Il 29 gennaio un tribunale di Hong Kong ha disposto l’ordine di liquidazione di Evergrande, il colosso immobiliare cinese schiacciato sotto il peso di oltre 300 miliardi di dollari di debiti.
Le lunghe trattative con i principali creditori si sono concluse con un nulla di fatto: era dal dicembre 2021, ovvero da quando l’azienda è andata in default su 82,5 milioni di dollari di obbligazioni, che i colloqui procedevano al fine di definire una ristrutturazione del debito offshore accettabile per tutte le parti. Ora le cose per il gruppo cinese si complicano. Il suo esuberante fondatore, Xu Jiayin – un tempo uomo più ricco d’Asia – da settembre pare si trovi ai domiciliari per «attività illegali» e non è escluso che in futuro il caso acquisirà risvolti non solo strettamente economici. D’altronde negli ultimi anni il conglomerato ha espanso le sue attività ben oltre il comparto immobiliare con acquisizioni nel mondo del calcio, dell’automotive, del turismo, e persino dell’intrattenimento. Nel 2022 due dirigenti sono stati rimossi dai loro incarichi con l’accusa di uso improprio di fondi, stanziati originariamente per i progetti immobiliari e finiti altrove.
L’inizio della crisi immobiliare ha una data: agosto 2020. Ovvero il mese e l’anno in cui il rallentamento del mercato interno, colpito dalla pandemia, spinge il governo cinese a introdurre alcune restrizioni sull’emissione di prestiti bancari per contenere la leva finanziaria nel settore. Questo rende improvvisamente difficile ripagare i debiti, non solo per Evergrande. Ma anche per tutti quegli sviluppatori che, come il colosso di Guangzhou (Canton), hanno prosperato per decenni incassando introiti dalla vendita di abitazioni non ancora costruite. E che adesso, forse, non lo saranno mai.
Nell’immediato la sfida per Pechino sta proprio nel trovare un modo per gestire il patrimonio del promotore immobiliare: oltre 1.740 miliardi di yuan di asset, la maggior parte dei quali concentrati nella Cina continentale, che ha un sistema giuridico diverso da quello di derivazione anglosassone in vigore a Hong Kong. Le implicazioni però sono ad ampio raggio. Non solo perché la gestione di Evergrande funge da esempio per tutte le altre aziende in difficoltà. Tanto per citarne una: Country Garden che ha passività per circa 190 miliardi di dollari e più di 3.000 progetti in fase di sviluppo.
La procedura di liquidazione avviata a Hong Kong rappresenta più in generale un banco di prova per la Cina, che solo pochi giorni fa ha annunciato un crollo degli investimenti diretti esteri ai minimi dal 1993. Da come verrà gestito il caso dipende anche l’affidabilità del mercato cinese, già compromesso dal rallentamento dell’economia, dalla crescente enfasi attribuita da Pechino alla sicurezza nazionale, nonché dalle frizioni geopolitiche con l’Occidente.
Sotto esame anche l’ex colonia britannica (Hong Kong), che nell’ultimo decennio ha visto diminuire l’autonomia concessa da Pechino sotto il motto «un paese, due sistemi». Una situazione costata già una diminuzione delle aziende straniere presenti a Hong Kong. Non serve molta immaginazione per intuire che effetto avrebbe nei circoli del business il mancato rispetto dell’ordine di liquidazione. Eppure, stando ai precedenti (per esempio il default di Kaisa), difficilmente la leadership cinese accetterà di dare priorità ai creditori offshore. Almeno non prima di aver risolto la questione abitativa sulla terraferma: sono circa un milione e mezzo gli appartamenti venduti ma ancora incompiuti. Quindi almeno altrettante le persone in attesa di ricevere la propria casa. Senza contare gli stipendi che Evergrande deve ancora versare ai propri dipendenti. Si sommano i conti da saldare ai fornitori. Questioni spinose che in passato hanno già alimentato accese proteste in diverse città. Esattamente quanto Pechino, ossessionato dalla stabilità sociale, vuole evitare. Secondo i dati dell’Ong China labour bulletin, le proteste per i salari non pagati nel periodo precedente al capodanno lunare (10 febbraio) sono raddoppiate rispetto allo scorso anno. Molte hanno coinvolto lavoratori edili, una categoria che in Cina conta circa 52 milioni di persone.
Oggi oltre il 90% delle famiglie cinesi ha almeno una casa di proprietà. Considerato bene rifugio, circa tre quarti del patrimonio familiare in Cina risiede proprio nel mattone. Ma la crescita esplosiva dell’immobiliare ha anche innescato una bolla speculativa ormai difficile da domare. Basti pensare che, secondo diverse stime, oggi in Cina ci sono sufficienti appartamenti per ospitare tre miliardi di persone a fronte di una popolazione di 1,4 miliardi. Con il calo delle nascite la situazione è destinata a peggiorare. L’effetto delle giacenze è visibile nelle preoccupanti oscillazioni dei prezzi delle case che, se da una parte restano inavvicinabili per molti giovani cinesi, dall’altra tendono a perdere facilmente valore. Con buona pace di chi ci ha investito i propri risparmi.
Lo ha detto più volte il presidente Xi Jinping: «Le case sono fatte per abitarci, non per speculare». Dopo quattro anni di pandemia da Covid-19, la leadership cinese percepisce che l’immobiliare rischia di esacerbare ulteriormente le disuguaglianze sociali. Quindi di ostacolare gli obiettivi di lungo periodo prefissati da Xi, che entro il 2035 aspira a raddoppiare il Pil pro capite rispetto ai valori del 2019. L’economia intreccia la politica creando un mix letale per legittimità del Partito-Stato.
Al contempo si temono ripercussioni più ampie non solo per i comparti più esposti al surriscaldamento del mattone, dal settore bancario a quello della gestione patrimoniale. Se il controllo statale sugli istituti di credito fa escludere l’eventualità di una crisi Lehman Brothers «con caratteristiche cinesi», allo stesso tempo la crisi innescata dal tracollo di Evergrande è per certi versi più destabilizzante: a venire messo in discussione è infatti un po’ tutto il paradigma di sviluppo cinese. Trainato fin dagli anni ‘90 da un’urbanizzazione dirompente, quel modello economico è costato alle amministrazioni locali livelli di indebitamento elevatissimi, domati grazie agli introiti dalla vendita dei terreni statali ai promotori immobiliari. Ma ora che i colossi del mattone stringono la cinghia a risentirne sarà, di riflesso, anche il bilancio dei governi provinciali, distrettuali e municipali. Senza misure efficaci, secondo le stime della Banca Mondiale, da qui al 2025 la crescita cinese rallenterà dal 5 al 4,3% proprio a causa dell’instabilità dell’immobiliare.
Da tempo la leadership comunista cerca di ridurre la dipendenza dell’economia dagli investimenti infrastrutturali. Obiettivo diventato necessario da quando tre anni di rigidissime misure contro il Covid-19 hanno prosciugato le casse statali. La soluzione, auspicata da Pechino, prevede un maggiore coinvolgimento dei consumi interni, ancora fermi al 53% del Pil rispetto a una media mondiale del 72%. Più facile a dirsi che a farsi. Nonostante la ripresa del turismo, durante il capodanno lunare la spesa media pro capite ha registrato un calo del 9,5% rispetto al livello pre pandemia. Comprensibile: chi aprirebbe con leggerezza il portafoglio dopo aver investito i propri risparmi in una casa che forse non vedrà mai?
Alessandra Colarizi
La terra spremuta
Francesco continua il suo impegno per la salvaguardia della casa comune. Dopo la «Laudato si’» del 2015, a ottobre 2023 è uscita la «Laudate Deum». In essa si parla dei mutamenti climatici in atto e di cosa sarebbe indispensabile fare. Senza attendere domani.
«Sono passati ormai otto anni dalla pubblicazione della lettera enciclica Laudato si’, quando ho voluto condividere con tutti voi, sorelle e fratelli del nostro pianeta sofferente, le mie accorate preoccupazioni per la cura della nostra casa comune. Ma, con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti».
Inizia così l’esortazione apostolica di papa Francesco, Laudate Deum, resa pubblica il 4 ottobre 2023, in continuazione con la sua precedente enciclica Laudato si’, pubblicata nel 2015.
Un nuovo appello che scaturisce dalla constatazione di come l’umanità non stia facendo ciò che dovrebbe per arrestare i processi di degrado ambientale di cui è responsabile.
Allarme confermato dai dati sull’accumulo di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera che, assieme alla deforestazione, è alla base dei cambiamenti climatici. Secondo il Noaa, l’ente statunitense che si occupa di oceani e atmosfera, nel 2010 la concentrazione di CO2 era di 388 parti per milione; nel 2020 la troviamo a 412 parti per milione.
Intanto, anche la deforestazione è continuata a ritmi sostenuti. Benché oggi sia meno intensa rispetto al secolo scorso, la Fao ci informa che, fra il 2015 e il 2020, si è continuato a deforestare al ritmo di dieci milioni di ettari l’anno, un’area grande all’incirca come quella del Belgio.
Il paradigma tecnocratico
Rispetto alla Laudato si’, la nuova esortazione apostolica è molto più breve perché si limita a poche sottolineature essenziali. Fondamentalmente vuole richiamarci alla necessità di impegnarci di più per la soluzione dei problemi ambientali e sociali che abbiamo creato e vuole rimarcare alcuni concetti già espressi nell’enciclica di otto anni fa.
Un tema su cui torna con forza è il paradigma tecnocratico che papa Francesco indica come il principale responsabile dei guasti socio-ambientali nei quali ci stiamo dibattendo.
Il punto di partenza dell’analisi condotta da papa Francesco è che alla base degli squilibri ambientali ci sia l’uso distorto della tecnologia. Un passaggio della Laudato si’ precisa che «l’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse. Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi».
Presunzione di onnipotenza
Studiando la storia ci si accorge che il punto di rottura è avvenuto nel 1600 quando iniziarono le prime scoperte scientifiche. Constatando che, attraverso l’uso della ragione, l’essere umano poteva capire fenomeni prima avvolti nel mistero e che poteva trovare soluzioni in precedenza inimmaginabili, ci siamo montati la testa fino a sentirci padroni del mondo.
Un concetto che il filosofo Cartesio è giunto a teorizzare quando nel suo libro Discours de la méthode, apparso nel 1637, afferma: «Le nozioni di fisica mi hanno fatto vedere che è possibile giungere a conoscenze molto utili alla vita e che possiamo diventare gestori e padroni della natura».
Un senso di onnipotenza che è diventato catastrofico quando si è sposato con altri miti che hanno cominciato a strutturarsi, anch’essi attorno al 1700, con l’affermarsi della classe imprenditoriale e mercantile. In particolare, il mito della ricchezza e del progresso.
Per dirla con papa Francesco, da questi miti «si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia». Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a «spremerlo» fino al limite e oltre.
Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti». Per questo nella Laudato si’, papa Francesco sostiene che «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti».
Già il predecessore Benedetto XVI diceva che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».
Il cinismo del sistema
Se c’è un aspetto che il capitalismo non è disposto a discutere è la crescita e, lungi dall’idea di dover porre un freno a produzione e consumi, riduce la tematica ambientale a una mera questione di tecnologia.
L’assunto è che basti ottenere energia elettrica da sole e vento invece che da gasolio, alimentare le auto con batterie elettriche invece che tramite combustibili fossili, bruciare i rifiuti in termovalorizzatori invece che accumularli in discarica e la sostenibilità è garantita.
Sull’onda di questa febbre tecnologica c’è – addirittura – chi propone di produrre energia elettrica dal nucleare o di risolvere il problema climatico con tecniche di geoingegneria.
Imprese faraoniche, ancora allo stato sperimentale, come l’idea di seppellire l’anidride carbonica nel sottosuolo o di «sbiancare» le nuvole affinché riflettano parte della radiazione solare fuori dal sistema terrestre. Tecniche costose di cui non si conoscono le conseguenze e che, nel lungo periodo, potrebbero provocare più danni del male che intendono curare. Ma sono comunque perseguite perché rappresentano una grande occasione di guadagno per industrie del comparto chimico, satellitare, minerario, nucleare. Il che confermerebbe il cinismo di un sistema che ha sempre visto di buon occhio le distruzioni belliche e i disastri naturali come occasioni di rilancio degli affari.
Rispetto alla tecnologia, nella Laudate Deum papa Francesco è categorico: «Ritengo essenziale insistere sul fatto che “cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale”. È vero che gli sforzi di adattamento sono necessari di fronte a mali irreversibili a breve termine; anche alcuni interventi e progressi tecnologici per assorbire o catturare i gas emessi sono positivi; ma corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare con il filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare. Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto valanga».
Papa Francesco ritiene che la strada maestra per risolvere la crisi climatica sia la riduzione di anidride carbonica a livello planetario, individuando negli accordi multilaterali lo strumento principe per ottenere questo risultato: «Per ottenere un progresso solido e duraturo, mi permetto di insistere sul fatto che vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati».
Ricchi e poveri
Affinché gli accordi possano condurre a risultati tangibili, serve un altro atteggiamento da parte dei paesi ricchi. Di fondo devono convincersi che, avendo contribuito di più alla creazione del problema, debbono dare di più per la sua soluzione. Non a caso papa Francesco scrive: «La realtà è che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita oltre la metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?».
Oltre ad accettare di tagliare in maniera considerevole le proprie emissioni, i paesi ricchi dovrebbero acconsentire di sostenere economicamente i paesi più poveri, i quali, di fronte ai cambiamenti climatici, hanno tre tipi di spese: quelle per trasformare il proprio parco energetico, quelle per difendersi dai cambiamenti climatici e quelle per compensare i danni provocati dai cambiamenti stessi.
Somme enormi che, per il solo continente africano e limitatamente ai primi due tipi di spesa, ammontano a 2.800 miliardi di dollari, per il decennio 2020-2030. Un ammontare da utilizzarsi per il 70% per la transizione e il rafforzamento energetico e per il 30% per resistere meglio ai cambiamenti climatici. I governi africani hanno però ammesso di poter coprire appena il 10% del fabbisogno, ossia 264 miliardi di dollari. Tutti gli altri dovranno venire da altri soggetti. Ed è qui che dovrebbe entrare in gioco la solidarietà internazionale, la quale però fa acqua da tutte le parti.
Parole, fondi e danni
Dopo molti anni di negoziazione, i paesi ricchi hanno accettato di costituire un fondo a favore dei paesi del Sud del mondo, affinché possano avviare la transizione energetica e possano costruire le opere utili a proteggersi dai cambiamenti climatici.
In teoria dovrebbero essere 100 miliardi l’anno, ma la raccolta si è fermata a 85. Per di più, la maggior parte delle somme concesse dal fondo è sotto forma di prestito, peggiorando in tal modo il debito del Sud del mondo che già si trova a livelli preoccupanti. Tuttavia, il fondo non copre i danni che il Sud del mondo sta già subendo a causa dei cambiamenti climatici. Come esempi valgano la riduzione dei raccolti agricoli nell’Africa subsahariana, per la scarsità di piogge o, al contrario, i danni da straripamenti dei fiumi, dovuti all’eccesso di piogge, in Asia meridionale. Da un paio di anni i paesi più vulnerabili chiedono la costituzione di un fondo specifico per la copertura dei danni subiti. Tuttavia, alla data di pubblicazione della Laudate Deum, si era ancora al nulla di fatto.
Papa Francesco sostiene che «i negoziati internazionali non avanzano in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune» e indica come rimedio la partecipazione dal basso: «Le istanze che emergono dal basso in tutto il mondo, […] possono riuscire a fare pressione sui fattori di potere. È auspicabile che ciò accada per quanto riguarda la crisi climatica. Perciò ribadisco che “se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali”».
Parole chiare che ci impongono di convertirci a maggiore partecipazione.
Francesco Gesualdi
Nota: lo scorso dicembre, si è tenuta negli Emirati arabi uniti la Conferenza delle parti (Cop28). Su di essa rimandiamo al nostro sito web e al prossimo numero della rivista.
Senegal. La democrazia può attendere
Oppositori politici incarcerati, manifestazioni represse, arresti arbitrari, restrizioni delle libertà. Il Paese vetrina dell’Africa occidentale perde colpi sul piano di diritti e democrazia. Mentre cerca di emergere come economia. Il gruppo al potere non sembra pronto a cederlo. Anche perché la torta da dividere sta aumentando.
Juliette è una giovane donna della Casamance, regione nel sud del Senegal. È un’attiva sostenitrice dell’oppositore politico Ousmane Sonko, impegnata sui social media e non solo. A metà marzo scorso era presente a una manifestazione a Dakar, nei pressi della casa del politico. La polizia aveva circondato l’abitazione e impediva a Sonko di uscire. A un certo punto gli agenti hanno caricato l’assembramento di manifestanti e lanciato lacrimogeni. Molti partecipanti, perlopiù giovani, sono stati arrestati. Anche Juliette è finita in prigione. Non ha avuto alcun processo, ma a ottobre, il presidente Macky Sall ha graziato un migliaio di detenuti e così anche lei è potuta tornare a casa dalla sua bimba di cinque anni e al suo lavoro.
Episodi di questo tipo, iniziati nel 2021, sono sempre più frequenti in un Senegal, vetrina dell’Africa dell’Ovest, che si avvicina alle elezioni presidenziali del 24 febbraio.
L’attuale presidente, Macky Sall, al potere dal 2012 (già primo ministro e presidente dell’Assemblea nazionale), ha inizialmente tentato di candidarsi per un terzo mandato (incostituzionale) ma, in seguito alle manifestazioni e alla pressione della Francia, ha desistito, e il partito al potere presenterà come candidato l’attuale primo ministro Amadou Ba.
Il Senegal di Macky Sall
Negli ultimi dieci anni il paese è cambiato, soprattutto nella capitale Dakar.
Gli investimenti della gestione Macky Sall si sono concentrati sulle infrastrutture: sono state costruite nuove strade, asfaltate alcune di quelle vecchie, costruiti impianti sportivi e il nuovo aeroporto Blaise Diange, ultimata l’autostrada Dakar-Tuba, elettrificate zone del Paese.
«Nel suo discorso di insediamento il presidente Macky Sall disse che il suo obiettivo principale sarebbe stato soddisfare i bisogni dei senegalesi ed elevare il loro livello di vita. Inoltre, le infrastrutture non funzionavano», ci racconta il giornalista senegalese Ama Dieng, contattato telefonicamente.
E continua: «Così Sall ha lavorato molto sulle infrastrutture. È stato anche realizzato il treno espresso dalla nuova città di Diamniadio a Dakar e una rete di bus rapidi. Ha molto investito nelle vie di comunicazione e risposto alle richieste del mondo sportivo. Questo occorre riconoscerlo». Diamniadio è diventato un polo urbano ed economico, ha tutti i moderni servizi, lo stadio, il nuovo aeroporto. Vi si sono trasferiti alcuni uffici amministrativi e ministeriali. Anche a Dakar ci sono molti cantieri, ma la città è concentrata sullo spazio limitato di una penisola per cui sta esplodendo.
Nel 2013 è stato lanciato il Plan Sénégal emergent (Pse, Piano Senegal emergente), ovvero una strategia decennale (2014-2024) che ha come obiettivo di portare il paese saheliano tra i paesi cosiddetti «emergenti» entro il 2035. È un programma che prevede grossi finanziamenti, anche da parte di multinazionali straniere, che ha spinto soprattutto sull’economia e sull’impresa privata.
«L’imprenditoria è molto favorita in città, ma anche a livello rurale. È chiaro che il contesto non è ricco. Ho visto tanta attività economica. Però lavoro non ce n’è abbastanza, così come la formazione. C’è molta precarietà e lavoro informale», ci dice Federico Perotti, ingegnere esperto di cooperazione e conoscitore del Paese.
Il sogno del benessere
Continua il giornalista: «Per quanto riguarda il livello di vita della popolazione, possiamo dire che il presidente non ha rispettato i suoi impegni. Aveva promesso di fare in modo che i senegalesi avessero il benessere. La povertà, invece, è aumentata e molte famiglie hanno difficoltà a comperare i beni di base.
Sall non è riuscito nella politica dell’impiego per la gioventù. Ha tentato di realizzare alcune strutture, ma i progetti non sono andati avanti. Così c’è stato un aumento del tasso di disoccupazione. Il che spiega la continua emigrazione dei giovani senegalesi». In Senegal circa la metà della popolazione ha meno di vent’anni.
«Le industrie senegalesi – agiunge Dieng – non hanno sentito l’appoggio dello stato, rispetto alla concorrenza del mercato mondiale. Le nostre industrie hanno una capacità di produzione debole e non c’è stata una protezione, per cui molte di loro hanno dovuto chiudere a causa della concorrenza estera». Un altro motivo per l’aumento della disoccupazione.
Parliamo di agricoltura con un esperto italiano (che ha chiesto l’anonimato) con un’esperienza ventennale nel Paese. «Dal punto di vista globale possiamo dire che il Senegal è avanzato, però non su basi solide. Infatti, tutto dipende dalla capitale, che concentra i servizi e l’economia. Il mondo rurale si spopola e la produttività agricola è sempre molto bassa. Secondo un recente studio, in un anno, quindi nel tempo di una campagna agricola, si arriva a guadagnare l’equivalente di circa 30 euro al mese. Questo nonostante ci siano progetti e miliardi di franchi cfa (milioni di euro) investiti nel settore ogni anno. Ma sono soldi mal gestiti, o usati per questioni politiche (fini elettorali, ndr)». Il Senegal è un paese prevalentemente rurale, dove coltivazione della terra e allevamento fanno parte della tradizione e dell’economia famigliare. «Ci sarebbero le potenzialità per sviluppare l’agricoltura, ma ci vorrebbe più organizzazione e infrastrutture migliori. Anche la congiuntura internazionale favorirebbe, perché il prezzo dei cereali sul mercato mondiale è aumentato». Così, ci spiega l’esperto, «i giovani rurali vanno a Dakar a fare lavori informali e guadagnano di più, mentre le campagne restano popolate da anziani. Occorrerebbe investire per rendere l’agricoltura un’attività interessante anche per i giovani. I modelli oramai sono quelli occidentali, non più i tradizionali, e i ragazzi non tornano in campagna se non vedono un interesse economico». E conclude: «Tutto questo ha portato molta frustrazione nei giovani, e ha spinto il fenomeno populista Ousmane Sonko».
L’oppositore
Ousmane Sonko, 49 anni, sindaco di Ziguinshor, capitale della Casamance, è di un’etnia della zona.
Da alcuni anni ha iniziato a presentare un discorso antifrancese (come molti nell’area dei paesi ex colonie della Francia), contro la casta al potere, «un approccio più distruttivo che propositivo», ci dicono.
Inizialmente si è opposto al terzo mandato di Macky Sall, e già nel 2021 le manifestazioni dei suoi sostenitori sono state violentemente represse. Ma da quando ha iniziato a diventare popolare, il regime ha montato una serie di accuse contro di lui, a partire da una condanna per abusi sessuali a una massaggiatrice, fino all’accusa di aver diffamato un ministro, e di aver istigato all’insurrezione. Sonko è oggi in prigione con una condanna a due anni.
«Abbiamo l’impressione che il presidente Macky Sall non sopporti l’opposizione – ci dice il giornalista – la tecnica delle incriminazioni giudiziarie era già stata usata con altri candidati, come Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade. Con il caso Sonko, si è visto che la volontà di non farlo partecipare alle elezioni è concreta».
Ma perché? Ci chiediamo. «Perché, bisogna riconoscerlo, Sonko è l’uomo politico più popolare del Senegal in questo momento, perfino più dello stesso presidente». Alcuni sondaggi lo danno addirittura al 58%. Di fatto la sua presa sui giovani e sulla loro frustrazione è elevata, ed essi lo vedono come il loro leader.
In ballo non c’è solo il potere, che questo gruppo è abituato ad avere da oltre un decennio, ma anche i nuovi giacimenti di petrolio offshore, al confine con la Mauritania, che inizieranno a essere sfruttati proprio quest’anno.
Repressione
Le manifestazioni del marzo 2023 sono state violentemente represse. Poi, i primi giorni di giugno, ci sono state altre manifestazioni contro la condanna di Sonko per «corruzione di giovani», in diverse città (Dakar, Ziguinchor, Kaolak) con arresti ma anche con numerosi morti. Secondo Amnesty International, durante due giorni sono stati almeno 23 i morti, tra i quali tre bambini, e 390 i feriti causati dalle forze di sicurezza. L’Ong chiede inoltre di fare luce sulla presenza di «uomini armati in abiti civili in appoggio alle forze di sicurezza, ampiamente documentata dalle immagini filmate». Inoltre, «nei giorni delle proteste e in quelli successivi, le autorità hanno sospeso l’accesso a internet e alle piattaforme social. È stato interrotto il segnale dell’emittente Walf Tv e il suo canale YouTube».
A causa della condanna, Sonko è stato rimosso dalle liste elettorali, e questo lo renderebbe non candidabile alle prossime elezioni. Usiamo il condizionale, perché ci dicono che il dossier giudiziario non ha finito il suo percorso.
Nel frattempo, il 23 novembre, il suo partito, il Pastef (Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità) ha presentato un altro possibile candidato, il vice Bassirou Diomaye Faye. Pure lui in carcere, ma non essendo giudicato, è candidabile.
Il partito stesso è stato sciolto per decreto il 31 luglio scorso. La motivazione data dal ministro dell’Interno, Antoine Diome, è l’accusa di frequenti chiamate all’insurrezione. Comportamento non consono a un partito politico. Lo stesso giorno Sonko era stato condannato per insurrezione e complotto, e nuovamente arrestato. Il fatto è stato seguito da manifestazioni a Dakar Ziguinchor, represse violentemente, con alcuni morti.
Diritti in bilico
Un militante dei diritti umani senegalese (che chiede l’anonimato) ci dice: «Le repressioni delle manifestazioni, che hanno provocato diversi morti, sono fatti che i senegalesi deplorano. Si è assistito a una grande violenza poliziesca. Il governo dice che ci sono infiltrazioni di terroristi, ma si tratta di senegalesi che manifestano per dire che non sono contenti del presidente, e questo fa parte della democrazia. Ma le dimostrazioni dell’opposizione sono sistematicamente proibite e la repressione è forte. Oggi le prigioni sono piene di questi giovani. Mentre il ministro dell’Interno dice che non ci sono prigionieri politici.
Oggi assistiamo a una regressione della democrazia in Senegal. Quello che il presidente Abdoulaye Wade ha accettato, il presidente Macky Sall non lo accetta».
Come abbiamo visto per Juliette, anche per quanto riguarda i diritti civili in generale, gli osservatori notano un certo arretramento. A livello della libertà di stampa ci sono molte pressioni, e sovente i giornalisti sono convocati o arrestati, soprattutto se scrivono sul presidente. Pratica che prima non era comune. Si contesta loro il reato di «offesa al capo dello stato» o quello di «false notizie». Inoltre il potere è riuscito ad avere molti giornali a lui favorevoli e ne ha creati di nuovi.
Il Senegal, che punta a raggiungere il club dei paesi emergenti entro il 2035, sta rischiando di uscire da quello dei paesi democratici e rispettosi dei diritti umani. Mentre la pagina delle elezioni di febbraio è tutta da scrivere.
Marco Bello
Il progetto
L’Ong Cisv di Torino, presente dal 1988 in Senegal, vi realizza oggi il progetto Provives, di promozione del lavoro e della piccola imprenditoria «verde». Si tratta di un’esperienza pilota di appoggio all’imprenditoria locale impegnata nella transizione ecologica e intende contribuire alla riduzione della povertà attraverso il sostegno di piccole e medie imprese sociali e ambientali nelle regioni di Dakar, Thiès, Louga e Saint-Louis. A tale scopo utilizza gli approcci della green economy, dell’innovazione digitale e dell’economia circolare (raccolta, riciclo, riutilizzo di rifiuti e scarti).
Il progetto risponde agli obiettivi 8 (lavoro dignitoso e crescita economica), 2 (fame zero) e 12 (produzione e consumo responsabile) dell’Agenda 2030. Sono partner del progetto anche le Ong Lvia e Rete, e le attività sono cofinanziate dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.
Questo progetto rientra in un approccio strategico dell’Ong Cisv su accompagnamento e appoggio delle micro imprese giovanili in Africa dell’Ovest.
www.cisvto.org
Zimbabwe. Dittatura legalizzata
Il presidente Emmerson Mnangagwa è stato riconfermato senza sorprese. Aveva sostituito Robert Mugabe dopo quarant’anni di «regno». Ma le regole non sono cambiate, anzi, leggi liberticide sono state promulgate, e la «democrazia matura» è sempre più un regime autoritario.
Il 21 novembre 2017, gli abitanti di Harare, la capitale dello Zimbabwe, erano scesi in strada per festeggiare la fine del regno di Robert Mugabe. In un Paese stremato da quasi quarant’anni di dominio dispotico, dove diritti umani, libertà di espressione e democrazia erano stati costantemente violati e l’economia devastata, si facevano strada speranza ed entusiasmo. Il nuovo presidente, Emmerson Mnangagwa, appartenente allo stesso partito del suo predecessore, l’Unione nazionale africana dello Zimbabwe-Fronte patriottico (Zanu-Pf), nel salire al potere prometteva l’inizio di un nuovo corso, quella che lui chiamava la «seconda Repubblica», dove democrazia e diritti umani sarebbero stati rafforzati e rispettati.
Tuttavia, le speranze e le promesse di uno Zimbabwe più democratico e libero sono rapidamente venute meno. Il predominio violento della Zanu-Pf non è cessato e, nel giro di pochi anni, Mnangagwa ha avviato una stretta sempre più forte nei confronti di libertà e diritti, colpendo in particolare associazionismo, informazione e opposizione politica. Il leader è cambiato, ma il sistema è rimasto lo stesso.
Nulla di nuovo dal 2018
L’entusiasmo di non vedere per la prima volta dopo 38 anni il nome di Mugabe sulla scheda elettorale è durato ben poco. Secondo i dati rilasciati dalla Commissione elettorale dello Zimbabwe (Zec), al voto del 2018, Mnangagwa aveva ottenuto il 50,8% dei consensi. Di poco sopra la soglia della maggioranza assoluta necessaria per aggiudicarsi la presidenza al primo turno, tanto da scatenare accuse di brogli da parte dell’allora principale partito di opposizione, il Movimento per il cambiamento democratico, il cui leader, Nelson Chamisa, ufficialmente si era fermato al 44,3%.
Come in passato, non erano mancate intimidazioni e minacce agli abitanti delle aree rurali affinché votassero per la parte «giusta», mentre l’esercito aveva sparato sui manifestanti che chiedevano la pubblicazione tempestiva dei risultati, causando morti e feriti. Il modus operandi della Zanu-Pf e delle forze dell’ordine non era cambiato. Il partito, al potere dall’indipendenza del 1980, ancora una volta non aveva disatteso la sua lunga tradizione di violenza e violazioni dei diritti umani che, soprattutto in prossimità delle elezioni, si intensifica con arresti e detenzioni arbitrari, uccisioni e intimidazioni.
Negli anni, ogni forma di opposizione è stata repressa. A partire dal primo rivale della Zanu-Pf, l’Unione popolare africana dello Zimbabwe, che, dopo essere stata attaccata, nel 1987 era stata costretta a fondersi con il partito al potere. Successivamente, anche se alle elezioni, in apparenza, partecipavano più partiti, la vittoria della Zanu-Pf non era mai in discussione. Attraverso esecuzioni extragiudiziali, torture, pestaggi e rapimenti, documentati da diverse organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International, ogni forma di opposizione veniva silenziata.
Con la salita al potere di Mnangagwa, nulla è cambiato. Ancora una volta, arresti e detenzioni arbitrari, limitazioni alla diffusione di informazioni, intimidazioni e brogli hanno permesso di reprimere ogni forma di dissenso. Una stretta che si è progressivamente intensificata con l’avvicinarsi delle elezioni del 23 agosto 2023.
Libertà sotto attacco
Libertà di associazione e informazione sono state le prime a essere colpite, nonostante siano tutelate dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli di cui lo Zimbabwe è firmatario.
Il 2023 si è aperto con l’applicazione del Private voluntary organizations act del 2021 grazie al quale l’esecutivo ha deregistrato 291 Ong, accusate di gestione non trasparente dei finanziamenti e di minare la sicurezza nazionale. Questa mossa – insieme all’emendamento approvato pochi giorni dopo per impedire a questi enti di prendere parte a qualsiasi attività politica – ha permesso al governo di mettere fuori gioco le organizzazioni più critiche, che avrebbero potuto rivestire un ruolo importante nell’educazione al voto dei cittadini e nel monitoraggio delle elezioni.
Sul versante dell’informazione, invece, a causa del Cyber and data protection act (2021), sono cresciuti intimidazioni, arresti e condanne tra i giornalisti, spesso accusati di pubblicare dati e informazioni falsi finalizzati a danneggiare figure legate al governo. Una misura, comunque, non sufficiente a silenziare le voci critiche e rafforzare il predominio dei media statali. Tanto che nella primavera del 2023 il direttore dell’informazione della Zanu-Pf, Tafadzwa Mugawadi, ha minacciato di scollegare le antenne paraboliche di chi guardava stazioni informative straniere. Tra di esse, Al Jazeera – rea di aver appena pubblicato Gold Mafia, un’inchiesta su traffico d’oro, corruzione e riciclaggio di denaro da parte dell’élite politica zimbabweana -, Cnn, Bbc, France 24 ed Euronews.
Poco spazio per l’opposizione
Alle elezioni l’opposizione parte sempre in una condizione di svantaggio. La Zanu-Pf controlla strutture politiche, forze dell’ordine, Zec e mass media. La possibilità dell’opposizione di fare campagna elettorale è costantemente messa in discussione dall’introduzione di provvedimenti apparentemente destinati a tutelare la sicurezza nazionale, ma che in realtà mirano a limitare il più possibile manifestazioni di dissenso.
In vista delle elezioni dello scorso agosto, il nuovo movimento di Chamisa, la Coalizione dei cittadini per il cambiamento (Ccc), è stato attaccato su più livelli. Le sue reali possibilità di fare campagna elettorale e mobilitare gli elettori sono state notevolmente limitate. Con l’applicazione selettiva del Maintenance of peace and order act del 2019 (che impedisce incontri pubblici se non viene avvertita la polizia con una nota scritta), all’opposizione è stato spesso impedito di tenere raduni e mobilitare i suoi sostenitori. Secondo Tendai Biti, parlamentare della Ccc, nella prima metà del 2023 sono stati vietati ben 63 incontri del suo partito.
Quando poi le manifestazioni si tengono, sono spesso interrotte dalle forze dell’ordine che accusano i partecipanti di minare la sicurezza nazionale. In un’escalation di arresti, nel corso del 2023, numerosi sostenitori e membri del partito sono stati fermati con l’accusa di mettere a repentaglio l’ordine pubblico.
Ma non solo. Molte zone rurali sono state dichiarate «no-go areas», località in cui la Ccc non poteva recarsi, impedendole così di fare campagna elettorale in vaste parti del Paese. Un divieto che non si applicava alla Zanu-Pf, libera di intimidire gli elettori. Ugualmente, la Ccc non ha potuto accedere alle liste degli elettori registrati, nonostante la Zec sia obbligata a fornirle a tutti coloro che ne fanno richiesta e pagano la quota stabilita. Anche in questo caso, la Zanu-Pf ha fatto eccezione: le ha ottenute e se ne è servita per mobilitare i votanti e mandare sms intimidatori.
Ma ancora prima di riuscire a fare campagna elettorale, i membri dei partiti di opposizione hanno faticato addirittura a candidarsi. Il rialzo della tassa per partecipare alla corsa presidenziale, passata dai 16mila dollari del 2018 ai 20mila di oggi, ha contribuito a dimezzare le candidature a capo dello Stato, scese da 23 a 11. Allo stesso modo, è cresciuta la quota per concorrere a un seggio parlamentare (da 800 a mille dollari), rendendo difficile per l’opposizione, le cui risorse finanziarie sono minori rispetto alla Zanu-Pf, di competere alla pari.
È evidente come le richieste che la Zimbabwe election support network (Zesn) avanza dal 2018 siano finora rimaste completamente inascoltate. Le riforme elettorali non hanno mai portato alla creazione di un ambiente libero da violenze, intimidazioni e minacce, dove tutti i partiti possano fare campagna liberamente e la popolazione manifestare il proprio supporto all’una o all’altra parte.
Contro ogni forma di dissenso
Le misure degli ultimi anni hanno non solo colpito l’opposizione politica, ma limitato qualsiasi forma di disaccordo. Le forze dell’ordine non hanno fatto distinzioni nel sedare manifestazioni di studenti, medici o sostenitori dell’opposizione. Il messaggio era sempre lo stesso: qualsiasi forma di dissenso non è ammessa.
I medici zimbabweani scendono frequentemente in strada per chiedere migliori condizioni di lavoro e maggiori salari, venendo dispersi dalle forze dell’ordine. La stessa sorte tocca agli studenti dell’Università che, oltre a manifestare contro l’élite politica, protestano per le crescenti tasse universitarie che stanno rendendo il diritto allo studio ancora più esclusivo in un Paese dove, secondo l’Unicef, quasi la metà dei giovani non ha accesso all’istruzione.
Senza dimenticare i frequenti blocchi di internet che affiancano la dura reazione delle forze dell’ordine durante manifestazioni e proteste. Rendere difficile l’accesso alla rete è infatti uno strumento repressivo adottato per limitare la capacità dei manifestanti di organizzarsi e mobilitarsi.
Non va meglio a esponenti del mondo della cultura critici nei confronti del governo. La scrittrice Tsitsi Dangarembga è stata condannata a sei mesi con condizionale per aver partecipato a proteste contro la difficile situazione economica, mentre il musicista Wallace Chirumiko, dopo aver espresso il proprio malcontento nei confronti della classe politica, è stato minacciato e costretto a cessare la propria attività.
La legge patriottica
Il culmine nell’adozione di strumenti repressivi è stato raggiunto un mese prima del voto con la Criminal law (Codification and reform) amendment bill. Meglio conosciuta come Patriotic bill, la «Legge patriottica» criminalizza chi deliberatamente mina la sovranità e l’interesse nazionale dello Zimbabwe.
Tuttavia, il tono vago della disposizione, denunciato da Amnesty International, ne facilita la manipolazione e applicazione a piacimento da parte del governo. È infatti a discrezione dell’élite politica decidere se, quando e nei confronti di chi applicare condanne che vanno dalla perdita della cittadinanza, all’incarcerazione a vita, fino alla pena di morte. In violazione della Costituzione, che prevede la pena capitale solo in caso di assassinio con circostanze aggravate.
Esprimere il proprio dissenso diventa sempre più complesso e rischioso e, ancora una volta, sono colpite tutte le forme di opposizione: dalla politica, alla società civile, all’informazione. La libertà di espressione è stata ormai completamente messa al bando nel Paese.
Tanto che la portavoce della Ccc, Fadzayi Mahere, subito dopo l’approvazione della legge, ha affermato che Mnangagwa è addirittura peggiore di Mugabe e che ormai lo Zimbabwe si trova sotto piena dittatura. Il fatto che il provvedimento sia stato varato poco prima delle elezioni non è una casualità. Assieme agli strumenti repressivi già introdotti e alla onnipresente violenza elettorale, la Legge patriottica è un altro mezzo con cui la Zanu-Pf può mettere fuori gioco gli sfidanti più pericolosi.
Il paradosso di una «democrazia matura»
È stato in questo clima che lo Zimbabwe si è recato alle urne lo scorso agosto. I risultati comunicati dalla Zec non hanno riservato sorprese. Mnangagwa si è aggiudicato la presidenza per la seconda volta con il 52,6% dei voti, mentre Chamisa si è fermato al 44%. Festeggiando una rielezione scontata, Mnangagwa ha definito lo Zimbabwe una «democrazia matura» e ha detto di essere «orgoglioso che sia una nazione indipendente e sovrana». Tutto ciò nonostante l’opposizione abbia rifiutato il risultato e denunciato diverse irregolarità e brogli.
Prime tra tutte, le incongruenze nella registrazione degli elettori e nella definizione delle circoscrizioni. Alcuni votanti sono stati cancellati dagli elenchi, altri iscritti in sedi lontane chilometri. Alcuni seggi sono stati duplicati, altri posizionati in aree remote del Paese.
Oltre a tentare di scoraggiare la partecipazione elettorale degli zimbabwani residenti sul posto, ancora una volta, non è stata mantenuta la promessa del 2018 di permettere alla diaspora – circa 5 milioni di persone, il 30% della popolazione – di partecipare alle elezioni dall’estero, sostenendo che non fossero previsti collegi nelle sue aree di residenza. Una chiara dimostrazione dell’assenza di volontà politica di concedere diritto di voto a una frangia di popolazione il cui contributo alla fragile economia del Paese è significativo: secondo la Banca mondiale, nel 2021, le rimesse della diaspora erano pari a 2 miliardi di dollari, il 7% del Pil nazionale.
Non è andata meglio la giornata elettorale. Forti ritardi hanno costretto a mantenere aperti i seggi anche il giorno successivo: in alcuni distretti, tra cui Harare, fortezza dell’opposizione, le schede sono arrivate solo nel pomeriggio. Mentre Netblocks (organizzazione che monitora la libertà di accesso a internet) ha denunciato come la connessione internet fosse sensibilmente peggiorata già il 22 agosto, rendendo difficile sia accedere alle informazioni sia permettere alle notizie di uscire dal Paese.
Violenze e intimidazioni nei confronti dell’opposizione, limiti nell’accesso a un’informazione imparziale e pochi giornalisti – soprattutto stranieri – accreditati a seguire il voto sono tra le problematiche denunciate dalla Zesn – di cui 40 membri sono stati arrestati – e dai pochi osservatori stranieri presenti.
Brogli e frodi sono proseguiti anche dopo la conclusione delle procedure elettorali. A inizio ottobre, Jacob Mudenda, portavoce dell’Assemblea nazionale e membro della Zanu-Pf, ha detto di aver ricevuto una lettera dal segretariato generale della Ccc che comunicava che 15 parlamentari non appartenevano al partito. I seggi erano stati immediatamente dichiarati vacanti, nonostante la Ccc avesse preso le distanze dal comunicato e ricordato di non avere un segretariato generale. Si trattava di una frode per tentare di ridurre il numero di parlamentari dell’opposizione e aumentare quelli della Zanu-Pf.
Crisi economica permanente
L’immagine dello Zimbabwe che emerge dopo il 23 agosto è simile – se non peggiore – a quella del Paese dopo una delle tante tornate elettorali manipolate da Mugabe. Uno scenario confermato da Freedom House (Ong Usa), che, analizzando lo stato della democrazia nel mondo, colloca lo Zimbabwe tra i paesi «non liberi».
Da decenni in una spirale di crisi economica e monetaria, disoccupazione e iperinflazione, il Paese ha accumulato un ingente debito con creditori esteri – nel 2022 pari a 14 miliardi di dollari, secondo la Banca africana di sviluppo – ed è prostrato dalle sanzioni occidentali varate all’epoca di Mugabe a causa delle violazioni dei diritti umani e in vigore ancora oggi.
Di fronte all’assenza di prospettive e alla sempre maggiore restrizione di diritti e libertà, molti giovani fuggono, cercando opportunità migliori negli stati vicini, ma anche in Europa e Stati Uniti. Al contempo, la classe politica corrotta continua a perpetuare il proprio potere, attraverso reti clientelari, senza preoccuparsi delle reali necessità della popolazione. La «seconda Repubblica» promessa da Mnangagwa, non è ancora arrivata.
Aurora Guainazzi
Guerra in Tigray. Le braci restano accese
La guerra interna in Etiopia è durata due anni. È intervenuta l’Eritrea e diverse altre potenze estere si sono «posizionate», in particolare fornendo armi. Un anno fa, la firma del cessate il fuoco, ma il conto delle vittime è elevatissimo e il Tigray è da ricostruire.
Due anni di combattimenti intensi. Di avanzate e di ritirate da ambo le parti. Di battaglie tra creste vertiginose e valli aspre. Una guerra fratricida, piena di vendette maturate in anni di tensioni represse. Un conflitto che ha fatto scricchiolare le fondamenta dell’Etiopia. Nel Tigray, tra il 2020 e il 2022, si sono confrontati l’esercito federale, che rispondeva agli ordini del governo di Addis Abeba, e le milizie tigrine, agli ordini del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). Ma tra gli attori sono comparsi anche le milizie amhara e l’esercito eritreo (che oggi è ancora presente nel territorio etiope). A un anno dalla firma del cessate il fuoco che cosa è rimasto sul terreno? Qual è l’eredità di quei durissimi 24 mesi che hanno segnato la regione settentrionale del Paese?
Le radici
Facciamo un passo indietro. La guerra in Tigray è scoppiata nel 2020, ma le radici del conflitto sono molto più profonde. I tigrini sono stati il nerbo delle forze che hanno destituito, negli anni Ottanta e Novanta, Menghistu Hailè Mariam. Alleate agli eritrei hanno condotto una guerriglia che ha deposto il «negus rosso», ha portato all’indipendenza dell’Eritrea e alla nascita, in Etiopia, di un regime di cui proprio i tigrini sono stati il centro per quasi un trentennio. Decenni duri nei quali dall’alleanza con gli eritrei si è passati a un’aperta contrapposizione tra Addis Abeba e Asmara, culminata nella guerra del 1998. Una guerra, quest’ultima, che, anche quando le armi sono state messe a tacere, ha lasciato un lunghissimo strascico di tensioni tra Etiopia ed Eritrea.
Solo l’avvento al potere del premier Abiy Ahmed (2018) ha portato a una svolta. Il nuovo leader, di etnia oromo, ha siglato una storica pace con l’Eritrea (nello stesso anno) e ha progressivamente messo ai margini il Tplf, che ha perso sempre più potere e si è arroccato nella propria regione di appartenenza. Le continue frizioni tra il governo federale di Addis Abeba e il Tplf hanno portato a un conflitto aperto nel gennaio del 2020. L’esercito federale ha condotto un’offensiva che ha, inizialmente, messo in un angolo le milizie tigrine. Solo nel giugno 2021 lo stato maggiore di Macallè è riuscito a prendere l’iniziativa e a lanciare una controffensiva che ha portato i propri reparti a 200-300 chilometri da Addis Abeba.
Nel frattempo, la disputa ha visto scendere in campo nuovi attori. A fianco del governo federale si sono schierate le milizie amhara, la seconda etnia dell’Etiopia che si contende con i tigrini alcune zone di confine tra le due regioni. Pochi mesi dopo è scesa in campo, a fianco del premier Abiy, anche l’Eritrea che, come abbiamo visto, aveva un antico conto da saldare con la dirigenza tigrina, ma, soprattutto, aveva pretese territoriali su una zona che confina tra Eritrea e Tigray. A supportare i tigrini è invece arrivato l’Esercito di liberazione oromo (Ola), formazione armata della frangia più estremista del popolo oromo (l’etnia più numerosa dell’Etiopia).
Gli scontri sono stati durissimi e a subire le conseguenze più forti è stato il Tigray. Senza corrente elettrica, senza collegamenti al web, senza medicine e con cibo scarso a scontare gli effetti più duri dei combattimenti è stata la popolazione civile. Amnesty International ha anche, a più riprese, denunciato i crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati soprattutto dai soldati eritrei nel nord del Tigray. Accuse rigettate da Asmara, ma che sono state confermate anche dai Medici per i diritti umani e dall’Organizzazione per la giustizia e la responsabilità nel Corno d’Africa che hanno denunciato le continue aggressioni sessuali, durante e dopo il conflitto, perpetrate dagli eritrei a danno delle donne tigrine.
Fine del conflitto
Nel 2022, il Tigray ha iniziato a cedere di fronte all’offensiva dell’esercito federale. Tra agosto e settembre 2022, l’entrata in scena dei velivoli senza pilota forniti ad Addis Abeba da Turchia, Iran ed Emirati arabi uniti ha permesso un’offensiva dell’esercito federale che ha messo in ginocchio i miliziani tigrini. Impossibilitati a sostenere ulteriormente lo scontro, i vertici del Tplf hanno quindi accettato di sedersi al tavolo in colloqui di pace mediati dall’Unione africana.
Il 2 novembre 2022 Addis Abeba e Macallè hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine al conflitto. Il bilancio di due anni di guerra è tragico. Secondo alcune stime sarebbero state circa 500mila le vittime, alle quali si aggiungerebbero due milioni di sfollati interni.
Il Tigray è distrutto, ma anche lo Stato federale avverte forti scricchiolii nel suo assetto istituzionale. «Addis Abeba – riporta una ricerca dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano – ha sempre sottolineato il carattere di questione interna [del conflitto], rivendicando la propria piena sovranità nazionale e il connesso diritto e dovere, in quanto governo legittimo, di applicare la legge su tutto il territorio nazionale, imponendo quindi l’autorità centrale sulla ribellione “terrorista” del Tigray». Una visione che mette in dubbio la costruzione federale dello Stato a vantaggio di un forte potere centrale. «Il Tplf – continua la ricerca Ispi – ha insistito nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del governo ritenuto illegittimo per essere rimasto in carica nel 2020 dopo la scadenza del suo mandato, il duro intervento armato con violazioni indiscriminate a danno dei civili e il prolungato isolamento del Tigray che ha causato una gravissima crisi alimentare e umanitaria».
L’internazionale
La guerra in Tigray ha però avuto anche forti ricadute internazionali. L’Europa ha subito preso le distanze da Addis Abeba, e Bruxelles ha imposto un embargo delle armi tanto verso l’Etiopia quanto verso l’Eritrea. Gli Stati Uniti, un tempo fedeli alleati del premier Abiy, si sono dimostrati molto critici nei suoi confronti. Una tensione che ha raggiunto il culmine con la sospensione dell’Etiopia dall’African growth and opportunity act, la legge statunitense che prevede agevolazioni commerciali in favore dei Paesi che rientrano entro certi canoni prefissati. A trarne vantaggio sono state la Cina e la Russia. Pechino ha dimostrato subito un sostegno incondizionato ad Addis Abeba e ha criticato sia le sanzioni sia l’interventismo di Usa e Ue. Anche la Russia ha sostenuto il premier Abiy parlando della guerra come «un affare interno» nel quale non interferire.
Altri due attori «minori» hanno tratto beneficio dal conflitto: la Turchia e l’Iran. Ankara ha riallacciato rapporti, fino ad allora freddi, con Addis Abeba. E ciò le ha garantito fruttuosi contratti nel settore della difesa, che hanno fruttato alle casse dei colossi turchi della sicurezza 51 milioni di dollari nel solo 2021. Non dissimile l’atteggiamento di Teheran che, come sottolinea la ricerca Ispi, «ha visto nelle tensioni tra Stati Uniti e Addis Abeba un’opportunità per mantenere profondità strategica nel Corno d’Africa».
La testimonianza
«L’Etiopia è lo specchio delle emergenze dell’Africa. Il Nord, al confine con il Somaliland, è stato investito da ondate di siccità. Il Sud è stato colpito dalle inondazioni. A Ovest devono fare i conti con 500mila rifugiati sudsudanesi e nella regione di Gambella con 80mila rifugiati sudanesi. E poi il Tigray che è uscito provato da due anni di guerra civile», a parlare è Giovanni Putoto, medico, responsabile della programmazione del Cuamm medici con l’Africa, organizzazione da anni impegnata nell’assistenza medica nel continente. Putoto è reduce da un recente viaggio in Tigray dove la sua organizzazione è stata chiamata a intervenire per supportare il sistema sanitario locale duramente colpito dalla guerra.
La tensione, racconta, non è terminata. I tigrini devono fare i conti con le rivendicazioni dei vicini amhara su territori confinanti. Non solo, ma devono continuare a sopportare la presenza dei reparti eritrei che non hanno abbandonato il territorio etiope. «Nel nostro viaggio – continua – non abbiamo visto militari eritrei. Sappiamo però che ci sono. Ce lo hanno testimoniato numerosi tigrini che abbiamo incontrato. Occupano ampie fasce di territorio al confine tra Etiopia ed Eritrea. Asmara non ha firmato l’accordo di pace e la loro presenza è un dossier che deve ancora essere affrontato e risolto da Addis Abeba».
Gran parte dei morti, spiega Putoto, sono stati civili: uomini, donne, bambini vittime degli scontri e delle privazioni causate dal conflitto. A questi si aggiungono gli sfollati. Sono migliaia, perlopiù concentrati nelle periferie delle città. Solo nel nord ovest del Tigray sono 400mila, la maggior parte all’interno dell’abitato di Shire. Le condizioni della popolazione sono drammatiche. La malnutrizione acuta e grave è elevata, soprattutto nei bambini. Una situazione aggravata dalla sospensione degli aiuti in cibo da parte del Programma alimentare mondiale disposta a seguito dello scandalo della sottrazione di derrate da parte delle autorità etiopi.
I leader tigrini hanno denunciato la morte per inedia di almeno 50mila persone a causa del mancato arrivo degli aiuti alimentari. Cifre che non possono essere verificate, ma che tracciano la situazione drammatica della regione. «Il sistema sanitario è al collasso – osserva Putoto -. In tutto il Tigray un solo ospedale è in grado di fare parti cesarei e trasfusioni di sangue, parametri minimi per stabilire se una struttura sanitaria funziona. Gli altri ospedali sono chiusi o sono stati intenzionalmente distrutti dalle truppe eritree. Solo il 20-30% dei centri sanitari è operativo. Il personale sanitario è deceduto o non lavora perché senza retribuzione. Mancano quindi operatori e farmaci. Le uniche strutture che funzionano sono quelle di proprietà della Chiesa cattolica che hanno fatto un lavoro preziosissimo. Anche le scuole sono chiuse. I ragazzi e le ragazze crescono per strada, lontano dalle aule».
Il Tigray ha di fronte a sé la necessità di ricostruire. «È una sfida enorme – continua Putoto – perché non si tratta solo di riabilitare le infrastrutture distrutte o danneggiate, ma di ricreare i quadri professionali che sappiano guidare questa ricostruzione. C’è tantissimo da fare per restituire ai tigrini un sistema scolastico, sanitario e produttivo funzionante».
Enrico Casale
La storia di un missionario formatore in Etiopia
Una vita in seminario
Padre Antonio Vismara ha dedicato la sua vita all’Etiopia, pur avendo lavorato anche in Kenya e Italia. La sua vocazione è stata quella di fare il formatore di altri missionari. E ha pure avuto la fortuna di avere a fianco un gruppo di appoggio inossidabile.
Padre Antonio Vismara è nato nel 1942 a Ossona, in provincia di Milano. Terzo figlio, dopo un fratello e una sorella. Ottenuto il diploma da disegnatore tecnico scopre la vocazione e intraprende il percorso per diventare missionario. Nel giugno del 1972 è ordinato sacerdote. Alla fine dello stesso anno parte per l’Etiopia e inizia la sua missione a Meki.
Lo incontriamo nella Casa madre dei Missionari della Consolata a Torino, dove vive dal 2021.
«Fin dall’inizio il fondatore (Giuseppe Allamano) ha sognato l’Etiopia, ma noi (missionari in quel paese, ndr) diciamo che questo sogno non si è mai realizzato», ci confida con un sorriso sornione.
Perché? Gli chiediamo. Oggi ci sono diversi missionari etiopici nell’istituto, questo è già un bel risultato. «Il governo non ha mai realmente accettato i missionari, volendo piuttosto progetti di sviluppo sociale. E neppure la Chiesa ortodossa ci ha mai voluti – continua padre Antonio -. Noi eravamo sul posto con dei visti di lavoro, realizzavamo progetti, e a fianco abbiamo fatto chiese, parrocchie, comunità cristiane, che sono molto attive anche oggi». Le difficoltà per ottenere visti e permessi di soggiorno ci sono sempre state, ma negli ultimi anni si sono inasprite. È quasi un dire: «bastiamo noi, non vogliamo più stranieri».
Oltre a diversi missionari etiopi e alcuni keniani, come missionari della Consolata oggi sono presenti nel paese padre Edoardo Rasera, padre Marco Martini e fratel Vincenzo Clerici.
Padre Antonio apprezza molto i missionari etiopi: «Sono molto fedeli, perché attingono dalla lunga tradizione dei monaci».
Ma andiamo con ordine. Padre Antonio ha iniziato il suo lavoro a Meki, sede del vicariato nel 1973, poi ha lavorato anche a Modjo, nello stesso vicariato. I suoi incarichi sono stati fin da subito nel campo della formazione dei nuovi missionari, ruolo che ha mantenuto sempre: «Una vita in seminario», ci dice ridendo. Seguiva gli aspiranti missionari con lezioni sulla spiritualità dell’istituto, incontri personali, e con il discernimento. Aveva studiato teologia tra Torino e Washington e aveva fatto anche un corso per formatori.
«Negli anni Ottanta lavoravo con il vescovo Yohannes Woldegiorgis. Quando il vescovo morì (nel 2002, ndr), mi chiesero di sostituirlo. Ma dissi loro, “no, qui ci vuole un etiope”. L’Etiopia è troppo complicata, occorreva un locale per districarsi», dice, quasi a giustificarsi.
Dopo l’Etiopia, ha lavorato per tredici anni al seminario di Bravetta a Roma, e poi otto in Kenya, al seminario di Nairobi.
È nel 2005 che viene richiamato in Etiopia dove è diventato superiore regionale e, successivamente, formatore al seminario di Addis Abeba: «Tenevo lezioni sulla nostra identità come missionari della Consolata, al pomeriggio, dopo i corsi universitari. Poi ero a disposizione per i cosiddetti dialoghi personali, perché la teologia insegnata in classe pone delle domande, ma la scuola soltanto non può rispondere perché sono questioni troppo personali». L’ultimo periodo etiopico il missionario lo ha passato nuovamente a Modjo.
In tutti questi anni padre Antonio è stato accompagnato da un gruppo di amici, il «Gruppo Meki». Costituitosi nel 1973 a Ossona, nella sua parrocchia di provenienza, è composto da volontari, lo ha sempre appoggiato raccogliendo e inviando fondi per i suoi progetti sul campo, e facendo qualche visita. «Il gruppo è ancora attivo, dopo cinquant’anni. Io scrivo loro e vado a trovarli regolarmente. Loro continuano ad appoggiare le missioni a Meki», conclude con soddisfazione.
Marco Bello
Usa-Vietnam: da nemici a partner strategici
Il 10 e 11 settembre il presidente degli Stati Uniti è stato in visita ufficiale in Vietnam, invitato dal segretario generale del Partito comunista vietnamita. Durante la visita è stato siglato un importante accordo.
Il presidente statunitense, Joe Biden, ha compiuto una visita di due giorni in Vietnam, il 10 e 11 settembre scorso. È stato invitato dal segretario generale del Partito comunista vietnamita (Pcv), Nguyen Pu Trong, di fatto la carica politica più importante nel Paese.
Usa e Vietnam hanno ristabilito relazioni diplomatiche, dopo la guerra, da quasi trent’anni: la normalizzazione è infatti avvenuta nel luglio 1995, quando Bill Clinton era presidente Usa.
I due paesi, negli anni, sono arrivati a un livello di scambio economico elevato, ma il 10 settembre hanno firmato il cosiddetto «partenariato strategico integrale per la pace, la cooperazione e lo sviluppo sostenibile». Si tratta del livello più alto di partenariato previsto dal paese asiatico con altri stati, e, prima di oggi, era stato siglato solo con Russia, Cina, India e Corea del Sud.
Il Vietnam deve mantenere un equilibrio difficile con la Cina, la quale, da un lato è il suo maggiore partner commerciale, dall’altro mostra strapotere e invadenza nelle acque del Mar cinese meridionale (in Vietnam chiamato Mare orientale).
Una buona relazione con gli Usa, a livello geopolitico, può aiutare in questo equilibrismo, pur evitando di schierarsi. Il Vietnam adotta la cosiddetta diplomazia del bambù, definita dallo stesso segretario generale come avente «radici forti, fusto solido, ma rami flessibili».
Gli Usa, invece, cercano alleanze in chiave anticinese nell’area dell’Indo-Pacifico, oggi la più strategica a livello mondiale.
È inoltre fondamentale per entrambi l’aspetto economico della relazione: «Il segretario generale [del Pcv] si è complimentato per la forte promozione della cooperazione economica, commerciale e degli investimenti, oltre che per la crescita economica inclusiva nella direzione dell’innovazione, centrale nelle relazioni tra i due paesi», riporta il Courrier du Vietnam, giornale di Hanoi in lingua francese.
Il partenariato è stato seguito dalla firma di una serie di accordi commerciali.
Secondo Christophe Paget, giornalista di Radio France international, «nel 2022 Il Vietnam è diventato il settimo mercato di esportazione degli Usa, superando il Regno Unito, mentre per il Vietnam gli Usa sono il primo mercato di esportazione».
Inoltre, le difficoltà commerciali degli Usa con la Cina in questa fase, spingono gli americani a cercare altre sponde. In particolare per i semiconduttori, ma anche per le terre rare, di cui il Vietnam è uno dei paesi con le maggiori riserve al mondo.
L’incontro di inizio settembre è solo una tappa del percorso. Lo scorso giugno Biden ha mandato una lettera d’invito a Trong per una visita ufficiale negli Usa.
Tutti i paesi sono indebitati. Al Nord come al Sud del mondo. Eppure, le conseguenze del debito sono molto diverse. Per pagare i creditori i paesi poveri non forniscono ai propri cittadini neppure i servizi minimi di salute e istruzione. Oppure, semplicemente, falliscono. Come sta accadendo.
Tutti i governi del mondo sono indebitati, quelli ricchi più di quelli poveri, ma i primi se ne preoccupano di meno perché sono capaci di farcela meglio. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), a fine 2021, il debito pubblico complessivo ammontava a 90mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non dovrebbe far dormire la notte se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. Questo perché, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti che, messi assieme a quelli pubblici, a fine 2021 ammontavano a 235mila miliardi di dollari. Di questi quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 38%.
Il debito pubblico dei paesi ricchi
Il Fondo monetario internazionale suddivide il debito pubblico mondiale in due gruppi: quello dei paesi avanzati e quello dei paesi emergenti e in via di sviluppo. I paesi avanzati comprendono una quarantina di stati, che complessivamente ospitano un miliardo di persone (12,5% della popolazione mondiale), a cui è garantito un reddito medio pro capite di 55mila dollari l’anno. I paesi emergenti e in via di sviluppo rappresentano gli altri 160 stati che, complessivamente, ospitano sette miliardi di persone (87,5% della popolazione mondiale), che vive con un reddito medio pro capite di 7mila dollari l’anno. Il 68% del debito pubblico mondiale è a carico dei paesi avanzati. Fra essi il più indebitato in termini assoluti sono gli Stati Uniti che, a fine 2022, avevano un debito pubblico pari a 31mila miliardi di dollari. Ma in termini relativi, ossia in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), il debito pubblico più alto del mondo è quello giapponese pari al 227% del Pil, mentre quello statunitense è al 124%. Quanto all’Italia, il suo debito pubblico al 31 dicembre 2022 era attestato a 2.764 miliardi di euro pari al 145% del Pil. Fra i paesi emergenti, quello col debito pubblico più alto è la Cina, con 10mila miliardi di dollari, all’incirca un terzo di tutto il debito di questa parte di mondo.
In media, i paesi avanzati hanno un debito pubblico pari al 111% del proprio Pil. Quelli in via di sviluppo solo il 67% del loro Pil. Una diversità di carico che emerge anche dal debito pro capite. Su ogni abitante della parte ricca del mondo grava una quota di debito pubblico media pari a 67mila dollari. Sugli abitanti del resto del mondo, invece, gravano solo 4.400 dollari. Eppure la condizione di questi ultimi è assai peggiore dei primi perché le conseguenze del debito non dipendono solo dal suo ammontare, ma da varie altre variabili sintetizzabili in tre punti: verso chi è stato contratto il debito, con quale valuta, con quale capacità fiscale.
Le banche centrali e la creazione di moneta
Partendo dal primo punto, «verso chi», le possibilità sono due: verso soggetti interni o verso soggetti esteri. Nel primo caso la situazione è molto più gestibile e leggera che nel secondo. Si veda, come esempio, il Giappone che, pur avendo il debito pubblico più alto del mondo, non crea eccessivi allarmismi perché esso è essenzialmente verso i propri cittadini e verso la propria banca centrale. Quest’ultima, per statuto, deve collaborare in maniera stretta con il governo e deve assisterlo nelle sue esigenze finanziarie se necessario concedendogli anche prestiti tramite emissione di nuova moneta. Ad oggi il 43% del debito pubblico giapponese figura come debito verso la Banca centrale del Giappone e ha la caratteristica di poter essere definito un «debito non debito» perché, pur esistendo da un punto di vista contabile, non sortisce alcun effetto da un punto di vista pratico.
Tutti i paesi del Sud del mondo dispongono di una banca centrale, che magari ha anche il compito di colmare i deficit di bilancio creati dal proprio governo. Ma va precisato che l’intervento della banca centrale può andare a segno senza contraccolpi soltanto se attuato in paesi economicamente forti. Se si immette nuovo denaro in paesi con una struttura produttiva fragile, l’effetto più probabile è l’inflazione, ossia la crescita dei prezzi. Semplicemente perché l’apparato produttivo non riesce a rispondere alla nuova ondata di domanda provocata dall’emissione di nuova moneta. Un esempio è l’Argentina. Nel 2020 il governo di Fernandez decise di effettuare spese a debito con emissione di nuova moneta, ma nell’agosto 2022 dovette cambiare politica per un’inflazione che aveva raggiunto il 100%.
Tra prestiti interni e prestiti esteri
L’alternativa è il ricorso ai prestiti di origine interna o di provenienza estera. Quelli di origine interna sono in valuta locale e possono venire dai risparmi dei cittadini o dal sistema bancario locale.
Il Fondo monetario internazionale stima che il 30% del debito pubblico dei paesi emergenti è detenuto dalle banche locali. Con differenze che possono essere molto ampie fra paese e paese. Ad esempio, in Uruguay le banche private detengono appena il 10% del debito pubblico, in Cina l’80%. Dati altrettanto particolareggiati sugli altri creditori locali, purtroppo, non circolano, per cui non è possibile tracciare un quadro preciso sulla composizione dei creditori interni dei governi del Sud.
Invece, esistono statistiche molto accurate sul debito verso soggetti esteri, evidentemente perché ci riguarda. Infatti, si tratta di debito contratto verso le nostre banche, i nostri governi, i nostri investitori e verso i guardiani dell’ordine economico internazionale, ossia il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Una quota controllata a vista dalle nostre istituzioni timorose di perdite, ma mai persa di vista neanche dai governi del Sud considerato che deve essere restituita in dollari, euro e altre valute estere che non possiedono, o possiedono in maniera molto limitata.
Cumulativamente i governi del Sud del mondo sono indebitati verso il resto del mondo per 5.200 miliardi di dollari, all’incirca il 15% del proprio debito complessivo. Ma, oltre ai governi, anche imprese, banche e altri soggetti privati del Sud del mondo sono indebitati con soggetti esteri, per cui il debito complessivo dei paesi emergenti verso l’estero ammonta a 9mila miliardi di dollari secondo la Banca mondiale, a 11mila, secondo la conferenza su commercio e sviluppo delle Nazioni Unite (l’Unctad).
Le conseguenze della esportazione di capitali
In ogni caso, tutti concordano nel riconoscere che è difficile tracciare una linea di demarcazione netta fra debito estero di tipo pubblico e debito estero di tipo privato, perché qualsiasi pagamento da effettuare in valuta estera, presuppone riserve in dollari o in euro che tocca ai governi garantire. Per questo assumono grande importanza eventuali squilibri che si vengono a creare con l’estero in ambito commerciale.
Un esempio è il Malawi, che nel 2022 ha visto balzare la quota di entrate pubbliche destinate al servizio del debito estero dal 5% al 44%, come conseguenza dell’enorme quantità di debito in dollari contratto dalle banche locali per coprire i costi di importazione di prodotti vitali.
Oltre che dai maggiori costi per le importazioni, le riserve di valuta estera possono essere corrose anche da altre operazioni come i prestiti richiesti da banche e imprese locali per il perseguimento dei propri fini. Senza dimenticare i capitali trafugati all’estero non sempre sottobanco, ma a volte legalmente, come mostra il caso argentino. Nel 2018-2019 in Argentina il governo Macrì legiferò a favore della libertà di esportazione di capitali che provocò al paese uno squilibrio nei conti con l’estero per decine di miliardi di dollari. Un deficit a cui venne posto rimedio tramite un prestito di 40 miliardi di dollari ottenuto dal Fondo monetario internazionale.
Un’operazione a favore delle classi più ricche fatta sulle spalle di tutta la comunità, perché ora tocca al popolo argentino ripagare il debito verso il Fondo.
Oltre che dalle scelte compiute da governi e soggetti economici, il debito verso l’estero risente molto di tutto ciò che si muove sullo scacchiere internazionale. Basta un’inversione di marcia nell’andamento economico, l’alterazione di prezzo di beni strategici, la variazione dei tassi di interesse da parte delle grandi economie, e il debito verso l’estero si può fare più leggero o più pesante.
Secondo la Banca mondiale, dal 2010 al 2021 il debito estero complessivo dei paesi emergenti è più che raddoppiato, passando da 4mila a 9mila miliardi di dollari. E se, nei primi anni, l’aumento era imputabile al maggiore dinamismo degli operatori economici del Sud, che si affacciavano sulla scena internazionale per ottenere maggiori prestiti a scopi produttivi, dal 2019 l’aumento è imputabile a fenomeni mondiali che si sono mossi per conto proprio. Primo fra tutto la recessione mondiale da Covid che ha provocato una riduzione delle esportazioni del Sud con conseguente riduzione degli introiti in valuta estera. E se nel 2021 c’era stata una ripresa, nel 2022, due fatti nuovi hanno riportato i paesi del Sud del mondo nella tormenta.
Per primo, l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari e dei prodotti energetici, come conseguenza della guerra in Ucraina. Per secondo, l’aumento dei tassi di interesse a seguito di un cambio di politica delle banche centrali occidentali che ormai avevano come principale obiettivo il contenimento dell’inflazione.
È stato per il convergere di questi due fenomeni che la situazione debitoria del Sud del mondo verso l’estero si è fatta particolarmente critica soprattutto per i paesi più fragili e più dipendenti dall’estero.
L’Egitto, ad esempio, nel corso del 2022 ha bussato sia alle porte degli Emirati arabi uniti che del Fondo monetario internazionale per ottenere in prestito alcuni miliardi di dollari utili a fronteggiare l’aumento dei prezzi dei cereali acquistati sul mercato mondiale. Un nuovo debito ottenuto a condizioni più svantaggiose per effetto dell’aumento dei tassi di interesse a livello internazionale.
I creditori del Nord e il servizio del debito
Nel 2021, la somma inviata dai governi del Sud del mondo ai vari creditori del Nord per interessi sul debito è ammontata a 115 miliardi di dollari. Nel 2010 ammontava a 47 miliardi di dollari. Quindi, in dieci anni, l’aumento è stato del 144%. Se poi agli interessi aggiungiamo la quota restituita come capitale, troviamo che la somma complessiva inviata dai governi del Sud ai creditori del Nord, ammonta, nel 2021, a 400 miliardi di dollari.
Come dire che, in quest’anno, il Sud del mondo ha destinato al servizio del debito il 14,3% delle proprie entrate pubbliche, mentre nel 2010 ne destinava solo il 6,8%. Il calcolo è dell’organizzazione britannica Jubilee Campaign, che però avverte come esistano ampie differenze tra paese e paese.
In Sri Lanka, ad esempio, il servizio del debito estero assorbe il 60% delle entrate pubbliche, nello Zambia il 45%, in Angola il 33%, in Mozambico il 25%. Tutti paesi incapaci di garantire ai propri cittadini i servizi minimi di tipo sanitario ed educativo. E, tuttavia, ormai incapaci di onorare i propri impegni anche nei confronti dei creditori, considerato che Sri Lanka, Ghana e Zambia hanno già dichiarato fallimento.
Vari altri paesi rischiano di seguire la stessa sorte, per cui lo stesso Fondo monetario internazionale chiede di intervenire per alleggerire la situazione debitoria del Sud del mondo. Che tradotto significa disponibilità dei creditori ad annullare almeno parte del debito. Ma l’impresa non si presenta facile considerato che il 63% del debito estero dei governi del Sud è verso banche e altri soggetti privati a cui nessuno vuole porre regole.
Francesco Gesualdi
Nemici ieri, partner oggi
Le tensioni tra Washington e Pechino spingono i paesi asiatici a schierarsi. In Vietnam i segni della guerra con gli Usa, conclusa nel 1975, sono talvolta ancora visibili, ma i rapporti con la Cina non sono mai stati distesi. E anche il principale fornitore di armi, la Russia, sta dando forfait. Così Hanoi guarda sempre più oltre il Pacifico.
«Guarda, è quello che rimane della Città proibita purpurea». Thang punta il dito e nella sua voce fin lì squillante e divertita subentra una punta di tristezza. Aveva 8 anni quando, nel 1968, l’antica capitale di Hue divenne il teatro di una delle più lunghe e sanguinose battaglie della guerra del Vietnam. Compresa la cittadella imperiale, simbolo della dinastia Nguyen, che era riuscita a unire da nord a sud il territorio vietnamita dopo tanti infruttuosi tentativi.
Hue si trova nel Vietnam centrale, a pochi chilometri dall’antica zona demilitarizzata tra l’allora Vietnam del Nord e Vietnam del Sud.
La cittadella era stata danneggiata una prima volta nel 1947, quando i francesi avevano preso d’assedio la città occupata dai Viet Minh (Lega per l’indipendenza del Vietnam, ndr): molte delle strutture principali erano state colpite. Ancora peggiori furono le conseguenze di quanto accadde tra il 31 gennaio e il 2 marzo del 1968, settimane in cui l’antica capitale e la sua cittadella contenente edifici e opere di valore inestimabile divennero l’epicentro del conflitto.
L’Esercito popolare del Vietnam e i soldati Viet Cong (termine dispregiativo con cui erano chiamati i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, ndr) arrivarono a conquistare la maggior parte della città. L’ordine era quello di distruggere l’apparato amministrativo del Vietnam del Sud e punire spie e reazionari. Quelli identificati vennero portati fuori dalla città per essere «rieducati». Pochi avrebbero fatto ritorno. Quelli ritenuti colpevoli dei «crimini» più gravi furono processati e giustiziati.
Gli Stati Uniti prepararono il contrattacco, ma alle truppe venne ordinato di non bombardare la città per paura di distruggere i numerosi edifici storici, nonché per rispetto nei confronti dello status religioso di Hue, dove ancora oggi sorgono, lungo il fiume dei Profumi, le celeberrime e lussuose tombe degli imperatori. Dopo settimane di combattimenti casa per casa, proprio la cittadella divenne il fronte di combattimento. I Viet Cong occuparono diversi edifici e installarono dei cannoni anti aerei sulle torri esterne. I sudvietnamiti riuscirono comunque a entrare nel sito, sostenuti dai bombardamenti americani, ai quali era stato infine dato il via libera. Alcuni di questi colpirono direttamente edifici in cui erano piazzati cecchini rivali. I combattimenti avvennero tra giardini, fossati e padiglioni. Si arrivò a sparare anche alle porte del palazzo imperiale, dove si erano rifugiati i Viet Cong. Molte delle mura e delle porte vennero ridotte a poco più che macerie. Dei 160 edifici originari, solo 10 siti principali sono rimasti in piedi dopo la battaglia.
Circa 100mila persone furono sfollate dalla città, dove lungo le strade rimasero insepolti centinaia di cadaveri. Le vittime furono numerose: morirono 216 militari statunitensi e 421 soldati sudvietnamiti, e poco meno di cinquemila militari da entrambe le parti restarono feriti.
La battaglia causò la morte di circa quattromila civili. Tra questi, anche alcuni familiari di Thang, che oggi accompagna i turisti in ciclorisciò tra le mura della cittadella. «Ho perso i miei zii e uno dei miei cugini. Era tremendo, eravamo tutti senza acqua e non sapevamo dove andare o dove trovare rifugio. Avevamo paura sia dei nordvietnamiti che cercavano le presunte spie, sia delle bombe degli americani», racconta. «Mi fa impressione leggere che la battaglia è durata circa un mese. Quando ero piccolo ero convinto che fosse durata molto di più, quasi come un’intera epoca della mia vita».
I segni della guerra
Osservando le grandi porte d’ingresso, il sontuoso palazzo Dien Tho e il laghetto pieno di carpe del padiglione Truong Du è difficile credere che questa enorme cittadella sia, suo malgrado, anche uno dei simboli della violenza del conflitto. Eppure, guardando bene, i segni di quella battaglia sono ancora presenti.
Ci sono quelli visibili a occhio nudo, nonostante i decenni di ricostruzione che hanno reso la città una popolare attrazione turistica. Diversi fori di proiettile sono ancora lì in alcune parti delle mura della città, mentre al museo storico e rivoluzionario sono esposti diversi cimeli militari, tra cui un carro armato M48 Patton e un aereo da attacco leggero A-37 Dragonfly della Marina statunitense.
E poi ci sono i segni non visibili agli occhi, ma percepibili attraverso ragione e sentimenti. «Meglio di tanti altri, qui conosciamo che cosa significa subire le devastazioni della guerra», sospira Ngoc, celando per un momento il sorriso mai interrotto durante tutta la cena presso il suo ristorante di cucina locale. «Per questo ora siamo preoccupati da quanto sta succedendo in Ucraina, ma anche e soprattutto dalla tensione tra Stati Uniti e Cina». Suo malgrado, Hue è stata uno dei principali campi di battaglia (indiretti) tra le due superpotenze e l’Unione Sovietica durante la guerra fredda. Ora il timore è che l’assenza di dialogo tra Washington e Pechino porti a una nuova epoca di divisioni in blocchi, costringendo i vari paesi asiatici a scegliere da che parte stare. Una scelta che Hue, il Vietnam e in generale tutto il Sud Est asiatico non vorrebbero compiere.
Proprio il caso del Vietnam è forse il più emblematico dell’intera regione. Il paese ha conosciuto la colonizzazione occidentale e combattuto l’America, ma ha anche vissuto sotto la dominazione cinese per oltre mille anni, tra il terzo secolo avanti Cristo e il decimo secolo dopo Cristo, per restare poi a lungo uno stato tributario dell’impero cinese e subire diverse altre invasioni di cinesi e mongoli. Ancora oggi, le iscrizioni dei palazzi della cittadella imperiale di Hue sono in caratteri cinesi.
I vicini scomodi
Nonostante la vicinanza politico ideologica, i rapporti tra Repubblica popolare cinese e Repubblica socialista del Vietnam non sono mai stati del tutto distesi. Nel 1979 ci fu anche una guerra durata un mese, risultato della tensione per il sostegno di Hanoi all’Unione Sovietica (in un momento di grande contrasto con Pechino che si stava aprendo agli Usa) e dell’invasione vietnamita della Cambogia, causa della deposizione dei Khmer Rossi, tradizionali alleati della Cina.
Oggi i rapporti politici tra i due partiti comunisti sono cordiali. E i rapporti commerciali tra i due paesi sono floridi.
Ma questa cordialità si tesse su uno sfondo sempre più evidente di tensioni per alcune dispute territoriali sul Mar Cinese meridionale, intorno ai due arcipelaghi Spratly e Paracelso. A quest’ultimo è dedicato un museo nella città marittima di Da Nang, circa 100 chilometri a sud di Hue. Tre piani di esposizione per raccontare la storia di quelle che qui vengono chiamate isole Hoang Sa (letteralmente «sabbia gialla») e rivendicare su di esse la sovranità vietnamita, che trova spazio anche in alcune mappe esibite in altri musei della zona.
Dall’apertura nel 2018, circa la metà dei suoi visitatori sono stati studenti che, attraverso mappe, fotografie e altri documenti, apprendono la versione ufficiale di Hanoi, secondo cui le isole sono del Vietnam e non della Cina. È una questione seria e molto attuale, tanto che l’anno scorso è stata vietata la distribuzione del blockbuster americano Uncharted, perché un frammento di due secondi mostra l’immagine di una mappa che recepisce tutte le rivendicazioni territoriali cinesi.
Il capo del dipartimento del cinema, chiamato a censurare i prodotti culturali non in linea con la sicurezza nazionale, ha spiegato il divieto di distribuzione del film citando una «immagine illegale dell’infamante linea dei nove tratti».
Acque contese
All’esterno del museo di Da Nang si trova il peschereccio 90152 TS. Affondato nel 2014 durante uno scontro con una nave di sorveglianza marittima cinese vicino alle isole Paracelso, il suo equipaggio è stato salvato da un’altra barca vietnamita. Un episodio che ha segnato molto i rapporti bilaterali degli ultimi anni, simboleggiando anche la differenza di capacità navali e militari dei due paesi. In quell’occasione, infatti, la nave cinese più grande e con scafo in acciaio ha sopraffatto quella vietnamita più piccola e in legno. La Cina sostiene che la nave vietnamita avesse «molestato» un peschereccio cinese.
D’altronde, le acque contese tra Pechino e Hanoi sono ricche di risorse naturali (cfr MC, giugno 2014). Tanto che al loro interno il governo vietnamita ha assegnato concessioni petrolifere ad aziende nazionali e straniere. Anche se di recente il governo ha dovuto accettare di pagare circa un miliardo di dollari a due compagnie petrolifere internazionali (la spagnola Repsol e la Mubadala degli Emirati arabi uniti) dopo aver annullato le loro operazioni nel Mar Cinese meridionale in seguito alle crescenti manovre militari della Cina. Hanoi ha spesso avanzato rimostranze per delle esercitazioni militari svolte all’interno di un’area che il governo vietnamita ritiene come parte della sua zona economica esclusiva, non riconosciuta da Pechino.
Guardare altrove
Il Vietnam è uno dei paesi che meno si è espresso pubblicamente sulla guerra in Ucraina. Ma forse è tra quelli che guarda con maggiore preoccupazione alle sue conseguenze. Anche perché il Vietnam forse più di chiunque altro rischia una sorta di «accerchiamento», confinando non solo con la Cina ma anche con Cambogia e Laos, vale a dire i due paesi della regione maggiormente inseriti negli ingranaggi di Pechino.
Il premier cambogiano Hun Sen, che si appresta a vincere le ennesime elezioni senza rivali a luglio (la rivista è stata chiusa prima della data elettorale, ndr), sembra peraltro disposto a garantire accesso alle navi cinesi nella base militare di Ream. Come altri paesi vicini il Vietnam teme un potenziale crescente allineamento tra Cina e Russia. Sinora, infatti, Hanoi aveva sapientemente dosato i rapporti con Pechino e Mosca sfruttando le evidenti asimmetrie della loro relazione.
Se la Cina è da tempo il primo partner commerciale del Vietnam, la Russia è sempre stata il primo fornitore di componenti militari. Dal 2000 al 2021, l’80 per cento delle armi acquistate dal Vietnam provenivano da Mosca. A fine 2021, i governi dei due paesi hanno siglato un nuovo accordo per espandere ulteriormente la cooperazione militare. Ma la guerra in Ucraina sta rendendo più complicato per il Cremlino continuare a garantire le esportazioni nel settore della difesa. Tanto che Mosca starebbe già riportando a casa armi promesse a partner regionali come Myanmar e India, ritardando consegne ad Hanoi e non solo.
Ecco allora che il Vietnam è costretto a guardare altrove. E quell’altrove possono essere gli Stati Uniti che, dopo un embargo decennale, sono pronti a rifornire di componenti militari anche Hanoi. Negli scorsi mesi, si è svolta la più grande missione «di sistema» di aziende americane in Vietnam di sempre. Presenti anche Lockheed Martin e Boeing, che gestiscono contratti milionari per spedire elicotteri e droni armati.
Il segretario di Stato Antony Blinken ha partecipato alla posa della prima pietra della nuova ambasciata americana ad Hanoi, che diventerà una delle sedi diplomatiche con l’edificio più costoso dell’Asia. Non solo. Joe Biden ha telefonato a Nguyen Phu Trong, segretario generale del Partito comunista, proprio nel giorno dell’apertura del suo secondo summit della democrazia, invitandolo a Washington. Un atto inusuale, visto che solitamente la Casa Bianca si confronta con il presidente vietnamita, una figura più cerimoniale. Trong ha, invece, accentrato molto il potere, sbaragliando tutti i rivali interni al Partito con la feroce campagna anticorruzione della «fornace ardente». Tanto da ottenere uno storico terzo mandato, rompendo il vincolo dei due mandati introdotto da Le Duan, ancora prima che lo facesse Xi Jinping in Cina.
Fabbriche hi tech
Da ultimo, proprio il presidente Nguyen Xuan Phuc è stato costretto alle dimissioni da un’inchiesta giudiziaria che lo ha lambito ed è stato sostituito da Von Van Thuong, fedelissimo di Trong. Ma tutto questo non sembra essere un problema per Usa e occidente, che hanno individuato proprio nel Vietnam la base perfetta per spostare linee di produzione in uscita dalla Cina, nel tentativo di «riduzione del rischio» di esposizione al mercato della Repubblica popolare.
Si tratta di un fenomeno incentivato dagli accordi di libero scambio sottoscritti da Hanoi con Unione europea e Regno Unito. Ma anche dagli effetti collaterali delle tensioni tra Pechino e Washington. Negli ultimi anni, sempre più colossi digitali americani e loro fornitori (tra cui Apple) hanno messo radici in Vietnam. Comprese fabbriche ad alto valore tecnologico. Tutti segnali di un rapporto che potrebbe presto conoscere un rafforzamento anche a livello politico difensivo. Ciò non significa che il Vietnam verrà «arruolato» dagli Stati Uniti nella loro strategia di «contenimento» della Cina. Hanoi proverà a continuare a mantenere la sua cosiddetta diplomazia del bambù. Piantato solidamente nel terreno, ma agile nel flettersi secondo il vento.
Così il Vietnam cerca di restare in piedi e navigare le acque agitate della contesa tra le super potenze. D’altronde, qui più che altrove, forse si spera che il confronto non si tramuti mai in conflitto. «Anche perché in caso contrario sappiamo già chi ne pagherà subito le conseguenze», dice Thang, abbassando il dito che indicava ciò che resta della Città proibita purpurea di Hue.
Lorenzo Lamperti
«Sbilanciamoci» anche noi
Ogni anno, negli splendidi ambienti di Villa d’Este di Cernobbio, sul lago di Como, si svolge il Forum internazionale Ambrosetti dedicato ai grandi temi globali e all’economia. Da tempo (la prima edizione fu nel 2003), la campagna «Sbilanciamoci!» organizza in contemporanea un forum alternativo, chiamato «contro Cernobbio» o «altra Cernobbio», in cui i temi dell’economia sono affrontati da punti di vista «altri», diversi, quando non opposti, da quelli del Forum Ambrosetti.
Tutto normale fino allo scorso 28 luglio quando gli organizzatori di Sbilanciamoci! hanno saputo che il loro controforum («La strada maestra. Ambiente, diritti, lavoro, pace: la nostra Costituzione»), in calendario per l’1 e 2 settembre, è stato vietato dal comune di Cernobbio per «motivi di ordine pubblico». Come se economisti, attivisti, volontari di Sbilanciamoci! fossero dei pericolosi sovversivi.
«È una decisione gravissima: lede l’articolo 17 (diritto di riunione) e l’articolo 21 (diritto d’espressione) della Costituzione repubblicana», ha scritto Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci!, la campagna che raggruppa 51 organizzazioni e reti della società civile italiana – tra esse Pax Christi, Mani Tese, Nigrizia, Altreconomia, Emergency, Medicina democratica, Legambiente, Wwf – impegnate sui temi della spesa pubblica e delle alternative di politica economica.
Quest’anno Cernobbio ospiterà – come sempre – il Forum Ambrosetti, ma non quello di Sbilanciamoci!, che dovrà spostarsi a Como. Una brutta pagina per la democrazia italiana si sta però trasformando in una pubblicità gratuita, benvenuta e – soprattutto – meritata per Sbilanciamoci!, che dal 1999 si impegna a favore di un’economia di giustizia e di un nuovo modello di sviluppo fondato sui diritti, l’ambiente, la pace.
La campagna Sbilanciamoci! produce studi alternativi, accurati e affidabili che sono scaricabili gratuitamente dal sito web dell’associazione (sbilanciamoci.info). Questa è l’occasione giusta per visitare quel sito, scaricare quei lavori (ad esempio, la Controfinanziaria 2023), leggerli con attenzione e, possibilmente, aiutare a diffonderli o a migliorarli. Perché forse, un giorno, quei sogni diverranno realtà.
Paolo Moiola
Le banche e la lezione dimenticata
Non si è verificato un crollo come quello del 2008, ma la paura c’è stata. Oggi come allora, il terremoto è partito dal fallimento di alcune banche Usa, arrivando fino al cuore della «mitica» Svizzera. Ed è facile prevedere che non sarà l’ultima volta, a meno che…
Nel marzo 2023, il sistema bancario è tornato a fare parlare di sé mettendo tutti in fibrillazione. Il pensiero è andato immediatamente alla crisi che, nel 2008, fu causata dallo stesso comparto e che rapidamente si propagò al mondo intero. Come allora, anche questa volta lo scossone è partito dagli Stati Uniti e, di nuovo, è stato generato da errori bancari amplificati dalle logiche di mercato e dalle speculazioni finanziarie.
Se una piccola banca
Nel 2008, la bufera era partita da un intero comparto: quello specializzato nei mutui sulla casa. Questa volta l’epicentro è stato una banca di dimensioni modeste dedicata alle imprese ad alta tecnologia. Non a caso il suo nome è Silicon Valley Bank (in sigla Svb), ricordando che Silicon Valley è il nome dell’area industriale della California che ospita tutte le principali imprese specializzate nell’economia digitale.
Fondata nel 1983 per iniziativa di un paio di esperti bancari, Svb era nata con lo scopo di concedere prestiti alle start-up, ossia alle aziende di nuova formazione dedite alla produzione di tecnologie e servizi innovativi. Una delle regole imposte dalla banca alle imprese a cui concedeva prestiti, era l’obbligo di aprire un conto corrente. Questa regola, associata alle politiche perseguite dalla Banca centrale statunitense, aveva favorito una crescita importante dei depositi di Sbv, che però, in seguito, come vedremo, si sarebbero trasformati in un boomerang.
Il punto da cui partire è che il ricorso al debito da parte delle imprese non segue le stesse logiche di quello delle famiglie. Nelle famiglie il debito è sempre finalizzato a una spesa specifica: l’acquisto di una casa, di un’automobile, di mobili o elettrodomestici. Nelle imprese, invece, l’indebitamento segue anche logiche finanziarie come l’obiettivo di assicurarsi della liquidità da mettere da parte o la tentazione di speculare sull’esistenza di tassi di interesse diversificati.
La speculazione sui tassi d’interesse
Fatto sta che, dopo il 2008, quando le banche centrali di tutti i più importanti paesi industrializzati abbassarono i tassi di interesse e aumentarono la massa di denaro in circolazione, molte imprese ne approfittarono per accumulare riserve monetarie. In altre parole, si indebitavano, approfittando delle condizioni favorevoli, non per affrontare spese specifiche, ma per incamerare denaro da mettere da parte o per effettuare investimenti finanziari che garantissero un tasso di interesse più alto di quello pagato. E, per assicurarsi lunghi tempi di restituzione, non rastrellavano i prestiti tramite il sistema bancario, ma quello finanziario, ossia il sistema delle borse che permette di ottenere prestiti dalla vendita di obbligazioni che generalmente prevedono tempi lunghi di restituzione. Così si sono avuti anni in cui le imprese prendevano soldi dai soggetti che operavano nelle borse e ne depositavano una buona parte nelle banche. Il che spiega perché, fra il 2010 e il 2020, il sistema bancario ha conosciuto un boom di depositi, come conferma il caso Svb che li ha visti passare da 4 miliardi di dollari nel 2006, a 189 miliardi nel 2021. Come tutte le banche, anche Svb ha usato parte dei soldi ricevuti per concedere prestiti alle imprese. Ma un’altra parte la investiva, ossia la dava in prestito a grandi entità, ad esempio lo stato, tramite l’acquisto di obbligazioni. Una forma di investimento molto praticata dal sistema bancario, non solo perché ritenuta sicura in quanto i colossi, specie gli stati, difficilmente falliscono, ma anche perché, in caso di bisogno, permette di rientrare facilmente in possesso del proprio denaro. Le obbligazioni, infatti, hanno la caratteristica di poter essere cedute ad altri in qualsiasi momento, secondo il prezzo corrente. Per di più quelle emesse da entità particolarmente forti come gli stati, hanno il vantaggio di poter essere utilizzate come collaterale, ossia come garanzia, nel caso in cui si abbia bisogno di ottenere un prestito. Evenienza, questa, che ricorre di continuo nel caso delle banche, che si fanno costantemente prestiti fra loro per esigenze di cassa. Ma solo dietro fornitura di garanzie ossia depositando obbligazioni o altri titoli che la banca creditrice può vendere nel caso in cui quella debitrice non restituisca le somme nei tempi pattuiti.
Anche Svb aveva fatto il pieno di titoli emessi dal governo statunitense e tutto è andato bene finché le banche centrali hanno continuato con la loro politica di bassi tassi e alta quantità di moneta in circolazione. Nel corso del 2022 il vento è, però, mutato a causa dell’inflazione tornata a fare capolino. Per arginarla, le banche centrali, prima fra tutte quella statunitense, hanno deciso di frenare l’emissione di denaro e, soprattutto, di innalzare i tassi di interesse. È stata proprio questa nuova politica a provocare la frana che ha travolto Svb, tramite una serie di effetti paradosso.
Quando una banca fallisce
In via di principio l’aumento dei tassi di interesse è conveniente per le banche perché permette di concedere prestiti a tassi più elevati. Ma il rovescio della medaglia è che, contemporaneamente, si attivano fenomeni che possono ledere la loro stabilità. Nel caso della Svb i fatti avversi sono stati due: l’aumento dei prelievi da parte dei correntisti e la svalutazione dei titoli detenuti. Il primo fenomeno è stato provocato dal fatto che l’aumento dei tassi di interesse non stimolava più i correntisti di Svb a indebitarsi in borsa per ottenere liquidità. Ora preferivano affrontare le proprie esigenze prelevando i soldi che avevano accumulato in banca sui propri conti correnti. In effetti, già nel 2022 Svb aveva subito un calo dei depositi del 5%. Contemporaneamente, la banca californiana cadeva vittima del secondo fenomeno: l’aumento dei tassi di interesse aveva, infatti, costretto il governo degli Stati Uniti ad applicare rendimenti più alti sui titoli di nuova emissione. Il che faceva perdere valore ai titoli in circolazione che garantivano tassi di interesse più bassi. Un po’ come succede nel mercato dell’auto: quando compaiono modelli nuovi, quelli vecchi perdono immediatamente valore perché più nessuno li vuole. Lo stesso è successo a Svb che si è ritrovata nel cassetto una montagna di titoli svalutati. Tant’è che l’8 marzo 2023, nel tentativo di fare cassa, ha venduto titoli di stato precedentemente acquistati per 21 miliardi di dollari incassandone però solo 19. È stato l’inizio della fine perché i titoli rappresentano il capitale di una banca: se si svalutano questi, l’intera banca perde valore. Una situazione che mette in moto un meccanismo fallimentare che si autoalimenta. Sentendo che la propria banca non se la passa bene, i correntisti si affrettano a ritirare i propri depositi temendo di perderli. Ma così facendo accelerano il rischio di fallimento, perché nessuna banca è in grado di rifondere i propri correntisti se si presentano in massa. Così, il 9 marzo, quando è stata presa d’assalto dai suoi correntisti, intenzionati, in una sola mattina, a prelevare qualcosa come 42 miliardi di dollari, Svb è stata costretta ad abbassare la saracinesca. Il 10 marzo le autorità finanziarie hanno decretato il suo fallimento e l’hanno messa in vendita.
Il 27 marzo è stata acquistata da First Citizens Bank e il caso si è chiuso. Anche se, nel frattempo, anche Signature Bank, un’altra banca regionale statunitense, è fallita.
Intanto, in Svizzera…
Il problema, però, era che anche al di qua dell’Atlantico si stavano accumulando nubi sul sistema bancario. Di scena era niente po’ po’ di meno che Credit Suisse, un colosso da 50mila dipendenti che gestiva una ricchezza valutata attorno ai 1.300 miliardi di dollari. Purtroppo per questa, stavano venendo al pettine una serie di scandali e notizie di mala gestione che minavano la sua reputazione fino ad indurre un numero importante di clienti a ritirare i propri depositi. Già negli ultimi mesi del 2022 le ricchezze affidate alla banca si erano assottigliate di 119 miliardi, tant’è che attorno al 10 marzo 2023, al fine di tamponare le perdite, il colosso era stato costretto a rivolgersi alla Swiss National Bank per ottenere un prestito da 54 miliardi di dollari. Se dagli Stati Uniti non fossero arrivati segnali inquietanti riguardanti il sistema bancario, forse le autorità svizzere avrebbero preso altro tempo per vedere se Credit Suisse ce l’avesse fatta da sola a superare le proprie difficoltà. Ma il fallimento delle due banche americane aveva creato nervosismo nel mondo finanziario e c’era il timore che si potessero verificare iniziative di rappresaglia capaci di far traballare l’intero sistema bancario. È risaputo, infatti, che il mondo della speculazione dispone di mezzi per guadagnare anche sul crollo dei prezzi e quando decide di farlo mette in atto una serie di operazioni che creano sfiducia attorno alla preda designata, condizione per ottenere il crollo dei prezzi su cui è stato scommesso. Più tardi si sarebbe saputo che manovre del genere erano avvenute perfino attorno a Deutsche Bank, ed è stato così che, per evitare il divampare di un fuoco indomabile in un settore chiave della propria economia, il 19 marzo le autorità svizzere hanno preferito agire d’anticipo facendo acquistare Credit Suisse dal colosso Usb, la più grande banca del paese. Poche settimane dopo, nel mese di aprile, negli Stati Uniti un’altra banca regionale, la First Republic, ha alzato bandiera bianca, ma senza effetti di sistema perché nel giro di poco è stata acquistata da JP Morgan, una delle più grandi banche al mondo. E poiché non sono seguiti altri fallimenti, si è considerato concluso il mini terremoto bancario della primavera 2023.
I motivi delle crisi bancarie
Gli analisti si stanno ancora confrontando sulle cause delle crisi bancarie, riconducibili, schematicamente, a tre grandi ambiti. Il primo riguarda le lacune legislative. Secondo molti esperti, i controlli sulle banche non sono abbastanza stringenti, mentre sono ammesse forme di gestione azzardate che amplificano il rischio di bancarotta. Il secondo aspetto è l’eccessiva libertà lasciata alla speculazione di fare il bello e il cattivo tempo, attraverso manovre che, a seconda delle convenienze, fanno oscillare artificiosamente il valore delle banche ora verso l’alto, ora verso il basso, condizionando il clima di fiducia nei loro confronti. Il terzo aspetto riguarda le politiche delle banche centrali. Secondo molti analisti, le banche centrali non avevano motivo di alzare i tassi di interesse in maniera così repentina ed elevata. L’intento dichiarato è stato la lotta all’inflazione, ma secondo il pensiero di molti si è trattato di una misura sbagliata. L’aumento dei tassi di interesse trova giustificazione quando i prezzi sono spinti verso l’alto da un eccesso di domanda di beni. In tal caso la manovra può funzionare perché l’aumento del costo del denaro riduce gli acquisti a debito. Ma l’inflazione di oggi è dovuta all’aumento di prezzo dei prodotti energetici, per cui non serve a niente frenare la domanda. L’effetto che ne può derivare è la stagflazione, un male addirittura peggiore di quello che si intende combattere perché la stagflazione è la persistenza dell’inflazione con l’aggiunta della recessione.
La funzione delle banche
Verosimilmente si può concludere che l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali è stato l’aspetto contingente che ha fatto da detonatore a una situazione perennemente a rischio di esplosione. Oggi le banche non sono più pensate come soggetti che fanno da tramite fra chi risparmia e chi ha bisogno di soldi, ma come macchine congegnate per permettere ai loro azionisti e agli speculatori di potersi arricchire con qualsiasi mezzo. La soluzione sarebbe il ritorno alla funzione sociale delle banche, ma a quel punto dovremmo rimettere in discussione tutto: compiti, vigilanza e proprietà.