L’austerità neoliberista

Testo su austerità ed economia di Francesco Gesualdi |


La gestione finanziaria di uno stato non è equiparabile a quella di una famiglia. Lo stato dovrebbe poter spendere a debito per raggiungere alcuni obiettivi sociali. Con l’imposizione dell’austerità neoliberista è diventato quasi impossibile farlo. Un’austerità che l’Europa ha messo da parte soltanto per salvare le banche con 800 miliardi di euro dei contribuenti.

La decisione dell’Unione europea di adottare un sistema monetario che ha come unico obiettivo la tutela del valore dell’euro attraverso i meccanismi di mercato, ha creato non poche difficoltà ai governi e quindi all’intera economia.

Per cominciare bisogna precisare che la gestione finanziaria di uno stato non è equiparabile a quella di una famiglia. Quando si amministra una famiglia la priorità è mantenere le spese nel perimetro delle entrate perché non c’è nessun altro obiettivo da raggiungere se non quello di utilizzare al meglio i soldi che si hanno a disposizione. La differenza tra stato e famiglia l’ha spiegata un economista inglese di nome John Maynard Keynes (1883-1946).

Debito pubblico: prestiti o stampare moneta?

Keynes ci ha insegnato che oltre al compito di una buona gestione, lo stato ha anche quello di promuovere il miglioramento della vita dei cittadini e di stimolare l’economia quando è «imballata». Come dire che in certi contesti lo stato oltre che il diritto, ha il dovere di spendere in deficit, ossia senza corrispettivo di entrate tributarie, che poi significa spendere a debito. Ad esempio, se nel paese c’è un’alta disoccupazione, lo stato non deve limitarsi a spendere ciò che incassa, ma deve espandere i suoi servizi oltre i denari ricevuti dai cittadini in modo da offrire ai disoccupati un’occasione di lavoro e produrre un effetto positivo su tutto il sistema economico grazie all’aumento di spesa generata dai nuovi salari.

Certo, la preoccupazione di tutti nasce dal fatto che il debito è un’arma a doppio taglio: se nell’immediato genera sollievo per la possibilità di realizzare la spesa tanto agognata, in seguito è fonte di preoccupazione per la necessità di accantonare le cifre da restituire per interessi e capitale. Questa regola, però, vale solo in regime di schiavitù monetaria. Per tutte quelle situazioni, cioè, in cui non si ha altra possibilità di procurarsi i denari se non chiedendoli in prestito alle banche. Destino tipico di famiglie ed aziende, ma non dei governi che in condizioni di normalità godono di sovranità monetaria, della possibilità, cioè, di emettere moneta e quindi di finanziare le spese in eccesso con moneta stampata di fresco.

Nella storia del secolo scorso ci sono stati casi importanti di rilancio dell’economia tramite la spesa in deficit finanziata con emissione di nuova moneta. Valga come esempio il «new deal» degli anni Trenta negli Stati Uniti o la crescita economica del dopoguerra in molti paesi europei fra cui l’Italia, l’Inghilterra, la Francia. Ma come tutti gli strumenti, anche «la monetizzazione del debito» (così si definisce le spesa a debito finanziata con nuova moneta), va usato con discrezione perché il rischio è l’inflazione, ossia l’aumento generalizzato dei prezzi. Ne sa qualcosa la Germania che nel primo dopoguerra si ritrovò con un’economia a pezzi e un prezzo da pagare ai vincitori a titolo di danni di guerra, così esoso da non sapere da che parte rifarsi. Tutto l’oro era stato utilizzato per le spese di guerra, le fabbriche erano distrutte, le case in macerie, la disoccupazione alle stelle. Non sapendo come venirne a capo, i governanti pensarono di risolvere il problema stampando carta moneta. Ma esagerarono e si scatenò un’inflazione impossibile perfino da misurare. Nel novembre del 1923 per comperare un chilo di pane ci voleva più di un chilo di banconote e il francobollo per una cartolina costava 50 miliardi di marchi. Carriole piene di carta moneta servivano a comprare un uovo o un biglietto del tram e se nel 1914 bastavano 4,2 marchi per comprare un dollaro, nel novembre 1923 ce ne volevano 4.200 miliardi. Alla fine molta gente preferì tornare al baratto e usò le banconote per accendere la stufa. La situazione si normalizzò nel gennaio 1924 con l’introduzione di un nuovo tipo di marco che riposizionò tutti i valori.

Memori di questa esperienza, ancora oggi i tedeschi continuano a vedere l’inflazione come il peggiore dei mali e la prima condizione che posero quando vennero avviate le trattative per l’istituzione dell’euro fu di assumere un’architettura organizzativa che evitasse la minaccia dell’inflazione. E convinti che il rischio principale provenisse dai debiti pubblici e dalla pretesa di ripagarli con l’emissione di nuova moneta, chiesero di risolvere il problema in maniera drastica togliendo ai governi qualsiasi possibilità di accesso all’emissione di moneta.

Numeri inventati: 60% e 3%

Per questo oggi ci ritroviamo con un euro governato dal sistema bancario privato capeggiato dalla Banca centrale europea, che ha un unico divieto: quello di prestare direttamente ai governi anche un solo centesimo.

Ma questa è solo una parte della storia. L’altra è che la Bce deve perseguire la stabilità dell’euro. In altre parole deve impedire ai prezzi interni di crescere oltre il 2% e deve garantire la stabilità di cambio con le altre valute straniere. Ed è quest’ultimo capitolo che chiama di nuovo in causa i debiti pubblici. La premessa è che nel sistema di oggi anche il valore delle valute è determinato dalla legge della domanda e dell’offerta. Per fare l’esempio pratico dell’euro, il suo valore cresce quando c’è un’alta richiesta di monete estere che chiedono di essere cambiate in euro, diminuisce quando succede il contrario. Gli elementi che determinano la richiesta di una valuta sono molti, ma i principali sono quelli di carattere commerciale e finanziario.

Sul piano commerciale la moneta di un paese si apprezza quando esporta più di quanto importa, mentre su quello finanziario si apprezza quando il capitale estero che entra è più alto di quello domestico che esce. Per assurdo, uno dei meccanismi che contribuisce a richiamare capitali esteri è la richiesta di prestiti da parte di famiglie, imprese, governi, per cui nessuno stato, nemmeno l’Unione europea, è contrario all’indebitamento. Ma tutto deve rimanere entro certi limiti, sia perché prima o poi i debiti vanno restituiti, sia perché generano interessi che impoveriscono il paese. Del resto chi si indebita troppo finisce per diventare inaffidabile e più nessuno sarà disposto a dargli nuovi prestiti. Tutto ciò spiega perché quando venne istituito l’euro vennero fissati dei paletti ben precisi rispetto all’indebitamento dei governi. Due sono le regole auree stabilite dal Trattato di Maastricht (febbraio 1992): la prima è che il debito complessivo dei governi non può superare il 60% del Prodotto interno lordo (Pil); la seconda è che il deficit, ossia l’eccesso di spesa sulle entrate riferito ad ogni singolo anno, non può andare oltre il 3% del Pil. Due numeri fissati su base politica senza alcun fondamento scientifico: l’uno perché rifletteva la posizione della Germania, l’altro quella della Francia. E a indicare che si trattava di numeri indicativi senza veri effetti pratici, basti dire che nel novembre 1993, quando entrò in vigore il trattato di Maastricht, il debito pubblico italiano era al 121% del Pil, mentre nel 2002, quando venne adottato l’euro, era al 105%.

Per salvare i banchieri

Tutto cambiò nel 2008. Accecati da prospettive di guadagno esose, i dirigenti di molte banche europee avevano impiegato i denari dei propri clienti per operazioni rischiose e azzardate che ora stavano provocando il loro fallimento. Era toccato all’inglese Northern Rock, all’irlandese Bank of Ireland, alla belga Dexia, alle tedesche Sparkasse e Commerzbank, all’italiana Monte dei Paschi di Siena. L’intero sistema bancario europeo stava scricchiolando, i governi potevano decidere di salvare solo i piccoli risparmiatori lasciando banchieri, speculatori e profittatori al loro destino. Invece decisero di farsi carico dell’intero risanamento e complessivamente, dal 2008 al 2014, i paesi dell’eurozona utilizzarono 800 miliardi di euro per salvare banche marce e corrotte: 238 miliardi in Germania, 52 in Spagna, 42 in Irlanda, 40 in Grecia, 8 in Italia. Ma quei soldi i governi non li avevano: per salvare le banche si indebitarono essi stessi. Dal 2008 al 2012 il debito pubblico dei paesi dell’eurozona passò dal 65 al 90% del prodotto interno lordo, il 30% in più di ciò che prescrive il trattato di Maastricht. Ora l’Europa temeva davvero per l’euro. Tanto più che la Grecia già nel 2010 aveva dichiarato di non riuscire più a onorare i propri impegni. Solo l’intervento degli altri stati europei, che fra il 2010 e il 2012 le avevano messo a disposizione 150 miliardi di euro, era riuscita ad evitare la bancarotta. La Grecia è una delle economie più piccole nell’ambito dell’eurozona, ma le autorità europee temevano che potesse rappresentare la classica mela marcia che poteva indurre gli investitori internazionali a ritenere putrido l’intero paniere europeo. Tanto più che tutti i governi avevano superato i livelli di guardia a causa dei salvataggi bancari. E che gli investitori stranieri cominciassero a dubitare della solidità finanziaria dell’eurozona non lo diceva solo il fatto che Irlanda, Italia, Spagna faticassero ad ottenere nuovi prestiti, mentre la Grecia non ci provava neanche più. Lo dimostravano anche gli attacchi speculativi che erano stati sferrati contro i titoli di stato di alcuni paesi europei, Italia compresa. Segno inequivocabile che i mercati stavano dichiarando guerra all’Europa.

Sacrifici e Fiscal compact

Che qualcosa andasse fatto è fuori di dubbio. L’Europa poteva scegliere di usare la propria autorità per disarmare i mercati, proibendo la speculazione sui titoli del debito pubblico e ordinando alla Banca centrale europea di entrare direttamente in gioco fornendo ai governi, se non tutto, parte del denaro che serviva per superare la crisi. Invece non fece nulla di tutto questo. Semplicemente accettò la legge del mercato e si organizzò per dimostrare ai creditori che i governi europei erano debitori affidabili capaci di sottoporsi a qualsiasi sacrificio pur di onorare i propri impegni. Strinse i suoi controlli sulla contabilità dei governi, li obbligò ad ottenere da Bruxelles l’approvazione preventiva dei bilanci pubblici e di qualsiasi altro provvedimento fiscale prima di presentarli ai propri parlamenti. Addirittura li obbligò ad inserire nelle proprie legislazioni condizioni più stringenti di quelle previste dal trattato di Maastricht.

Nel 2012 venne firmato il Fiscal compact, l’accordo che impegna gli stati a rispettare il pareggio di bilancio inserendolo addirittura in Costituzione come fece puntualmente l’Italia per dimostrare alle Borse mondiali che la priorità della Repubblica italiana non è il bene dei propri cittadini, ma il guadagno assicurato a chi lucra con la finanza. È la legge dell’austerità neoliberista che ormai contraddistingue l’Europa e che non saranno certo i don Chisciotte – di destra o di sinistra – a debellare, ma una forza politica consapevole che deve scegliere fra mercati e diritti. Chi pretende di servirli entrambi, finisce per servire i più forti.

Francesco Gesualdi

 




Il dilemma della moneta

Testo di Francesco Gesualdi |


Alla fine degli anni Ottanta l’Europa ha virato verso un’impostazione economica neoliberista che riconosce il mercato come la sola legge e le imprese come gli unici attori. Questa impostazione ha permeato anche l’architettura della moneta unica: l’euro è nato non come strumento di servizio pubblico, ma come strumento di lucro.

Nel dopo guerra le imprese europee fecero la scelta della Comunità economica europea (Cee) come strategia per allargare il proprio mercato e dotarsi, nel contempo, di una politica comune nei confronti del resto del mondo. Inevitabilmente, a un certo punto del processo di integrazione, si pose il problema della moneta, perché monete diversificate rappresentano un freno per il commercio. La moneta, però, è un tema molto delicato che a seconda di come è gestito può favorire i forti contro i deboli, la finanza contro l’economia reale, il mondo degli affari contro lo stato sociale, o tutto il contrario. In altre parole, la moneta è come un mezzo di trasporto che, a seconda di come è strutturato, può diventare un carro armato per fare la guerra o un autobus per andare in vacanza. Per cui non si può capire la moneta se prima non si chiarisce da quali principi è animato il potere che ci sta dietro e quali fini persegue.

La perdita di centralità dello stato

Di moneta unica in Europa si cominciò a discutere seriamente negli anni Ottanta, quando in tutta l’area stava cambiando il vento politico. Da un’impostazione socialdemocratica che riconosce allo stato il compito di pilotare l’economia con l’obiettivo di raggiungere la piena occupazione, di superare le disuguaglianze e di garantire a tutti il godimento dei servizi essenziali, si stava passando a un’impostazione neoliberista che riconosce il mercato come unica legge e le imprese come soli attori economici. Come dire che tutto deve essere regolato dalla concorrenza e dalla legge della domanda e dell’offerta, mentre lo stato va ridotto a mero gestore di tribunali, polizia ed esercito, senza alcuna funzione economica. Questo cambio di vento influenzò profondamente l’architettura dell’euro.

Nel 1988, Jacques Delors, politico francese ex-presidente della Commissione europea, venne incaricato di elaborare una proposta di moneta unica. Delors sapeva che ci sono due modi per governare la moneta: uno come servizio pubblico, l’altro come affare su cui lucrare. Il primo vede come gestore lo stato che si ispira a criteri di gratuità e promozione sociale. Il secondo vede invece come gestore il sistema bancario che si muove secondo il principio del profitto.

La gestione pubblica

La logica della gestione pubblica, di tipo gratuito e socialmente orientata, si contraddistingue sia per la quantità di denaro messo in circolazione, sia per i canali utilizzati per iniettare nel sistema economico la liquidità aggiuntiva.

Per quanto riguarda la quantità, non viene valutato solo il denaro che serve per soddisfare il livello di scambi esistenti. Si fa anche un’analisi della situazione socio-economica per capire se ci sono problemi da risolvere e – nel caso si giunga alla conclusione che c’è un’alta disoccupazione, molti bisogni collettivi da soddisfare, un livello produttivo insoddisfacente – si può decidere di dare una sferzata al sistema con l’emissione di nuova moneta da utilizzare per pagare nuovi salari in ambito pubblico, o per finanziare investimenti pubblici e privati. Questo genere di operazione, che si concretizza attraverso l’apertura di debito pubblico di tipo virtuale, può esporre al rischio di inflazione, ma – se condotta con equilibrio, in associazione con altre misure – non produce effetti mostruosi e quelli che produce sono comunque più accettabili dei problemi sociali irrisolti.

Parlando di quantità, va tenuto presente che il sistema economico può crescere anche per meccanismi propri e quando succede ha bisogno di nuovo denaro per non rimanere frenato. Lo stato che ha sovranità monetaria ed è al servizio dei cittadini amplia l’emissione di moneta e la immette nel sistema economico tramite il pagamento dei salari dei propri dipendenti, delle pensioni, degli acquisti di beni e servizi. In questo modo la massa monetaria si adegua alle accresciute esigenze del sistema in maniera silente e senza aggravio per nessuno, anche se apparentemente lo stato ha aperto un debito. Ma è con se stesso, quindi è nullo.

La gestione privatizzata

La logica della gestione privata concepisce il denaro come una merce da vendere per trarre profitto. Per cui la produzione di moneta è gestita dal sistema bancario con criteri opposti a quelli dello stato. Primo: ha interesse a mantenere la penuria di moneta, piuttosto che l’abbondanza, perché è nella scarsità che si possono imporre tassi di interesse più alti. Secondo: immette nuova liquidità a pagamento perché il principale canale che usa per aggiungere denaro al sistema è quello del credito su cui pretende un tasso di interesse. E poiché il sistema bancario è capace di emettere moneta dal niente, le banche godono del privilegio (assurdo) di poter incamerare ricchezza reale in cambio di un servizio virtuale di cui non hanno alcun merito. Una forma di arricchimento che non si può definire latrocinio solo perché è parassitismo legalizzato.

Su pressione delle forze liberiste che ormai dominavano la scena politica in tutta Europa, Jacques Delors non prese neanche in considerazione l’ipotesi della gestione pubblica dell’euro ed elaborò una proposta di gestione da parte del sistema bancario privato che poi diventò la base per la trattativa finale. In capo a qualche mese venne raggiunto un accordo definitivo, subito inserito nel trattato di riforma dell’Unione europea che venne firmato a Maastricht, Olanda, il 7 febbraio 1992.

Con i suoi 252 articoli, 17 protocolli e 31 dichiarazioni, il Trattato definisce il nuovo assetto organizzativo dell’Unione europea e le condizioni che gli stati debbono rispettare per esservi ammessi. Varie parti sono dedicate all’impianto organizzativo della moneta unica e fin dai primi passaggi si percepisce la volontà di tenerla completamente fuori dalla sfera d’influenza del potere politico. Per cominciare la moneta nascente è affidata alle cure di un’istituzione nuova di zecca, la Banca centrale europea (Bce), di fatto una società per azioni, i cui azionisti sono le banche centrali di tutti i paesi aderenti all’Unione europea (scheda). Ma non si capisce la vera natura della Banca centrale europea, se non si precisa che le banche centrali nazionali altro non sono che strutture possedute dalle banche private. La Banca d’Italia, ad esempio, è posseduta da 124 azionisti, quasi tutti istituti bancari e fondazioni bancarie, su cui spicca Intesa Sanpaolo e UniCredit (scheda).

Mario Draghi – European central Bank

Diversità tra Bce e Fed

Il carattere neoliberista dell’Unione europea, emerge non solo dalla decisione di affidare il governo dell’euro al sistema bancario privato, ma anche dai compiti assegnati alla Bce. Se esaminiamo i compiti assegnati alla Federal Reserv (Fed), la Banca centrale statunitense, notiamo che al primo posto c’è il perseguimento della piena occupazione («to promote maximum employment»). In Europa, invece, l’unico compito assegnato alla Banca centrale è la stabilità dei prezzi, ossia il mantenimento del valore dell’euro. Nella prossima puntata di questa rubrica, vedremo come tale scelta abbia avuto effetti profondi sulla gestione del debito pubblico e quindi sulle condizioni sociali dei paesi europei. Ma intanto conviene riflettere su un’altra scelta effettuata dall’Unione europea: quella di «agire in conformità con il principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza».

Accettare che il rapporto fra le imprese sia regolato solo dalla concorrenza, è come decretare la morte di quelle più deboli. E quando si adotta la stessa moneta senza alcun tipo di salvaguardia, le imprese dei paesi più deboli rischiano grosso perché adottare una moneta unica è come aprire le gabbie dello zoo: le bestie più grosse possono entrare con maggiore facilità nelle gabbie delle bestie più deboli e prendersi il loro cibo. Fuori di metafora, con una moneta unica, le imprese più solide possono sottrarre mercato alle imprese più deboli con maggiore facilità, perché possono fare prezzi più bassi. Esattamente come è successo in Europa dove le imprese del Nord Europa, tecnologicamente più avanzate, hanno potuto penetrare con più facilità in tutto il mercato europeo, mettendo in seria difficoltà le imprese meno efficienti del Sud Europa comprese quelle italiane. Un disagio che si è fatto ancora più acuto con la crisi scoppiata nel 2008, fino a suscitare una vera e propria avversione verso l’euro.

Avversione raccolta dal partito della Lega, che in nome della difesa di tutto ciò che è italiano ha riscosso molti consensi alle elezioni politiche del 4 marzo 2018.

Uscire dall’euro?

In nome delle difficoltà create alle imprese nazionali, molti propongono addirittura di uscire dall’euro, in modo da recuperare la possibilità di svalutare e riuscire, per quella via, a colmare lo svantaggio competitivo esistente sul piano tecnologico.

Questa tuttavia è solo una parte del dibattito possibile sull’euro. La discussione va inevitabilmente integrata con tutta la partita legata al tema del debito pubblico. Un aspetto che sicuramente introduce altri elementi di complicazione, ma che forse può permetterci di trovare soluzioni che ci facciano evitare il rischio di voler cambiare tutto affinché niente cambi.

Francesco Gesualdi

 




Imprese Unite d’Europa

Testo di Francesco Gesualdi |


La storia dell’integrazione economica europea inizia nel 1948 con la nascita del Benelux. Dopo vari passaggi, nel 1993 nasce l’Unione europea (Ue), il cui organismo principe è la Commissione. È questa che propone le leggi, gestisce le politiche e assegna i finanziamenti. È su di essa che le lobby lavorano.

La strategia utilizzata dalle imprese statunitensi per penetrare i mercati altrui in tempo di protezionismo fu – lo abbiamo visto nella precedente puntata – l’«invasione» dall’interno. Quelle europee, invece, preferirono seguire vie più istituzionali. La prima iniziativa in tal senso venne assunta, nel secondo dopoguerra, da parte di Belgio, Olanda e Lussemburgo, tre stati che, a causa delle loro piccole dimensioni, avvertivano più di altri il limite di mercati ristretti.

Avrebbero potuto seguire la strada dell’area di libero scambio, la forma più blanda di alleanza economica che si limita ad abbattere le barriere doganali e regolamentari per facilitare gli scambi fra stati. Invece optarono per l’unione doganale, una formula che oltre a impegnare gli stati aderenti ad abbattere gli ostacoli fra loro, li impegnava ad adottare le medesime tariffe doganali verso il resto del mondo.

L’unione doganale fra i tre stati europei divenne operativa nel 1948 ed assunse il nome di Benelux. Ma contemporaneamente si erano messi in moto altri processi che di lì a poco avrebbero reso quell’accordo obsoleto. La Francia che, al pari della Germania, disponeva di una forte industria del carbone e dell’acciaio, propose a quest’ultima un’alleanza specifica per questi prodotti, giustificata, più che da ragioni economiche, da quelle politiche.

Le proposte di Robert Schuman e Altiero Spinelli

La proposta venne ufficializzata il 9 maggio 1950 da Robert Schuman, ministro degli esteri francese, con un discorso che rimase famoso: «L’insieme delle nazioni europee esige che l’opposizione secolare fra Francia e Germania sia superata […]. Il governo francese propone di mettere la produzione franco-tedesca di carbone e acciaio sotto il controllo di un’Alta autorità comune, nell’ambito di un’organizzazione aperta alla partecipazione di altri paesi europei. Nell’immediato la gestione condivisa del carbone e dell’acciaio assicurerà le basi per uno sviluppo comune, prima tappa della Federazione europea che cambierà il futuro delle nostre regioni per troppo tempo votate alla produzione di armi di cui sono rimaste vittime. La solidarietà produttiva renderà non solo impensabile, ma materialmente impossibile che Francia e Germania tornino a farsi la guerra».

La proposta di Schuman si concretizzò il 18 aprile 1951 con la firma di un accordo denominato Ceca («Comunità economica del carbone e dell’acciaio») a cui aderirono non solo Francia e Germania, ma anche l’Italia e i tre paesi del Benelux. Intanto, Altiero Spinelli, un antifascista perseguitato da Mussolini, aveva messo a punto una proposta di integrazione europea che non si limitasse ai soli temi economici. Ma la proposta di costituire una federazione europea unita anche da un punto di vista politico e militare incontrò ampie resistenze e l’unica alleanza che venne perseguita fu quella economica.

Nel giugno 1955 nel corso di una riunione tenuta a Messina da parte dei sei paesi aderenti alla Ceca, Henri Spaak, ministro degli esteri belga, propose un rapporto di collaborazione non più limitato al carbone e all’acciaio, ma esteso a ogni altra attività produttiva e commerciale. Il suo progetto, tuttavia, non prevedeva un puro e semplice allargamento dell’unione doganale già formata fra Belgio, Olanda e Lussemburgo. La sua idea era di costituire un mercato comune europeo che, se per certi versi era una formula sovrapponibile all’unione doganale, per altri la superava perché avrebbe esteso la libera circolazione anche a capitali e persone. La proposta di Spaak incontrò il favore degli altri partner che vollero addirittura fondare una «Comunità economica europea» (Cee). Un’alleanza che si distingueva dal mercato comune perché, oltre ad istituire un’area di libera circolazione di merci, capitali e persone nella quale applicare una medesima politica doganale e commerciale nei confronti degli stati terzi, prevedeva anche l’impegno ad armonizzare le scelte dei 6 paesi in ambito agricolo, energetico, dei trasporti, della concorrenza.

Il Trattato di Roma (1957)

Il trattato che istituiva la Comunità economica europea passò alla storia come il Trattato di Roma, perché venne firmato in quella città il 25 marzo 1957. Un caposaldo dell’accordo era la gradualità del processo, e il tempo concesso per realizzare il mercato comune venne fissato in dodici anni. In realtà l’integrazione procedette a più velocità. Mentre il percorso che portò all’abolizione delle barriere doganali tra gli stati membri e a istituire una tariffa esterna comune si concluse addirittura con 18 mesi di anticipo, il processo di libera circolazione dei capitali e delle persone si completò invece nel 1993, anno in cui venne ufficialmente annunciata l’unificazione (economica) europea. Il 1993 fu un anno di svolta anche per l’entrata in vigore di un nuovo trattato, quello di Maastricht, che sanciva la nascita della moneta comune, di cui, però, ci occuperemo in altre puntate di questa rubrica.

Come vedremo, dal 1957 a oggi il Trattato di Roma è stato modificato a più riprese, ma l’impalcatura organizzativa dell’integrazione europea è rimasta pressoché immodificata. Purtroppo non ispirata a principi di democrazia parlamentare, come mostra il fatto che il Parlamento europeo verrà eletto a suffragio universale solo a partire dal 1979.

Nel condominio Europa

In effetti in Europa l’assetto organizzativo è più simile a un condominio che a uno stato. E come nei condomini le decisioni sono prese dai capifamiglia d’accordo con l’amministratore, allo stesso modo in Europa le decisioni sono prese dai governi (i capifamiglia) assieme alla Commissione europea (l’amministratore). Negli ultimi tempi sono state introdotte varie novità che danno più potere al Parlamento europeo. Ma nonostante le riforme, l’organo che continua a svolgere una funzione strategica è la Commissione europea, formata da 28 membri (uno per ogni paese dell’Unione), 27 commissari e un presidente. Quest’ultimo viene eletto dal Consiglio europeo, che è composto dai capi di stato o di governo dei paesi membri. La funzione della Commissione è del tutto paragonabile all’amministratore di condominio. Apparentemente l’amministratore svolge solo una funzione di supporto tecnico. Di fatto è il vero gestore degli affari condominiali perché suggerisce le decisioni da prendere e le trasforma in ordinanze. Analogamente, la Commissione mette a punto le «proposte» che il Consiglio dell’Unione europea (composto dai ministri di ciascun paese competenti per la materia in discussione) e il Parlamento europeo dovranno discutere. Una volta approvate, le trasforma in provvedimenti legislativi, di cui i «regolamenti» sono l’espressione massima in quanto vincolanti per tutti.

La Commissione europea

Proprio per questa sua funzione, al tempo stesso di proponente e gestore delle decisioni assunte, la Commissione europea è l’organismo che esercita più potere in Europa. Un potere che, senza troppi sotterfugi, condivide con le imprese in nome di un principio per certi versi lodevole: la Commissione ammette di non avere competenza su tutto, perciò ogni volta che deve affrontare un tema, istituisce una commissione consultiva denominata «Gruppo di esperti». Ad esempio, nel 2013 ha convocato 38 Gruppi di esperti sulle tematiche più disparate, dagli Ogm alle regole bancarie, dal doping sportivo, agli additivi alimentari. Talvolta piccole commissioni formate da non più di 10 persone. Talvolta gruppi affollatissimi, addirittura con 80 membri. Tuttavia, la domanda importante non è quanti sono, ma chi sono i componenti dei gruppi. Perché i loro pareri diventeranno proposte che, con buona probabilità, saranno trasformate in regolamenti validi per tutta l’Ue.

Un esercito di 25mila lobbisti

Le indagini condotte attraverso gli anni dall’organizzazione Ceo (Corporate Europe Observatory: corporateeurope.org) hanno sempre messo in evidenza una predilezione per i rappresentanti d’impresa. E il rapporto pubblicato il 9 aprile 2014 sui Gruppi di esperti istituiti per tematiche finanziarie, ne è un’ulteriore conferma. Il 70% dei loro componenti sono rappresentanti di banche, fondi di investimento, istituti assicurativi.

Si stima che a Bruxelles lavorino più di 25mila lobbisti per una spesa complessiva di un miliardo e mezzo di euro: rappresentanti di imprese e associazioni del mondo degli affari, con l’unico scopo di intrufolarsi negli uffici della Commissione europea ed ottenere decisioni favorevoli agli interessi della propria categoria. Il settore finanziario da solo tiene a libro paga 1.700 lobbisti. Gente pagata fra i 70 e i 100mila euro all’anno per una spesa complessiva di circa 123 milioni di euro.

Con tanta potenza di fuoco, la finanza si sta infiltrando anche nel Parlamento europeo. Centinaia di esponenti di istituzioni bancarie e finanziarie – fra cui JP Morgan, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Unicredit – hanno libero accesso al Parlamento europeo e quando sono in discussione provvedimenti di loro interesse, si danno da fare in tutti i modi possibili per convincere i parlamentari ad assumere posizioni a loro gradite. E i risultati si vedono. Ceo cita il caso di un provvedimento di regolamentazione finanziaria su cui vennero presentati 1.700 emendamenti, 900 dei quali scritti di sana pianta dai lobbisti della finanza.

Francesco Gesualdi


Politica e affari

Le porte girevoli

Per molti politici europei, chiusa la storia politica, inizia quella degli affari. Un fenomeno per nulla etico.

(© European Union 2013 – European Paliament)

Goldman Sachs da una parte, José Manuel Barroso (foto) dall’altra. La prima è una delle più grandi banche d’investimento del mondo, una banca cioè che non fa attività ordinaria di deposito e prestiti, ma finanza d’azzardo a vantaggio dei propri azionisti e clienti. Il secondo è un politico portoghese, presidente della Commissione europea dal 2004 al 2014. Nel luglio 2016 i loro destini si incrociano: Barroso diventa presidente non esecutivo e consigliere di Goldman Sachs. «La sua esperienza e capacità di giudizio saranno di grande aiuto per noi e i nostri azionisti», afferma Goldman Sachs a giustificazione della sua scelta. E c’è da starne certi: per i ruoli che ha ricoperto, Barroso saprà ben consigliare come arrivare a chi conta nell’Unione europea e come sfruttare le lacune della legislazione europea a tutto vantaggio della banca.

Quello di Barroso è un caso classico di porta girevole, di passaggio, cioè, dalla politica al mondo degli affari con chiare funzioni di lobby. Un fenomeno abbastanza diffuso che permette alle imprese di infiltrarsi sempre di più nelle istituzioni politiche e indirizzarne le scelte. Fra i casi più clamorosi: Gerhard Schröder che diventa presidente dell’azienda russa Gazprom dopo avere dismesso il ruolo di capo del governo in Germania e Viviane Reding che assume incarichi nella Fondazione Bertelsmann e Agfa-Gevaert dopo aver lasciato il posto di Commissaria alla giustizia della Commissione europea.

Fra.G.

 




Dal protezionismo alle multinazionali

Testo di Francesco Gesualdi |


Il capitalismo fece i suoi primi passi nel 1200 con la comparsa – a Genova – dei banchieri. Si rafforzò con le grandi compagnie commerciali e con le macchine. Poi arrivarono le multinazionali che oggi dominano il mondo (insieme alle imprese finanziarie).

Una caratteristica del capitalismo è la sua dinamicità, la capacità cioè di cambiare continuamente strategia pur di raggiungere l’obiettivo prefisso, che al contrario rimane sempre lo stesso: il profitto. Ed è proprio questa sua costante trasformazione organizzativa a renderlo poco afferrabile. A questo mondo non c’è però niente di indecifrabile se si trova la giusta chiave di lettura. Nel caso del capitalismo, la pista da seguire è l’evoluzione delle imprese: dimmi come cambiano le imprese e ti dirò come cambia il capitalismo.

Banchieri, commercianti, imprenditori, finanzieri

Il capitalismo si struttura attraverso un processo lento che muove i primi passi con i banchieri genovesi del 1200. Ma la sua vera storia possiamo farla cominciare nel 1600, con la strutturazione delle grandi compagnie dedite al commercio internazionale, tra cui una delle prime è la «Compagnia delle Indie orientali» (East India Company). Il secolo successivo, l’avvento delle macchine nel processo produttivo fa entrare il capitalismo in una fase nuova, caratterizzata da un cambio di ruolo dei mercanti. Se prima si limitavano a comprare e vendere prodotti già pronti, con l’avvento delle macchine trovano più vantaggioso organizzare essi stessi la produzione. Così nasce la classe dei mercanti imprenditori che ottengono i loro prodotti all’interno di stabilimenti attrezzati di macchinari fatti funzionare da uno stuolo di lavoratori salariati. Per due secoli il capitalismo sarà dominato dalle imprese produttive e, anche se oggi un nuovo tipo di impresa, quella finanziaria, sta allargando i propri tentacoli, il mondo in cui viviamo è ancora quello modellato da loro. Ciò è particolarmente vero per l’assetto internazionale.

Le imprese, lo sappiamo, sono strutture organizzate per fare profitto attraverso la divaricazione fra costi e ricavi. La battaglia delle imprese avviene sul terreno della riduzione dei costi e dell’aumento delle vendite. E se la questione costi sta alla base di temi come il progresso tecnologico, il colonialismo, il conflitto sociale, la questione vendite sta alla base delle alleanze, delle ostilità e più in generale delle relazioni fra stati.


L’appartenenza delle prime 200 multinazionali del mondo.

Multinazionali:
i numeri (2016)

  • ?Gruppi censiti: 320.000
  • ?Totale società controllate: 1.116.000
  • ?Quota di partecipazione al prodotto lordo mondiale: 35-40%
  • ?Fatturato lordo complessivo: 132mila miliardi di dollari
  • ?Profitti lordi complessivi: 17mila miliardi di dollari
  • ?Quota di commercio estero gestito: 80%
  • ?Occupati: 300 milioni (15% della mano d’opera salariata a livello mondiale)

Fonte:

Cnms, Top 200. La crescita di potere delle multinazionali, Vecchiano 2017; il lavoro è scaricabile – gratuitamente – dal sito del «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it).

 

 


Perché il libero scambio

Il sogno di ogni impresa è espandere le vendite in maniera infinita, per questo la crescita è un caposaldo del capitalismo. E poiché le possibilità di vendita sono tanto più ampie, quanto più vasto è il mercato, il capitalismo – almeno a parole – ha sempre fatto professione di fede nel libero scambio, nel mantenimento, cioè, di frontiere aperte per permettere a merci e servizi di fluire liberamente tra uno stato e l’altro. In realtà le imprese hanno sempre oscillato fra protezionismo e liberismo in base allo stadio evolutivo in cui si trovano. Un’ambivalenza che appare più chiara se facciamo un paragone con i tori. Quando sono ancora vitelli si sentono più al sicuro in pascoli protetti da staccionate che impediscono ai tori, più forti di loro, di entrare. Crescendo, cominciano ad avvertire la staccionata come un limite perché alzando la testa vedono tanta buona erba di là dalla palizzata: sarebbe bello poterla brucare! Ma poi si guardano nello stagno e, benché cresciuti, si vedono ancora creature acerbe incapaci di fronteggiare i tori adulti che si trovano nel pascolo aperto. Per cui sognano una situazione intermedia: lo spostamento della staccionata un po’ più in là per disporre di un recinto più ampio in cui l’erba sia contesa solo fra tori della stessa età e delle stesse dimensioni. Più tardi, quando hanno raggiunto l’età adulta ed hanno superato ogni paura di confrontarsi con gli altri, rivendicano l’abbattimento di qualsiasi staccionata (anche di quella costruita per proteggere i nuovi vitelli) per scorrazzare liberi nell’infinita prateria.

Fuori di metafora, quando l’industria è ai suoi albori, le imprese chiedono protezione agli stati. Non senza ragione. L’esperienza dimostra che solo in una situazione protetta, l’industria nascente ha garanzia di sviluppo.

In caso contrario rischia di essere sopraffatta dalle imprese straniere che, in virtù della loro forza tecnologica e finanziaria, possono inondare il paese di beni a prezzi così bassi da sgominare l’industria locale. Per questa ragione molte nazioni africane sono riluttanti a firmare l’accordo di scambio alla pari proposto dall’Unione europea. Il famoso Epa, Economic Partnership Agreement, ossia «Accordo economico di partenariato», che propone di applicare tariffe zero sui prodotti del Sud del mondo esportati verso l’Unione europea e tariffe zero per i prodotti europei esportati verso i paesi del Sud del mondo. Il tutto sotto l’ipocrisia della reciprocità dimenticando, come si dice in Lettera a una professoressa, che non c’è niente di più ingiusto che fare parti uguali fra disuguali.

Perché il protezionismo

Tornando alla storia è un fatto che il capitalismo nasce protezionista. Le imprese manifatturiere di ogni nazione chiedevano ai propri governi di metterle al riparo dalla concorrenza estera tramite dazi doganali e ogni altro provvedimento utile a ostacolare l’ingresso di manufatti esteri. Ma il protezionismo a cui le imprese aspiravano era a senso unico: porte chiuse alle merci straniere, ma possibilità di collocare le proprie nei mercati degli altri. Una pretesa non di rado soddisfatta con le armi. Valgano come esempio le guerre dell’oppio di metà Ottocento fra Cina e Gran Bretagna per la pretesa da parte di quest’ultima di commercializzare in Cina l’oppio coltivato in India. La stessa annessione dell’India all’impero britannico aveva come obiettivo non solo quello di impossessarsi delle materie prime indiane, ma anche di garantire un ampio mercato alle manifatture tessili inglesi. Non a caso Gandhi fece dell’autoproduzione tessile uno dei simboli della resistenza contro il dominio britannico.

In principio fu la Singer

È in questo contesto di amore-odio per il protezionismo, che a fine Ottocento le imprese di grandi dimensioni mettono a punto una nuova strategia di espansione. La formula si chiama colonizzazione dall’interno e si basa su un ragionamento semplice: se non si può entrare nei mercati degli altri con prodotti che vengono da fuori, ci si può entrare producendo da dentro. Così nel 1867 l’americana Singer si paracaduta in Gran Bretagna e dopo aver fondato una società, di proprietà sua, ma giuridicamente inglese, apre a Glasgow una fabbrica di macchine da cucire autorizzate ad invadere l’isola perché made in England.

Singer apre ufficialmente il corso moderno delle multinazionali, più propriamente dette gruppi multinazionali dal momento che non si tratta di imprese singole ma di tante società imparentate fra loro per il fatto di appartenere a una medesima società che sta a capo di tutte. Oggi i gruppi multinazionali sono 320mila per un numero complessivo di oltre un milione di filiali. Tutti insieme fatturano 132 mila miliardi di dollari e generano profitti lordi per 17mila miliardi. E se in certi settori, come le sementi, i velivoli, il petrolio, l’auto, l’acciaio, sono i protagonisti esclusivi, non meno importante è il loro peso sull’economia mondiale considerato che contribuiscono al 35-40% del prodotto lordo globale e che alimentano l’80% del commercio internazionale. Solo in ambito occupazionale i loro numeri si fanno più timidi dal momento che impiegano solo 300 milioni di persone pari al 15% dell’intera mano d’opera salariata mondiale.

Famiglie, azionariato e fondi d’investimento

Internazionalizzazione delle filiali, ma anche della proprietà della capogruppo, questa è un’altra caratteristica della maggior parte delle multinazionali. E mentre alcune, come Ikea, Mars, Barilla, Ferrero sono ancora controllate dalle famiglie di origine, tutte le altre appartengono a un azionariato diffuso, sparso a livello mondiale. Spesso è inutile cercare persone in carne e ossa: salvo eccezioni, i proprietari sono banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimento, istituzioni che di mestiere raccolgono capitali fra il grande pubblico, dal giovane lavoratore che risparmia per farsi una pensione, al vecchietto che affida i propri risparmi al fondo perché gli è stato promesso un alto rendimento. A livello mondiale 225 istituti finanziari gestiscono una ricchezza pari a 26mila miliardi di dollari e riecheggiano le parole di Louis Brandeis, membro della Suprema Corte degli Stati Uniti dal 1916 al 1939: «Possiamo avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose».

Francesco Gesualdi


Geografia delle multinazionali – Chi sono, dove sono

Gli Stati Uniti guidano la classifica delle multinazionali, ma la Cina avanza rapidamente.

Se compiliamo una lista delle prime 100 realtà economiche, includendovi i governi in base ai loro introiti fiscali e le multinazionali in base ai loro fatturati, scopriamo che 66 sono multinazionali. La prima compare al 10° posto ed è Wal-Mart con un fatturato di 485 miliardi di dollari, somma superiore alle entrate governative di paesi come Spagna, Australia, Russia, India
(vedi il grafico Cnms a sinistra).

Le Nazioni Unite definiscono multinazionale qualsiasi gruppo con filiali estere. Ma al di là di questa caratteristica, ognuna differisce dall’altra non solo per attività, ma anche per dimensioni. Al pari dei mammiferi che comprendono sia i topolini che gli elefanti, anche le multinazionali comprendono gruppi che fatturano qualche manciata di milioni di euro e altri che realizzano centinaia di miliardi. Tant’è che i primi 200 gruppi realizzano, da soli, il 14% di tutto il fatturato delle multinazionali. E se un tempo le capogruppo battevano quasi esclusivamente bandiera europea, statunitense o giapponese, oggi battono sempre di più bandiera cinese. Rimanendo alle prime 200, in cima alla lista troviamo ancora gli Stati Uniti con 63 capogruppo, ma al secondo posto incontriamo la Cina con 41 capogruppo. Con la differenza che mentre quelle cinesi sono tali di nome e di fatto perché sono per la maggior parte di proprietà governativa, tutte le altre hanno una doppia personalità: con una patria ben precisa da un punto di vista giuridico, ma apolidi da un punto di vista proprietario perché i loro azionisti sono banche e fondi di investimento di ogni paese del mondo. Tanto per confermare, ancora una volta, che il potere finale è della finanza, considerato che 25 gruppi finanziari controllano il 30% del capitale complessivo di 43mila gruppi multinazionali.

Fra.G.

 

 




Il mercante e i suoi precetti


E la chiamano economia
prima la conosciamo, prima la cambiamo


Testo di Francesco Gesualdi |


Se sul titolo di questa nuova rubrica abbiamo dibattuto a lungo, non così è stato per scegliere a chi affidarla. Abbiamo pensato subito a una sola persona: Francesco Gesualdi detto Francuccio.  Nato nel 1949 nei pressi di Foggia, Francesco Gesualdi giunge a Barbiana (Firenze) nel 1956. Qui è allievo di don Lorenzo Milani fino al 1967, anno della sua morte. Assieme a lui partecipa alla stesura di «Lettera a una professoressa», probabilmente uno tra i più celebri libri di pedagogia. Dopo aver completato la formazione economica, fa l’insegnante e poi, per due anni, il volontario in Bangladesh. Nel 1982 pubblica «Economia: conoscere per scegliere», un testo di divulgazione economica destinato agli esclusi dalla lettura. Nel 1983 si trasferisce a Vecchiano (Pisa) per vivere un’esperienza semicomunitaria con altre famiglie decise a praticare concretamente la solidarietà. All’interno di questa iniziativa nasce il «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it).

Francesco Gesualdi è autore di molti libri, tutti aventi l’obiettivo di smontare pezzo per pezzo il sistema economico attuale e proporre un’alternativa di vita non soltanto sostenibile ma anche felice. In questa sua rubrica cercherà di spiegarlo anche ai lettori di Missioni Consolata.

Paolo Moiola


Il mercante e i suoi precetti

L’economia è come un carciofo: per conoscerla occorre saperla sfogliare. Partendo da un dato di fatto: essa non è una scienza «neutra». Nella prima puntata della sua rubrica Francuccio Gesualdi ci parla di ricchezza, lavoro, mercato, natura e stato, in un’analisi motivata e molto critica.

È opinione diffusa che l’economia sia una materia difficile. In realtà è molto semplice: basta saperla sfogliare come si fa col carciofo. All’esterno ci sono le foglie dure, coriacee e spinose, ma all’interno c’è il nucleo tenero, facilmente digeribile. Fuori di metafora, per capire l’economia bisogna liberarla da tutti gli aspetti specialistici caratterizzati da meccanismi rompicapo e da un linguaggio indecifrabile, per arrivare al nucleo centrale, ossia ai criteri chiave che ci rivelano la sua impostazione ideologica. Perché l’economia non è una scienza neutra, come si sforzano di farci credere. L’economia è una «roba» terribilmente di parte che cambia totalmente fisionomia a seconda dei valori su cui si fonda, della classe sociale che vuole difendere, degli obiettivi che si propone. Dal che si capisce che di economia non ne esiste una sola, ma tante, tutte diverse in base alle visioni da cui sono animate.

L’affermazione del mercante

L’economia in cui ci troviamo nasce attorno al 1100 d.C. quando inizia ad emergere la figura del mercante. Il capitalismo è il suo sistema, nato ed organizzato attorno alle sue convinzioni per permettergli di raggiungere i suoi obiettivi. Nel tempo, la figura del mercante si è trasformata assumendo le sembianze delle moderne imprese, ma al di là dell’aspetto, nel suo petto pulsa sempre lo stesso cuore che si muove all’insegna di sette capisaldi ideologici: il denaro come fondamento della ricchezza, il profitto come scopo immediato, l’accumulazione come obiettivo di fondo, il mercato come unico crocevia economico, la competizione come sola forma di rapporto con gli altri, la tecnologia e la crescita come massima espressione di progresso.

L’elemento di principale novità introdotto dal mercante, in totale rottura col sistema feudale, è la supremazia del denaro. Se nel castello la ricchezza è rappresentata dalla terra, nel mondo mercantile è rappresentata dal denaro e non tollerando che la nobiltà se ne appropri in nome del titolo nobiliare, il mercante pone a fondamento della sua società la «meritocrazia», il principio secondo il quale la ricchezza va conquistata tramite l’intraprendenza, l’inventiva, l’arguzia, la scaltrezza. Una nuova forma di saccheggio collettivo non più basato sul privilegio derivante dallo status nobiliare, ma dalla capacità di sapere organizzare gli affari anche se sconfinano nell’abuso, nel plagio, nel raggiro, nel furto, nello sfruttamento.

Il lavoro (tra disoccupazione e sfruttamento)

Le lotte popolari degli ultimi due secoli hanno introdotto il concetto di diritto come nuovo criterio di godimento della ricchezza pur non avendola prodotta, ma il mercante non è avvezzo a certe sottigliezze e continua a voler escludere chiunque non abbia dimostrato di «essersela guadagnata» anche se vecchio, inabile o bambino. Come un disco rotto continua a ripetere «che vinca il migliore», in una società delle cavallette in cui prevale la gara di tutti contro tutti per arrivare primi ad accumulare ricchezza in un crescendo senza fine. Perché il denaro, a differenza della terra, non pone limiti di crescita. Non a caso il Prodotto interno lordo (Pil) è diventato il nostro idolo.

Se il fine è l’accumulazione, la strategia è il profitto che il mercante ottiene creando una differenza fra costi e ricavi. Peccato che fra i costi sia compreso anche il lavoro, perché ciò è all’origine dello sfruttamento. Da quando il lavoro è stato degradato a costo, ha smesso di essere considerato la massima ricchezza a disposizione dell’umanità per la sua elevazione e ha smesso di essere considerato il diritto/dovere riconosciuto ad ogni adulto per permettergli di prendere parte alla distribuzione della ricchezza. Al contrario è stato trasformato in una zavorra monetaria da ridurre il più possibile. Da qui tutti i tentativi per eliminare il lavoro (disoccupazione) e pagarlo il meno possibile (sfruttamento).

La natura (o merce o bene senza valore)

Nella logica del denaro, l’altro grande perdente è la natura che è stata spontaneamente divisa in due grandi categorie: quella catturabile e quella non catturabile. La parte catturabile, costituita da terreni, foreste, minerali, acqua, è stata recintata e trasformata in merci su cui lucrare. In altre parole è passata da beni comuni a proprietà privata, da beni godibili gratuitamente a beni ottenibili solo a pagamento, da beni al servizio di tutti a beni per il profitto individuale. Come testimoniano le battaglie per l’acqua, le foreste, i parchi, le spiagge. Ancora oggi in molti punti del globo, le comunità sono in lotta con i mercanti per proteggere quel poco di beni comuni rimasti. Purtroppo con scarsi risultati dal momento che i mercanti hanno dalla loro parte la forza degli stati. Intanto sembra persa del tutto la battaglia per la parte di natura non recintabile. Non essendo catturabile, è stata declassata da bene di tutti a bene di nessuno. Non essendo vendibile, è stata degradata da bene non prezzabile a bene senza valore. Trascurata da tutti, è diventata un’enorme pattumiera in cui abbiamo riversato tutti i nostri avanzi: l’aria si è saturata di veleni, i fiumi sono stati inondati di sostanze chimiche, i mari sono stati riempiti di plastica.

Il mercato (e le sue regole)

Nello stesso tempo la logica dei costi e dei ricavi spiega perché viviamo in un sistema consumista. Dal momento che il guadagno del mercante dipende anche da quanto incassa, è logico che tenti di espandere il più possibile le sue vendite subissandoci di pubblicità tramite un impegno monetario che, a livello mondiale, vale 500 miliardi di euro. Così siamo stati scaraventati in un sistema materialista che propone alla gente come unico obiettivo quello di comprare, comprare e ancora comprare.

Non meno deleterie sono le conseguenze del fatto che il mercante concepisce la compravendita come unica modalità a disposizione del genere umano per soddisfare i propri bisogni. Il mercato, dobbiamo ammetterlo, è una grande macchina, capace di garantire di tutto: beni fondamentali e beni di lusso, oggetti comuni e oggetti rari, prodotti leciti e prodotti illegali, mezzi di pace e mezzi di guerra. Con le sue migliaia, milioni di imprese di ogni dimensione e settore, da un punto di vista dell’offerta è ineguagliabile. Ma ovunque ci sono regole, e anche il mercato ha le sue. La regola è che possiamo chiedergli di tutto, ma per ottenerlo bisogna pagare. Allora scopriamo che il mercato non è per tutti. Il mercato è solo per chi ha soldi. Chi ha denaro da spendere è il grande accolto, il grande corteggiato, il grande riverito. Chi non ne ha, è il grande rifiutato, il grande escluso, il grande disprezzato. Per dirla con papa Francesco è il grande scartato.

Gli «scartati» e il ruolo dello stato

Gli scartati sono i vecchi, gli inabili, i disoccupati, i nullatenenti, in una parola tutti coloro che non guadagnano abbastanza da poter pagare beni e servizi costosi. Per tutta questa gente, che poi sono i più, l’alternativa è che i servizi fondamentali come sanità, istruzione, alloggio, comunicazioni, siano erogati gratuitamente, ossia da parte della comunità, l’unico soggetto capace di fornire servizi non attraverso il meccanismo della compra-vendita, ma della solidarietà. Ma questa prospettiva danneggia grandemente il mercato, perché ogni servizio offerto dalla comunità è un’occasione di affari in meno per le imprese private. Non a caso la classe mercantile ha sviluppato ed imposto la visione così detta neoliberista che nega alla comunità qualsiasi tipo di intervento in ambito economico per lasciare pieno spazio al mercato. Il tentativo in atto è quello di confinare lo stato ad occuparsi solo di strade, anagrafe, mantenimento dell’ordine pubblico difesa dei confini, magistratura (purché si occupi solo di ladri di polli e non tocchi i mafiosi e i corrotti). In fin dei conti si vuole limitare l’intervento dello stato ai soli servizi che fanno comodo anche alla classe dominante mentre si pretende che venga privatizzato tutto il resto: pensioni, sanità scuola, trasporti, comunicazioni. Un progetto in totale controtendenza con la nostra Costituzione che vieta l’iniziativa privata in contrasto con l’utilità sociale e che assegna alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Cerchiamo di farla rispettare.

Francesco Gesualdi


Il «Centro nuovo modello di sviluppo»

Trasformare l’utopia in realtà

Potremmo chiamarlo un «think tank» dell’economia alternativa e del pensiero nuovo. Di sicuro, pur partendo dal volontariato e da risorse sempre scarse, le sue ricerche e i suoi studi meritano una grande attenzione.

Il «Centro nuovo modello di sviluppo» (Cnms) di Vecchiano (Pisa) è nato per affrontare, da un punto di vista politico, i temi della povertà, della fame, del disagio nel Nord come nel Sud del mondo.

Una sezione importante del Centro è dedicata ai rapporti internazionali per capire attraverso quali meccanismi produttivi, commerciali, finanziari e tecnologici il Nord provoca emarginazione, impoverimento e degrado ambientale nel Sud del mondo. Il Centro diffonde i risultati delle sue ricerche attraverso corsi per insegnanti, seminari popolari, articoli e libri.

Oltre all’attività educativa e formativa, il Centro svolge anche un’attività di sensibilizzazione politica per indurre la gente del Nord a mobilitarsi a fianco della gente del Sud attraverso nuovi stili di vita e attuando varie forme di noncollaborazione e di pressione popolare di tipo nonviolento.

Da questo punto di vista l’attività del Centro si svolge in quattro direzioni:

  • Individua attraverso quali gesti quotidiani la gente collabora, suo malgrado, con una macchina economica che sfrutta il lavoro del Sud, che rapina le sue risorse, che distrugge il suo ambiente, che crea nullatenenti.
  • Indica come indurre le imprese e i governi a comportamenti più equi attraverso nuove forme di democrazia e di partecipazione (intervento sui parlamentari, lettere di dissenso, controconferenze) e attraverso l’uso di spazi di potere ancora non utilizzati nell’ambito del consumo e del risparmio (il consumo critico, il consumo alternativo, il boicottaggio, il risparmio alternativo, l’investimento etico).
  • Organizza campagne di pressione sulle imprese e sul potere politico a difesa dei diritti degli sfruttati e degli impoveriti. Tra le campagne passate più importanti promosse dal Centro ricordiamo la campagna Chicco/Artsana per garantire un indennizzo alle 87 vittime dell’incendio alla Zhili, la campagna Chiquita concordata con i sindacati del Centro America per garantire i diritti sindacali ai lavoratori delle piantagioni di banana, la campagna «Acquisti trasparenti» per ottenere una legge che induca le imprese a rispettare i diritti dei lavoratori e la campagna Del Monte per richiedere l’aumento dei salari e l’abbandono di pesticidi pericolosi nella piantagione di ananas in Kenya. Dal 2000 gestisce la campagna «Abiti puliti», assieme ad altre realtà italiane, per la difesa dei diritti dei lavoratori globali del settore abbigliamento e calzaturiero.
  • Elabora proposte di sistema per passare da un’economia organizzata sulla crescita ad un’altra organizzata sul senso del limite, capace di garantire a tutti una vita dignitosa pur producendo di meno.

Fonte: Centro Nuovo Modello di Sviluppo (www.cnms.it).

I libri

Fra i numerosi testi pubblicati da Francesco Gesualdi e dal Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms) ricordiamo: Sobrietà (Gesualdi), L’altra via (Gesualdi), Le catene del debito (Gesualdi), Guida al consumo critico (Cnms), Lettera a un consumatore del Nord (Cnms), Manuale per un consumo responsabile (Gesualdi), Gratis è meglio (Gesualdi),?Società del benessere comune (Gesualdi-Ferrara), Risorsa umana (Gesualdi).




Usa-Cina 2017:

Il capitalista e il comunista


A inizio aprile il presidente statunitense Trump e quello cinese Xi Jinping si sono incontrati per la prima volta. Hanno discusso soprattutto dei temi economici su cui Pechino e Washington (e i paesi occidentali) rimangono distanti. La Cina opera con successo sui mercati internazionali, ma è restia ad adeguarsi alle regole del commercio mondiale. Proprio durante i colloqui, Trump ha trovato il tempo per lanciare 59 missili contro una base siriana mostrando i muscoli ad amici e nemici.

Lo scorso 6 aprile per la prima volta il capitalista americano Trump e il comunista cinese Xi, a capo delle due nazioni più potenti al mondo, si sono stretti la mano, con al fianco le loro eleganti signore. Lo hanno fatto in una lussuosa villa-castello, la Mar-a-Lago Club, proprietà della famiglia Trump, sulla spiaggia delle palme in Florida, a un tiro di schioppo dal Mar dei Caraibi.

Figlia delle riforme di apertura economica che Deng Xiaoping avviò all’inizio degli anni Ottanta, con l’abbandono della dura autarchia maoista, la Cina contemporanea, entrata a far parte nel 2001 dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), si può sedere oggi allo stesso tavolo del presidente degli Stati Uniti, per trattare da pari a pari di commerci internazionali, di multinazionali, di tassi di cambio, pur continuando ad essere guidata dal più grande partito comunista della storia con i suoi 90 milioni di iscritti.

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. UN-Photo_Evan-Schneide

Le tensioni esistenti

Oggi comunisti e capitalisti sembrano andare a braccetto. Sono remoti i tempi della crisi dei missili che nel 1962 contrappose, di fronte alle coste caraibiche di Cuba, l’arsenale nucleare statunitense a quello sovietico. Il mondo attuale per fortuna non è più lo stesso, la guerra fredda è finita, ma i comunisti cinesi, a differenza di quelli sovietici, sono ancora al loro posto.

Possiamo quindi parlare di vicinanza, ma non di alleanza. Infatti molti sono ancora i punti di attrito tra la potenza nucleare cinese e quella statunitense. Solo per citare quelli che rischiano di portare allo scontro i due paesi, possiamo elencare: crisi Nord coreana, tensioni tra Giappone e Cina sulle isole Senkaku/Diaoyu, ritorno di Taiwan alla Cina, contenzioso territoriale nel Mar cinese meridionale tra Cina e paesi rivieraschi.

Serve ancora tempo. Cina e America sono ormai una coppia di fatto, ma per nulla affiatata. Le moderne relazioni tra Stati Uniti e Repubblica popolare si sono riallacciate pienamente solo all’inizio degli anni Settanta, preparando le condizioni internazionali che avrebbero portato trent’anni dopo i comunisti cinesi nel Wto.

Dal ping pong al Wto (1971-2001)

Nella primavera del 1971, con la guerra del Vietnam in corso, il governo cinese fece invitare alcuni giocatori statunitensi di tennis da tavolo a Pechino, per giocare qualche partita con i colleghi cinesi. Da questa piccola iniziativa nacque quella che venne definita «la diplomazia del ping pong», che aprì le porte alle relazioni sino-americane interrotte dalla conclusione della seconda guerra mondiale.

Alla fine dello stesso anno gli Stati Uniti tolsero il veto e a Pechino venne assegnato il seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu al posto di Taipei.

Nel 1972 il presidente americano Richard Nixon fece visita al paese guidato da Mao Zedong. Nell’estate del 1981 Deng Xiaoping, erede di Mao al comando dei comunisti cinesi, tracciò una riga di condanna sugli errori del maoismo, avviando il paese verso un difficile e lungo percorso di riforme, non solo economiche, ma anche istituzionali, con alterne vicende e tensioni con Europa e Usa.

Infine nell’autunno del 1992 Jiang Zemin, al potere in Cina dopo Deng, lanciò la politica di internazionalizzazione dell’economia cinese, coronata dall’ingresso della Cina nel Wto nell’inverno 2001. Da quel momento in avanti e per tutto il decennio che ne seguì, la Cina, guidata da Hu Jintao, colse i frutti di questa nuova appartenenza al circuito dei commerci mondiali, si arricchì molto, anche se non sempre contribuì pienamente al rispetto delle nuove regole imposte dal Wto.

La classe dirigente americana ha sempre confidato nel fatto che la Cina, una volta aiutata a uscire dal regime di autarchia in cui l’aveva condotta il maoismo, con l’arrivo degli ingenti investimenti esteri, affluiti nel paese, dopo l’inizio della politica di apertura e delle riforme economiche, avrebbe con il tempo introdotto anche le riforme politiche, avviandosi ad essere un paese liberaldemocratico.

Mercato sì, comunismo anche

La Cina resta, e lo resterà a lungo, un paese socialista, che utilizza i meccanismi dell’economia capitalista per rafforzarsi, sotto l’aspetto economico e sociale, ma restando inamovibile sul controllo e la direzione che il Partito comunista deve esercitare sull’ideologia di governo, sulle istituzioni statali e sui settori strategici dell’economia.

Questa è anche l’accusa che hanno sempre mosso gli Stati Uniti alla Cina. Cioè quella di approfittare dei vantaggi offerti dal mercato internazionale, senza però consentire nel suo territorio una libera circolazione delle merci e dei capitali, attraverso pratiche protezionistiche e a volte truffaldine, come il furto di tecnologia e di proprietà intellettuale, lesive della libera concorrenza.

I cinesi sanno bene che il mercato perfetto è solo un’astrazione, buona per i manuali di economia, difficilmente però applicabile alle concrete relazioni internazionali. Le condizioni di sviluppo economico e la maturità tecnologica dei vari paesi non sono sullo stesso piano. La semplice applicazione meccanica di regolamenti astratti rischierebbe seriamente di compromettere le economie più deboli, invece di condurle verso il pieno sviluppo economico e sociale. Probabilmente anche in futuro i cinesi resteranno impegnati nella realizzazione delle riforme socioeconomiche necessarie, ma senza farsi dettare da nessuno l’agenda dei tempi e delle scadenze.

Ad esempio, è prevedibile che nei prossimi anni le industrie strategiche resteranno in mano pubblica, che i settori ad alta tecnologia nell’industria e nei servizi, prima di essere aperti alla concorrenza internazionale, verranno rafforzati, puntando ad essere credibili multinazionali leader nei vari settori commerciali. 

La Cina per molti anni ha potuto definirsi un paese in via di sviluppo, così da richiedere maggiore indulgenza su tutte le sue documentate mancanze, nel campo della libera concorrenza, della politica monetaria, delle tariffe doganali, delle quote di importazione, della proprietà intellettuale, delle liberalizzazioni ecc… Ma la misura sembra essere colma, se la stessa Europa un anno fa, in linea con le valutazioni del Congresso degli Stati Uniti, ha rifiutato alla Cina lo status di economia di mercato. Fino a quando però le aziende americane ed europee fiuteranno la speranza delle immense possibilità di fare business in una società cinese più libera e orientata ai consumi, le relazioni tra Cina e Occidente resteranno tese, ma non si spezzeranno.

Stile Trump: la pistola sul tavolo

Tornando ad aprile. L’incontro al Mar-a-Lago Club è stato impeccabilmente organizzato dalle due delegazioni, almeno fino al dessert. Poiché a quel punto Trump ha deciso, prima di congedare ufficialmente i suoi ospiti, di fare un colpo di teatro, mettendo la pistola sul tavolo, come si usava fare nei vecchi film western tra giocatori di poker in un saloon, dando cioè l’ordine alle navi da guerra della sesta flotta, che incrociavano nel Mediterraneo, di lanciare una sessantina di missili sull’aeroporto militare siriano da cui erano partiti gli aerei del presidente Assad, sospettati di un precedente attacco chimico sulla città di Idlib, in mano alle milizie islamiste anti Assad.

Un paio di giorni dopo ha ordinato alla terza flotta, guidata dalla portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson, di lasciare Singapore per dirigersi in assetto da guerra di fronte alle coste della Nord Corea, che nel frattempo aveva annunciato di voler condurre l’ennesimo test nucleare o l’ennesimo lancio di missili balistici. Infine, ancora pochi giorni dopo, ha ordinato il lancio, su una base del terrorismo islamico in Afghanistan, della nuova, e mai usata prima, potentissima bomba «Moab», in grado di distruggere i bunker più corazzati, un chiaro avvertimento al regime della Corea del Nord e indirettamente alla Cina. Gli antichi cinesi direbbero «far rumore a Est per colpire a Ovest». E i cinesi sono abituati a gestire i colpi di teatro statunitensi, siano essi ordinati da un presidente repubblicano o da un presidente democratico poco importa. Ricordiamo tutti nel 1999, sotto la presidenza del democratico Clinton, i missili che distrussero l’ambasciata cinese di Belgrado in Serbia durante la guerra del Kosovo. Errore o ennesimo avvertimento da cowboy?

Non c’è che dire, Trump ha il suo stile nel condurre gli affari di stato e lo fa in linea con gli obiettivi definiti da anni dal Pentagono come territori ostili agli interessi americani: Siria, Afghanistan, Corea del Nord. Ma è prevedibile che in futuro altri paesi entrino a far parte dell’elenco, a cominciare dall’Iran, a suo tempo anch’esso considerato da Bush figlio uno «stato canaglia».

La Cina e gli interventi militari degli Stati Uniti

Ai cinesi però non piacciono i colpi di teatro e le azioni unilaterali, soprattutto quando portano il caos e danneggiano i loro interessi. Nello specifico, la Siria, l’Afghanistan, l’Iran sono paesi a cui la Cina guarda con grande interesse, per aprire nuovi mercati di sbocco per le sue merci. Il grande progetto infrastrutturale, costituito dalla nuova «Via della Seta», prevede una serie di collegamenti commerciali, basati su strada, ferrovia, linea aerea, che mettano in contatto diretto, come avveniva nell’antichità, l’oceano Pacifico occidentale al mar Mediterraneo orientale, contribuendo allo sviluppo economico di tutti i paesi attraversati.

La pacificazione del continente euroasiatico è anche un interesse degli Stati Uniti? Agli occhi dei cinesi sembrerebbe proprio di no. Infatti il caos, cioè le tragedie sociali, economiche, umanitarie, create di fatto in Medioriente dalle politiche interventiste statunitensi degli ultimi venticinque anni e la maggiore diffusione del terrorismo, che ne è seguita, sono considerati dai cinesi una diretta conseguenza dell’avventurismo militare degli americani.

Così se guardiamo alla storia che segue la caduta del Muro di Berlino, si evidenzia da parte degli Stati Uniti un continuo susseguirsi di interventi militari (da Panama all’Iraq, dalla Somalia alla ex Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia, dalla Siria forse alla Nord Corea), a conferma del fatto che gli obiettivi di politica estera e gli obiettivi economici dell’apparato militar-industriale degli Stati Uniti trovano sempre una sinergia funzionale.

Di fronte a questa consapevolezza la Cina non può far altro che ribadire in tutti gli incontri bilaterali e in tutte le sedi diplomatiche, come ripetuto anche recentemente riguardo alla crisi nord coreana, che l’interventismo militare è foriero di disastri e non di soluzioni, che è una sconfitta per tutti senza un reale vincitore. Così la Cina ritiene che, nonostante le difficoltà evidenti con gli Stati Uniti nel campo della sicurezza e della bilancia commerciale, continuino ad esserci molti più vantaggi da cogliere dalla reciproca collaborazione, a fronte degli infiniti disastri umani ed economici, anche a livello internazionale, che certamente scaturirebbero da un loro scontro aperto.

La variabile Trump

Nei rapporti con i comunisti cinesi il presidente Trump, da uomo d’affari tra i più ricchi del pianeta, non può essere considerato uno stupido. Se appare istintivo, ondivago nelle intenzioni, passando da dichiarazioni roboanti a marce indietro più diplomatiche, si ha l’obbligo, fino a prova contraria, di giudicare questo suo comportamento come la classica strategia che si adotta in una trattativa difficile, quando non conviene mostrare subito le proprie carte, così come non conviene mostrarsi alla controparte troppo prevedibili. Senza dimenticare che i cinesi la sanno lunga e da un cowboy si aspettano che, prima o poi, metta mano alla pistola.

Gianni Scravaglieri
(cinaforum.net)




Le Società Benefit: una realtà in crescita


Una grande ambizione: essere un nuovo modello economico alternativo alla vecchia concezione di impresa orientata solo al profitto. Dal vecchio modello industriale e societario prendono l’obiettivo di generare utili e ricchezza, e dal mondo del no profit quello di essere impegnate al servizio del bene comune. È solo un cambio di pelle o una risposta genuina ai bisogni del nostro tempo?

Oltre la metà della popolazione mondiale oggi possiede un buon tenore di vita, ma vive in un mercato saturo che porterà il suo benessere a diminuire. Al contempo, quasi tre miliardi di persone hanno ancora bisogno di tutto. In Italia, nel prossimo quinquennio, mancheranno poco meno di 100 miliardi di Euro per coprire la spesa sanitaria e i bisogni sociali. Lo stato se n’è sempre occupato da solo o sostenendo privati che non hanno rischiato di tasca propria: perciò, se alla fine il modello non è stato efficiente, chi ci ha rimesso è sempre stato «solo» il contribuente.

Mentre i bisogni della popolazione crescono e aumenta la domanda sociale, i governi si trovano in una crescente condizione di ristrettezza di risorse. Ma i bisogni insoddisfatti sono un problema irrisolto che non conviene a nessuno e allora si devono cercare altre risorse. Questo richiede un approccio nuovo che non sia il solito aumento delle tasse. Nel mondo ci sono imprenditori e finanzieri che hanno iniziato a ragionare sulla possibilità che il connubio impresa-finanza possa essere utilizzato anche per generare maggior benessere sociale e soddisfare gli interessi di tutte le parti: secondo loro l’impresa può creare risorse e generare impatto sociale e la finanza può essere un vero moltiplicatore di ricchezza.

Nasce la «Società Benefit»

Alle svariate «forme giuridiche d’impresa» esistenti se n’è quindi aggiunta una nuova: la Benefit Corporation (società Benefit – B Corp). Le sue origini risalgono al 2006 e hanno portato alla formalizzazione nel 2010, negli Usa, della forma giuridica delle B Corp, che ora esiste in 31 stati degli Usa, e che ha stimolato la recentissima nascita in Italia delle «Società Benefit». Nel 2014 le prime B Corp italiane certificate (da B Lab, una organizzazione no profit a cui tutte le società Benefit fanno riferimento, vedi www.bcorporation.eu) hanno promosso un progetto politico e giuridico la cui disciplina è entrata in vigore a partire dal 1 Gennaio 2016.

Il 26 febbraio dello stesso anno le prime cinque aziende italiane hanno trasformato la propria forma giuridica da mera società for profit a società Benefit e da allora decine di altre aziende italiane si sono trasformate (alla data odierna sono più di 80). Attualmente nel mondo sono oltre 2.000 le B Corp certificate e si stima che altre 50.000 stiano valutando la propria identità per ottenere la certificazione. Città come New York City hanno addirittura dato vita a progetti come il Best for NYC, per incoraggiare imprenditori sociali a stabilire le loro attività sul proprio territorio, per il miglioramento dell’intera città e delle proprie attività di welfare.

Primi in Europa

Una volta tanto l’Italia ha fatto scuola e ha introdotto, prima in Europa e prima al mondo fuori dagli Usa, le società Benefit per consentire a imprenditori, manager, azionisti e investitori di distinguersi sul mercato attraverso una forma giuridica virtuosa e innovativa. Tali società rappresentano l’evoluzione del concetto stesso di azienda poiché, mentre le società tradizionali esistono con l’unico scopo di creare profitto e distribuire dividendi agli azionisti, le società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

A differenza delle altre organizzazioni non profit (Onlus, Aps/Associazioni di promozione sociale, Imprese Sociali, ecc.) le società Benefit mantengono sì lo scopo di lucro, ma a questo aggiungono il perseguimento di uno o più effetti positivi o la riduzione di effetti negativi su persone, comunità, territorio e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse. Il tutto in modo responsabile, sostenibile e trasparente con una gestione che richiede ai manager un serio bilanciamento tra l’interesse dei soci e l’interesse della collettività.

Un profitto condiviso

Il profitto come obiettivo primario è sempre stato il criterio dominante nei processi decisionali ma molti ora vedono questo come un ostacolo nella creazione di valore a lungo termine per tutti gli stakeholder (o attori, secondo la Treccani: «Chi ha interessi nell’attività di un’organizzazione o di una società, ne influenza le decisioni o ne è condizionato»), inclusi gli azionisti stessi, i cosiddetti shareholder. Gli azionisti sono sempre più coscienti che non si può più solo speculare sul breve termine e che comportamenti non in linea con l’aspettativa dei clienti alla lunga penalizzano, perché questi non comprano più né prodotti né servizi. Il meccanismo è analogo a quanto è successo nel biologico, dove c’erano individui che volevano un prodotto più sano e più rispettoso dell’ambiente e, mentre all’inizio questo rappresentava solo una nicchia, oggi è diventato un vero settore di mercato.

Le società Benefit pertanto vanno oltre un semplice modello di breve periodo e prendono in considerazione tutte le parti interessate nelle loro decisioni: ciò garantisce loro la flessibilità necessaria a creare valore per tutti gli stakeholder nel lungo periodo, anche a fronte di cessioni parziali e acquisizioni, entrata di nuovi manager, capitali, passaggi generazionali o quotazioni in borsa.

Non i migliori del mondo ma migliori per il mondo

Non appare trascurabile anche il fatto che i nuovi talenti per lavorare scelgono le aziende che hanno un impatto sociale positivo. È un fatto importante che il 77% dei millenials affermi che «lo scopo dell’azienda è parte fondamentale del motivo per cui hanno scelto di lavorare in essa». I millennials (generazione nata tra i primi anni ‘80 e il 2000, ndr) costituiscono da soli oltre il 50% della futura forza lavoro, che diventerà il 75% entro il 2025.

Inoltre, le informazioni non finanziarie sono diventate fondamentali poiché la maggior parte degli investitori ritiene che le imprese non siano adeguatamente trasparenti in merito ai rischi non finanziari e quasi la metà degli investitori esclude determinati investimenti sulla base di informazioni non finanziarie (come impatto sull’ambiente, inquinamento e riciclo, trattamento dei dipendenti in particolare le donne, uso di materie prime certificate, non essere associati con produzione e vendita di armi, ecc.). In fondo non si vuole un’azienda che sia «la migliore del mondo» ma «migliore per il mondo».

Ridefinire il «valore»

Aristotele pensava che ci fosse un «giusto prezzo per ogni cosa» e Marx pensava che il valore fosse generato dal lavoro ma, più di recente, la maggior parte degli economisti ha accettato che l’unico concetto di valore che abbia senso nasce dall’interazione tra domanda e offerta sui mercati: «qualcosa ha valore solo se qualcuno è disposto a pagare per essa». Tale definizione di valore costringe gli economisti a osservare il comportamento reale, piuttosto che cercare di scoprire realtà nascoste. Molti elettori sono disposti a pagare le tasse per le forze di polizia e le scuole primarie e molti governi sono in grado di fornire questi servizi. Molti donatori sono disposti a finanziare l’assistenza sanitaria per i bambini nei paesi in via di sviluppo e molte associazioni locali sono in grado di fornire tale assistenza. In questi ambiti, analizzare il valore sociale non è difficile, perché i legami tra ciò che vogliono i finanziatori e ciò che i fornitori possono offrire è chiaro. Ma, per altre questioni sociali i legami tra domanda e offerta sono carenti e, in alcuni casi, la domanda effettiva può mancare perché finanziatori, politici o privati cittadini non percepiscono un bisogno come sufficientemente urgente da giustificare l’impiego delle loro risorse.

Consorzio Auxilium

A Torino, nel 2016, è nato il Consorzio Auxilium, facente capo a una generazione di imprenditori che credono nelle società Benefit e che desiderano, al contempo, promuovere un approccio culturale al tema del valore di impresa che non sia basato solo in termini di profitto.

Attraverso gli strumenti legali e finanziari messi a disposizione dal mondo delle Sb, essi hanno la possibilità di spiegare ai stakeholder e ai shareholder come le risorse investite in tali aziende possono contribuire al raggiungimento di risultati coerenti con la propria mission, generando al contempo un impatto sociale positivo.

Al Consorzio si aderisce per spirito mutualistico e di interesse reciproco, ma anche con l’obiettivo dichiarato che una percentuale del fatturato generato per mezzo degli scambi promossi dal Consorzio sia destinata ad alimentare attività sociali di vario genere, a partire dall’ambito locale. Nel suo primo anno di vita il Consorzio ha dato lavoro a famiglie «trovate» davanti ai supermercati della Città, promosso corsi di italiano per l’integrazione degli stranieri, attivato progetti di formazione, finanziato progetti di cooperazione sociale e internazionale… e siamo solo all’inizio.

Paolo Rossi*

* Ha una laurea in Economia e master in Sviluppo umano e ambiente, con esperienze di studio, volontariato e lavoro all’estero; è presidente della Col’Or Ong, impegnato nel Consorzio Auxilium e assegnista di ricerca presso l’Università del Piemonte Orientale.

Bibliografia e Sitografia

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Becker Henk. A. e Vanclay F. (a cura di), The International Handbook of Social Impact Assessment, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, UK, 2006
Boltanski L., Laurent T., Sulla giustificazione: Economie di ciò che conta, Università di Princeton Press, Princeton, NJ, 2006
Chouinard Y. E Stanley V., The Responsible Company: what we’ve learned form Patagonia’s firts 40 years, Patagonia Books, Ventura, CA, USA, 2011
Dewey J., Teoria della Valutazione, Università di Chicago, 1939
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http://www.societabenefit.net/news/




Congo Brazzaville: non solo petrolio


Un paese semisconosciuto. Spesso confuso con il suo vicino, il più noto Congo RD. Ma è uno dei principali produttori africani di petrolio. E i rapporti con l’Italia sono molto stretti, da mezzo secolo. Non tra i popoli, ma tra i vertici e i tecnici delle imprese petrolifere. Cerchiamo di sapee di più.

Tra Italia e Repubblica del Congo c’è un’amicizia di lunga data. Il mastice che tiene uniti i due paesi è il petrolio. Dal 1968, l’Eni, la società italiana di idrocarburi, estrae greggio e continua a fare prospezioni nei fondali marini e sulla terra ferma della nazione africana. Non è un caso che il premier italiano Matteo Renzi nella sua prima visita in Africa, nel luglio 2014, abbia incluso una tappa proprio a Brazzaville, la capitale del Congo. E in quella visita si premurò di incontrare il presidente Denis Sassou Nguesso. Esiste quindi un solido sodalizio d’affari. Per noi italiani Brazza è un partner strategico, come lo sono Angola, Mozambico, Algeria, Nigeria e, un tempo, Libia.

Un mare di greggio

L’economia della Repubblica del Congo – anche chiamata Congo Brazza – dipende in gran parte dal petrolio. Il paese è uno dei cinque grandi produttori dell’Africa subsahariana (insieme ad Angola, Nigeria, Gabon e Mozambico). Secondo i dati foiti dal Fondo monetario internazionale, l’«oro nero» assicura l’80% delle entrate del bilancio statale. Il greggio viene estratto soprattutto da giacimenti offshore (cioè al largo delle coste), ma esistono riserve anche sulla terraferma, così come notevole è la presenza di sabbie bituminose dalle quali è possibile ricavare petrolio (sebbene con procedimenti molto inquinanti e costosi). Il Congo Brazza ha pure importanti giacimenti di gas che però non riesce a sfruttare appieno perché manca una rete di distribuzione (nonostante rappresentino un’ulteriore potenziale fonte di ricchezza).

«Il Congo – spiega Antonio Tricarico, analista dell’associazione Re:Common, che a più riprese si è occupato della situazione congolese – punta anzitutto allo sfruttamento dei giacimenti marini. E questo per due motivi: in primo luogo perché nei fondali congolesi il petrolio è abbondante e le riserve promettono bene, in secondo luogo perché i giacimenti petroliferi congolesi sono relativamente vicini alla costa e quindi più facilmente sfruttabili. Alcuni anni fa, quando il prezzo del greggio era abbastanza elevato, il Congo ha investito nello sfruttamento delle sabbie bituminose e dei biocombustibili. Il progetto però è rimasto limitato alla fase esplorativa, probabilmente perché non era più conveniente rispetto alla produzione offshore e sulla costa. Oggi il governo punta soprattutto sulla concessione delle tradizionali licenze di sfruttamento». Secondo l’Energy Information Administration (ente statistico sull’energia del governo Usa), il paese ha riserve di petrolio che ammontano a 1,6 miliardi di barili. Un patrimonio che potrebbe portare sollievo a quella ampia fascia (46,5%) di popolazione che vive ancora sotto la soglia di povertà e potrebbe garantire energia al 65% di congolesi che ancora vivono senza elettricità.

Sventola il tricolore

Questa ricchezza però fa gola a molti. E infatti sul territorio di Brazza operano compagnie statunitensi, francesi, portoghesi, angolane. E, come già detto, anche l’italiana Eni. La società di San Donato opera nella nazione africana da 48 anni. È impegnata sul fronte dell’estrazione di petrolio, del gas naturale e delle sabbie bituminose. Secondo quanto riporta il sito Eni (www.eni.it), nel 2015 in Congo sono stati estratti un totale di 103mila barili al giorno tra gas e petrolio, cioè poco meno di quanto si estrae in Nigeria (137mila barili) e più di quanto viene ottenuto dai pozzi in Angola (101mila). La produzione è concentrata nei giacimenti di Zatchi, Loango, Ikalou, Djambala, Foukanda e Mwafi, Kitina, Awa Paloukou, M’Boundi, Kouakouala, Zingali e Loufika. Proprio quest’anno, 2016, l’Eni ha aumentato la produzione e prevede di toccare i 14mila barili al giorno. L’attività degli italiani si è concentrata soprattutto sull’estrazione marina.

Il blocco Marine XII sembra quello più promettente: si stima che i vari giacimenti di quest’area abbiano riserve di gas e petrolio per circa 6 miliardi di barili. Ma le esplorazioni continuano e gli ingegneri del «Cane a sei zampe» pensano che altre risorse siano ancora disponibili. L’Eni inoltre è attiva anche nella produzione di corrente elettrica. Nel 2007 ha infatti siglato un accordo con Brazzaville per la realizzazione di centrali elettriche che utilizzano il gas flaring, cioè il gas associato all’estrazione di petrolio. Questo gas, invece di essere rilasciato nell’atmosfera (è molto inquinante), viene portato, attraverso un gas-dotto di 55 km, nell’area di Djeno dove sono state realizzate due centrali che producono energia.

«I rapporti tra Congo ed Eni sono ottimi – osserva Tricarico -. Una piccola curiosità: Claudio Descalzi, l’attuale amministratore delegato dell’azienda del “Cane a sei zampe”, ha fatto una parte importante della sua carriera proprio in Congo e si è sposato con una donna congolese. Al di là dei pettegolezzi, la società italiana, in questi ultimi anni, ha rafforzato la sua presenza nel paese africano che è diventato sempre più strategico per i piani alti di San Donato. Nei prossimi anni, se non nei prossimi mesi, l’Eni dovrebbe addirittura acquisire alcune delle licenze ora in mano a Total. Quest’ultima pare invece volersi progressivamente sganciare da Brazzaville. L’Eni è quindi un attore chiave nel paese ed è destinato a diventarlo sempre di più in futuro».

Petrolio opaco

Il settore petrolifero congolese però alimenta un sistema opaco, in cui è difficile definire con esattezza i confini tra la legalità e la complicità con un sistema politico non trasparente, e poco rispettoso delle procedure democratiche. La questione che ha destato maggiore perplessità negli osservatori è il decreto presidenziale (non ancora trasformato in legge) approvato nel 2014. Esso prevede l’obbligo di rinnovo delle concessioni petrolifere e, in tale contesto, la cessione di una percentuale che va dall’8 al 10% (in alcuni casi fino al 25%) delle concessioni a società congolesi. Ciò non esclude lo sfruttamento dei giacimenti da parte delle compagnie straniere, ma impone una presenza sempre più importante di società congolesi nel settore degli idrocarburi.

Nel 2014 l’Eni ha venduto proprie partecipazioni in quattro campi petroliferi a una società che si chiama Aogc (Africa oil & gas corporation). La notizia della cessione a Aogc è emersa durante l’assemblea degli azionisti dell’Eni il 13 maggio 2015. «La Aogc è stata proposta come partner da Eni o dal governo congolese?», ha chiesto Elena Gerebizza, azionista e rappresentante delle due Ong Global Witness e Re:Common. «Non siamo stati noi a sceglierla», ha risposto Claudio Descalzi. L’Aogc non è una società qualsiasi. Nel consiglio di amministrazione siedono Denis Gokana, consigliere del presidente Sassou Nguesso, e alcuni funzionari pubblici. Nel 2005 l’azienda è finita nel mirino dell’Alta corte di giustizia inglese che l’ha inserita in una lista di società offshore create per distrarre i ricavi petroliferi congolesi. Secondo una ricerca di Global Witness, la Aogc sarebbe anche servita per pagare i salati conti dello shopping parigino di Denis Christel, figlio del presidente Sassou Nguesso (spesso i dirigenti africani amano fare compere nelle capitali europee, ndr).

Ma quello dell’Aogc non è l’unico caso che desta perplessità. «Nel periodo 2003-2005 – continua Tricarico – esistevano in Congo varie società petrolifere che io definirei di facciata, perché prendevano appalti dalla società nazionale degli idrocarburi e poi utilizzavano i soldi a beneficio della famiglia presidenziale. In questi mesi, nella Repubblica di San Marino, l’intermediario francese Philippe Maurice Chironi sta subendo un processo per presunto riciclaggio di 70 milioni di euro – di cui circa 20 effettivamente sequestrati – riconducibili a persone legate al presidente del Congo Brazzaville, Denis Sassou Nguesso».

Il settimanale «l’Espresso» ha sollevato un altro caso delicato, quello del blocco Marine XII. Il regime di Nguesso ha posto una condizione per il rilascio della concessione – ha scritto il periodico -: l’Eni avrebbe dovuto cedere il 25% del blocco a un’azienda selezionata dal governo. La scelta è caduta sulla New Age, una società nata due anni prima su iniziativa dell’Och-Ziff Capital Management Group, il più grande hedge fund statunitense. «Per quello scambio con Eni – si legge su l’Espresso -, New Age ha detto di aver versato all’azienda guidata oggi da Descalzi 53 milioni di dollari. Il problema è che quel prezzo era equivalente a un terzo del valore reale della quota, secondo i calcoli della McDaniel Associates Consultants, società di consulenza citata dalla stessa New Age. Ovvero la quota azionaria è stata largamente sottopagata. La differenza, spiega l’Eni, dipende dal fatto che “non si è trattato di una vendita su base commerciale; New Age entrò rimborsando proporzionalmente le spese sostenute fino al momento dell’ingresso nella joint venture”. Sulle attività africane di Och-Ziff stanno indagando le autorità statunitensi. Né l’hedge fund né gli inquirenti hanno specificato su quali investimenti sono in corso gli accertamenti».

Dulcis in fundo, sempre «l’Espresso», ha denunciato l’esistenza nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands di una società, la Elengui Limited, la cui direttrice e socia unica era Marie Madeleine Ingoba, moglie congolese di Claudio Descalzi. La società è stata chiusa proprio nei giorni in cui Matteo Renzi ha nominato Descalzi al posto di Paolo Scaroni (2014).

Perché la moglie dell’allora numero due dell’Eni ha creato questa società? Marie Madeleine Ingoba ha sostenuto che «la società era stata costituita al solo scopo di essere utilizzata per sviluppare un progetto immobiliare a Brazzaville, la ristrutturazione e l’ammodeamento di un hotel nella capitale congolese, che però non si è mai materializzato». La scelta di crearla in un paradiso fiscale è stata dettata dalla praticità – ha detto la signora Descalzi -, la registrazione alle British Virgin lslands era la soluzione più rapida e meno costosa. Ma, sempre secondo la signora Descalzi, la sua società non ha mai avuto alcun rapporto con Eni.

L’amicizia è una bella cosa, ma il rischio è che l’Italia sia diventata troppo amica del Congo.

Enrico Casale

 




Il paradiso non può attendere


Il meccanismo dell’elusione fiscale spesso non è illegale. Ma si basa su manipolazioni, società di comodo e corruzione. E soprattutto colpisce gli onesti e priva le casse pubbliche di denaro necessario a pagare i servizi essenziali per tutti.

Neppure la donna più potente del mondo sa come risolvere il problema, per questo ha chiesto aiuto a una Ong, così alla vigilia della conferenza internazionale contro la corruzione, che si è svolta a Londra lo scorso maggio, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, ha convocato Winny Byanyima, africana, presidente di Oxfam Inteational, per discutere del più grave e inestricabile nodo del sistema economico mondiale: i paradisi fiscali.

Si calcola che individui e imprese nascondano nei territori off shore qualcosa come 7.600 miliardi di dollari, che, secondo uno studio pubblicato dal quotidiano francese Le Monde, provengono per 2.600 miliardi dall’Europa, 1.200 dagli Stati Uniti, 300 dal Canada, 200 dalla Russia, 1.300 dall’Asia, 800 dai paesi del Golfo, 700 dall’America Latina e 500 dall’Africa. Denaro che sfugge, più o meno legalmente, alle imposizioni fiscali degli stati, ricchezza rubata alla collettività dei paesi, dove i profitti e i redditi sono creati anche grazie alle infrastrutture e ai servizi pagati dai cittadini onesti.

Basterebbe il 5 % di una tale somma per sfamare gli affamati, garantire un’istruzione a tutti i bambini del mondo, curare tutti i malati, assicurare un reddito alle donne, depurare suolo e acque inquinati, fornire energia anche ai luoghi più sperduti, insomma attuare quell’agenda per lo sviluppo che le Nazioni Unite invocano dall’inizio del Millennio.

Sono soprattutto le grandi imprese, consigliate da studi legali ricompensati profumatamente, che eludono il fisco attraverso varie pratiche: dichiarazioni dei redditi manipolate, creazione di società di comodo, adozione del trasfer pricing. Politiche queste, di trasferimento dei prezzi tra filiali e consociate con sede in paesi diversi, come le vendite di prodotti a prezzi inferiori nei paradisi fiscali e la successiva esportazione verso i paesi di destinazione a prezzi maggiorati.

In molti casi si ricorre alla corruzione dei funzionari pubblici e si comprano informazioni da politici compiacenti. Racconta il quotidiano The Guardian che l’impresa britannica Heritage Oli&Gas Ltd, che ha sostenuto la campagna elettorale di David Cameron, avvisata che l’Uganda stava per incrementare il prelievo fiscale sui profitti petroliferi si è precipitata a ridomiciliare la società nelle isole Mauritius, un paradiso fiscale che non ha sottoscritto con il governo ugandese l’accordo sulla doppia imposizione; con questa mossa astuta ha evitato di pagare 400 milioni di dollari in più, una cifra che corrisponde a quello che il governo dell’Uganda spende annualmente per la sanità.

Non siamo rimasti particolarmente scioccati dalla vicenda dei Panama Papers. Le informazioni diffuse dall’Inteational Consortium of Investigative Joualists, ribadiscono semplicemente che ci sono tanti furbi, più o meno famosi, nel mondo della politica, delle banche, delle imprese, dello sport e dello spettacolo che, per non pagare le tasse, trasferiscono i loro beni in paesi dal fisco inesistente o molto malleabile. Molti dei casi scoperti non sono illegali (è questo forse il vero scandalo), ciononostante l’elusione fiscale è davvero deleteria: colpisce i contribuenti onesti, crea svantaggi competitivi per le piccole e medie imprese e priva le casse pubbliche del denaro per pagare i servizi essenziali. La fuga dei capitali inoltre è particolarmente odiosa quando colpisce i paesi poveri: nei Panama Papers troviamo anche il nome di Aliko Fangote che, secondo la rivista Forbes, è l’uomo più ricco dell’intera Africa, grazie alle sue innumerevoli attività produttive e commerciali che lucrano sulle preziose materie prime africane. Da oltre trent’anni, da quando era al potere il presidente americano Ronald Reagan, ostile a qualsiasi regolamentazione, l’Ocse sta studiando il modo per arginare il fenomeno dei paradisi fiscali e ha redatto liste nere e grigie che comprendono oggi 38 paesi distribuiti nei vari continenti. Ne fanno parte piccole isole come Tonga e le Cayman, ma anche stati come il Delaware (Usa), che ha meno di 1 milione di abitanti ma ospita la sede legale di 1 milione e 100 mila società.

La Commissione europea ha cercato di introdurre dei meccanismi di trasparenza per impedire l’elusione fiscale da parte delle multinazionali. Lo scorso 12 aprile ha definito che solo le corporations con un fatturato annuo superiore ai 750 milioni di euro (rimangono escluse l’80% delle imprese) devono presentare una rendicontazione finanziaria paese per paese, e solo all’interno dei confini della Ue, in altre parole non saranno obbligate a raccontare nulla sui profitti maturati nei paesi extracomunitari.




Povertà disuguaglianze in aumento


Pochissimi ricchi possiedono sempre di più, mentre aumenta il numero dei poveri nel mondo. Le cause sono scelte fiscali inadatte e politiche salariali che acuiscono il divario. E la situazione continua a peggiorare.

Ormai ci sono più miliardari a Pechino che a New York, a riprova del fatto che la ricchezza sta crescendo anche in paesi che una volta erano considerati del «terzo mondo».

La ricchezza cresce, ma la povertà non diminuisce, anzi in certe aree del mondo, ad esempio in Europa, sta aumentando. Nel suo recente rapporto «L’economia per l’1%», l’Ong Oxfam calcola che 62 miliardari hanno una ricchezza pari a metà della popolazione mondiale, possiedono da soli quello che 3 miliardi e mezzo di esseri umani si devono spartire.

In Europa il club dei più ricchi è formato da 342 miliardari che hanno un patrimonio di 1.340 miliardi di dollari. E, sempre in Europa, dal 2009 al 2013, i poveri assoluti, vale a dire di coloro che non riescono a pagarsi le cure se si ammalano o a riscaldarsi d’inverno, sono cresciuti di 7,5 milioni, portando il numero a superare i 50 milioni. In Italia, la percentuale delle persone colpite dalla povertà è cresciuta dal 2005 al 2014 passando dal 6,4% all’11,5%. Si tratta soprattutto di bambini e ragazzi sotto i 18 anni.

Dell’incremento della ricchezza prodottosi dall’inizio del secolo, il 50% è rimasto nelle mani dell’1% della popolazione mondiale.

Dunque i ricchi si arricchiscono e tengono la loro ricchezza ben stretta senza diffondee i benefici, smentendo clamorosamente la teoria del trickle down (sgocciolio), che ha ispirato le politiche economiche liberiste che puntavano a favorire i soggetti più forti e dinamici che avrebbero fatto sgocciolare la loro ricchezza fino ai settori sociali più deboli e poveri.

Trent’anni di valutazioni e decisioni sbagliate in economia hanno prodotto un mondo fortemente ineguale, dove la crescita avvantaggia chi è già ricco.

La principale di queste scelte sbagliate riguarda le tasse, ovunque sono state promosse politiche fiscali regressive: più sei ricco, meno paghi. L’Italia non fa eccezione: i governi di centrodestra (più liberisti degli altri) hanno abolito la tassa di successione, mantenuto sotto la media europea il prelievo sulle rendite finanziarie, allentato i controlli contro l’evasione. Viviamo nel paese d’Europa con maggior carico fiscale, ma sono i lavoratori, i consumatori e le piccole imprese che ne sopportano il peso, infatti le aliquote sui redditi più alti si sono dimezzate dal 1980 ad oggi. Il compianto Luciano Gallino in «Finanzacapitalismo», uscito nel 2011, affermava: «Se un lavoratore ha un imponibile di 28mila euro (circa 1.500 ore di lavoro) paga 6.960 euro di tasse, invece chi ha un capitale depositato dello stesso importo e non muove un dito ne paga 5.600».

Il magnate Warren Buffet ha avuto l’ardire di riconoscere che lui paga meno tasse di tutti gli altri dipendenti della sua società, persino meno della sua segretaria o degli addetti alle pulizie.

Queste politiche distorte hanno bloccato quello che gli economisti chiamano «l’ascensore sociale»: chi nasce povero oggi ha più probabilità di rimanere povero rispetto a cinquanta anni fa.

Dice l’economista Joseph Stiglitz, tra i primi a denunciare il fenomeno della disuguaglianza e i suoi rischi: «La maggioranza dei cittadini ha la sensazione di giocare a un gioco dove le carte sono truccate, per questo abbandona il tavolo», in altre parole non confida nelle istituzioni, non va a votare, perde il rispetto per la classe politica incapace di porre rimedio al problema o peggio asservita ai gruppi più ricchi.

Chi non prova vergogna di fronte allo scandalo dell’ingiustizia sono le imprese multinazionali pronte a strapagare i loro manager, comprimere i salari e ridurre i posti di lavoro.

Oxfam India denuncia che il Ceo (in italiano, l’amministratore delegato), della più importante azienda informatica indiana guadagna 416 volte di più di un proprio impiegato. Anche in Italia non si scherza: le differenze salariali tra dipendenti e manager vanno da 1 a 163, secondo il rapporto Fisac Cgil del 2015 un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni e 326 mila euro all’anno, un dipendente porta a casa una media di 26 mila euro lordi annui.

Questo spiega perché anche in Italia le risorse si concentrano sempre di più nelle mani di pochi e l’1% della popolazione detiene il 23,4% di tutta la ricchezza prodotta nel nostro paese.

Sabina Siniscalchi