella Repubblica di San Marino, l’intermediario francese Philippe Maurice Chironi sta subendo un processo per presunto riciclaggio di 70 milioni di euro – di cui circa 20 effettivamente sequestrati – riconducibili a persone legate al presidente del Congo Brazzaville, Denis Sassou Nguesso».

Il settimanale «l’Espresso» ha sollevato un altro caso delicato, quello del blocco Marine XII. Il regime di Nguesso ha posto una condizione per il rilascio della concessione – ha scritto il periodico -: l’Eni avrebbe dovuto cedere il 25% del blocco a un’azienda selezionata dal governo. La scelta è caduta sulla New Age, una società nata due anni prima su iniziativa dell’Och-Ziff Capital Management Group, il più grande hedge fund statunitense. «Per quello scambio con Eni – si legge su l’Espresso -, New Age ha detto di aver versato all’azienda guidata oggi da Descalzi 53 milioni di dollari. Il problema è che quel prezzo era equivalente a un terzo del valore reale della quota, secondo i calcoli della McDaniel Associates Consultants, società di consulenza citata dalla stessa New Age. Ovvero la quota azionaria è stata largamente sottopagata. La differenza, spiega l’Eni, dipende dal fatto che “non si è trattato di una vendita su base commerciale; New Age entrò rimborsando proporzionalmente le spese sostenute fino al momento dell’ingresso nella joint venture”. Sulle attività africane di Och-Ziff stanno indagando le autorità statunitensi. Né l’hedge fund né gli inquirenti hanno specificato su quali investimenti sono in corso gli accertamenti».

Dulcis in fundo, sempre «l’Espresso», ha denunciato l’esistenza nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands di una società, la Elengui Limited, la cui direttrice e socia unica era Marie Madeleine Ingoba, moglie congolese di Claudio Descalzi. La società è stata chiusa proprio nei giorni in cui Matteo Renzi ha nominato Descalzi al posto di Paolo Scaroni (2014).

Perché la moglie dell’allora numero due dell’Eni ha creato questa società? Marie Madeleine Ingoba ha sostenuto che «la società era stata costituita al solo scopo di essere utilizzata per sviluppare un progetto immobiliare a Brazzaville, la ristrutturazione e l’ammodeamento di un hotel nella capitale congolese, che però non si è mai materializzato». La scelta di crearla in un paradiso fiscale è stata dettata dalla praticità – ha detto la signora Descalzi -, la registrazione alle British Virgin lslands era la soluzione più rapida e meno costosa. Ma, sempre secondo la signora Descalzi, la sua società non ha mai avuto alcun rapporto con Eni.

L’amicizia è una bella cosa, ma il rischio è che l’Italia sia diventata troppo amica del Congo.

Enrico Casale

 




Il paradiso non può attendere


Il meccanismo dell’elusione fiscale spesso non è illegale. Ma si basa su manipolazioni, società di comodo e corruzione. E soprattutto colpisce gli onesti e priva le casse pubbliche di denaro necessario a pagare i servizi essenziali per tutti.

Neppure la donna più potente del mondo sa come risolvere il problema, per questo ha chiesto aiuto a una Ong, così alla vigilia della conferenza internazionale contro la corruzione, che si è svolta a Londra lo scorso maggio, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, ha convocato Winny Byanyima, africana, presidente di Oxfam Inteational, per discutere del più grave e inestricabile nodo del sistema economico mondiale: i paradisi fiscali.

Si calcola che individui e imprese nascondano nei territori off shore qualcosa come 7.600 miliardi di dollari, che, secondo uno studio pubblicato dal quotidiano francese Le Monde, provengono per 2.600 miliardi dall’Europa, 1.200 dagli Stati Uniti, 300 dal Canada, 200 dalla Russia, 1.300 dall’Asia, 800 dai paesi del Golfo, 700 dall’America Latina e 500 dall’Africa. Denaro che sfugge, più o meno legalmente, alle imposizioni fiscali degli stati, ricchezza rubata alla collettività dei paesi, dove i profitti e i redditi sono creati anche grazie alle infrastrutture e ai servizi pagati dai cittadini onesti.

Basterebbe il 5 % di una tale somma per sfamare gli affamati, garantire un’istruzione a tutti i bambini del mondo, curare tutti i malati, assicurare un reddito alle donne, depurare suolo e acque inquinati, fornire energia anche ai luoghi più sperduti, insomma attuare quell’agenda per lo sviluppo che le Nazioni Unite invocano dall’inizio del Millennio.

Sono soprattutto le grandi imprese, consigliate da studi legali ricompensati profumatamente, che eludono il fisco attraverso varie pratiche: dichiarazioni dei redditi manipolate, creazione di società di comodo, adozione del trasfer pricing. Politiche queste, di trasferimento dei prezzi tra filiali e consociate con sede in paesi diversi, come le vendite di prodotti a prezzi inferiori nei paradisi fiscali e la successiva esportazione verso i paesi di destinazione a prezzi maggiorati.

In molti casi si ricorre alla corruzione dei funzionari pubblici e si comprano informazioni da politici compiacenti. Racconta il quotidiano The Guardian che l’impresa britannica Heritage Oli&Gas Ltd, che ha sostenuto la campagna elettorale di David Cameron, avvisata che l’Uganda stava per incrementare il prelievo fiscale sui profitti petroliferi si è precipitata a ridomiciliare la società nelle isole Mauritius, un paradiso fiscale che non ha sottoscritto con il governo ugandese l’accordo sulla doppia imposizione; con questa mossa astuta ha evitato di pagare 400 milioni di dollari in più, una cifra che corrisponde a quello che il governo dell’Uganda spende annualmente per la sanità.

Non siamo rimasti particolarmente scioccati dalla vicenda dei Panama Papers. Le informazioni diffuse dall’Inteational Consortium of Investigative Joualists, ribadiscono semplicemente che ci sono tanti furbi, più o meno famosi, nel mondo della politica, delle banche, delle imprese, dello sport e dello spettacolo che, per non pagare le tasse, trasferiscono i loro beni in paesi dal fisco inesistente o molto malleabile. Molti dei casi scoperti non sono illegali (è questo forse il vero scandalo), ciononostante l’elusione fiscale è davvero deleteria: colpisce i contribuenti onesti, crea svantaggi competitivi per le piccole e medie imprese e priva le casse pubbliche del denaro per pagare i servizi essenziali. La fuga dei capitali inoltre è particolarmente odiosa quando colpisce i paesi poveri: nei Panama Papers troviamo anche il nome di Aliko Fangote che, secondo la rivista Forbes, è l’uomo più ricco dell’intera Africa, grazie alle sue innumerevoli attività produttive e commerciali che lucrano sulle preziose materie prime africane. Da oltre trent’anni, da quando era al potere il presidente americano Ronald Reagan, ostile a qualsiasi regolamentazione, l’Ocse sta studiando il modo per arginare il fenomeno dei paradisi fiscali e ha redatto liste nere e grigie che comprendono oggi 38 paesi distribuiti nei vari continenti. Ne fanno parte piccole isole come Tonga e le Cayman, ma anche stati come il Delaware (Usa), che ha meno di 1 milione di abitanti ma ospita la sede legale di 1 milione e 100 mila società.

La Commissione europea ha cercato di introdurre dei meccanismi di trasparenza per impedire l’elusione fiscale da parte delle multinazionali. Lo scorso 12 aprile ha definito che solo le corporations con un fatturato annuo superiore ai 750 milioni di euro (rimangono escluse l’80% delle imprese) devono presentare una rendicontazione finanziaria paese per paese, e solo all’interno dei confini della Ue, in altre parole non saranno obbligate a raccontare nulla sui profitti maturati nei paesi extracomunitari.




Povertà disuguaglianze in aumento


Pochissimi ricchi possiedono sempre di più, mentre aumenta il numero dei poveri nel mondo. Le cause sono scelte fiscali inadatte e politiche salariali che acuiscono il divario. E la situazione continua a peggiorare.

Ormai ci sono più miliardari a Pechino che a New York, a riprova del fatto che la ricchezza sta crescendo anche in paesi che una volta erano considerati del «terzo mondo».

La ricchezza cresce, ma la povertà non diminuisce, anzi in certe aree del mondo, ad esempio in Europa, sta aumentando. Nel suo recente rapporto «L’economia per l’1%», l’Ong Oxfam calcola che 62 miliardari hanno una ricchezza pari a metà della popolazione mondiale, possiedono da soli quello che 3 miliardi e mezzo di esseri umani si devono spartire.

In Europa il club dei più ricchi è formato da 342 miliardari che hanno un patrimonio di 1.340 miliardi di dollari. E, sempre in Europa, dal 2009 al 2013, i poveri assoluti, vale a dire di coloro che non riescono a pagarsi le cure se si ammalano o a riscaldarsi d’inverno, sono cresciuti di 7,5 milioni, portando il numero a superare i 50 milioni. In Italia, la percentuale delle persone colpite dalla povertà è cresciuta dal 2005 al 2014 passando dal 6,4% all’11,5%. Si tratta soprattutto di bambini e ragazzi sotto i 18 anni.

Dell’incremento della ricchezza prodottosi dall’inizio del secolo, il 50% è rimasto nelle mani dell’1% della popolazione mondiale.

Dunque i ricchi si arricchiscono e tengono la loro ricchezza ben stretta senza diffondee i benefici, smentendo clamorosamente la teoria del trickle down (sgocciolio), che ha ispirato le politiche economiche liberiste che puntavano a favorire i soggetti più forti e dinamici che avrebbero fatto sgocciolare la loro ricchezza fino ai settori sociali più deboli e poveri.

Trent’anni di valutazioni e decisioni sbagliate in economia hanno prodotto un mondo fortemente ineguale, dove la crescita avvantaggia chi è già ricco.

La principale di queste scelte sbagliate riguarda le tasse, ovunque sono state promosse politiche fiscali regressive: più sei ricco, meno paghi. L’Italia non fa eccezione: i governi di centrodestra (più liberisti degli altri) hanno abolito la tassa di successione, mantenuto sotto la media europea il prelievo sulle rendite finanziarie, allentato i controlli contro l’evasione. Viviamo nel paese d’Europa con maggior carico fiscale, ma sono i lavoratori, i consumatori e le piccole imprese che ne sopportano il peso, infatti le aliquote sui redditi più alti si sono dimezzate dal 1980 ad oggi. Il compianto Luciano Gallino in «Finanzacapitalismo», uscito nel 2011, affermava: «Se un lavoratore ha un imponibile di 28mila euro (circa 1.500 ore di lavoro) paga 6.960 euro di tasse, invece chi ha un capitale depositato dello stesso importo e non muove un dito ne paga 5.600».

Il magnate Warren Buffet ha avuto l’ardire di riconoscere che lui paga meno tasse di tutti gli altri dipendenti della sua società, persino meno della sua segretaria o degli addetti alle pulizie.

Queste politiche distorte hanno bloccato quello che gli economisti chiamano «l’ascensore sociale»: chi nasce povero oggi ha più probabilità di rimanere povero rispetto a cinquanta anni fa.

Dice l’economista Joseph Stiglitz, tra i primi a denunciare il fenomeno della disuguaglianza e i suoi rischi: «La maggioranza dei cittadini ha la sensazione di giocare a un gioco dove le carte sono truccate, per questo abbandona il tavolo», in altre parole non confida nelle istituzioni, non va a votare, perde il rispetto per la classe politica incapace di porre rimedio al problema o peggio asservita ai gruppi più ricchi.

Chi non prova vergogna di fronte allo scandalo dell’ingiustizia sono le imprese multinazionali pronte a strapagare i loro manager, comprimere i salari e ridurre i posti di lavoro.

Oxfam India denuncia che il Ceo (in italiano, l’amministratore delegato), della più importante azienda informatica indiana guadagna 416 volte di più di un proprio impiegato. Anche in Italia non si scherza: le differenze salariali tra dipendenti e manager vanno da 1 a 163, secondo il rapporto Fisac Cgil del 2015 un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni e 326 mila euro all’anno, un dipendente porta a casa una media di 26 mila euro lordi annui.

Questo spiega perché anche in Italia le risorse si concentrano sempre di più nelle mani di pochi e l’1% della popolazione detiene il 23,4% di tutta la ricchezza prodotta nel nostro paese.

Sabina Siniscalchi

 




Il presidente che iniziò al Boca

 

Dal 10 dicembre a guidare l’Argentina c’è un nuovo presidente, il conservatore Mauricio Macri, figlio di un ricco imprenditore italiano. La sua carriera pubblica iniziò nel 1995 quando fu eletto alla presidenza del Boca Juniors, una delle più conosciute e titolate squadre di calcio al mondo. Adesso Macri è alla guida di una nazione dove i problemi – a cominciare da quelli economici – non mancano mai. E la sua coalizione, riunita sotto la slogan Cambiemos (Cambiamo), non ha la maggioranza al Congresso.

San Paolo (Brasile), 7 febbraio. L’hotel è pieno di argentini in attesa di un volo per l’Europa. L’occasione è propizia per fare qualche domanda. «Come si sta comportando il nuovo presidente?», chiediamo a un gruppo di loro. «L’uomo si sta dando da fare per chiudere con l’epoca di Cristina», è il coro unanime. Facciamo notare che la (ex) presidenta ha varato programmi sociali importanti e che ha combattuto a livello internazionale contro la speculazione finanziaria, un cappio al collo dell’Argentina. I cosiddetti «fondi avvoltornio» (fondos buitre) ne sono ancora oggi la manifestazione più vergognosa e intollerabile (sotto qualsivoglia punto di vista). Non riusciamo tuttavia a convincere i nostri interlocutori, i quali – con visibile disapprovazione – elencano gli ultimi casi di corruzione. Forse è una casualità o forse sono le normali contumelie – consuete in (quasi) tutto il mondo – nei riguardi dei rappresentanti politici. Di sicuro Mauricio Macri, l’inatteso vincitore delle elezioni presidenziali dello scorso dicembre, rappresenta un cambio in un certo qual modo «storico» perché si colloca al di fuori – almeno in teoria – delle due grandi coalizioni politiche argentine, quella giustizialista-peronista (di cui fa parte la corrente kirchnerista, una sorta di peronismo di sinistra) e quella radicale.

Handout picture released by the City Govement of Buenos Aires, showing Pope Francis (L) greeting Buenos Aires Mayor Mauricio Macri (C), his wife Juliana Awada and their daughter Antonia, during a private audience in Vatican City on September 19, 2013. AFP PHOTO / GCBA / Antonello Nusca --- RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / GCBA / Antonello Nusca " - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS / AFP / GCBA / Antonello Nusca
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Il calcio è potere

Chi è, e da dove proviene il nuovo presidente? Figlio di un italiano che in Argentina ha costruito un impero economico1, Macri ha trovato la sua personale rampa di lancio non nel mondo dell’impresa, bensì in quello del calcio, che nel paese latinoamericano costituisce – senza timore di smentita – una vera e propria «religione». Soprattutto quando si parla del Boca (Juniors), la squadra dell’omonimo quartiere di Buenos Aires, fondata nel 1905 da un gruppo di ragazzi figli di immigrati italiani. Il Boca è uno dei club più famosi a livello mondiale, in cui hanno militato campioni celebrati, come Diego Armando Maradona e oggi Carlos Tévez.

Macri ne è stato lungamente (dal 1995 al 2008) presidente, e soprattutto un presidente vittorioso. Durante e dopo quell’esperienza di dirigente calcistico, si collocano anche le sue fortune politiche, prima come deputato nazionale e poi come governatore del distretto di Buenos Aires, cuore pulsante del paese.

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Conservatore e liberista

Le prime mosse di Macri sono state quelle proprie di un politico conservatore e liberista.

Alcuni giorni dopo la sua entrata alla Casa Rosada, il neopresidente ha annunciato (14 dicembre) la sua prima misura di carattere economico: l’eliminazione delle tasse (retenciones) sull’esportazione per i produttori agricoli di frumento, mais e carne; la riduzione di quella per i produttori di soia (il prodotto principe delle esportazioni, una fonte d’oro e di disastri ambientali). Un regalo di enorme valore per i latifondisti argentini, che dal 2008 lottavano contro il regime fiscale imposto da Cristina Kirchner Feández. La seconda misura è stata varata pochi giorni dopo: la cancellazione del regime di controllo cambiario sul dollaro, che limitava gli acquisti della valuta statunitense per cittadini e imprese. La liberalizzazione ha prodotto una immediata svalutazione della moneta nazionale, il peso, rendendo i prodotti argentini più competitivi (ma facilitando anche la fuga di capitali e l’inflazione).

La politica economica del neopresidente piace ai ricchi. E probabilmente piacerà anche alle istituzioni inteazionali che contano, tra cui non rientra l’Assemblea generale della Nazioni Unite. Va ricordato che quest’ultima, il 10 settembre 2015, aveva votato una risoluzione – con 136 voti a favore, 41 astensioni e 6 contrari (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Giappone, Germania e Israele) – per limitare le azioni dei fondi speculativi nei confronti dei debiti sovrani (dell’Argentina e di molti altri paesi). Si era trattato di una bella vittoria per Cristina, ma una vittoria meramente morale, senza alcuna ricaduta pratica. L’inefficacia di quella risoluzione ha ribadito come nel mondo finanziario le decisioni siano prese da pochissimi a spese della stragrande maggioranza.

Tanto per intenderci, a pochi giorni dalle elezioni argentine il Financial Times aveva pubblicato un articolo con un titolo emblematico: Anything bests Feández (Qualsiasi cosa sarà meglio di Cristina)2.

Il de profundis del Clarín

Se è vero che al Congresso la coalizione di Macri (Cambiemos) non ha la maggioranza, è altrettanto vero che il neopresidente non si troverà a dover combattere con il Grupo Clarín, come invece è capitato ai governi di Néstor e Cristina Kirchner.

Il Gruppo Clarín è di gran lunga la principale industria editoriale dell’Argentina3. Ad esso fanno capo giornali (tra cui il quotidiano El Clarín), televisioni, radio, reti di comunicazione. Tra il Clarín e i Kirchner – rei di voler limitare per legge (Ley de Medios) il monopolio mediatico del gruppo – è sempre stata guerra. Una guerra senza esclusione di colpi.

Subito dopo la vittoria di Mauricio Macri, il gruppo editoriale non solo ha recitato il de profundis del kirchnerismo, ma ne ha scritto le memorie, non salvando praticamente nulla dei 12 anni di governo. Lo ha fatto, utilizzando le sue migliori risorse umane e tecnologiche, con il corposo dossier El legado K (L’eredità K)4 e con il film Ficción K, el documental del relato (Commedia K, il documentario del racconto)5.

Quello fatto dal Clarín è un dipinto a tinte fosche, quasi da far rimpiangere l’epoca di Carlos Menem (1989-1999) o addirittura i tempi della dittatura (1976-1983): un paese diviso, l’aumento della povertà (1 argentino su 4), la distruzione dell’agricoltura e dell’allevamento, la forte contrazione dell’industria. Anche la battaglia per i diritti umani – con la celebrazione dei processi a un migliaio di militari golpisti – alla fine viene interpretata come un’arma di seduzione e di acquisto di consensi nelle mani dei Kirchner6.

Adesso tutto cambierà, prevede il dossier del Clarín. «Il quinquennio 2016-2020 e il nuovo scenario politico – vi si legge – offrono una piattaforma di opportunità per avanzare»7.

Talentuosa, ma indisciplinata

Qualunque sia l’eredità lasciata dall’epoca dei Kirchner, la presidenza di Mauricio Macri non sarà comunque una passeggiata. Il quadro economico generale è problematico e imprevedibile, sia a livello nazionale che latinoamericano. Il paese rimane potenzialmente molto ricco, ma afflitto da patologie che paiono inguaribili (corruzione generalizzata, diseguaglianze sociali marcate).

Semplificando, si potrebbe forse dire che l’Argentina è un po’ come i suoi calciatori: talentuosa, ma indisciplinata.

Paolo Moiola
(seconda parte – fine)

 

Note

(1) Il fondatore è Francesco Macri, nato a Roma nel 1930.
(2) Articolo del 21 ottobre, reperibile sul sito del quotidiano britannico: www.ft.com
(3) Il sito: www.grupoclarin.com.ar
(4) Il dossier sui 12 anni di kirchnerismo si può leggere liberamente a questo link: http://especiales.clarin.com/el-legado-K/
(5) Il documentario si può vedere liberamente a questo link: http://www.clarin.com/politica/Ficcion-capitulos-peor-relato_0_1489651181.html
(6) Silvana Boschi, Las conquistas que terminaron siendo manipuladas por el relato, in dossier citato.
(7) Dante Sica, La industria, de la expansión a una fuerte contracción, in dossier citato.




In ricchezza e in povertà


In questo dossier: Finanza e speculazione, un’analisi di Andrea Baranes; il grande imbroglio dell’Economia di Francesco Gesualdi; Euro e Unione Europea di Bruno Amoroso; l’Economia Vaticana di Aldo Maria Valli; Sempre ladra è la Miseria di Aldo Antonelli. Il tutto condito dalla regia di Paolo Moiola.


 

Lavoratori Esuberanti, Borse Felici

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Clicca sull’immagine per leggere tutto il dossier in formato pdf.

Che l’attuale sistema economico sia ingiusto lo dicono in tanti. Il problema è che troppo pochi provano a cambiarlo.

In economia le variabili in gioco sono sempre tante e spesso imprevedibili. Eppure, alla fine, tutto su riduce a una questione di domanda e di offerta. Può essere, ad esempio, una domanda di armi, di più armi. L’aumento degli attacchi terroristici e dell’insicurezza, in borsa ha prodotto un aumento del valore delle multinazionali delle armi nella prospettiva di un (ulteriore) incremento delle loro vendite. Può essere una domanda di profitto, di più profitto. Quando una grande banca ha annunciato migliaia di esuberi (di propri lavoratori) immediatamente c’è stato un innalzamento di valore del titolo borsistico della stessa.

Quando una multinazionale del fast food – già sponsor di Expo – ha deciso di aumentare i dividendi degli investitori è andata a comprimere i costi, iniziando da quelli per il personale (già retribuito con salari di pura sussistenza)1.

Per una persona comune è difficile capire cosa sia più negativo in ambito economico. Un tempo gli strali del sentire medio erano diretti soprattutto verso le multinazionali che inquinano e sfruttano senza mai pagare il fio. Poi è toccato ai politici corrotti e/o privilegiati. Quindi, soprattutto in Italia, si è passati a singole categorie: i commercianti che non rilasciano lo scontrino fiscale, i dentisti che non fanno la fattura, i giorniellieri che dichiarano redditi inferiori a quelli dei propri lavoratori, i dipendenti pubblici che timbrano il cartellino e poi se ne vanno per i fatti loro, oppure quelli che usano i certificati medici come giustificazione falsa per assentarsi dal lavoro. Senza generalizzare, tutte queste situazioni malsane rimangono purtroppo vere e attualissime, creando un clima avvelenato che porta a una guerra di tutti contro tutti.

In questo modo si perde però di vista – nonostante si viva in uno status di iperinformazione (anche se per larga parte di pessima qualità) – l’origine del tutto: il modello economico del capitalismo neoliberista con le sue fondamenta ideologiche (deregulation, privatizzazioni, riduzione o addirittura eliminazione dello stato sociale) e filosofiche (la globalizzazione e il pensiero unico). Perpetuandosi e anzi rinvigorendosi il modello (come accadrà, ad esempio, se passerà il «Trattato di commercio transatlantico»), ecco dunque che il cancro della speculazione continua a espandersi, che le diseguaglianze aumentano anno dopo anno (con la «beneficienza» dei miliardari che si sostituisce allo stato sociale), che la terra e i suoi beni naturali sono depredati senza ritegno. Detta in altri termini, si vedono i singoli malanni, ma si trascurano la malattia e le sue cause.

Siamo andati troppo avanti? Esistono vie d’uscita? Soluzioni ce ne sarebbero, ma sono difficili da far accettare alla maggioranza (che pure è vittima), e comunque richiedono tempo. In ogni caso, prendendo a prestito un’affermazione della direttrice di Oxfam: «Non si può andare avanti così»2. Ancora più chiaro è Pedro Casaldáliga: «Non si potrebbe mantenere un sistema tanto iniquo, se non fosse per l’inibizione di una gran parte della popolazione […]. È ora di svegliarci perché è urgente cambiare le regole»3.

A maggior ragione in epoca di terrorismo.

Paolo Moiola

 

NOTE

  1. Tutti gli esempi si riferiscono a fatti reali accaduti nel novembre 2015.
  2. Winnie Byanyima, direttore esecutivo di Oxfam, prefazione a Partire a pari merito, ottobre 2014.
  3. Pedro Casaldáliga, introduzione a Agenda Latinoamericana 2016, Disuguaglianza e proprietà, ottobre 2015. L’agenda è uno straordinario concentrato di informazioni e riflessioni. Casaldáliga è vescovo emerito di São Félix do Araguaia (Brasile).



Boom economico, diritti in crisi


Il secondo paese d’Africa per abitanti vive una crescita economica tra le più alte al mondo. Ma il livello di vita nelle campagne resta molto basso. Le elezioni di maggio hanno confermato il partito al potere. E sui diritti la strada da percorrere resta lunga.

Arba Minch. Sono le quattro e trenta del mattino. Improvvisamente una voce irrompe nel silenzio totale. È un suono amplificato, un uomo canta una nenia, forse una preghiera. Difficile stabilire se si tratta di una lingua o di un semplice suono vocale.

È ancora buio quando il sacerdote ortodosso della chiesa St. Gabriel porta il microfono alla bocca e inizia la sua cantilena. Non smetterà, se non per piccole pause, fino alle tre del pomeriggio. Sono preghiere nell’antica lingua geez, che per l’amharico, lingua nazionale, corrisponde a quello che è il latino per l’italiano. È la festa di Yefilseta Tsom (il digiuno di Maria), dedicata alla Madonna. Dura sedici giorni ad agosto, durante i quali i fedeli sono chiamati a pregare al mattino presto e a digiunare fino al pomeriggio.

Siamo ad Arba Minch, a 450 km a Sud di Addis Abeba. Città di circa 110.000 abitanti e un elevato tasso di crescita di 4,5% annuo, che, a prima vista, sembra non avere nulla di speciale. Si divide in città bassa Sikela e città alta Shecha. Qui i quartieri si inerpicano sulla montagna. All’improvviso però la salita finisce e ci si ritrova su una rara balconata naturale che offre uno spettacolo splendido. La foresta tropicale ai propri piedi, di fronte la montagna chiamata Ponte di Dio che divide il lago Chamo dal lago Abaya, distesa d’acqua di 1162 km quadrati (oltre tre volte il lago di Garda), dalla quale spuntano isolette coperte di vegetazione. La città si adagia su questa falesia, ai piedi della quale l’acqua filtrata dalla montagna origina decine di sorgenti. Da qui il nome, Arba Minch, che in amharico significa «quaranta sorgenti».

Siamo nel bel mezzo della famosa  Rift Valley, la larga «vallata» che si estende dalla Siria al Mozambico, e segna la separazione naturale tra la placca africana e quella araba. In particolare, in Etiopia, separa l’altopiano etiopico da quello somalo.

Un paese «emergente»

In Etiopia vivono circa 96,5 milioni di persone di 80 etnie (cfr. MC aprile 2011), il che lo rende il secondo stato più popoloso dell’Africa, dopo la Nigeria. È anche una delle economie di punta del continente (e del mondo) con un Pil in crescita media del 10% negli ultimi 10 anni. Ha però la contraddizione di avere uno dei Pil pro capite più bassi (tra gli ultimi nove, poco superiore a Congo Rd e Niger)1. È in atto un vero boom economico, legato in gran parte a uno sviluppo di tipo infrastrutturale: costruzione di case, palazzi, strade e ferrovie (la prima metropolitana leggera in Africa sub sahariana è quasi pronta ad Addis Abeba). Mentre nelle campagne, così come nelle remote zone di montagna, e nelle aree desertiche la povertà è ancora da sconfiggere e l’accesso ai servizi (sanità, educazione, acqua) è tutt’altro che garantito.

L’Etiopia vive ancora una dipendenza strutturale dagli aiuti estei. Si valuta che siano in media tre i miliardi di dollari che entrano ogni anno nel paese come aiuto allo sviluppo2.

Ad Arba Minch il panorama urbanistico è in rapida evoluzione. Vediamo diversi cantieri, alcuni molto appariscenti: un grosso ospedale, un impressionante centro congressi, diverse infrastrutture dell’università (la Arba Minch University è nota in tutto il paese e conta oltre 20.000 studenti universitari) e perfino una chiesa ortodossa. Tutti edifici che spiccano per le loro imponenti dimensioni.

Anche la capitale Addis Abeba vive un’esplosione urbanistica senza precedenti. Oltre ai grossi edifici pubblici, orribili condomini prendono il posto delle baracche dei quartieri poveri.

Notevoli sono anche le dighe in costruzione: da quelle sul fiume Omo (la Gilgel Gibe III e pianificate le IV e V), molto criticate a livello internazionale per il loro impatto ambientale, alla Grande diga etiopica della Rinascita. Questa è un colosso sul Nilo Azzurro che, con la centrale idroelettrica collegata, è previsto produrrà 6.000 Mw di elettricità, la maggiore di tutta l’Africa. Il costo è di oltre 4 miliardi di dollari e la realizzazione è affidata all’italiana Salini-Impregilo Spa.

In Etiopia anche il turismo è in espansione. Grazie alla sua storia millenaria, il paese offre importanti siti storici, culturali e religiosi ma anche naturalistici ed etnografici: città antichissime come Lalibela e Axum (Aksum), parchi naturali e popoli speciali. I visitatori sono passati da 460mila nel 2010 a 681mila nel 2013. Non a caso, anche grazie alla diplomazia, il Consiglio europeo per il turismo e il commercio3 ha scelto proprio l’Etiopia come «migliore destinazione turistica mondiale 2015».

Alteanza senza alternativa

La coalizione di partiti al potere, il Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico (Eprdf, sigla inglese), si è confermato egemone alle elezioni del 24 maggio scorso. Costituita intorno dal Fronte di liberazione del popolo del Tigray, i guerriglieri che nel 1991 rovesciarono il regime militare di Meghistu Hailé Mariam (1974-91), è al potere da allora. Importante è stata la figura del carismatico primo ministro Meles Zenawi, morto di malattia nel 2012, e intorno al quale il regime ha sviluppato un vero culto della personalità. Tanto che a tre anni di distanza è ancora celebrata la data della sua scomparsa, gli sono consacrati passaggi televisivi foto che lo ritraggono restano appese in negozi e uffici.

Per sostituirlo, il partito (ma era stato lui a sceglierlo) ha designato Hailemariam Desalegn. Di etnia wolayta del Sud, si distingue dai tigrini, gruppo di Meles, che controllano il potere, e per questo, figura più defilata, ma anche di equilibrio tra i diversi popoli.

Se nel precedente parlamento, solo uno dei 546 seggi era andato all’opposizione, l’assemblea uscita dalle ue quest’anno è monocolore. Anche i parlamenti regionali vedono solo 21 membri dell’opposizione su un totale di 1987 eletti.

Gli osservatori dell’Unione Africana (Ua, che ha sede ad Addis Abeba) hanno qualificato le consultazioni come «calme, pacifiche e credibili», che «hanno dato la possibilità al popolo di esprimersi». Da notare che gli osservatori dell’Unione europea e del Carter Centre non sono stati invitati, mentre quelli della Ua erano 59 su una popolazione di elettori di oltre 30 milioni.

Taye Negussie, professore di sociologia all’Università di Addis Abeba ha commentato: «Questo risultato era totalmente atteso, non c’è multipartitismo in Etiopia».

«L’Eprdf vede le elezioni come un’opportunità per coinvolgere la popolazione in un atto di partecipazione politica, sebbene non competitiva» scrive Jason Mosley, analista dell’istituto indipendente di studi strategici Chataham House di Londra4.

L’opposizione è frammentata e molti leader sono in esilio volontario perché temono ritorsioni.

I principali partiti sono il Forum etiopico unito federale democratico, che non è riuscito a creare una piattaforma, Il partito blu (Semawayi) a maggioranza islamica e Unità per democrazia e giustizia. In effetti molti oppositori politici sono stati perseguitati e arbitrariamente arrestati, mentre la tortura è ancora molto utilizzata, come denunciano Human Rights Watch e Amnesty Inteational5.

Media sotto controllo

La situazione della stampa è anche peggiore. Il regime controlla tutto l’apparato mediatico, internet e l’unica compagnia telefonica ed è diventato particolarmente repressivo da inizio 2014, molto probabilmente in vista delle elezioni di maggio. Pochi sono i giornali indipendenti e hanno vita dura. Solo nel 2014 sono state sei le testate indipendenti fatte chiudere e 30 i giornalisti che hanno lasciato il paese per paura. Nell’aprile 2014 sono stati arrestati nove blogger del collettivo Free Zone 9 e altri tre giornalisti. Il potere utilizza la dura legge anti terrorismo varata nel 2009, accusando media privati e operatori dell’informazione di essere in connivenza con i terroristi.

Una settimana prima dell’arrivo di Barak Obama il 27 luglio (prima visita di sempre di un presidente Usa in carica nel paese) per la Conferenza internazionale finanza e sviluppo, due blogger e quattro giornalisti tra i quali il noto Reeyot Alemu sono stati liberati. Come per dare un contentino agli Usa, che avevano criticato ufficialmente la detenzione degli operatori dell’informazione.

Alemu critica Obama per aver detto, nel suo discorso, che il governo etiopico è stato democraticamente eletto: «Non è eletto democraticamente, perché c’erano solo media governativi e la gente non ha potuto avere abbastanza informazione. […] Hanno anche arrestato molti leader dell’opposizione e giornalisti. Hanno vinto le elezioni usando violazioni dei diritti umani».

Quello che osserviamo è una presenza forte dello stato in tutti i settori della società. I funzionari pubblici e gli eletti ai vari livelli, sono tenuti d’occhio e al minimo problema vengono trasferiti. L’effetto positivo è sicuramente una riduzione della corruzione, molto al di sotto di quanto si trova in altri paesi del continente. Anche la criminalità è mantenuta a livelli bassi, e si circola tranquillamente nelle grandi città dove la sicurezza personale non sembra in pericolo.

«La società civile è debole e comunque ha poco margine di manovra», ci confida un operatore umanitario.

Più che associazioni, qui ci sono le cornoperative create dallo stato allo scopo di migliorare la produzione, ad esempio le cornoperative agricole.

«Le organizzazioni internazionali – ci confida – non possono dire che si occupano di diritti umani. Qui è un argomento tabù».

Guardiano per il Corno

L’Etiopia è il paese chiave per la geopolitica del Corno d’Africa, perché funge da stabilizzatore, tra la Somalia degli al Shabaab (che intervengono anche in Kenya) e l’Eritrea del dittatore Isaias Afewerki, da cui la popolazione cerca di fuggire con ogni mezzo. È inoltre un paese a prevalenza cristiana (seppur ortodossa) che si contrappone alle islamiche Somalia e Gibuti e, in parte anche Eritrea, influenzate dalla vicina penisola arabica. Gli Usa e l’Europa vogliono quindi mantenere buone relazioni con il governo etiope e scommettono sulla sua stabilità.

Proprio ad Arba Minch la prima cosa che si vede appena atterrati al piccolo aeroporto è un hangar protetto e con doppia recinzione di filo spinato e blocchi di cemento. Talvolta, da una porta esce un militare bianco, in divisa mimetica. Nel recinto alcune grosse antenne paraboliche in colore sabbia. È la base Usa dei droni, velivoli telecomandati da combattimento. Partono da qui, pilotati dall’altro capo del mondo, per andare a bombardare gli al Shabaab in tutta l’area del Coo. Il contingente Usa, alcune decine di persone, è alloggiato al Paradise Lodge, uno dei migliori alberghi della città, sulla falesia. Hanno una zona tutta per loro, lontana da occhi indiscreti e protetta da guardie locali.

L’Etiopia è anche terreno di concorrenza tra gli occidentali e la Cina. Questa, oltre a essere il modello economico del governo etiopico, sta attuando da oltre un decennio cospicui investimenti nel paese.

Ad Addis Abeba si vedono numerosi cantieri finanziati da banche cinesi e realizzati da imprese cinesi. Come l’estensione dell’aeroporto della capitale o la nuova sede dell’Unione Africana, dono del governo cinese a quello etiope. Molte strade del paese sono state rifatte dai cinesi, altre sono in corso d’opera.

Le chiese

La chiesa cattolica di rito latino è un’esigua minoranza. Lo 0,7% secondo un censimento del 2008, mentre gli ortodossi sono il 45% e i protestanti il 17%. C’è poi circa il 35% di musulmani.

«Le relazioni tra le chiese ortodossa e cattolica a livello ufficiale sono buone» ci racconta fratel Domenico Brusa, missionario della Consolata, in Etiopia da 30 anni, che raggiungiamo telefonicamente. «A livello di sacerdoti pure, anche se una parte del clero è più conservatore. E anche tra la popolazione».

«La diversità di rito talvolta è problematica. Nel rito ortodosso ci sono oltre 100 giorni di digiuno all’anno. E lo deve fare tutto il popolo. In una società sempre più veloce diventa difficile da rispettare. Il rito orientale è bello, dialogato, partecipato, ma più adatto a una società senza orari». Fratel Domenico ha potuto assistere a grandi cambiamenti sociali: «Il paese sta cambiando rapidamente, anche perché prima era fermo. Oltre alle costruzioni, anche in campagna si diffondono le macchine e la coltivazione in serra. Grandi terreni vengono venduti (si riferisce al land grabbing, si veda MC maggio 2015, ndr). Anche la popolazione cambia». Per cui, ricorda fratel Domenico: «Il consumismo si espande e i giovani si orientano diversamente».

E suggerisce: «Occorre dare più contenuto, altrimenti c’è il rischio che il rito resti un contenitore vuoto». Fratel Domenico, dopo aver girato tutte le missioni della Consolata del paese, lavora attualmente in quella di Gambo, dove è responsabile della fattoria che alimenta l’ospedale gestito dai missionari.

Lasciamo la città delle quaranta sorgenti. Prendiamo l’aereo, un turbo elica Bombardier Q400 che ci riporterà ad Addis Abeba. Godiamo ancora del caldo e della gentilezza degli etiopi di questa regione. In capitale è stagione delle piogge e, complice l’altitudine (2.400 metri) le temperature sono più rigide. Una militare donna, statunitense, uscita dalla base dei droni Usa, controlla scrupolosamente, a vista, le valigie dei viaggiatori.

Marco Bello

Note:

(1) Banca Mondiale, www.worldbank.org.
(2) Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo www.oecd.org.
(3) L’Éthiopie élue «meilleure destination au monde» par les professionnels du tourisme, Sabrina Myre, Jeune Afrique, 9 luglio 2015.
(4) Ethiopia’s elections are just an exercise in controlled political participation, Jason Mosley, The Guardian, 22 maggio 2015.
(5) Rapporti di Human Rights Watch e Amnesty Inteational, 2015.

Nell’archivio MC: Chiara Giovetti, La missione nell’Etiopia di ieri e di oggi, agosto-setembre 2013 e Etiopia, Gambo: agricoltura e sanità, novembre 2011. A. Vascon e N. Di Paolo, Caleidoscopio africano, aprile 2011.

Marco Bello