Mondo, fabbrica di disuguaglianze


Un tempo le disuguaglianze interessavano soprattutto le classi sociali, oggi riguardano anche le nazioni. Allora si riferivano soltanto a reddito e patrimonio, oggi includono anche alcuni parametri ecologici. Con una certezza: i ricchi sono inviolabili. Sempre e ovunque.

L’uguaglianza è una delle aspirazioni più antiche dell’umanità, ma a giudicare da come stanno andando le cose, abbiamo ancora molta strada da fare. L’8 dicembre scorso, a firma del World inequality lab, è uscito il Rapporto 2022 sulle disuguaglianze mondiali e le notizie non sono incoraggianti. Il rapporto certifica che le disuguaglianze vanno crescendo a tutti i livelli. Un tempo ci si limitava ad analizzare le differenze esistenti nella distribuzione del reddito e del patrimonio, con l’esplodere della crisi ambientale si dedica molta attenzione anche alle disparità esistenti nell’ambito dell’impronta di carbonio e, più in generale, di quella ecologica.

Le disuguaglianze non parlano direttamente della condizione delle persone, quanto delle differenze che esistono fra loro.  Quando i mondi erano chiusi, i raffronti avevano senso solo all’interno delle singole realtà territoriali. Nei tempi antichi avremmo potuto studiare le differenze esistenti all’interno dell’impero egizio, dell’impero babilonese, dell’Impero Romano, o di quello di Carlo Magno. Raffronti allargati non avrebbero avuto molto senso perché le realtà sociali e geografiche erano poco comunicanti tra loro.

Nord e Sud

A partire dal 1500, l’Europa iniziò però ad andare alla conquista del resto del mondo per appropriarsi delle sue ricchezze. In un primo tempo, lo fece per servire le necessità belliche dei propri sovrani, poi quelle economiche delle proprie imprese. In quell’epoca accanto alle differenze tra classi, iniziarono anche quelle tra le nazioni.

Sul finire della Seconda guerra mondiale, quando la struttura coloniale era ancora in piedi, il mondo era formato da una ristretta cerchia di paesi localizzati nel Nord, con una buona capacità produttiva e tecnologica, che convivevano con una massa di paesi del Sud senza alcun tipo di infrastruttura e di capacità produttiva se non quella agricola e mineraria al servizio delle esigenze economiche del Nord del mondo.

Benché si vadano restringendo, le differenze costruite in quel tempo sono ancora ben visibili a livello di produzione e consumi. Basti dire che il Nord del mondo, che ospita appena il 16% della popolazione complessiva, assorbe tutt’ora il 38% di tutta l’energia impiegata a livello mondiale.

Volti della diseguaglianza. Foto Leroy Skalstad – Pixabay.

Il reddito pro capite

Volendo, invece, fare una fotografia più particolareggiata del livello di ricchezza raggiunto da ogni paese, ha senso utilizzare come parametro il reddito pro capite, che si ottiene dividendo la ricchezza annuale prodotta per il numero di abitanti presenti nel paese. Un esercizio matematico che, pur non essendo di alcun aiuto per conoscere la reale distribuzione della ricchezza, dà un’idea di massima della ricchezza disponibile in rapporto alla popolazione. Da questo punto di vista, la Banca mondiale divide il mondo in quattro gruppi: paesi a basso reddito, a reddito medio basso, a reddito medio alto, a reddito elevato.

Al primo gruppo, anche detto Quarto mondo, appartengono i paesi con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno. In tutto 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale. All’ultimo gruppo, anche detto Primo mondo, appartengono i paesi con reddito pro capite superiore a 12.696 dollari. In tutto 77 nazioni localizzate principalmente in Europa e Nord America, con una popolazione complessiva di 1,2 miliardi di persone corrispondenti al 16% della popolazione mondiale. Ai due estremi il Burundi con meno di 800 dollari pro capite all’anno e il Lussemburgo che supera i 122.000 dollari pro capite all’anno.

Tutto ciò indica quanto sia ancora profonda la ferita inflitta dal colonialismo al Sud del mondo e quanto pesi ancora sulla incapacità di molti paesi di rimettersi in piedi da un punto di vista   economico, umano e sociale. Anche perché, a un certo punto, è finito il colonialismo inteso come occupazione straniera, ma non è finito il dominio economico che, anzi, si è riorganizzato attorno a nuove alleanze che hanno portato all’emergere di una inedita classe mondiale comprendente super ricchi di ogni nazionalità.

La ricchezza

Per ragioni di tipo metodologico, il rapporto del World inequality lab ha preferito depurare la popolazione mondiale dei bambini in modo da concentrarsi solo sugli adulti stimati in 5,1 miliardi. Ha poi stabilito che, in base alle condizioni di vita, la popolazione può essere suddivisa in tre fasce d’appartenenza: la classe povera, quella media e la ricca.

La classe povera corrisponde al 50% del totale (2,5 miliardi di adulti), quella media al 40% (2 miliardi) e quella ricca al 10% (517 milioni). Il rapporto segnala come è distribuita la ricchezza fra i tre gruppi precisando che la ricchezza ha due facce: quella del reddito e quella del patrimonio.

Il reddito si riferisce agli introiti incassati tramite il lavoro o i profitti in un certo periodo di tempo. Il patrimonio si riferisce a tutto ciò che si è accumulato nel tempo sotto forma di beni durevoli (case, auto, elettrodomestici) e di valori finanziari. Nel 2021, il reddito complessivo, a livello mondiale, è stato calcolato in 86mila miliardi di euro, di cui solo l’8% è stato goduto dal 50% più povero. La quota più alta è stata goduta dal 10% più ricco che ha intascato il 52% del reddito complessivo. E il brutto è che, nel corso del tempo, la situazione è addirittura peggiorata. Considerato che, nel 1820, il 10% più ricco si appropriava del 50% del reddito prodotto a livello mondiale e il 50% più povero intascava il 14%, se ne conclude che, nel 1820, il reddito del 10% più ricco era 18 volte più alto del 50% più povero, oggi è salito a 38 volte. Disparità che si riflettono anche rispetto al patrimonio. Nel 2021 il patrimonio privato complessivo ammontava a 377mila miliardi di euro ed era distribuito in maniera ancora più iniqua del reddito: solo il 2% risultava di proprietà del 50% più povero, mentre il 10% più ricco possedeva il 76% di tutto il patrimonio esistente.

Se vogliamo, la situazione è ancora peggiore perché, nella classe ricca, c’è una casta ristretta, corrispondente all’1% di tutti gli adulti, che da sola si appropria del 19% del reddito mondiale. E se concentriamo l’attenzione sul patrimonio, scopriamo che appena 56,2 milioni di adulti possiedono il 45,8% di tutto il patrimonio privato, qualcosa come 3,4 milioni di dollari a testa.

L’inquinamento dei ricchi e quello dei poveri

Disparità che si riflettono anche nei livelli di inquinamento: il 10% più ricco è responsabile del 49% delle emissioni di anidride carbonica, con l’1% più ricco che contribuisce da solo al 15%. Per contro il 50% più povero è responsabile solo del 7%.

Le statistiche non dicono quale sia la nazionalità degli appartenenti al 50% più povero, ma considerato che il loro reddito medio si aggira sui 2.700 euro all’anno è probabile che risiedano quasi totalmente nei paesi del Sud del mondo. Invece, conosciamo la nazionalità dell’1% più ricco, i famosi 56,2 milioni di adulti che siedono all’apice della «piramide della ricchezza». Ce la rivela il Credit Suisse col suo Global wealth report. Come c’era da aspettarsi, la fetta più ampia di super ricchi ha un passaporto statunitense (39%), seguita da quelli con un passaporto europeo (31%), precisando che quelli di nazionalità italiana sono 1.480, pari al 3% del totale mondiale. Un tempo al terzo posto venivano quelli di nazionalità giapponese, ma ora sono stati sorpassati da quelli di nazionalità cinese che rappresentano il 9% del totale. Fra le altre nazionalità, oltre a quella canadese, sudcoreana, taiwanese, compaiono quella russa, indiana, brasiliana, messicana, saudita.

Se abbandoniamo il livello mondiale e scendiamo nel dettaglio delle singole nazioni, troviamo che il paese più iniquo, fra quelli con dati disponibili, è il Sudafrica dove il 10% più ricco si appropria del 66,5% del reddito prodotto e detiene l’86% del patrimonio privato. In questo paese la ricchezza detenuta dal 50% più povero ha addirittura segno negativo, indice del fatto che i poveri possiedono solo debiti.

Il paese più equo, invece, sarebbe la Slovacchia dove il 10% più ricco assorbe il 28% del reddito prodotto e detiene il 43% del patrimonio privato. Su valori simili si trova anche l’Italia dove il 10% più ricco si prende il 32% del reddito prodotto e detiene il 48% del patrimonio privato.

Fra le ragioni per cui le disuguaglianze continuano a crescere, due meritano particolare menzione: la globalizzazione selvaggia e una politica fiscale accomodante con i ricchi.

Volti della diseguaglianza. Foto Leroy Skalstad – Pixabay.

Lo stato a difesa dei redditi dei ricchi

Uno degli effetti della globalizzazione è stata la riscrittura della geografia mondiale del lavoro. Libere di spostare la produzione dove il lavoro costa meno, molte imprese hanno chiuso i loro stabilimenti nel vecchio mondo industrializzato per rifornirsi presso contoterzisti sorti come funghi in Cina, India, Bangladesh, Indonesia.

Ad un tratto tutti i lavoratori del mondo si sono ritrovati uno contro l’altro: quelli italiani contro quelli polacchi, quelli spagnoli contro quelli bengalesi, tutti pronti a vendersi per un salario più basso in modo da conquistare il lavoro tanto agognato. Ed è successo che la quota di prodotto nazionale lordo andato ai salari si è ridotta ovunque. Mediamente a livello mondiale è diminuita del 9% passando dal 72%, nel 1982, al 63%, nel 2017.

L’Italia rispecchia esattamente questa media. L’iniquità distributiva poteva essere compensata dall’intervento riequilibratore degli stati tramite il sistema fiscale. Ma – ahinoi – anche su questo piano da anni assistiamo a scelte che tendono a favorire i ricchi. Lo testimoniano la riduzione delle aliquote sugli alti redditi, l’abbattimento delle tasse di successione, la mancata introduzione di una seria imposta sul patrimonio. E l’Italia non fa eccezione. Basti dire che l’ultima legge di bilancio riduce ulteriormente le aliquote sull’Irpef, l’imposta sulle persone fisiche, che da cinque passano a quattro, dove la prima rimane ferma al 23% per i redditi fino a 15mila euro e l’ultima rimane ferma al 43%. La riforma è stata presentata come una scelta di equità perché la tassazione del 43% è stata abbassata a 50mila euro, mentre prima si applicava oltre i 75mila euro. Ma il vero scandalo non sanato è che chi guadagna centinaia di migliaia di euro all’anno paga come chi guadagna 50mila euro. Non così nel 1974, quando l’imposta sulle persone fisiche fece la sua prima comparsa. A quel tempo gli scaglioni erano 32, con l’ultimo al 72% sui redditi oltre 258mila euro. Somma che, rapportata ai prezzi di oggi, corrisponde a 3,3 milioni di euro. Redditi da capogiro che ben pochi raggiungono. Eppure, nessuno vuole toccarli. Per adulazione? Per calcolo politico? Per paura di ritorsioni? Forse per tutto un po’, ma di certo c’è che oltre ad acuire le disuguaglianze, l’inviolabilità dei ricchi priva le casse pubbliche di introiti importanti che rendono i governi sempre più deboli e incapaci di garantire i servizi richiesti da una società moderna.

Lo stato e la vendita dei beni comuni

Questa situazione di penuria genera anche un altro fenomeno: lo spogliamento degli stati di ogni tipo di proprietà, perché la necessità di far cassa li induce a vendere tutto ciò che è bene comune: strade, edifici, terreni, attività produttive. Nei primi anni Ottanta, i governi dei paesi occidentali possedevano fra il 15 e il 30% della ricchezza complessiva presente nei loro paesi, oggi molti di loro registrano una quota pari allo 0%. In alcune nazioni il capitale pubblico è addirittura negativo perché i debiti superano il valore delle proprietà pubbliche. Il nuovo rapporto sulle disuguaglianze documenta che in questa situazione si trovano Stati Uniti e Gran Bretagna, ma forse anche l’Italia considerato che il nostro debito pubblico supera il 150% del Pil.

Tutto questo, però, non è frutto della malvagità della natura, ma della volontà umana. Per cui può essere cambiato, se ciascuno di noi lo vuole. E lo vorremo nella misura in cui rafforzeremo le nostre convinzioni morali e la nostra volontà di partecipazione.

Francesco Gesualdi

 




Ripresa e resilienza,

quale Italia ci aspetta?

testo di Francesco Gesualdi |


Al nostro paese stanno arrivando i soldi dell’Ue. La domanda è: come utilizzarli? Riprendere la strada della vecchia economia o cercare una vera svolta verso l’equità e la sostenibilità?

In Italia, il piano messo a punto per poter ricevere e spendere i soldi resi disponibili dall’Unione europea, nell’ambito del progetto Next generation Eu, è stato battezzato «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in sigla Pnrr. E, per dargli un tocco di patriottismo, è stato sottotitolato: «Italia domani».

Il documento non è di facile lettura, non foss’altro per la sua lunghezza: ben 269 pagine. Del resto, la posta in gioco è alta: dalle sue scelte dipenderà l’assetto dell’economia e della società italiana dei prossimi decenni. Non a caso la stesura del piano è stata la pietra d’inciampo che ha fatto cadere il governo Conte 2.

Ripresa e resilienza, crescita e sostenibilità

Troppi soldi in ballo che hanno inevitabilmente acceso appetiti e divergenze non solo finanziarie, ma anche ideologiche, perché quei soldi potrebbero essere utilizzati per rafforzare l’economia produttivista, vecchia maniera, o per imprimere una svolta in una logica di equità e sostenibilità.

La copertina del documento sul Pnrr, scaricabile dal web.

Una contrapposizione riportata nel titolo stesso del piano tramite le due parole «ripresa e resilienza». Dove per ripresa si intende il rilancio dell’economia intesa come crescita di produzione, Pil, vendite, affari, esportazioni; per resilienza si intende l’introduzione di tutti quei cambiamenti utili ad arrestare il deterioramento della situazione ambientale. La pretesa del piano, tuttavia, è di aver saputo affrontare i due aspetti non come esigenze in contrapposizione fra loro, ma come due percorsi  complementari che si sostengono a vicenda.  Sarà davvero così? Il sistema si illude di poter tenere insieme crescita e sostenibilità, ma può farlo perché dimentica l’equità. In realtà, quando pensa a un «mondo verde», tiene a mente solo il miliardo di persone che popola i paesi del Nord. Senza dichiararlo, la sua idea di sostenibilità è quella dell’apartheid, un mondo nel quale le poche risorse e gli scarsi spazi ambientali esistenti sono messi al servizio esclusivo di una minoranza di cui i paesi del Nord sono la componente pigliatutto, mentre tutti gli altri non sono neppure presi in considerazione.

Per questo possiamo fantasticare di mobilità basata sull’auto elettrica per chiunque, senza pensare che se il poco cobalto, nickel, litio, esistente sul pianeta ce lo prendiamo tutto noi, gli altri non potranno neanche disporre di un pannello solare per accendere il frigorifero. Purtroppo, solo il tempo potrà stabilire se certe previsioni rientrano nella categoria del catastrofismo o del realismo. Ma allora sarà troppo tardi, esattamente come è successo per gli avvertimenti relativi ai cambiamenti climatici: gli scienziati più attenti hanno cominciato a segnalare il problema attorno agli anni Settanta del secolo scorso, ma i governi hanno riconosciuto l’esistenza del fenomeno solo attorno al 2010.

Sia come sia, è comunque certo che la stesura del Next generation Eu non è stato il massimo della partecipazione democratica. Nella fretta di passare alla fase esecutiva, la Commissione europea ha imposto tempi di presentazione del progetto troppo brevi che la concomitante caduta del governo ha ulteriormente corroso. Fatto sta che nel paese non c’è stato dibattito e neanche il Parlamento ha avuto la possibilità di dire la sua. L’unico progettista è stato il governo, prima sotto la guida di Conte, poi di Draghi, mentre il Parlamento si è limitato a una funzione poco più che notarile con tempi di discussione che hanno permesso solo dichiarazioni di voto.

I fondi in gioco: 236 miliardi di euro

Alla fine, i soldi complessivi che il Pnrr conta di spendere entro il 2026, ammontano a 236 miliardi di euro, 44 in più di quelli messi a disposizione dall’Unione europea tramite il Recovery fund. Un’aggiunta, in parte finanziata da prestiti ottenuti direttamente dal sistema bancario e finanziario (Fondo complementare), in parte da ulteriori sostegni offerti dall’Unione europea attingendo a un fondo speciale denominato React.

Volendo ricapitolare, le fonti di finanziamento si possono analizzare sotto due grandi profili: la provenienza e la natura. Dal punto di vista della provenienza, l’87% giunge dall’Unione europea, il rimanente 13% dal sistema creditizio privato. Dal punto di vista della natura, si tratta per il 65% di prestiti e per il 35% di somme a fondo perduto. In termini monetari, mettendo insieme i soldi provenienti dal Recovery fund e quelli ottenuti dal fondo React, le sovvenzioni a fondo perduto sono 82 miliardi. Ma sarebbe sbagliato considerarli tutti in entrata perché l’Unione europea conta di recuperare i soldi che regalerà tramite un aumento di contribuzione da parte degli stati membri. Sulla reale entità della somma netta incassata dall’Italia esistono numerosi calcoli molto diversi fra loro. Alcuni danno un’entrata netta di circa di 10 miliardi di euro, altri di una quarantina di miliardi. La verità è che le incognite sono ancora troppo ampie per azzardare ipotesi fondate.

Le riforme: quali e per chi?

Va precisato subito che nessuno distribuisce pasti gratis e, analizzando meglio l’offerta dell’Unione europea, si scopre che essa condiziona il proprio sostegno alla realizzazione di una serie di riforme che, a suo avviso, i singoli paesi devono adottare per migliorare la propria situazione e di riflesso quella dell’Unione europea. Non a caso il Pnrr elenca un numero indefinito di riforme che lo stato italiano si impegna a realizzare in ambiti che spaziano dalla giustizia al fisco, dalla pubblica amministrazione alla concorrenza. Tutte con ottimi propositi considerato che, secondo il Pnrr servono per garantire al paese equità, efficienza, celerità. Parole rassicuranti, ma finché gli annunci non si trasformano in proposte di legge rimane difficile capire dove andremo davvero a parare e se si tratta di modifiche condivisibili.

A gettare acqua sulle aspettative c’è che il Pnrr pone troppa enfasi sulla crescita dandoci la sensazione che le riforme siano finalizzate solo a creare un contesto attraente per gli investitori e a rendere più spediti i progetti di investimento.

In questa prospettiva, ad esempio, si possono leggere la riforma della giustizia e degli appalti. Da tempo tutti gli organismi internazionali denunciano che la lentezza della giustizia italiana tiene alla larga gli investitori stranieri che non sopportano l’idea di dover aspettare anni per risolvere eventuali liti commerciali con i propri clienti, fornitori o concorrenti. Pertanto, quando si parla di riforma della giustizia si pensa soprattutto a rendere più spediti i contenziosi civili in cui le imprese incappano con grande frequenza. E se, nel caso della giustizia, la preoccupazione è che la riforma possa essere solo parziale, nel caso degli appalti il timore è che, pur di accelerare i lavori, si indeboliscano i controlli sull’impatto ambientale delle opere, sulla correttezza contabile delle imprese, sulle loro eventuali connessioni con soggetti mafiosi, sul rispetto dei diritti dei lavoratori. Del resto, già in passato abbiamo visto come il concetto di riforma fosse tutto impostato in chiave pro imprese e pro investimenti, trasformandosi, di fatto, in un processo di demolizione dei diritti dei lavoratori nel campo delle assunzioni, dei licenziamenti, della sicurezza, dell’attività sindacale. Dunque, è meglio drizzare le orecchie quando sentiamo pronunciare la parola «riforme».

Le sei «missioni» del piano

Mappa tricolore dell’Italia. Foto MMedia – Pixabay.

Volendoci focalizzare sulle spese previste dal Pnrr, che poi rappresentano l’argomento forte del piano, si possono analizzare sotto vari profili: per finalità, per settori, per ripartizione geografica, per ricaduta sociale per ricaduta ambientale. Ma volendo seguire l’ordine espositivo utilizzato dal Pnrr, si può senz’altro cominciare dicendo che le spese sono suddivise in sei grandi capitoli, più religiosamente definiti «missioni»: innovazione, transizione ecologica, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute.

L’innovazione assorbe 50 miliardi, il 21% della spesa complessiva, e serve in gran parte a potenziare il processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione, ma soprattutto del settore produttivo privato che assorbirà i 4/5 della spesa.

La transizione ecologica assorbe 70 miliardi, il 30% della spesa complessiva, ed è finalizzata a interventi per promuovere l’economia circolare, per mitigare la produzione di anidride carbonica, per potenziare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. In questo capitolo ricadono anche le spese per il superamento dei veicoli a motore e per la riqualificazione energetica degli edifici.

La cosiddetta mobilità sostenibile assorbe 31 miliardi, il 13% della spesa complessiva e si riferisce in gran parte all’ammodernamento del sistema ferroviario (alta velocità), autostradale, portuale. Per tale ragione aveva più senso chiamare questa sezione «ammodernamento infrastrutturale».

Istruzione e ricerca assorbono 34 miliardi di euro, il 15% della spesa complessiva ed è suddivisa in due grandi capitoli: istruzione pubblica e ricerca al servizio delle imprese.

L’inclusione e coesione assorbe 30 miliardi, il 13% della spesa complessiva ed è finalizzata a migliorare gli uffici di collocamento, ad assistere l’imprenditorialità giovanile e femminile, a fornire protezione sociale a chi subisce contraccolpi occupazionali a causa dell’innovazione tecnologica.

Infine, la sanità assorbe 20 miliardi, l’8% della spesa complessiva, ed è finalizzata a potenziare la medicina del territorio e altre infrastrutture sanitarie.

Il senso del limite e l’ottica della sobrietà

Il Pnrr è stato molto elogiato dalle imprese e molto criticato dalle associazioni ambientaliste. Alle imprese è piaciuto perché prevede molti soldi per loro. Va detto, infatti, che non tutte le spese preventivate dal piano saranno eseguite direttamente dal governo o dagli enti locali. Parte di esse saranno delegate a famiglie e imprese. Le famiglie, ad esempio, riceveranno soldi per interventi di miglioramento energetico alle proprie abitazioni. Le imprese, invece, per l’ammodernamento energetico, informatico o ambientale delle proprie attività produttive. Per quale importo, il piano non lo dice con precisione: verosimilmente oltre i 40 miliardi di euro che poi rappresentano il 17% dell’intero stanziamento.

Gli ambientalisti contestano al piano di non impegnarsi abbastanza per limitare la produzione di rifiuti e di CO2, ma solo di volerne ridurre gli effetti. Gli rimproverano di concentrarsi troppo sui trasporti di lunga distanza e poco su quelli locali, di non spendere abbastanza per la difesa del territorio.

In una parola gli contestano di non fare nessun tentativo per invertire il senso di marcia verso una società che faccia i conti con il senso del limite, una società che cioè tenti di riorganizzare produzione, consumo, mobilità rifiuti, edifici, servizi pubblici in un’ottica di sobrietà che però garantisca a tutti di vivere dignitosamente nel rispetto della piena inclusione lavorativa.

«Transizione» non significa «conversione»

Questa prospettiva avrebbe richiesto non solo più investimenti verso l’energia elettrica di tipo rinnovabile, verso la mobilità pubblica locale di tipo sostenibile, verso un programma integrale di recupero e riciclaggio di tutti i rifiuti, verso la ristrutturazione edilizia generalizzata finalizzata al risparmio energetico, ma anche più impegno per la messa in sicurezza del territorio indebolito da decenni di cementificazione selvaggia e di abbandono delle zone montane. Più impegno per organizzare una formazione scolastica capace di mettere i cittadini in condizione di saper badare a se stessi tramite la «prosumazione» (consumazione di ciò che si produce) ossia ricorrendo il meno possibile agli acquisti. Più impegno per potenziare i servizi pubblici gratuiti specie nelle periferie e nelle zone più disagiate con il duplice compito di promuovere il ripopolamento delle zone abbandonate e di evitare lunghi ed estenuanti spostamenti per il semplice godimento di servizi essenziali. Interventi, insomma, per evitare che la stretta sui carburanti si trasformi in un castigo per i più poveri. Ed è con questa attenzione di tipo sociale che gli ambientalisti ci richiamano alla necessità di non limitarci a una pura e semplice «transizione tecnologica», ma di procedere verso una vera e propria «conversione ecologica». Più di un cambio di tecnologia, un cambio dell’essere.

Francesco Gesualdi

 




Recovery plan: speranze e dubbi

testo di Francesco Gesualdi |


La tragedia del Covid si è trasformata nell’occasione per ripensare il ruolo dell’Unione europea. Il «Next generation Eu» prevede un intervento da 750 miliardi di euro per la ripresa e la resilienza. Tuttavia, l’ideologia economica non viene toccata.

Il Covid è stato una tragedia per le sofferenze e le morti che ha provocato, ma per qualcuno è stato come il formaggio sui maccheroni perché gli ha permesso di togliersi qualche castagna dal fuoco.

È successo, ad esempio, alla dirigenza europea che ha potuto invertire la direzione di marcia della propria politica economica senza dover ammettere nessuna colpa. La direzione abbandonata si chiama «austerità», quella intrapresa si chiama «politica espansiva». La motivazione ufficiale è superare la crisi provocata dal Covid. Quella reale è uscire dal pantano provocato da un’impostazione economica al servizio esclusivo di banche e finanza. I fatti sono noti, ma conviene riassumerli.

Finanza contro stati

Nel periodo 2008-2011 molti governi europei ampliarono il proprio debito per salvare gli istituti bancari sull’orlo della bancarotta a causa di scelte azzardate e fallimentari. Ma, invece di ringraziare per il soccorso ricevuto, la finanza approfittò per speculare sulla situazione di difficoltà in cui si erano cacciati i governi. Le vittime predilette furono Grecia e Italia, i paesi tradizionalmente più indebitati. La finanza decise di scommettere sul crollo del valore dei loro titoli di debito pubblico e si organizzò per provocarlo. Così gli italiani dovettero imparare il termine spread che, pur rimanendo misterioso nelle sue dinamiche, comunicava per certo che quando esso saliva le cose andavano male, quando scendeva andavano meglio.

Nel biennio 2010-2012 la situazione divenne catastrofica: la finanza avanzava nel proprio intento speculativo, complici i governi che, pur avendo i mezzi per poterla fermare, avevano la testa troppo intrisa di mercantilismo per utilizzarli. Convinti che le regole di mercato dovessero trionfare sopra qualsiasi altra esigenza, si guardarono bene dal porre regole, divieti e disincentivi per fermare l’offensiva posta in atto dalla grande finanza contro i titoli del debito pubblico. Così, nel tentativo di recuperare fiducia da parte dei mercati, l’unica strategia di difesa che i governi seppero mettere in campo fu quella di autoimporsi regole di finanza pubblica sempre più severe per dimostrare di saper essere debitori affidabili. Del resto, la vera preoccupazione dei governi non era cosa sarebbe potuto accadere sul piano sociale, ma i rischi che avrebbe potuto correre l’euro se anche solo uno dei paesi aderenti all’eurozona avesse dichiarato di non essere in grado di pagare gli interessi o di restituire le quote di capitale in scadenza. Un caso del genere avrebbe potuto indurre la finanza internazionale a fare di ogni erba un fascio e, prendendo le distanze da tutti i paesi che utilizzavano l’euro, avrebbe potuto provocare una svalutazione importante del valore della moneta comune.

Ricordando la Grecia

Nel 2010 la Grecia era sull’orlo della bancarotta e, per evitare che l’euro finisse nel vortice del suo dissesto, l’Unione europea decise di farsi carico dei suoi debiti. Nel contempo, però, le impose delle condizioni draconiane che la strangolavano sul piano sociale. Il patto era chiaro: l’Unione europea le avrebbe concesso nuovi prestiti per permetterle di pagare gli interessi e le rate in scadenza, ma in cambio la Grecia doveva adottare una politica rigorosissima di risparmi per risanare i propri bilanci. Con prezzi sociali altissimi. In nome del pagamento del debito la Grecia venne costretta a operare tagli drastici alla sanità, alla scuola, alle pensioni, agli stipendi stessi dei dipendenti pubblici. Gli effetti furono ospedali senza farmaci di base, masse di bimbi che andavano a scuola senza mangiare, un numero crescente di poveri, di senza tetto e di senza lavoro che potevano sopravvivere solo grazie all’intervento delle agenzie caritatevoli. In una parola era la tragedia sociale. Ma niente sembrava scuotere l’inflessibilità dei fanatici dell’austerità, in particolare i governanti dei paesi dell’Europa del Nord: Germania, Olanda, Austria. Pur di dimostrare al mondo della finanza che la priorità dell’Unione europea era la difesa dei creditori, nel corso degli anni vennero approvati una serie di provvedimenti che accrescevano il ruolo di gendarmeria assegnato all’Unione europea che ora poteva sindacare sulle scelte di bilancio effettuate dai singoli governi con diritto di veto, se non fossero state ritenute coerenti con le attese di riscossione da parte dei creditori. Ma un tarlo cominciava a insinuarsi nella fede incrollabile riposta nel rigore finanziario.

Foto Capri23auto – Pixabay.

Gli effetti dell’austerità

La minaccia avvertita si chiamava stagnazione, la consapevolezza che il taglio eccessivo delle spese governative e familiari avrebbe portato a una caduta importante della domanda, tale da fare imballare il sistema. Del resto il capitalismo è un sistema di mercato il cui epicentro è rappresentato dalle imprese, strutture produttive organizzate per la vendita: se vendono ciò che producono hanno qualche probabilità di crescere e assumere; se non vendono, interrompono la produzione e di sicuro non assumono, addirittura licenziano. Difatti le strette di bilancio si accompagnarono a un blocco della crescita del Pil, se non a una sua riduzione, specialmente fino al 2012. Assieme al blocco della produzione, ci fu anche un aumento della disoccupazione. La situazione cominciò a sbloccarsi solo dopo il 2015, ma non al ritmo voluto. Le politiche di austerità iniziavano quindi a essere viste con sospetto da parte di qualche politico, ma senza poterlo dire apertamente per paura di essere tacciato come eretico. Tuttavia, anche un’altra esigenza cominciava a farsi pressante, ma non poteva trovare attuazione finché prevaleva l’ideologia del rigore finanziario. La nuova esigenza si chiamava (e si chiama) cambio dell’infrastruttura energetica per provare ad arrestare i cambiamenti climatici. Una trasformazione che richiede investimenti per decine di miliardi, che, se dovessero essere reperiti tramite la normale via fiscale, richiederebbero un innalzamento della pressione fiscale che nessuna comunità nazionale accetterebbe. Stretta fra i due fuochi la classe politica europea rischiava la paralisi, finché non è arrivato il Covid che, con i suoi lockdown, nel 2020 ha provocato un arretramento del Pil all’Unione europea nell’ordine del 7,4%. La pandemia è, quindi, stata presa a pretesto da tutti per operare un cambio di direzione di marcia senza bisogno di lasciarsi andare a una sconfessione ideologica.

Per un’Unione europea di nuova generazione

Oggi anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca centrale europea (Bce) reputano il debito una necessità per il rilancio delle economie messe in crisi dal Covid. Occasione presa al balzo da Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione europea che, durante il suo discorso sullo «Stato dell’Unione» del 16 settembre 2020, ha formulato la sua proposta di rilancio europeo battezzandolo Next Generation Eu, ossia «Unione europea di nuova generazione». Un rilancio finalizzato a due grandi obiettivi: la transizione ecologica e il ritorno alla crescita economica. E come strategia ha proposto la costituzione di un fondo europeo (recovery fund) del valore di 750 miliardi di euro da mettere a disposizione degli stati membri, per la realizzazione delle loro opere di rilancio. Un piano ambizioso, facile da enunciare, ma pieno di nodi da sciogliere per renderlo operativo.

La provenienza dei soldi

Per cominciare, la costituzione del fondo: con quali soldi formarlo? L’indicazione della Commissione europea è stata di finanziarlo con soldi presi a prestito sul mercato finanziario. Una proposta insolita per l’Unione europea, ma ancora più rivoluzionaria considerato che ad essere indicato come intestatario del debito non sono i singoli stati, ma la Commissione stessa. Un vero salto di qualità sulla strada dell’integrazione europea perché è la prima volta che l’Unione europea accetta di indebitarsi in maniera collettiva. Individuata la via del debito condiviso come forma di finanziamento, si trattava di stabilire con quali risorse restituire i prestiti ottenuti. La proposta della Commissione è stata duplice: contribuzione e tassazione. Da una parte ha ipotizzato di innalzare la contribuzione annuale dei singoli stati al bilancio comunitario, facendola passare dall’attuale 1,6% del Pil fino al 2%. Dall’altra ha proposto di innalzare alcune tasse tradizionali a beneficio esclusivo della Commissione europea, o di introdurne di nuove. Fra esse una tassa sulle imprese del web, un’imposta sulle transazioni finanziarie, un nuovo dazio doganale sui livelli di anidride carbonica connessi ai prodotti importati.

Ripartizione e utilizzo

Il terzo nodo da sciogliere era la ripartizione dei fondi tra i paesi membri. Nodo che in realtà è duplice: come determinare la somma complessiva da assegnare a ogni stato membro e sotto quale forma. Per il primo aspetto si è deciso di utilizzare un mix di criteri che comprendono l’estensione della popolazione, la situazione sociale e la situazione economica. Per il secondo aspetto si è deciso che parte dei fondi sarebbero stati assegnati a fondo perduto, parte sotto forma di prestito, gravato di interessi, da restituire nel giro di un trentennio. Riferito all’Italia la conclusione è che il totale a cui può accedere corrisponde a 191,4 miliardi di euro per il 64% (122,5 miliardi) sotto forma di prestiti e il 36% (68,9 miliardi) a fondo perduto.

Il quarto nodo da sciogliere era a quali condizioni elargire i fondi agli stati richiedenti. Il regolamento approvato dal Parlamento europeo il 10 febbraio 2021 pone alcuni vincoli sia rispetto al modo di spendere i soldi ricevuti, che agli obblighi contabili e amministrativi. Rispetto all’utilizzo dei soldi, due capisaldi sono che almeno il 37% deve essere speso per investimenti utili ad abbattere l’anidride carbonica, mentre un altro 20% deve essere speso per la transizione digitale (art. 16). Quanto alla gestione contabile, il regolamento consente alla Commissione europea di sospendere i pagamenti qualora si registrino ritardi, inefficienze o altre inadempienze da parte dei paesi riceventi (art. 24).

Foto Wolfgang Eckert – Pixabay.

Positività e vecchi errori

I paesi interessati hanno fatto arrivare le loro richieste di finanziamento alla Commissione europea. La proposta italiana è stata spedita il 30 aprile e formalmente accettata il 22 giugno con la visita a Roma della presidente Von der Leyen.

Rimandiamo alla prossima puntata l’analisi del piano dell’Italia, che è stato battezzato «Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnrr). Intanto, però, è possibile avanzare alcune valutazioni sull’idea complessiva del Next generation lanciata dall’Unione europea. In particolare ne emergono tre, di cui una positiva, una parzialmente positiva e una negativa.

Quella positiva è il cambio di prospettiva della Ue. Finalmente non più gelida ragioniera attenta solo ai pareggi di bilancio e agli impegni verso i creditori, ma sensibile alle condizioni di vita dei suoi cittadini: salute, lavoro, prospettive di vita. Altrettanto positiva è la determinazione con la quale l’Unione europea conduce la sua lotta contro le emissioni di anidride carbonica. Ma questa positività è offuscata dall’uguale enfasi posta sulla ricerca ossessiva della crescita del Pil, come se la transizione ecologica fosse solo una questione di tecnologia e non una necessità molto più profonda che coinvolge la necessità di ridimensionare i nostri consumi per alleggerire la nostra pressione complessiva sul pianeta in un’ottica di equità internazionale.

Per questo ritengo che gli obiettivi del Next generation siano positivi solo parzialmente. Mentre si può definire negativa la scelta di finanziare il piano tramite prestiti. L’alternativa era ottenere quel denaro direttamente dalla Banca centrale europea (Bce), anche se ciò avrebbe richiesto una revisione dei trattati affinché la moneta, al pari dei vaccini, sia gestita come un bene comune al servizio della piena occupazione, della promozione dei servizi pubblici e della tutela della natura. Il solo modo per sfuggire alla trappola del debito e mettersi definitivamente al riparo dall’austerità che l’Unione europea ha sospeso, ma non accantonato.

Francesco Gesualdi

 




Debiti e debitori: l’avarizia non conviene

testo di Francesco Gesualdi |


Il debito pubblico italiano continua a crescere, ma la questione non riguarda soltanto il nostro paese. Tutti hanno i loro debiti: gli stati, le imprese, le famiglie. Il debito può essere il motore del capitalismo. O il generatore delle sue crisi.

Secondo l’Institute of international finance, nel 2020 il debito mondiale è cresciuto di 24mila miliardi di dollari, per oltre la metà imputabile ai governi che hanno dovuto affrontare la triplice crisi sanitaria, sociale ed economica provocata dal Covid. Solo in Italia, il debito pubblico è cresciuto di 160 miliardi di euro passando da 2.410 miliardi, nel dicembre 2019, a 2.570 miliardi al 31 dicembre 2020 (e 2.700 a giugno 2021). A livello europeo, l’aumento si colloca attorno ai mille miliardi di euro, mentre negli Stati Uniti supera i 4mila miliardi di dollari.

I nuovi deficit, aggiunti ai debiti preesistenti, hanno portato il debito cumulativo dei 190 governi mondiali a 82mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non ci fa dormire la notte, se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce, se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. In effetti, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti. Messi tutti assieme, i debiti esistenti a livello mondiale, a fine 2020, ammontano a 281mila miliardi di dollari, ma quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 29%. Allo stesso livello troviamo le imprese non finanziarie che registrano un debito complessivo di 81mila miliardi. Al terzo posto, si collocano le imprese finanziarie (banche, assicurazioni e quant’altro), indebitate per 68mila miliardi di dollari pari al 24% del totale. Per ultime, arrivano le famiglie, che contribuiscono per il 18% con 51mila miliardi di debito.

Debiti e mercato

Potremmo dire che il debito è il motore del capitalismo: è la benzina della sua crescita perché permette alle aziende di espandersi anche quando non hanno i soldi per farlo. È il meccanismo che mette il sistema al riparo dal rischio di fallimento perché gli permette di vendere tutto ciò che produce, anche quando la ricchezza è distribuita talmente male da mettere miliardi di persone fuori mercato.   E non è certo un caso se in un momento in cui il 50% della ricchezza mondiale è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione, il debito totale sia diventato un mostro grande tre volte e mezzo il Prodotto lordo mondiale.

Banche e Finanza

Il debito può tenere il sistema in piedi, e aiutarlo a correre nonostante i suoi squilibri, solo se i debitori pagano. Altrimenti si trasforma in un meccanismo alla rovescia che inceppa tutto. Ne abbiamo avuto una dimostrazione nel 2008, quando negli Stati Uniti l’incapacità delle famiglie più povere di ripagare i propri mutui provocò una delle più drammatiche crisi conosciute dal capitalismo a livello globale. Anche se va detto che il sassolino provocò la frana per colpa di una finanza creativa che aveva usato i mutui come matrice per fabbricare una montagna di prodotti fantasiosi più simili a scommesse che a investimenti finanziari. Ma, al di là delle degenerazioni, la massiva insolvenza debitoria si trasforma in crisi economica perché il sistema bancario è il cuore pulsante dell’economia capitalista. Ricordandoci che i prestiti sono elargiti anche da altre strutture finanziarie che, pur non essendo banche, usano l’attività creditizia come forma di investimento. Se i prestiti non rientrano, le prime a subirne le conseguenze sono le strutture creditizie, ma a catena anche i risparmiatori che hanno messo a disposizione i propri soldi e in subordine le imprese produttive che dalle banche ricevono copertura quotidiana per le proprie esigenze finanziarie. In condizioni normali, le banche rispondono alle richieste di finanziamento delle imprese, ma non quando si trovano a corto di denaro. Così, le crisi debitorie producono i loro effetti sul sistema produttivo che, in assenza di un adeguata lubrificazione finanziaria, va anch’esso incontro a crisi.

Due aree critiche

Oggi due sono i comparti che destano maggiore preoccupazione in rapporto ai loro debiti: le imprese produttive e i governi del Sud del mondo. Nel mondo della finanza è stato coniato il termine «zombie companies» a indicare tutte quelle imprese sovraindebitate che hanno difficoltà con gli interessi e la restituzione del capitale. Secondo uno studio della International bank of settlements su 14 paesi occidentali, le imprese zombie sono passate dal 2% nel 1990 al 12% nel 2016. Un’accelerazione dovuta in larga misura al basso costo del denaro che ha spinto anche le imprese più deboli a indebitarsi. E, nel 2020, si è aggiunto il Covid. Dall’inizio della pandemia negli Stati Uniti la lista delle grandi imprese zombie si è allungata di altre 200 unità fra cui Boeing, Carnival Corp, Delta Air Lines, Exxon Mobil. Del resto Bloomberg conferma: quasi un quarto delle 3mila grandi società quotate in borsa negli Stati Uniti rientrano fra le imprese zombie. E il recente fallimento dell’impresa mineraria statale Yongcheng mostra che il problema esiste anche in Cina. Intanto uno studio della Banca mondiale informa che, tra il 1991 e il 2014, il ricorso al debito da parte delle imprese operanti nei così detti mercati emergenti (Africa, Asia e America Latina per intenderci) è cresciuto 30 volte con prestiti ottenuti non solo sui mercati locali, ma anche internazionali.

Foto Gerd Altmann-Pixabay.

I debiti in dollari ed euro

L’Institute of international finance stima che nel 2021 la spesa dei paesi emergenti per il debito (interessi e restituzione del capitale in scadenza) sarà di circa 7mila miliardi di dollari e per il 15% sarà in valuta estera.  Il che allarma la Banca mondiale che, nel suo studio, precisa: «Questa rapida crescita del debito solleva preoccupazioni perché le crisi finanziarie nei paesi emergenti sono spesso precedute da alti livelli di indebitamento da parte delle imprese. Specie se si tratta di debiti contratti in valuta estera, perché può bastare una svalutazione per aggravare la loro situazione debitoria». Come è successo a molte imprese turche che, nel corso del 2020, hanno visto la moneta del proprio paese svalutarsi del 30% rispetto al dollaro. Molte di loro non sono fallite solo grazie ai sostegni finanziari e fiscali concessi dal governo. Uno scenario analogo potrebbe ripetersi in Pakistan, Argentina, Marocco, Egitto, ma non si sa con quale esito dal momento che i governi stessi sono fortemente indebitati.

Va detto che in rapporto ai rispettivi Pil, i governi del Sud   sono mediamente meno indebitati di quelli del Nord. Ciò non di meno devono compiere uno sforzo maggiore non solo perché sono più deboli, ma anche perché devono pagare tassi di interesse più elevati. Nei paesi emergenti il debito cumulativo di tutti i governi corrisponde al 60% del Pil complessivo, nei paesi maturi al 131%. Ma lo sforzo dei primi è doppio rispetto ai secondi considerato che nei paesi emergenti la spesa per interessi assorbe il 10% delle entrate fiscali, nei paesi a economia matura il 4%. E si tratta di medie. Analizzando i casi specifici si trova che, in alcuni paesi (come Ghana e Sri Lanka, ad esempio), la spesa per interessi assorbe percentuali che variano fra il 30 e il 40%. Peggio di tutti il Libano che, nel 2019, ha speso per interessi il 50% delle proprie entrate fiscali. Ed è notizia del novembre 2020 che il governo dello Zambia ha dovuto dichiarare default non avendo di che pagare la rata di un prestito denominato in euro.

Il debito dei paesi poveri

In questo scenario, una notizia positiva è la decisione dei governi del G20 di sospendere, per la durata della pandemia, la riscossione dei pagamenti relativi ai prestiti che essi hanno concesso ai paesi più poveri, per intendersi quelli con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno. In ambito ufficiale, essi sono anche detti «paesi Ida», in ragione del fatto che sono ammessi a godere dei prestiti agevolati elargiti dall’agenzia della Banca mondiale denominata International development assistance. In tutto si tratta di 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale.

Secondo gli ultimi dati disponibili, riferiti al 2019, complessivamente i governi dei paesi Ida detengono un debito di 523 miliardi di dollari, ma solo il 34% è bilaterale, ossia è nei confronti di altri governi. Il resto è verso organismi multilaterali come Banca mondiale e Fondo monetario internazionale (46%) e    verso banche commerciali e altri soggetti privati (20%). Pertanto, la sospensione si applica solo a un terzo degli importi, quelli riferibili al debito bilaterale che è l’unica parte su cui i governi del G20 hanno potere decisionale. A conti fatti, si tratta di 27,4 miliardi di euro per il biennio 2020-2021.

L’aspetto bizzarro è che solo una quarantina di paesi ha chiesto di poter beneficiare della sospensione. Fra i motivi avanzati dagli esperti per spiegare una risposta così poca entusiastica, c’è la circostanza che le cifre sospese dovranno essere rimborsate fra il 2022 e il 2024. Un periodo molto breve che rischia di creare un sovraccarico di esborsi che a molti paesi fa paura. Considerato che una buona metà dei paesi più poveri è già in stato di insolvenza, o è vicina a diventarlo, è abbastanza comprensibile che molti di loro non vogliano sottoscrivere patti che sanno di non poter onorare. Del resto, mancano informazioni sulle contropartite che i governi debitori dovrebbero dare in cambio delle sospensioni, né si sa quali misure scatterebbero in caso di inadempienze. Considerato che la consulenza è del Fondo monetario internazionale, non ci sarebbe da sorprendersi se l’offerta fosse condizionata al rispetto di regole che, in passato, si sono rivelate altamente destabilizzanti sul piano sociale e politico.

Senza lungimiranza

Il che conferma che l’unica strada da perseguire per liberare i paesi più poveri dalle catene del bisogno è l’annullamento del loro debito, esattamente come ha ribadito papa Francesco nella lettera che ha inviato l’8 aprile scorso alla Banca mondiale: «Lo spirito di solidarietà globale impone di ridurre in maniera significativa il    debito delle nazioni più povere, un peso che la pandemia ha ulteriormente esacerbato. Scegliendo di alleggerire il loro debito compiremmo un gesto di grande umanità perché permetteremmo a quelle popolazioni di accedere ai vaccini, alla sanità e all’istruzione».

Generalmente, si invoca il senso di generosità per indurre a comportamenti di rinuncia, ma in questo caso basterebbe appellarsi alla lungimiranza perché l’avarizia non conviene a nessuno in un momento in cui basta un focolaio di non vaccinati per fare divampare di nuovo la pandemia a livello globale.

Francesco Gesualdi

Foto Gerd Altmann-Pixabay.

 




Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale


Sul mercato gli individui non sono tutti eguali. La soluzione non è però il «capitalismo compassionevole». È compito dello stato correggere le distorsioni con l’imposizione fiscale. Soltanto così è possibile perseguire la giustizia sociale.

La generosità è un valore, ma quanto è sano affidare la soluzione dei problemi sociali alla libera generosità dei cittadini? È una domanda che vale la pena porsi perché si fa sempre più marcata la tendenza a trasformare la solidarietà in un optional.

L’optional ci piace, ci dà un senso di libertà che ci imprime leggerezza. Del resto, questo è il sogno che il mercato ci trasmette: i mercanti offrono, i consumatori scelgono. In piena libertà. Se vogliono prendono, altrimenti lasciano. Almeno così va l’adagio. In realtà, c’è anche la situazione in cui si vorrebbe comprare, ma non si può perché non si hanno i soldi per farlo. Questo tipo di impossibilità materiale, al mercato non interessa. Eppure, è proprio questa non libertà, altrimenti chiamata miseria, che dobbiamo prefiggerci di eliminare tramite ciò che Rousseau ha chiamato «Contratto sociale»: la rinuncia da parte di tutti di un frammento di libertà individuale per costruire una libertà collettiva più ampia. La libertà più ampia si chiama «giustizia sociale». Il frammento di libertà individuale ridotta si chiama «imposizione fiscale».

Ricchi e poveri

L’umanità, almeno quella occidentale, ci ha messo qualche millennio per guardare ai poveri come a persone ferite nella loro dignità. Fino a qualche secolo fa eravamo talmente barbari da considerare legittima la schiavitù e la servitù della gleba. Complici le espressioni religiose, compresa quella cristiana, che per vari secoli ha avallato l’ordine costituito comprendente la schiavitù.

È famoso l’invito contenuto nella terza lettera di Paolo ai Colossesi: «Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore». Posizioni riprese da importanti esponenti ecclesiastici successivi che invitavano i poveri ad accettare con rassegnazione la propria posizione di sofferenza. Nel contempo, però, si rivolgevano anche ai ricchi affinché sapessero essere caritatevoli.

Una combinazione comportamentale poco comprensibile sul piano sociale, forse con una sua giustificazione escatologica se concepiamo la miseria, e più in generale la sofferenza, come un’opportunità di prova al servizio di un tribunale celeste la cui funzione principale è quella di giudicare l’umanità. Ognuno secondo la propria posizione: i miseri messi alla prova rispetto alla capacità di accettare la sofferenza, i benestanti messi alla prova rispetto alla capacità di attivare sentimenti di pietà. Da cui l’imperativo ai miseri di accettare la propria condizione di sofferenti e ai benestanti di destinare parte delle proprie fortune in beneficienza per sollevare le sorti dei miseri. Impostazione che, nel Medioevo, permise la crescita di ospedali, mense, ricoveri, gestiti dalla Chiesa con i soldi messi a disposizione dalla nascente classe mercantile che aveva incluso la beneficienza nei propri bilanci economici sotto la voce «conto di messer Domeneddio». Primordi di quel capitalismo compassionevole che la tradizione protestante rafforzerà ulteriormente.

È un mondo costruito attorno ai soldi. Foto Pixabay.

L’affermazione dei diritti

L’idea di liberazione totale dalla miseria, e più in generale dalla sofferenza, inizia a farsi strada a fine Settecento quando l’illuminismo introduce il concetto di diritto. Una condizione positiva e inviolabile che deve essere garantita ad ogni essere umano per il fatto stesso di esistere. Un principio che, essendo stato coniato dalla classe borghese, inizialmente era limitato ad alcuni diritti civili: libertà di pensiero, proprietà privata, tutela giuridica. Più tardi, però, i movimenti socialisti riuscirono ad estendere il concetto di diritto anche ad aspetti sociali. E la completezza si raggiunse nel 1948 con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo da parte dell’Onu che all’art. 25 recita: «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

Affermati i diritti, la domanda che dobbiamo porci è chi deve garantirli. Di sicuro, non la solidarietà individuale per sua natura incerta e precaria. I diritti si pretendono dalla comunità, la quale deve farsene carico attraverso un patto di solidarietà collettiva. Esattamente come prevede la nostra Costituzione, che nello stesso articolo, il numero 2, richiama i diritti e istituisce il dovere di solidarietà: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E poiché viviamo in un sistema basato sul denaro, uno degli strumenti cardine della solidarietà è quello fiscale a cui «tutti devono concorrere in ragione della propria capacità contributiva».

Così afferma l’articolo 53 della Costituzione, che aggiunge: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Un criterio che potrebbe essere riassunto con la massima: quanto più guadagni, tanto più devi essere disponibile a pagare aliquote più alte.

Nel secondo dopoguerra, quando la scena era dominata da un forte movimento operaio, in tutta Europa venne raggiunto un alto livello di welfare finanziato da un sistema fiscale che colpiva in maniera particolare le classi ricche. Perfino negli Stati Uniti nel 1963 l’aliquota oltre i due milioni di dollari (rivalutati ad oggi) era al 91%. In Italia la riforma fiscale del 1974 organizzò l’imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef) su 32 scaglioni con l’ultima aliquota al 72% oltre i 258mila euro. Ma non passò molto tempo che già si cominciò ad attenuare la progressività riducendo gli scaglioni e modificando le aliquote fiscali con innalzamento di quelle sui redditi medio bassi e riduzione su quelli alti.

Patrimoniale? «Sì, grazie»

Ormai stava soffiando un nuovo vento, il vento neoliberista, riassumibile in tre parole chiave: più mercato, più profitti, meno stato. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati nove, con l’aliquota più bassa al 18% e quella più alta al 65%, nel 2007 gli scaglioni li troviamo a cinque con l’aliquota più bassa al 23% fino a 15mila euro e la più alta al 43% oltre 75mila euro.

La conclusione è che su un reddito di 3 milioni di euro (secondo il valore di oggi) nel 1974 lo stato si sarebbe preso 1 milione e 713mila euro (57,1%), oggi se ne prende solo 1 milione e 283mila (42,7%). Da una ricerca condotta da Cadtm (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi), si apprende che fra il 1983 e il 2017 i favori accordati alle classi ricche hanno procurato allo stato un mancato incasso stimabile in 146 miliardi. Ammanco che ha prodotto due risultati: aumento del debito pubblico e meno diritti.

Ad esempio, nel suo rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) del 2021, l’Istat certifica che «tra il 2010 e il 2018, l’offerta ospedaliera è andata modificandosi, con una riduzione delle strutture e dei posti letto. In particolare, il numero di questi ultimi è diminuito in media dell’1,8% l’anno, fino ad arrivare, nel 2018, a una dotazione di 3,49 posti letto – ordinari e in day hospital – ogni 1.000 abitanti».

A giudicare dall’intensità con cui si raccolgono fondi, la ricerca sembra uno dei settori meno sostenuti dalla mano pubblica. Ogni anno la Rai indice la settimana di raccolta fondi per Telethon, la fondazione che finanzia la ricerca a favore delle malattie rare. Identicamente anche la fondazione Firc-Airc s’inventa ogni sorta di iniziativa per raccogliere fondi a favore della ricerca sul cancro. La rivista Vita che elabora i dati forniti dal ministero dell’Economia e delle Finanze sulle detrazioni e deduzioni per erogazioni liberali, stima che nel 2019 l’insieme delle donazioni versate dagli italiani, ammonti a 5,3 miliardi di euro, che rappresenta quasi il 3% del gettito Irpef incassato dallo stato.

Basterebbe aumentare di qualche punto l’aliquota sui redditi alti e lo stato potrebbe incassare ciò che serve per garantire i fondi ad attività essenziali come la ricerca, il miglioramento della sanità, l’assistenza a fasce fragili oggi lasciate alla benevolenza. E ancora di più potrebbe essere raccolto se si introducesse una patrimoniale, ossia una tassazione sull’insieme della ricchezza posseduta. Che è una proposta fatta nel dicembre 2020 da alcuni parlamentari di Leu e del Pd che prevedeva l’introduzione di quattro scaglioni d’imposta. Partendo da un’aliquota dello 0,2% su un patrimonio complessivo di 500mila euro, l’aliquota sarebbe dovuta salire allo 0,5% al raggiungimento di un milione di euro, per andare all’1% sopra i 5 milioni e finire al 2% oltre i 50 milioni. Percentuali tutto sommato modeste, che però non hanno trovato il consenso del parlamento che ha bocciato l’intera proposta.

Dollari. Foto Rabe-Pixabay.

Paradisi e perdite fiscali

Perfino l’Ocse, l’istituto dei paesi occidentali addetto alle analisi economiche, ammette che disuguaglianze e dissesto sociale sono fenomeni aggravati da un sistema fiscale sempre più accomodante con i ricchi. E cita al riguardo la tassazione dei redditi d’impresa scesa mediamente dal 32,5% nel 2000 al 23,9% nel 2018. Non contente molte imprese globali ricorrono ai paradisi fiscali per occultare i propri guadagni e non avere da pagarci sopra un bel niente. Tax justice network stima che lo spostamento di profitti e ricchezze nei paradisi fiscali abbia provocato agli stati una perdita fiscale di 427 miliardi di dollari nel 2020. E in prima fila, fra i furbetti dell’evasione (tax avoidance, per dirla all’inglese), si trovano i colossi del web, gli stessi che permettono ai propri amministratori delegati di comparire ai primi posti per donazioni: Jeff Bezos patron di Amazon, MacKenzie Scott moglie dello stesso, Jack Dorsie patron di Twitter, Charles Schwa patron di Netflix. Aziende queste che, tra l’altro, non brillano neanche per rispetto dei diritti dei lavoratori.

Strana logica quella di arricchirsi alle spalle dei lavoratori e delle casse pubbliche e poi mostrarsi buoni versando qualche briciola in beneficienza. Strana in una prospettiva morale, ma perfettamente coerente in una prospettiva di potere. Perché, alla fine, di questo si tratta: mostrare un po’ di bontà di facciata con il duplice scopo di ottenere consenso attorno a uno dei peggiori sistemi economici che l’umanità abbia partorito e controllare punti strategici del sistema.

Tipico quello dei vaccini, su cui la fondazione Bill Gates (ex patron di Microsoft) ha investito somme altissime, e quello delle Nazioni Unite finanziata a piene mani da privati fra cui Ted Turner (cofondatore della Tv globale Cnn). Del resto, il secondo finanziatore dell’Organizzazione mondiale della sanità è proprio la Fondazione Bill Gates che contribuisce per il 10% circa. «Dopo tutto – per dirla con le parole di Nicoletta Dentico, autrice di Ricchi e buoni? (si veda Dietro la bontà del capitalismo, MC gennaio-febbraio) – una mano lava l’altra. La ricchezza delle aziende permette la filantropia, la filantropia apre nuovi mercati alle aziende. Il filantrocapitalismo non ci rimette mai. La democrazia, sì».

Francesco Gesualdi

 




Se l’acqua dipende dai «futures»

testo di Francesco Gesualdi |


I «futures» sono scommesse di borsa per speculare sulle variazioni di prezzo di una merce. Un’idea (perversa) di quell’economia finanziaria che ora ha preso di mira anche l’acqua, cioè un bene e un diritto essenziale.

Si sono aperte le scommesse anche sul prezzo dell’acqua. Si tratta di una minaccia non solo economica, ma pure politica. Al momento succede solo negli Stati Uniti per iniziativa della Chicago mercantile exchange (Cme), la più potente società mondiale specializzata nell’intermediazione di prodotti finanziari connessi alle commodities: minerali, prodotti agricoli, prodotti energetici e ora anche l’acqua. Oltre a innumerevoli piattaforme informatiche, il gruppo Cme gestisce quattro borse valori di dimensione internazionale: due a Chicago e due a New York. Il compito di Cme è fare incontrare ogni giorno milioni di attori interessati a stipulare contratti di acquisto o di vendita con consegna a data futura secondo prezzi concordati nel tempo presente. Operazioni spesso svolte senza l’interesse reale a vendere o comprare ciò che è stato pattuito, ma con la speranza di trarre vantaggio dalle variazioni di prezzo che, secondo le proprie previsioni, dovrebbero intervenire fra il momento della firma e la consegna. Genericamente tali contratti vanno sotto il nome di futures, alla lettera «futuri».

Contrattazioni

I futures nacquero a metà Ottocento assieme alla borsa di Chicago, lo spazio mercantile creato per favorire lo scambio di derrate agricole. Un luogo di contrattazione di livello nazionale dove i grandi produttori agricoli potevano incontrare i grandi mercanti di derrate alimentari per concludere accordi di compravendita.

Inizialmente si trattava di un mercato spot, un luogo cioè in cui si trattavano quantità fisiche giacenti nei magazzini. Potevano essere sacchi di grano, di mais, di riso, di zucchero, che gli acquirenti si sarebbero portati via una volta concluso l’accordo. Ma, andando avanti, subentrò anche l’abitudine di avviare contrattazioni su quantità ancora da raccogliere. Forse per interesse di entrambe le parti: di chi comprava per garantirsi la continuità delle forniture e di chi vendeva per avere la certezza che i suoi raccolti sarebbero stati venduti. Ma anche per avere garanzie rispetto ai prezzi. In fondo l’agricoltura è sempre piena di incognite: basta una pioggia in più o in meno, lo sviluppo di insetti di un tipo o di un altro e si può avere un raccolto scarso o abbondante con inevitabili ripercussioni sul prezzo: in crescita se i raccolti sono scarsi, in diminuzione se sono abbondanti. Comprare in anticipo a prezzo prefissato mette entrambe le parti al sicuro, anche se qualora dovessero intervenire variazioni importanti, una delle parti contraenti si mangerà le mani per la perdita potenziale subita, l’altra se le fregherà per lo scampato pericolo.

Sia come sia, i futures si affermarono così tanto che vennero addirittura accettati dalle banche come forme di garanzia per i prestiti che concedevano. In fondo se si trattava di futures di vendita la banca aveva la garanzia che, alla data prestabilita, sarebbe arrivato del denaro. Se si trattava di un future di acquisto la banca aveva la garanzia che sarebbe arrivato un carico di raccolto. Ma il vero elemento di novità che venne avanti con l’affermarsi dei futures fu l’entrata in campo degli speculatori, soggetti che non sono interessati a comprare e vendere nessun tipo di merce, ma solo a scommettere sull’andamento del suo prezzo in modo da guadagnare nel caso si sia visto giusto. Tradizionalmente le scommesse si fanno rispetto a delle gare, siano esse sportive, politiche, o di altro tipo, ed hanno come parti lo scommettitore e il botteghino che tiene il banco. Lo scommettitore punta una certa somma sulla vittoria di un giocatore e, in caso di successo, il banco si impegna a restituire la somma versata maggiorata di un premio. In caso di sconfitta, lo scommettitore perde tutto a vantaggio del botteghino.

L’acqua non è una merce da contrattare alla Borsa valori. Foto Gerd Altmann-Pixabay.

Scommesse dannose

Le scommesse attuate nell’ambito della speculazione finanziaria funzionano diversamente. Per cominciare, il rapporto si tiene fra due soggetti e si concretizza tramite un contratto di compravendita a consegna futura. L’abilità delle due parti sta nella capacità di indovinare come si muoverà il prezzo e, a seconda delle proprie previsioni, collocarsi nella posizione di compratore o di venditore. Chi avrà visto giusto guadagnerà, chi avrà visto sbagliato perderà. Per una migliore comprensione del meccanismo si vedano i semplici esempi contenuti nel box qui a sinistra.

La scommessa è una forma di gioco d’azzardo altamente discutibile da un punto di vista morale e sicuramente dannosa da un punto di vista umano e sociale. Ma quando si viene alla speculazione finanziaria, molti pensano che possiamo disinteressarcene perché riguarda solo i ricchi. Della serie: che si derubino pure fra loro, tanto noi non ne siamo toccati. Ma non è così. Le conseguenze delle scommesse realizzate tramite futures difficilmente rimangono confinate alle due parti contraenti, molto più spesso ricadono su tutti perché alcuni soggetti finanziari hanno una tale potenza di fuoco da poter spingere, con le proprie scelte, i prezzi nella direzione voluta. Così i mercati finanziari determinano le sorti dell’economia reale. Varie volte in passato i prezzi del petrolio hanno subìto bruschi rialzi o ribassi a causa delle scelte effettuate dagli speculatori. Lo stesso dicasi per il caffè, un settore che ogni anno vede la stipula di contratti a scopo puramente finanziario per volumi di merci anche venti volte più alti di quelli stipulati a scopo commerciale. Con somma gioia di chi gestisce le borse perché l’attività di intermediazione rende bene: complessivamente nel 2019 Cme ha registrato una media quotidiana di 19 milioni di contratti che le hanno procurato commissioni per quasi cinque miliardi di dollari. Detratte le spese e le tasse, i suoi azionisti, principalmente fondi di investimento come Capital Research & Management, Vanguard, BlackRock, si sono spartiti profitti per oltre due miliardi di dollari.

Penuria e tariffe

L’idea di promuovere i futures sull’acqua, a Cme è venuta in mente osservando la penuria di acqua che, da qualche tempo, colpisce la California. Uno dei periodi di maggior siccità è stato quello fra il 2012 e il 2016, durante il quale molte parti della Central Valley sono sprofondate anche di 60 centimetri come risultato della scarsità di piogge e della sete insaziabile di acqua da parte degli agricoltori. Per decenni le aziende agricole hanno pompato acqua in maniera indiscriminata fino a provocare un tale abbassamento delle falde acquifere da fare sprofondare strade, ponti, edifici. Ora lo stato della California ha deciso di proteggere i suoi acquiferi tramite una tripla strategia: migliore irreggimentazione delle acque piovane, limiti ai prelievi da parte dei pozzi privati, aumento dei prezzi applicati sull’acqua prelevata dai corsi d’acqua superficiali. Il tutto tenendo presente che anche negli Stati Uniti, come in molti altri paesi, le acque di fiumi e laghi sono gestiti da autorità pubbliche che però consentono, a chi ne fa richiesta, di prelevare acqua in cambio di una concessione a pagamento. Solitamente le richieste sono avanzate da imprese (siano esse pubbliche o private) che gestiscono i servizi idrici urbani, da industrie e centrali elettriche o anche da aziende private che poi rivendono l’acqua agli agricoltori a scopo irriguo. In California, la tariffa di concessione per il prelievo di acqua è passata approssimativamente da 224 dollari ogni mille metri cubi, nel 2009, a 446 nel 2015. E, dopo alcuni mesi di retrocessione, nel luglio 2020 la tariffa è tornata a impennarsi raggiungendo 703 dollari ogni mille metri cubi.

L’acqua è un diritto

Un andamento che ha attirato l’attenzione degli esperti finanziari di Cme i quali si sono convinti che l’acqua è ormai entrata in una fase di scarsità che la destina a un aumento costante del prezzo, seppur con lievi contrazioni transitorie interpretabili come le classiche eccezioni che confermano la regola. E sono giunti alla conclusione che i tempi erano maturi per avviare un mercato dei futures dedicato all’acqua, perché quando i prezzi si fanno instabili, emergono due gruppi di attori che si rivolgono al mercato dei futures: le aziende commerciali in cerca di meccanismi di stabilità e gli speculatori che sperano di guadagnare dai prezzi in movimento.

Così nel dicembre 2020 Cme ha inaugurato il mercato dei futures per l’acqua. Ma l’iniziativa non è piaciuta a tutti. Fra i critici Pedro Arrojo-Agudo, rappresentante speciale della Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite con delega particolare all’attuazione del diritto all’acqua potabile. In una nota dell’11 dicembre afferma con forza che «l’acqua non si può quotare a Wall Street alla stregua dell’oro o del rame. L’acqua è di tutti, è un bene comune. È direttamente connessa alle nostre vite e al nostro benessere». E ha continuato: «Sul mercato dei futures operano anche banche e fondi speculativi che usano i futures come strumento di scommessa. Se il loro interesse dovesse essere quello di spingere il prezzo dell’acqua sempre più su, si assisterebbe a una bolla speculativa come si ebbe nel mercato dei cereali nel 2008. Se dovesse succedere, milioni di famiglie e di piccoli agricoltori perderebbero l’accesso ad un diritto fondamentale come l’acqua».

Non è una merce

L’iniziativa di Cme minaccia l’acqua come diritto non solo per le ripercussioni economiche, ma anche per quelle culturali e politiche. Visto da questo punto di vista, il mercato dei futures è un altro tassello aggiunto al castello delle privatizzazioni, affinché pezzo dopo pezzo ci abituiamo a considerare l’acqua una merce qualsiasi da fare gestire al mercato. Tanto più che il mercato si presenta come il migliore gestore delle risorse scarse. E qui scopriamo che oltre all’inganno c’è anche la beffa perché lo stato di crisi profonda in cui si trova l’acqua non è dovuto solo ai cambiamenti climatici, ma anche al sovra sfruttamento e all’inquinamento che ha reso l’acqua inservibile. L’acqua, insomma, è una delle tante vittime di una concezione economica che dando valore solo a ciò che ha prezzo, maltratta tutto ciò che è comune semplicemente perché è gratuito. Ma, ciliegina sulla torta, dopo aver trasformato le risorse abbondanti in risorse scarse, il mercato pretende di essere lui a gestirle, sostenendo di essere l’unico a disporre dei mezzi per farlo. Il mezzo è quello del prezzo, altamente classista, perché dà non a chi ha bisogno, ma a chi ha denaro da spendere. L’unica alternativa possibile è quella di papa Francesco che, al punto 158 della Laudato si’, scrive: «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante ingiustizie e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri».

 Francesco Gesualdi




L’economia secondo Francesco

testo di Francesco Gesualdi |


Un’economia che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del pianeta e non lo depreda. È l’idea di economia di papa Francesco.

Nel novembre dell’anno scorso si è tenuto ad Assisi un importante simposio internazionale, che aveva per titolo The economy of Francesco, l’economia di Francesco. L’iniziativa è nata da un invito che papa Francesco aveva rivolto il 19 maggio 2019 a giovani economisti, imprenditori e imprenditrici di tutto il mondo: «Cari amici, vi scrivo per invitarvi ad un’iniziativa che ho tanto desiderato: un evento che mi permetta di incontrare chi oggi si sta formando e sta iniziando a studiare e praticare una economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda. Un evento che ci aiuti a stare insieme e conoscerci, e ci conduca a fare un “patto” per cambiare l’attuale economia e dare un’anima all’economia di domani. […] Nella lettera enciclica Laudato si’ ho sottolineato come, oggi più che mai, tutto è intimamente connesso e la salvaguardia dell’ambiente non può essere disgiunta dalla giustizia verso i poveri e dalla soluzione dei problemi strutturali dell’economia mondiale. Occorre pertanto correggere i modelli di crescita incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente, l’accoglienza della vita, la cura della famiglia, l’equità sociale, la dignità dei lavoratori, i diritti delle generazioni future. Purtroppo, resta ancora inascoltato l’appello a prendere coscienza della gravità dei problemi e soprattutto a mettere in atto un modello economico nuovo, frutto di una cultura della comunione, basato sulla fraternità e sull’equità».

Non bastano le scelte individuali

Gli organizzatori hanno ritenuto che l’invito di Francesco potesse essere soddisfatto affrontando dodici aree tematiche, per l’occasione ribattezzate «villaggi tematici»: lavoro e cura; management e dono; finanza e umanità; agricoltura e giustizia; energia e povertà; profitto e vocazione; policies for happiness; CO2 della disuguaglianza; business e pace; economia è donna; imprese in transizione; vita e stili di vita. Tutte tematiche importantissime, ma forse non le più appropriate per capire quale forma organizzativa deve assumere il sistema economico per raggiungere gli obiettivi auspicati da papa Francesco.

Come cattolici abituati a dare valore alle scelte individuali, abbiamo la tendenza a concentrarci sugli aspetti di microeconomia: la gestione aziendale, il ménage familiare, il risparmio personale e tutti gli altri ambiti che lasciano spazio alle scelte dei singoli. Percorsi senz’altro da esplorare, ma con la consapevolezza che, per vincere le sfide odierne, non bastano le scelte individuali: serve anche una nuova idea di organizzazione economica, senza la quale ci salviamo l’anima, ma non l’umanità.

Fino a ieri il nostro problema principale era la cattiva distribuzione della ricchezza. Un problema gravissimo che stava e continua a stare alla base di molti altri problemi: le disuguaglianze Nord-Sud, le guerre, le migrazioni di massa, le crisi economiche, la disoccupazione, l’aumento di povertà a ogni latitudine. Alle richieste di giustizia, il sistema ha sempre opposto grande resistenza e se, qualche eccezione c’è stata, si è verificata solo in presenza di crescita. In effetti nella seconda metà del secolo scorso, quando l’Europa era attraversata da una crescita sostenuta, in molti paesi si è affermata la socialdemocrazia contrassegnata da bassa disoccupazione, redditi medio-alti e una buona previdenza sociale. Poi, sotto i colpi del neoliberismo, della globalizzazione, della crisi finanziaria e dell’austerità, la crescita si è fermata provocando ovunque aumento di disuguaglianze, disoccupazione, povertà.

La misura del Pil e i limiti del pianeta

Oggi il vero limite alla crescita non viene da dentro il sistema, bensì da fuori. Viene dal pianeta che, dopo due secoli di crescita ossessiva, sta dando segni di cedimento sia sul piano delle risorse che dei rifiuti. Alcuni segnali sono la crisi idrica, l’impoverimento dei mari, l’eccesso di anidride carbonica, i cambiamenti climatici, perfino la pandemia da Covid. Segnali di crisi  che diventano ancora più gravi alla luce del fatto che metà dell’umanità non ha ancora conosciuto il gusto della dignità umana: non mangia a sufficienza, non dispone di servizi igienici e talvolta neppure dell’acqua potabile, non ha accesso alla corrente elettrica, non può curarsi, non può mandare i propri figli a scuola. Per vivere meglio, questa parte di umanità deve consumare di più, ma rischia di non poterlo fare finché noi opulenti non accettiamo di sottoporci a cura dimagrante perché c’è competizione per le risorse scarse. Non a caso nella Laudato si’, papa Francesco scrive: «È arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti». E nella lettera d’invito ai giovani economisti scrive che «occorre correggere i modelli di crescita».

Mettere in discussione la crescita, significa mettere in discussione il capitalismo perché l’obiettivo di ogni persona che si mette in affari, non importa se in agricoltura, nell’industria, nel commercio o nella finanza, è ottenere un profitto da reinvestire ulteriormente per avere un capitale sempre più ampio. Il desiderio di arricchimento è sempre esistito, ma non era mai successo che fosse elevato a scopo di sistema come invece è successo con il capitalismo. Prova ne sia che il Pil, il famoso Prodotto interno lordo, è stato assunto al tempo stesso come obiettivo e come indicatore dello stato di salute dell’economia e della società. Possiamo dire che il Pil scorre dentro le nostre vene, non solo per il martellamento ideologico che abbiamo subito attraverso ogni possibile mezzo mediatico (pubblicità) e istituzionale (scuola), ma anche perché il sistema è stato abbastanza abile da legare la sopravvivenza di ciascuno di noi alla crescita.

Tra natura e disoccupazione: dubbi e paure

In effetti, prima che alle imprese, la sobrietà fa paura ai sindacati e ai partiti di sinistra per le ricadute sull’occupazione. Sappiamo tutti che il lavoro è legato a doppio filo ai consumi: se questi ultimi crescono, l’occupazione ha qualche possibilità di crescere, altrimenti a crescere sono i licenziamenti.

La storia dimostra che il capitalismo ha messo in atto un vero e proprio piano per trasformarci tutti in persone dipendenti dal lavoro salariato. Prima ci ha spossessato di ogni possibilità di provvedere a noi stessi, poi ci ha detto che l’unico modo per far fronte ai nostri bisogni è rifornirci al supermercato, che però esige denaro per fare passare le merci al di là della cassiera. Così il nostro problema è diventato come procurarci quel denaro che è chiave di accesso ad ogni nostro bisogno e desiderio. Ed ecco il lavoro salariato come unica soluzione che il sistema ci mette a disposizione. Ma il lavoro salariato è legato alle vendite, e più vendite significano più consumo di materia e maggiore produzione di rifiuti. Il che procura non poco imbarazzo in chi ha la doppia sensibilità sociale e ambientale: praticare la sobrietà per non danneggiare la natura o vivere il consumismo per non favorire la disoccupazione? Per cui il vero tema che dovremo affrontare in una prospettiva di sostenibilità è quello del lavoro: come coniugare sobrietà e lavoro per tutti?

La strada per uscire dal dilemma è chiederci se esistono altri modi, oltre il lavoro salariato, per provvedere ai nostri bisogni. Modi non più basati sulla compravendita, e quindi sul denaro, ma sulla gratuità. Se potessimo ottenere ciò che ci serve in forma diversa dall’acquisto, smetteremmo di dipendere dal denaro e quindi dal lavoro salariato. Automaticamente, Pil, produzione e consumi smetterebbero di essere i padroni indiscussi della nostra vita, la sufficienza tornerebbe ad essere la nostra guida per ritrovare l’armonia con noi stessi, con gli altri, con la natura.

Le calamità e il «lavoro d’uso»

La soluzione è il «lavoro d’uso», la forma più ancestrale di lavoro, quello applicato direttamente ai bisogni da soddisfare in ambito personale e familiare: cucinare, lavare, riparare, curare, insegnare. Una soluzione che ci può apparire obsoleta. Eppure, se vogliamo ampliare il soddisfacimento dei nostri bisogni, senza chiedere agli altri di aumentare i propri consumi, dovremmo espandere proprio il lavoro d’uso. Con un’avvertenza: oltre che a livello individuale, il lavoro d’uso può e deve essere organizzato anche a livello collettivo. Lo sperimentiamo ogni volta che siamo colpiti da una calamità. Se il fiume esonda o arriva il terremoto, ci mettiamo subito tutti insieme per affrontare l’emergenza. Ed ora molti sindaci invocano il lavoro d’uso anche in situazione di normalità: quando i soldi si fanno scarsi si scopre quanto sia importante il lavoro delle persone per soddisfare i bisogni collettivi.

Dal micro al macro

Ovviamente il discorso è molto più articolato, ma questi brevi cenni mostrano che, per passare da un’economia della crescita a un’economia del limite, nel rispetto della dignità di tutti e della piena inclusione lavorativa, bisogna sapere operare trasformazioni profonde nell’impostazione economica, fino a ripensare il ruolo del lavoro, il ruolo del mercato, il ruolo del denaro. Soprattutto bisogna concentrarsi sull’economia pubblica per ridefinire la sua funzione e per capire come possiamo farla funzionare in maniera autonoma dal mercato, perché quando le risorse si fanno scarse bisogna riscoprire la programmazione e creare le premesse per garantirci alcune sicurezze di base come il soddisfacimento dei bisogni fondamentali per tutti, la difesa dei beni comuni, un’occupazione minima per tutti.

Traguardi che solo l’economia pubblica può garantire. Ecco perché è riduttivo, e alla fine poco risolutivo, concentrarsi sulle tematiche micro tralasciando quelle macro. È un po’ come concentrarsi sul dito, mentre papa Francesco ci indica la luna.

Una visione incompleta

Azzardo un paio di ipotesi sul perché gli economisti cattolici hanno scarsa propensione ad occuparsi dell’architettura complessiva del sistema e soprattutto perché tendono a non includere l’economia pubblica fra le scelte strategiche di cambiamento. Una prima motivazione è che non hanno piena consapevolezza dello stato di crisi del pianeta e che il tempo della crescita è finito. La seconda motivazione è che fanno una lettura selettiva della dottrina sociale della Chiesa.

Da Leone XIII in poi, molti papi hanno scritto encicliche sociali che hanno dato ampi riconoscimenti ad aspetti come la proprietà privata, l’iniziativa economica, il mercato. Nel contempo, hanno sempre puntualizzato che serve l’intervento dello stato, affinché tali libertà non entrino mai in rotta di collisione con il godimento dei diritti e la tutela dei beni comuni. Troppi economisti e politici hanno la tendenza a fermarsi alle prime affermazioni dimenticando di integrarle con le precisazioni poste a loro corredo. Una lettura ideologica che ostacola la ricerca di soluzioni capaci di affrontare le nuove sfide che la storia ci lancia.

Francesco Gesualdi

Il sistema economico del Pil e del profitto non è più sostenibile. Foto Mohammed Alim – Pixabay.




Fratelli tutti: per un mondo senza scartati

testo di Francesco Gesualdi |


A ottobre 2020, è uscita la terza enciclica di papa Francesco. Tratta di convivenza e fratellanza. Visto che la qualità dell’esistenza dipende anche dall’economia, il pontefice ne esamina le problematiche. Facendo critiche precise e proponendo soluzioni.

Fratelli tutti: è questo il titolo dell’ultima enciclica di papa Francesco che ha un obiettivo, una motivazione e una strategia. L’obiettivo è quello di sollecitarci a costruire un mondo fraterno senza scartati. La motivazione è la convinzione, condivisa anche con il grande imam Ahmad Al-Tayyeb, secondo la quale Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro». La strategia è il dialogo.

Economia e povertà

L’enciclica si apre con un’analisi della situazione che, oltre a concentrarsi su aspetti morali, culturali e sociali, inevitabilmente comprende anche aspetti economici, perché la qualità della nostra esistenza dipende in gran parte da come l’economia è organizzata. L’enciclica lo dice chiaramente: «Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati». E precisa: «Questo scarto si manifesta in molti modi, come nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come effetto diretto di allargare i confini della povertà. […] Ci sono regole economiche che sono risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale. È aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che accade è che nascono nuove povertà».

La proprietà privata

Tra i fondamentali capitalistici che papa Francesco torna a mettere in discussione c’è il primato della proprietà privata. Una puntualizzazione che conviene riportare in maniera integrale, perché su questo tema, dentro la Chiesa, ci sono ancora troppe ambiguità: «Il mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità. Le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti. Di conseguenza, come comunità siamo tenuti a garantire che ogni persona viva con dignità e abbia opportunità adeguate al suo sviluppo integrale. Nei primi secoli della fede cristiana, diversi sapienti hanno sviluppato un senso universale nella loro riflessione sulla destinazione comune dei beni creati. Ciò conduceva a pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità, è perché un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni Crisostomo dicendo che “non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è nostro, ma loro”. Come pure queste parole di San Gregorio Magno: “Quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene”. Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: “Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno”. In questa linea ricordo che “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”. Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il “primo principio di tutto l’ordinamento etico sociale”, è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, “non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione”, come affermava San Paolo VI. Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società».

Il mercato

Parole altrettanto chiare sono riservate al mercato: «Qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro […]. Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti». E facendo riferimento alla così detta teoria del trickledown, dello sgocciolamento, secondo la quale se si accresce la ricchezza prodotta – non importa cosa, né in quali condizioni, né a vantaggio di chi -, qualcosa arriverà anche ai poveri in virtù del fatto che i ricchi richiederanno un numero di servitori sempre più ampio, il papa aggiunge: «Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del “traboccamento” (sgocciolamento) – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale. Da una parte è indispensabile una politica economica attiva, orientata a “promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale”, perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage. D’altra parte, senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare».

Per papa Francesco, dunque, la soluzione risiede nella solidarietà e nella gratuità, principi da vivere ad ogni livello, da quello interpersonale e di quartiere fino a quello statale: «Alcuni nascono in famiglie di buone condizioni economiche, ricevono una buona educazione, crescono ben nutriti, o possiedono naturalmente capacità notevoli. Essi sicuramente non avranno bisogno di uno stato attivo e chiederanno solo libertà. Ma evidentemente non vale la stessa regola per una persona disabile, per chi è nato in una casa misera, per chi è cresciuto con un’educazione di bassa qualità e con scarse possibilità di curare come si deve le proprie malattie. Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica».

Le migrazioni

L’enciclica non rinuncia ad affrontare anche un altro tema su cui oggi c’è grande fermento: come orientarsi fra locale e globale? Prendendo come riferimento il «vicinato» papa Francesco indica la dimensione regionale, intesa come dimensione continentale, come livello ottimale di collaborazione economica, mettendo in guardia dall’interesse che le grandi potenze hanno a impedire che i paesi poveri stringano alleanze fra loro: «Ci sono paesi potenti e grandi imprese che traggono profitto da questo isolamento e preferiscono trattare con ciascun paese separatamente. Al contrario, per i paesi piccoli o poveri si apre la possibilità di raggiungere accordi regionali con i vicini, che permettano loro di trattare in blocco ed evitare di diventare segmenti marginali e dipendenti dalle grandi potenze. Oggi nessuno stato nazionale isolato è in grado di assicurare il bene comune della propria popolazione».

Un’enciclica dedicata alla fratellanza non poteva certo ignorare il tema delle migrazioni a cui dedica un intero capitolo. E dopo avere sottolineato come i migranti contribuiscano all’arricchimento umano e culturale della società, papa Francesco sente il bisogno di sgomberare il campo dal rischio che il tema sia valutato solo in termini di convenienza. Per cui afferma senza mezzi termini che la stella polare deve essere la gratuità: «Tuttavia, non vorrei ridurre questa impostazione a una qualche forma di utilitarismo. Esiste la gratuità. È la capacità di fare alcune cose per il solo fatto che di per sé sono buone, senza sperare di ricavarne alcun risultato, senza aspettarsi immediatamente qualcosa in cambio. Ciò permette di accogliere lo straniero, anche se al momento non porta un beneficio tangibile».

La nuova politica

La sintesi del pensiero di papa Francesco è che «dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno». Ma «per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune». Una politica, cioè, che non sia sottomessa all’economia. E una delle vie intraviste da papa Francesco per ottenere una nuova politica è la nascita di una nuova cultura che si può ottenere solo attraverso il dialogo. «Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti alla verità. Un paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media». E in particolare, dialogo con i movimenti popolari, definiti da papa Francesco come «poeti sociali, che a modo loro lavorano, propongono, promuovono e liberano. Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale, che richiede di superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli. Benché diano fastidio, benché alcuni “pensatori” non sappiano come classificarli, bisogna avere il coraggio di riconoscere che senza di loro la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino».

Dialogo e lotta

Il dialogo sollecitato da papa Francesco è verso tutti e in forma gentile. «La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società, trasforma profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti».  Nel contempo papa Francesco ci tiene a precisare che dialogo non significa rinuncia al conflitto se serve a fare trionfare i diritti: «Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama».

Francesco Gesualdi




Dietro la bontà del capitalismo

testo di Paolo Moiola |


Da tempo la globalizzazione neoliberista ha ridotto l’influenza delle organizzazioni multilaterali. Lo stiamo vedendo anche con la gestione della pandemia da Covid-19. Sono le organizzazioni private che tirano le fila, in primis quelle facenti capo a Bill Gates. Cosa c’è dietro questa filantropia che muove montagne di soldi? Siamo sicuri che la definizione di «ricchi e buoni» sia corretta?

La copertina di «Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo» (Emi, 2020).

È inusuale dare a un libro un titolo in forma di domanda. Lo fa Nicoletta Dentico, giornalista e attivista, con il suo «Ricchi e buoni?».

Che la sua domanda sia retorica lo si intuisce immediatamente dal sottotitolo: «Le trame oscure del filantrocapitalismo» (Emi, 2020). L’economia è da sempre tematica ostica e fortemente divisiva. Lo vediamo quotidianamente nella politica, ancora di più di questi tempi, a causa della pandemia. Il libro è un atto d’accusa duro e circostanziato che potrebbe irritare coloro che amano ritenersi o definirsi «moderati». «Il mio è un libro di denuncia rigorosa, ma sempre denuncia è. Io penso che questo non sia un tempo per essere sfumati: le cose vanno dette».

Miliardari filantrocapitalisti

I ricchi di cui scrive Nicoletta Dentico sono miliardari, quelli appartenenti al «Mondo Nuovo dell’1 %», come li definisce, con una punta di sarcasmo, Vandana Shiva nella sua prefazione. Ieri si chiamavano Andrew Carnegie, John Rockefeller, Henry Ford, oggi Ted Turner, Mark Zuckerberg, Warren Buffett e, soprattutto, Bill e Melinda
Gates.

«Non dimentichiamoci – ci ricorda l’autrice – che i miliardari di oggi sono figli di un’economia senza freni, giocatori di una partita senza regole che si sono arricchiti in maniera strabiliante attraverso una globalizzazione che ha prodotto la diseguaglianza che abbiamo sotto gli occhi. Persone che sono riuscite ad arricchirsi con i monopoli brevettuali, con evasione ed elusione fiscali. E portando molto delle loro ricchezze nei paradisi fiscali».

La loro «bontà» (le virgolette sono necessarie) è riferita alle elargizioni benefiche in favore della collettività mondiale, in particolare nel campo della salute. Tutto sarebbe lodevole se non si basasse su fondamenta errate (il sistema economico neoliberista) e non finisse per frenare ogni possibile cambiamento. È il filantrocapitalismo e, più precisamente, il suo lato oscuro.

«Il filantrocapitalismo – spiega Nicoletta – è quella forma particolare di filantropia che usa modelli, strumenti, valori del mercato e dell’impresa per spingerli, promuoverli e imporli anche nell’agenda sociale, nell’agenda dei diritti. Business e filantropia diventano dunque un tutt’uno e la filantropia diviene la continuazione del business con altri mezzi. Nel filantrocapitalismo si annulla pertanto il confine tra profit e non profit».

Dal dono alla filantropia del sistema

«La mia è una denuncia di chi fa della filantropia una forma di esercizio egemonico. Di chi è riuscito a impossessarsi anche dell’ultimo fortino rimasto indenne dalla logica capitalista: quello del mondo della solidarietà e del dono. Quelli cioè che riescono a capitalizzare da un territorio che è fondativo dell’essenza umana. Dono e solidarietà fanno infatti parte di tutte le culture. Invece, queste persone sono riuscite a cambiarli geneticamente, facendone prolungamenti del loro potere economico e imprenditoriale. Su questi soggetti io rivolgo la mia attenzione. Li chiamo “sacerdoti” perché costoro portano avanti una religione di mercato vera e propria. Quando costoro intervengono, non guardano mai all’origine del problema, loro trovano sempre una soluzione tecnica, biotecnologica, imprenditoriale. La loro idea è di creare mercati per i poveri, cosa che non tocca le cause dei problemi. Sono dei dirottatori e agiscono – appunto – con un fare religioso. E attorno a loro c’è un’aura di venerazione da parte di molti governi, soprattutto del Nord del mondo».

Osserviamo che filantropia sarebbe un termine positivo fin dalla sua etimologia: «amore verso l’uomo» o, per usare la definizione del dizionario Treccani, «disposizione d’animo e sforzo atto a promuovere la felicità e il benessere degli altri». «Occorre – precisa Nicoletta – distinguere tra filantropia e questa forma filantrocapitalista. C’è una filantropia che fa cose meravigliose, vocata magari ad azioni più piccole, sostenendo realtà che afferiscono ai diritti umani. C’è della filantropia che è stata fatta con della ricchezza meramente imprenditoriale. Penso ad alcune organizzazioni tedesche come la Rosa Luxemburg Foundation o la Heinrich Böll Foundation. Il mio non è un attacco a tutta la filantropia. Tutt’altro. C’è molta buona filantropia, anche negli Stati Uniti».

Una sede della fondazione di Bill e Melinda Gates. Foto Marc Smith.

 

I passaggi storici

Per arrivare all’attuale mutazione genetica della filantropia, ci sono state tappe storiche abbastanza delineate: negli anni Ottanta, la fase di massima espansione della globalizzazione; tra il 1999 e il 2001 (con le manifestazioni a Seattle e Genova) un tentativo di reazione da parte della società civile; dal 2000 al 2019 la progressiva perdita di centralità delle organizzazioni multilaterali (Onu, Who, ecc.); nel 2020 l’arrivo della pandemia che ha rovesciato il tavolo e che può ridisegnare il mondo (in peggio o in meglio).

«Per me il problema è la fragorosa assenza di regole del gioco che invece c’erano prima degli anni Ottanta. Veniamo da quattro decenni di cultura dell’idea che il pubblico non funziona, che è inefficiente. Ci pensano i privati, perché privato è meglio. Quattro decenni di spinta verso una privatizzazione senza regole».

Questo processo raggiunge il proprio apice quando arriva alle Nazioni unite, la più grande organizzazione pubblica sovranazionale. «I nostri miliardari filantropi capiscono che fare i buoni giocando l’agenda della solidarietà è una strategia utile per entrare nelle organizzazioni internazionali più deboli portando con sé tutti gli attori economici propri».

Nel 2000 viene così approvato lo United nations global compact, un patto tra Nazioni unite e aziende. L’accordo si trasforma «nel cavallo di Troia del settore privato, ormai dentro la pancia delle istituzioni internazionali». Un anno dopo nasce il «Fondo globale contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria», organizzazione di natura privata che risponde a logiche di diritto privato.

Si è così passati dal multilateralismo (coordinamento tra più stati attorno a un obiettivo) al multistakeholderismo (coordinamento tra attori diversi, da stakeholder, soggetto interessato). «Sì, in italiano il termine è orrendo – spiega Nicoletta -, ma utile per indicare che siamo tutti attorno a uno stesso tavolo a gestire un determinato problema. Senza però considerare che non siamo tutti lì per lo stesso motivo. Abbiamo ragioni diverse e anche profondamente divergenti. Ed anche missioni diverse e divergenti perché il settore privato e soprattutto le multinazionali, alla fine, hanno l’obbligo statutario di fare profitti».

Oggi i bilanci dell’Organizzazione mondiale della sanità mostrano che la fondazione di Bill e Melinda Gates è, in termini assoluti, il secondo finanziatore dopo gli Stati Uniti: 531 milioni di dollari nel biennio 2018-2019. E al quarto posto c’è la Gavi Aliance, organizzazione pubblico-privata nella quale sempre la Fondazione Gates ha un ruolo di preminenza (17% dei fondi totali). «Quando Bill Gates parla all’Oms, non fiata nessuno! E nessuno si azzarda a fare un’obiezione».

Questo è vero a tal punto che il New York Times (23 novembre 2020) ha parlato di un «Bill chill», un brivido di freddo che percorre chi teme di far arrabbiare Gates e, per questo, si autocensura.

Nicoletta Dentico è molto dura verso il fondatore di Microsoft, principale esponente del filantrocapitalismo di oggi. «Critiche motivate – spiega lei – . Gates è particolarmente pericoloso. Ormai è ovunque. Ovunque. Non c’è settore della vita umana in cui lui non abbia deciso che ha ricette da somministrare: agricoltura, finanza, cambiamento climatico, salute. In questo momento Bill Gates è il kingmaker, lo zar della ricerca sul Covid-19. Il problema è: lui può spendere un sacco di soldi, ma non c’è un processo democratico rispetto alla sue decisioni. Risponde unicamente a se stesso. Vige una specie di trinità: lui, la moglie Melinda e Warren Buffet, il quale nel giugno 2006 all’uomo (Gates, in quel momento) più ricco del mondo regalò 36 miliardi di dollari. Aveva speculato fino a quel momento, ma aveva capito che sarebbe scoppiata la bomba finanziaria. Pertanto, diede tutti quei guadagni fatti con la speculazione alla fondazione di Gates, che – va ricordato – è un’organizzazione potentemente defiscalizzata e che dà reputazione».

L’Oms e il Covid

Dagli anni Ottanta, l’Oms ha visto la riduzione dei contributi obbligatori degli stati membri e l’aumento delle contribuzioni volontarie. Non è la stessa cosa: è la vittoria del privato sul pubblico, la vittoria del filantrocapitalismo.

Si obietta che l’Oms non si merita i finanziamenti, che anche la sua gestione dell’emergenza Covid-19 è stata fallimentare. «In realtà – precisa Nicoletta -, la situazione è ben più complessa. Di questa organizzazione ci sarebbe un gran bisogno. Se in questo momento è debole – ed è vero -, occorre sostenerla. Riflette le debolezze degli stati che sono i suoi peggiori nemici, come ha dimostrato Trump».

Nonostante le minacce dell’ormai ex presidente, stando al bilancio ufficiale dell’Oms per il biennio 2020-2021, per quanto concerne i finanziamenti pubblici, gli Stati Uniti sono primi, seguiti (a distanza) dalla Cina. Tuttavia, la pandemia ha spinto quest’ultima e soprattutto la Germania a offrire finanziamenti aggiuntivi.

«Un tempo – precisa Nicoletta Dentico – anche l’Italia era un grande finanziatore. Oggi sembra preferire il Gavi, il Fondo globale e iniziative similari».

L’autrice di Ricchi e buoni? ha una lunga esperienza nel campo della salute. È stata infatti direttrice di Medici senza frontiere Italia durante la presidenza di Carlo Urbani (amico e collaboratore di questa rivista). Ha lavorato per la campagna sull’accesso ai farmaci essenziali.

«Il Covid – dice – è un segno dei tempi che va colto. La devastazione della pandemia arriva da Sars-Cov-2, ma anche dall’arroganza e dall’inefficienza del mondo. E dalla riluttanza a capire che occorre cambiare le regole del gioco. Mi pare ci sia tanta gente che aspetta che “passi la nottata” per tornare a fare quello che faceva prima. Ma il Covid ci dice che non dobbiamo tornare dove eravamo prima. La seconda ondata della pandemia ci ha detto che dobbiamo cambiare rotta».

Nicoletta Dentico, autrice di «Ricchi e buoni?» (Emi, 2020). Foto: archivio Dentico.

Francesco, il leader

Nicoletta Dentico ha iniziato il suo lungo percorso di lotta per la giustizia come volontaria di Mani Tese, storica organizzazione cattolica.

«Rivendico la mia appartenenza al campo cattolico – spiega -. Il discorso evangelico “Non sono venuto a portare pace ma contraddizione”, mi ha molto ispirata nella mia vita di cristiana». E pure per le pagine di Ricchi e buoni?, aggiungiamo noi.

«La mia critica è molto dura perché io penso che Bill Gates e gli altri siano il risultato di un disimpegno, di una cessione di sovranità mostruosa da parte della politica. Io denuncio l’insipienza e la connivenza dei governi. Credo che un mondo in cui realtà private governano la cosa pubblica sia un mondo distopico».

A questa ritirata degli stati, pare si sottragga il Vaticano, che è nell’Organizzazione mondiale del commercio come osservatore permanente. Lo scorso ottobre si è schierato a fianco di India e Sud Africa per chiedere la sospensione delle norme sui brevetti allo scopo di affrontare la pandemia.

Chiediamo a Nicoletta la sua opinione rispetto al pensiero e alle azioni di Francesco, un papa a cui certamente non mancano gli avversari, anche nella propria squadra d’appartenenza.

«Lui è l’unico che si sia preso la briga di ascoltare i movimenti sociali in ben tre incontri mondiali (nel 2014, 2015 e 2016) e quella spinta diversa che viene dal basso. A iniziare dalla Evangelii gaudium (2013) – cioè prima della Laudato si’ (2015) –  quando ha cominciato a scrivere che “esta economia mata”, questa economia uccide. È lì che si è giocato, soprattutto in America, la sua reputazione. È con la Evangelii gaudium che hanno iniziato ad attaccarlo in quanto anticapitalista, in quanto comunista. Se non dice lui certe cose, non le dirà nessun altro. Se lui parla della sospensione della proprietà intellettuale per la lotta al Covid, ne parlerà tutto il mondo. Per fortuna, c’è papa Francesco che capisce come nessun altro queste problematiche. Per questo è, in assoluto, il leader di riferimento».

Paolo Moiola


Le organizzazioni principali

Filantropia made in Usa

  • Chi: Bill & Melinda Gates (Usa)
    Organizzazione (2000): Bill & Melinda Gates Foundation
    Sito: www.gatesfoundation.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Wto, Unicef, World Bank, ecc.
    Organizzazione (2000): Global Alliance for Vaccines and Immunisation – Gavi, The Vaccine Alliance
    Sito: www.gavi.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Norvegia
    Organizzazione (2017): Coalition for Epidemic Preparedness Innovations
    Sito: cepi.net
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Catholic Relief Services (Usa), governi, ecc.
    Organizzazione (2002): The Global Fund to Fight Aids, Tuberculosis and Malaria
    Sito: www.theglobalfund.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Brasile, Corea, Cile
    Organizzazione (2006): Unitaid – Innovation in Global Health
    Sito: unitaid.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates
    Organizzazione (2003): Foundation for Innovative New Diagnostics – Find
    Sito: www.finddx.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates e Warren Buffett (Usa)
    Organizzazione (2010): The Giving Pledge
    Sito: givingpledge.org
  • Chi: Ted Turner (Usa)
    Organizzazione (1998): Un Foundation e Better World Fund
    Siti: unfoundation.org; www.abetterworldfund.org
  • Chi: Bill & Hillary Clinton (Usa)
    Organizzazione (1997): Clinton Foundation – Clinton Global Initiative
    Sito: www.clintonfoundation.org
  • Chi: Mark Zuckerberg & Priscilla Chan (Usa)
    Organizzazione (2015): Chan Zuckerberg Initiative
    Sito: chanzuckerberg.com
  • Chi: George Soros (Usa)
    Organizzazione (1979): The Open Society Foundations
    Sito: www.opensocietyfoundations.org

Bill Gates durante una conferenza della Gavi Alliance, una delle sue numerose creature. Foto Ben Fisher – Gavi Alliance.

LE PIÙ ANTICHE

  • Chi: Andrew Carnegie (Usa)
    Organizzazione (1905): Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching
    Sito: www.carnegiefoundation.org
  • Chi: John D. Rockefeller (Usa)
    Organizzazione (1913): The Rockefeller Foundation
    Sito: www.rockefellerfoundation.org
  • Chi: Henry e Edsel Ford (Usa)
    Organizzazione (1936): The Ford Foundation
    Sito: www.fordfoundation.org

GLI ALTRI

L’imprenditore di Amazon, Jeff Bezos (Usa), l’uomo più ricco del pianeta, non ha ancora una propria fondazione.

Pa.Mo.


Alcune date.

La società, dal pubblico al privato

  • 1948 – Nasce l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms – Who, World health organization).
  • 1995 – Nasce l’Organizzione mondiale del commercio (Oms-Wto) ed entrano in vigore gli accordi «Trips» sulla proprietà intellettuale.
  • 1999 – 2001 – A Seattle (dicembre 1999) e a Genova
    (luglio 2001) movimenti della società civile protestano contro la globalizzazione neoliberista.
  • 2000 – Viene ufficialmente lanciata la Bill and Melida Gates Foundation.
  • 2000, luglio – Sotto lo slogan «Uniting business for a better world», nasce lo «United nations global compact», che apre le Nazioni unite alle imprese private.
  • 2020, 11 marzo – L’Oms dichiara la pandemia globale da nuovo coronavirus.
  • 2020, aprile – Donald Trump ordina di bloccare i finanziamenti Usa (che sono i più consistenti) all’Oms, colpevole di una pessima gestione della pandemia e di essere succube della Cina. Per parte sua, Pechino decide di versare un contributo extra.
  • 2020, 2 ottobre – In una lettera all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto), India e Sud Africa chiedono di derogare alle norme sulla proprietà intellettuale per rendere più facile per i paesi in via di sviluppo la produzione o l’importazione di farmaci contro il Covid-19.
  • 2020, 17 ottobre – A Ginevra, alla riunione dell’Oms, il Vaticano chiede che la proprietà intellettuale non ostacoli l’accesso al vaccino.
  • 2020, novembre – In rapida successione tre aziende occidentali annunciano la produzione di vaccini contro il virus Sars-CoV-2.

Pa.Mo.

 




Brevetti farmaceutici:

soldi pubblici, profitti privati

testo di Francesco Gesualdi |


Nati per proteggere i diritti degli inventori, i brevetti sono particolarmente odiosi quando riguardano i farmaci. La ricerca costa, ma è anche vero che spesso essa viene finanziata con denaro pubblico, come sta avvenendo per i vaccini contro il Covid-19.

La pandemia da Covid ha riacceso la discussione attorno ai brevetti farmaceutici, cosa che succede ogni volta che scoppia un’emergenza sanitaria. Successe nel 1997 quando ci fu l’emergenza Aids, nel 2013 quando scoppiò l’infezione da Ebola e succede oggi che siamo assediati dal Coronavirus.

Il brevetto è una protezione accordata dall’autorità pubblica agli inventori, per impedire che altri possano usare le loro invenzioni senza permesso e senza aver pagato un prezzo per il loro uso.

Si narra che il primo brevetto sia stato rilasciato in Inghilterra nel 1449 dal re Enrico IV a favore di tale John of Utynam, un produttore di vetro di origine fiamminga. L’attestato reale gli assicurava il diritto di produrre in esclusiva, per la durata di venti anni, il vetro speciale di sua invenzione. In quello stesso periodo, in tutta Europa la scienza muoveva i primi passi e le richieste di protezione si moltiplicarono. Fra il 1561 e il 1590 la regina Elisabetta I rilasciò una cinquantina di brevetti permettendo ai beneficiari di detenere il monopolio produttivo di prodotti come sapone, pellame, tessuti, metalli, carta. Ma la protezione non era gratuita e, pur di incassare, la Corona rilasciava brevetti anche a impostori che non avevano inventato proprio nulla di nuovo. Ne venne fuori un mezzo scandalo che, nel 1624, spinse il Parlamento inglese a mettere ordine nella materia emanando un’apposita legge sui brevetti. Nel 1790 fu la volta degli Stati Uniti e in breve di tutti gli altri paesi industrializzati che, a loro volta, si dotarono di una legislazione a tutela delle invenzioni. Ma le protezioni accordate avevano validità solo all’interno dei confini nazionali, per cui non scongiuravano il rischio che le invenzioni potessero essere copiate da soggetti esteri. Nel 1873 questa paura divenne così dilagante da mandare deserta la più importante fiera internazionale delle invenzioni che si teneva a Vienna. Tanto che nel 1883 i governi degli undici paesi più industrializzati si ritrovarono a Parigi con l’intento di formare un’area di protezione comune, all’interno della quale i brevetti rilasciati in un qualsiasi paese firmatario valessero anche negli altri. L’accordo, che prese il nome di Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, prevedeva anche l’istituzione di un organismo di vigilanza denominato Birpi, Ufficio internazionale per la protezione intellettuale. Nel 1967 il Birpi venne soppresso e sostituito con la Wipo, Organizzazione mondiale per la protezione intellettuale, elevata addirittura al rango di Agenzia speciale delle Nazioni unite.

L’istituzione della Wipo fu il primo passo per estendere la protezione della proprietà intellettuale, ossia delle invenzioni e delle scoperte scientifiche, a livello mondiale. Fino ad allora tale problema non era sentito perché il mondo industrializzato era circoscritto a una manciata di paesi, collettivamente definiti Nord del mondo, che già avevano adottato regole comuni.

I brevetti ai tempi della globalizzazione

Col passare degli anni, altri paesi del cosiddetto Sud del mondo, in particolare Brasile, Argentina, India, Cina, Sudafrica, cominciarono a sviluppare il proprio apparato produttivo e fra le imprese del vecchio mondo industrializzato tornò la paura di essere derubate delle proprie invenzioni. Così sorse il problema di come obbligare anche i paesi del Sud ad adottare le stesse regole di protezione di proprietà intellettuale che il Nord applicava già da decenni. L’occasione si presentò a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando lo sviluppo dei trasporti e delle nuove tecnologie di comunicazione avevano intensificato gli interscambi planetari a tal punto che tutti i paesi si erano convinti della necessità di facilitare ulteriormente l’integrazione economica mondiale. Insomma tutti pensavano che fosse conveniente per ognuno aprirsi ai rapporti con gli altri, ma per riuscirci bisognava rendere i confini più porosi. Nasceva la globalizzazione che fondamentalmente chiedeva alle nazioni di tutto il mondo di ridurre al minimo i dazi doganali e di abbassare il più possibile le regole di carattere ambientale, sanitario, sociale, in modo da creare meno ostacoli possibile al fluire di merci, capitali e processi produttivi. In tutti gli ambiti fuorché uno: quello dei brevetti per i quali si chiedeva l’innalzamento di barriere protettive.

La costruzione di un mondo pensato più per merci, capitali e interessi industriali che per le persone, esigeva l’adozione di una serie di nuove regole che richiese un intero decennio di trattative internazionali sui temi più disparati. Fra essi quello relativo alla protezione della proprietà intellettuale per il quale venne costituito un apposito tavolo che, alla fine, partorì un accordo denominato Trips, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, richiamato come fonte giuridica. Detto accordo comparve in bella mostra fra i sei trattati posti a fondamento   della nuova architettura commerciale internazionale, supervisionata da un nuovo organismo che debuttò nel 1994, sotto il nome di Organizzazione mondiale del commercio (Omc, Wto per dirla all’inglese).

«La ricerca costa»

Nel Sud del mondo, uno degli ambiti dove più si sentirono gli effetti negativi del giro di vite operato sui brevetti, fu quello farmaceutico. Fino ad allora vi erano stati paesi, fra cui India, Brasile, perfino Thailandia, dove l’assenza di obblighi di licenza verso i soggetti esteri proprietari delle formule aveva permesso il fiorire di un’industria farmaceutica locale che produceva farmaci a prezzi molto più bassi di quelli commercializzati dalle imprese proprietarie dei brevetti. La spiegazione fornita dalle grandi case farmaceutiche a giustificazione degli alti prezzi di vendita applicati sui propri prodotti è che la ricerca costa, a volte anche molto, mentre il tempo a  disposizione per recuperare i soldi investiti non va oltre i venti anni. Periodo dopo il quale ogni formula può essere usata liberamente dando luogo ai così detti farmaci generici. Considerato l’alto tasso di segretezza che avvolge le imprese, i conti nelle loro tasche non si possono fare, ma un aspetto che le case farmaceutiche evitano sempre di raccontare è quanto vale la compartecipazione dei soggetti pubblici sotto forma di contributi in denaro o di pezzi di ricerca eseguiti nelle università pubbliche. A tale proposito ci viene in aiuto un’indagine Ocse, secondo la quale  la spesa complessiva per ricerca farmaceutica e sanitaria nei trenta paesi più industrializzati nel 2014 ammontava a 151 miliardi di euro, di cui 100 sostenuti dalle imprese e 51 dai governi. Venendo al presente, il solo governo degli Stati Uniti ha erogato circa 10 miliardi di dollari a fondo perduto a favore di sette imprese farmaceutiche impegnate nella messa a punto di vaccini anti-Covid. Ricevere soldi pubblici e poi imporre prezzi salati è però cosa indecente. Meglio sarebbe che la ricerca per la cura delle malattie fosse sostenuta interamente dagli istituti pubblici e messa a disposizione gratuitamente a tutti, salvo coprire le spese con l’innalzamento delle imposte sui redditi d’impresa. La trasformazione del sapere in bene comune è l’unico modo per sbarazzarsi dei brevetti che creano disuguaglianza e gettano nella disperazione i più poveri.

La battaglia del Sudafrica di Mandela

Il primo paese a portare l’attenzione su quanto i brevetti possano essere devastanti per le popolazioni dei paesi più poveri, fu il Sudafrica che nel 1997 si trovò a fronteggiare una grave crisi da Aids. Gli unici farmaci antiretrovirali contro l’Hiv circolanti nel paese erano quelli prodotti dalle grandi multinazionali detentrici delle formule, che sperimentavano quanto fosse più lucroso essere padroni del mercato piuttosto che concedere licenze. A rimetterci erano i malati che avrebbero dovuto lavorare un anno di fila per poter sostenere la cura di un solo mese. A quei prezzi, neppure il governo era in grado di procurarsi tutte le dosi che servivano per curare le centinaia di migliaia di malati presenti nel paese. Eppure, c’erano nazioni che non avendo ancora applicato il trattato sulla protezione della proprietà intellettuale producevano quegli stessi farmaci a costi molto più bassi.

Perciò Mandela, che all’epoca guidava il Sudafrica, autorizzò l’importazione parallela dei farmaci anti Hiv da paesi come l’India e il Brasile. La reazione delle case farmaceutiche fu immediata e, invocando la violazione di tutte le regole a protezione dei brevetti, dichiararono di voler dare battaglia in tutte le sedi possibili: dai tribunali locali al gran giurì dell’Organizzazione mondiale del commercio. Fortunatamente ci fu una grande sollevazione della società civile che provocò una tale indignazione a livello mondiale da indurre le multinazionali a ritirarsi da tutte le iniziative giudiziarie da loro avviate. Tuttavia, il caso aveva fatto scuola e vari paesi del Sud del mondo pretesero che l’Organizzazione mondiale del commercio dichiarasse nero su bianco che le emergenze sanitarie sono motivazioni sufficienti per sospendere le regole a protezione dei brevetti.

Emergenza Covid-19

Nel 2003 una nota del Consiglio generale dell’Omc precisava tre punti fondamentali. Primo: le regole sulla proprietà intellettuale non possono e non devono essere di impedimento alla tutela della salute pubblica. Secondo: in caso di bisogno, i paesi in emergenza possono autorizzare al proprio interno la produzione dei farmaci necessari a fronteggiare la crisi, pur in assenza di licenza da parte dei detentori dei brevetti, purché venga pagato un indennizzo. Terzo: se nel paese in emergenza non esistono le condizioni industriali per produrre i farmaci che servono, essi possono essere importati dai paesi che, per le ragioni più varie, producono i farmaci senza licenza e, quindi, a basso prezzo.

Nonostante l’esistenza di tali salvaguardie, il 2 ottobre 2020 India e Sudafrica* si sono rivolti agli organi di governo dell’Omc per richiedere la momentanea sospensione del trattato sulla protezione della proprietà intellettuale sostenendo che è di ostacolo alla possibilità di procurarsi, con rapidità ed economicità, tutto ciò che serve per far fronte alla pandemia da Covid-19: dalle mascherine ai ventilatori, dai kit diagnostici ai farmaci antivirali, dai disinfettanti ai vaccini. Il 16 ottobre la richiesta è stata discussa all’interno del Consiglio di vigilanza del trattato, ma nessuna decisione è stata presa. Si è semplicemente preso atto che i paesi presenti erano divisi in tre gruppi: i più poveri favorevoli alla richiesta, quelli a reddito medio con richieste di chiarimenti e i più ricchi contrari. Segno di quanto sia ancora forte la sudditanza della politica nei confronti delle imprese. Una situazione che pone non solo problemi di etica, ma anche di democrazia.

 Francesco Gesualdi

Farmaci e vaccini: come ci si regolerà per il Covid-19? Foto Myriams Fotos – Pixabay.