L’autonomia dell’egoismo


La Costituzione italiana ha creato le Regioni come soggetti decentrati dello Stato. La questione è sempre stata: cosa possono fare e con quali soldi? E ancora: deve prevalere la solidarietà nazionale o l’egoismo regionale?

Secondo molti, la cosiddetta «autonomia differenziata» è un progetto che produrrà uno spezzatino legislativo e accrescerà le disuguaglianze fra territori. Il tema riguarda l’autonomia delle Regioni italiane, ossia quanto ognuna di esse possa fare per conto proprio nei vari ambiti che riguardano la vita dei cittadini.

Secondo la visione dei padri costituenti, le Regioni avevano essenzialmente il compito di attuare in ambito locale i servizi decisi dal governo centrale. Solo su materie molto ristrette a forte valenza locale potevano anche legiferare. Alcune di queste erano le fiere e i mercati, la caccia, l’artigianato, l’agricoltura, le foreste, la beneficenza e l’assistenza sanitaria. Ma era ben specificato che le leggi regionali dovevano rimanere dentro i limiti tracciati dai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, né potevano essere in contrasto con l’interesse nazionale o quello di altre Regioni. In conclusione, le Regioni erano concepite come strumenti di decentramento amministrativo in un progetto di avanzamento di tutta la nazione secondo logiche di solidarietà. Pertanto, i cittadini delle regioni più benestanti erano chiamati a contribuire anche per quelli residenti in regioni più disagiate in modo da garantire gli stessi servizi da un capo all’altro d’Italia.

Nord e Sud

La Costituzione italiana è stata emanata nel 1947 ed è entrata in vigore nel 1948, ma le regioni entrarono nel pieno delle loro funzioni solo nel 1970 quando si tennero le prime elezioni regionali. Per circa un ventennio la navigazione procedette senza eccessivi scossoni, ma sul finire degli anni Ottanta nel Nord Italia si sviluppò un movimento, poi battezzato Lega Nord, che arringava le folle sostenendo che il Nord era sfruttato dal Sud. La tesi era che il Nord laborioso produce ricchezza e il Sud parassita se ne appropria per mezzo dei travasi operati dal fisco e del salasso causato dalla macchina burocratica allestita dal governo centrale. La soluzione era l’autonomia regionale, compresa quella fiscale, affinché ogni Regione potesse utilizzare al proprio interno tutti i soldi versati dai propri cittadini modulando i propri servizi in base alla ricchezza disponibile. Un progetto, insomma, spudoratamente egoistico di cui non si faceva mistero. Dimenticando che la ricchezza del Nord era stata prodotta anche grazie al sudore di centinaia di migliaia di immigrati meridionali, al congresso della Lega Nord del 5 febbraio 1994, Gianfranco Miglio, ideologo del partito, tenne il suo discorso incentrato su pidocchi e parassiti: «Il Paese che siamo chiamati a cambiare è ammalato da un esercito di pidocchi. Centralismo e parassitismo sono due fenomeni strettamente legati fra loro. Senza mutare il sistema costituzionale centralizzato noi non riusciremo a sopravvivere». Che tradotto significava riformare la Costituzione affinché venisse riconosciuta alle Regioni la facoltà di trattenere il gettito fiscale generato nel proprio territorio da utilizzare a uso esclusivo dei propri cittadini.

La (brutta) riforma del Centrosinistra

Sulla scia dei successi elettorali dei leghisti, la «questione settentrionale» si era imposta al dibattito pubblico e un po’ tutti i partiti, sinistra compresa, si affrettavano a metterci sopra il cappello. L’Ulivo stesso, in occasione delle elezioni 1996, aveva inserito al terzo posto dei punti programmatici, la voce «Autogoverno locale e federalismo cooperativo», forse pensando che se fosse riuscito a introdurre il regionalismo prima della Lega, il responso elettorale si sarebbe spostato a proprio favore. Effettivamente quella tornata elettorale venne vinta dal Centrosinistra che nel 2001, sul finire della legislatura, varò una riforma costituzionale per garantire alle Regioni maggiori spazi di autonomia fiscale, amministrativa e legislativa. In tutto, gli articoli della Costituzione modificati furono dieci, mentre cinque furono addirittura abrogati. Ma quelli che subirono i cambiamenti più profondi furono il 116 e il 117 che definiscono i compiti delle Regioni e dello Stato. La riforma stabilì che alcune materie, come l’immigrazione, la difesa, l’ordine pubblico, sono di competenza esclusiva dello Stato, mentre altre, come sanità, trasporti, protezione civile, sono materie concorrenti, ossia di competenza congiunta di Stato e Regioni: lo Stato definisce i principi fondamentali, le Regioni gli aspetti di dettaglio.  L’articolo 116, tuttavia, stabilisce che sulle materie concorrenti, le Regioni possono godere di «condizioni particolari di autonomia», ma non precisa quanto possa essere ampia. Dice solo che deve essere richiesta dalla Regione interessata e che sarà una legge specifica, approvata dal Parlamento, ad attribuirla. Dunque, ogni Regione avrà la propria autonomia, ciascuna con contenuti diversi a seconda di ciò che più le interessa. Per questo si parla di autonomia differenziata.

La legge Calderoli

Stabilito che il supplemento di autonomia non è né automatico né predeterminato, serviva una legge ordinaria per definire il percorso utile ad ottenerlo.  Quella legge è arrivata ventitré anni dopo, nel giugno 2024 per iniziativa del ministro (leghista) per gli Affari regionali Roberto Calderoli. Ma è arrivata in un momento di ripensamento politico da parte della sinistra che ora vede l’autonomia differenziata come un pericolo, anziché una conquista. Per cui ha deciso di dare battaglia per mezzo di un referendum e, se tutto procederà secondo le previsioni dei promotori, nella primavera 2025 dovremmo essere chiamati a dire se vogliamo mantenere o abrogare la legge numero 86/2024, meglio nota come legge Calderoli.

Formata da 11 articoli, la legge definisce il percorso da seguire per ottenere l’autonomia supplementare e gli ambiti per la quale può essere richiesta. Ciò che colpisce in questa legge è il ruolo marginale previsto per il Parlamento. La procedura comincia con la richiesta di supplemento di autonomia da parte della Regione interessata con la precisazione delle materie su cui la richiede. Dopo di che si apre un tavolo di negoziato con il governo per dare forma concreta all’autonomia richiesta. L’accordo raggiunto sarà poi trasmesso al Parlamento che lo trasforma in legge senza possibilità concreta di modificarne il contenuto: l’accordo è accolto o rigettato in blocco.

Rispetto agli ambiti di gestione, la legge Calderoli fa una distinzione fra le materie che rientrano nei diritti civili e sociali (sanità, istruzione, tutela ambientale) e tutti gli altri (protezione civile, ricerca scientifica, previdenza sociale complementare). Le materie del secondo gruppo possono essere discusse subito. Quelle del primo gruppo debbono aspettare il varo di altri adempimenti legislativi prima di essere negoziati. La distinzione è d’obbligo perché l’articolo 117 della Costituzione stabilisce che non si può effettuare nessun intervento sulle materie inerenti i diritti sociali e civili se prima non sono stati definiti i livelli minimi da garantire su tutto il territorio nazionale. Si tratta dei famosi Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) che devono essere determinati dallo Stato. Il compito è stato attribuito al governo che legifererà non si sa quando, anche perché si attende il pronunciamento di una commissione appositamente costituita sotto la direzione del giurista Sabino Cassese.

In ogni caso è inutile fossilizzarsi su questa o quella tecnicalità: la legge Calderoli è presa di mira come strategia per congelare l’attuazione dell’autonomia differenziata, in attesa, forse, che un’altra maggioranza rimetta di nuovo mano alla Costituzione per ripristinare un testo simile a quello che avevamo prima della riforma del 2001.

Le criticità

Le principali obiezioni avanzate dagli oppositori dell’autonomia differenziata sono due. La prima è che, da un punto di vista normativo, l’Italia rischia di diventare uno spezzatino che metterà in difficoltà cittadini e operatori economici. Ad esempio, in materia ambientale si potrebbe avere una tale pluralità di assetti normativi rispetto a procedure, autorizzazioni e controlli, da mandare in confusione chi possiede attività economiche in più regioni. Per di più la libertà normativa può incitare le regioni a lanciarsi in una pericolosa gara di permissivismo per attirare in casa propria le imprese in cerca di siti produttivi.  L’obiezione più rilevante, tuttavia, è che l’autonomia differenziata aumenterà le disuguaglianze fra regioni ricche e regioni povere. In materia finanziaria la riforma costituzionale del 2001 non introduce novità di rilievo rispetto alla versione originaria del 1947.

Entrambe le versioni affermano che le Regioni possono godere di tributi propri e partecipare a quelli erariali destinati allo Stato centrale. Ma la versione del 1947 precisava che l’autonomia finanziaria si attua «nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica». La versione del 2001 è più vaga lasciando la porta aperta a vie di definizione meno controllabili come il tavolo di negoziazione che il governo avvia con le singole regioni richiedenti il supplemento di autonomia. In effetti l’articolo 5 della legge Calderoli stabilisce che «l’intesa individua le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale».

Secondo la Corte dei Conti, nel 2021 le regioni a statuto ordinario si sono finanziate per il 35% con tributi propri come il bollo sull’auto, l’Irap, l’addizionale Irpef, e per il 65% attingendo al gettito Iva raccolto sul proprio territorio. Allo stato attuale le regioni possono trattenere una quota massima di Iva territoriale pari al 70% e debbono destinarla alla sanità che rappresenta il 62% della spesa regionale complessiva.

Attraverso un calcolo piuttosto complicato, ogni anno il governo definisce l’importo di Iva che ogni regione può effettivamente trattenere. Il calcolo avviene mettendo a confronto l’ammontare di Iva raccolto sul proprio territorio, limitatamente al 70%, con la parte di spesa sanitaria che la stessa deve finanziare. Se la spesa risulta più alta dell’ammontare raccolto, la regione riceverà dallo Stato dei soldi a compensazione; se risulta più bassa, la regione verserà l’eccesso a un apposito fondo definito «fondo di solidarietà interregionale», che lo Stato utilizza, assieme ad altre entrate, per sostenere la spesa sanitaria delle regioni in affanno. Nel 2019 le regioni che hanno contribuito al fondo di solidarietà sono state sette. In testa c’è la Lombardia con un contributo pari a 2 miliardi di euro, seguita da Lazio, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Toscana, Liguria, per un totale di 5 miliardi di euro. Fra quelle che hanno beneficiato del fondo c’è prima di tutto la Campania, che ha ricevuto 2,1 miliardi. A seguire la Puglia, la Calabria e altre cinque regioni.

Oggi, in nome dell’autonomia differenziata, le regioni più ricche possono chiedere di trattenere le loro eccedenze per fornire ai propri cittadini servizi aggiuntivi. Del resto, è per questo che hanno rivendicato il supplemento di autonomia. Sarà quindi il fondo di solidarietà a rimetterci, con il rischio che si prosciughi fino ad azzerarsi, mettendo in difficoltà lo Stato, prima ancora delle regioni più fragili, perché esso dovrà trovare altre forme di entrata per finanziare i servizi essenziali da garantire da un capo all’altro d’Italia. Se avessimo avuto una sinistra più attenta ai suoi valori storici piuttosto che alle convenienze elettorali, oggi non ci troveremmo in questo pasticcio che potrà essere risolto solo con un forte intervento popolare.

Francesco Gesualdi


Il Ssn e i livelli essenziali

L’acronimo Lea sta per «Livelli essenziali di assistenza» e indica le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket). I Lea vennero introdotti con una legge del 1992 sulla constatazione che c’erano zone d’Italia dove non si garantivano nemmeno i servizi sanitari più elementari. Pertanto, si sentì il bisogno di definire quei servizi che dovevano essere assicurati a tutti i cittadini d’Italia, ovunque essi vivessero. Il loro elenco è rivisto periodicamente ed è suddiviso in tre sezioni: prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera. L’ultimo aggiornamento risale al 2017.

Una legge del 2000 introdusse il Sistema di garanzia, un metodo di verifica che ha lo scopo dì appurare quanto sono effettivamente garantiti i servizi sanitari essenziali nelle diverse regioni d’Italia. L’indagine si basa sull’utilizzo di un centinaio di indicatori di qualità. L’ultima rilevazione relativa al 2018 certifica che esistono ancora differenze molto marcate fra le diverse regioni d’Italia. Quella più virtuosa è l’Emilia Romagna che garantisce i Lea al 98%. All’ultimo posto c’è la Calabria con un livello di adempimento del 44%.

L’acronimo Lep sta, invece, per «Livelli essenziali di prestazioni» e indica le prestazioni e i servizi che la collettività è tenuta a garantire a tutti i cittadini rispetto ai diritti civili e sociali. I Lep, dunque, sono un concetto più ampio dei Lea. I Lep sono stati introdotti dall’articolo 117 della Costituzione, per definire i servizi che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. L’articolo 117 si limita ad affermare il principio dei Lep, lasciando che sia una legge ordinaria a definirne le modalità d’attuazione. La legge Calderoli tratta i Lep all’articolo 3 indicando i settori interessati e l’organo che deve dettagliarli. Per quanto riguarda i settori ne individua quattordici, dall’istruzione ai trasporti passando per la sanità. Quanto a chi deve dettagliarli, la legge stabilisce che sarà il governo a farlo, previa consultazione di rappresentanze regionali e di alcune commissioni parlamentari. A molti è sembrato grave che non sia previsto nessun ruolo per il Parlamento come organo collegiale, perché i Lep non sono una questione formale, ma di grande  sostanza politica e sociale. Dalla loro definizione dipendono i diritti dei cittadini, la qualità delle loro vite, perfino il livello di equità presente nella società italiana. Rimettere questioni tanto importanti alla sola valutazione del governo è davvero molto pericoloso. Ragione di più per chiedere l’abrogazione della legge Calderoli affinché sia dato, quanto meno, più potere al Parlamento.

F.G.

 




Transizione, miti e realtà


Abbandonare i combustibili fossili è un’impresa complicata e costosissima. Trovare le materie prime sostitutive lo è altrettanto. Con queste premesse, non ci sono dubbi che la transizione «verde» sarà un’impresa.

Prima il carbone, poi il petrolio, dopo il gas, fatto sta che, più o meno, da 250 anni utilizziamo combustibili fossili per produrre energia. Il risultato è che abbiamo emesso così tanta anidride carbonica da avere provocato l’innalzamento medio della temperatura terrestre di oltre un grado centigrado. Con inevitabili ricadute sul clima che ormai ha perso la regolarità di qualche decennio fa come testimoniano lo scongelamento dei ghiacciai, i lunghi periodi di siccità, le piogge torrenziali che devastano agricoltura e territori. Quando ormai il danno è già stato fatto, i centri di potere stanno meditando di fare qualcosa per mettere un freno alla produzione di anidride carbonica. L’obiettivo universalmente dichiarato è il raggiungimento di emissioni nette uguale allo zero per il 2050. Come dire che per quella data la CO2 prodotta dovrà essere ridotta di circa due terzi rispetto a quella prodotta oggi in modo da riportarla nei limiti di capacità di assorbimento del sistema vegetale presente sul pianeta.

La transizione energetica

Per riuscirci bisogna cambiare radicalmente modo di produrre energia e la parola d’ordine a livello planetario è diventata «transizione energetica» che significa un altro modo di produrre energia elettrica, di produrre calore in ambito industriale e domestico, di alimentare i mezzi di trasporto.

In ambito elettrico le nuove strategie sono il solare, l’eolico, l’idroelettrico. Ma c’è anche chi insiste nel rilancio di tecniche azzardate come le centrali nucleari, mentre si stanno conducendo ricerche nel campo della fusione nucleare, che poi significa riproduzione sulla Terra di quanto avviene all’interno del sole. Quanto alla mobilità, la nuova frontiera è rappresentata dai mezzi elettrici alimentati a batteria o celle a idrogeno.

Tra il dire e il fare: chi paga il passaggio?

La transizione energetica (o green) è tanto facile a dirsi, quanto difficile da attuarsi perché si tratta di un’operazione mastodontica con ripercussioni enormi sia sul piano finanziario che ambientale. Ad esempio, rispetto al primo aspetto, quello finanziario, la European round table, l’associazione delle principali multinazionali europee, valuta che, da qui al 2030, solo in Europa servirebbero 700 miliardi di euro per rinnovare e ammodernare il sistema di produzione e trasmissione elettrica. Fino al 2050 il costo previsto a tale scopo è di 2.300 miliardi di euro. E siamo appena all’ambito elettrico. Nel contempo vanno rinnovati anche gli altri comparti energetici: i riscaldamenti interni alle abitazioni, le fornaci interne alle aziende, la propulsione dei mezzi di trasporto che devono passare dai motori a scoppio ai sistemi alimentati da batterie elettriche o da batterie a idrogeno. Il tutto, poi, va esteso a livello mondiale, considerando anche che ci sono continenti, come quello africano, dove centinaia di milioni di persone non godono ancora di alcun tipo di fornitura elettrica.

In conclusione, secondo i calcoli effettuati dalla banca d’investimento britannica Barclays Bank, da qui al 2050 servono fra i 100mila e i 300mila miliardi di dollari, a livello mondiale, per sostituire il parco energetico oggi basato sui combustibili fossili. Come termine di paragone, si tenga conto che 100mila miliardi corrispondono all’intera ricchezza prodotta in un anno a livello mondiale.

I soldi sono un problema e il primo nodo della transizione energetica è: chi deve sobbarcarsi la spesa? La risposta dipende dall’orientamento politico, ma è verosimile che, chi più chi meno, tutti dovranno fare la propria parte: governi, imprese e famiglie, sapendo che ai governi tocca anche l’attività di regolamentazione e di indirizzo. Tutte iniziative che presentano la propria complessità, ma che sono ampiamente superabili se sostenute da un’adeguata volontà politica. Ciò che invece è di difficile soluzione riguarda gli effetti sociali e ambientali che la transizione green è destinata a sollevare.

La transizione complicata: i microchip non sono immateriali. Foto Brian Kostiuk – Unsplash.

Il materiale dell’immateriale

L’affermarsi dell’informatica ci ha fatto credere di essere entrati nell’era dell’immateriale, il tempo in cui si riesce a operare a distanza senza bisogno di alcun mezzo di trasporto né di energia per il loro movimento. Ma si tratta di un’illusione. A questo mondo, d’immateriale non c’è niente, neanche il pensiero, perché, per funzionare, il cervello ha bisogno di nutrimento, ossia di materia. E così pure i nostri congegni elettronici: per funzionare richiedono non solo energia, ma anche materia per dare forma alla tecnologia da cui dipendono. Né tragga in inganno la leggerezza dei microchip, emblema della moderna tecnologia informatica. I microcircuiti all’interno dei nostri computer e dei nostri cellulari sono distillati di processi produttivi che hanno impiegato una quantità di materiale assai più elevato del risultato finale.

Più esattamente per ottenere un microchip di appena due grammi servono 1,5 chilogrammi di combustibili fossili, 0,073 chilogrammi di composti chimici, 31,9 litri d’acqua e 0,7 chilogrammi di gas (in particolare azoto). Come dire che per produrre un microchip ci vuole una quantità di risorse materiali 17mila volte più alta del suo peso finale. Risorse entrate nel ciclo produttivo, ma poi rimosse una volta assolta la propria funzione. E, si noti bene, rimosse, ma non dissolte, bensì gettate in qualche angolo del pianeta sotto forma di rifiuto. Ogni prodotto che usiamo nasconde da qualche parte la zavorra degli scarti di produzione che gli esperti chiamano «zaino ecologico».

I nuovi materiali sono «critici»

I rifiuti nascosti sono solo uno dei problemi che accompagnano i nuovi materiali su cui si basa la transizione energetica. Altrettanto preoccupante è la nuova dipendenza che si sta profilando: il vecchio sistema energetico dipendeva dai combustibili fossili, il nuovo dipende da pochi minerali su cui è già lotta aperta per il loro accaparramento. L’Unione europea ha stilato una lista di 34 minerali strategici ai fini della transizione energetica, di cui alcuni già ampiamente inseriti nella tradizione industriale, altri solo marginalmente. Fra i primi possiamo citare il rame, l’alluminio, il nickel, che nel nuovo corso diventeranno ancora più importanti per il posto occupato nei dispositivi utili alla produzione e alla trasmissione di corrente elettrica. Fra i secondi risaltano il litio, il cobalto, la grafite, ma anche le terre rare, un gruppo di 17 elementi della tavola periodica, tra cui cerio, lantanio, scandio (vedi MC giugno 2024). Un insieme di materiali che trovano un’ampia applicazione in tutti i settori della tecnologia avanzata e delle energie rinnovabili. Fondamentali per costruire magneti, fibre ottiche, batterie ricaricabili, turbine eoliche, pannelli solari, sono elementi imprescindibili di apparecchiature di medicina avanzata, di computer, smartphone e tecnologia aerospaziale, compresa quella a fini militari.

I nuovi minerali a fini energetici sono intriganti anche per il lessico che li accompagna. Potevano essere presentati come salvifici, sostenibili, verdi o in qualsiasi altra versione positiva. Invece, sono etichettati da tutti come «critici». Valga come esempio l’Unione europea che in tutti i documenti dedicati all’argomento ne parla come «materie prime critiche». Altrettanto negativamente sono rappresentate dalle associazioni a difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Ma per ragioni opposte: la società civile teme i rischi per la natura e le popolazioni locali; l’Unione europea teme quelli per la supremazia delle sue imprese. Un timore, quest’ultimo, dettato da due fattori: la scarsità dei minerali e la loro concentrazione in pochi paesi.

Per la verità il capitalismo non si è mai preoccupato della disponibilità di risorse. Ha eletto come zona di crescita economica una porzione ridotta di mondo: soltanto questa aveva il diritto di fare razzia per ogni dove. In altre parole, i paesi occidentali si sono sempre arrogati il diritto di perseguire la crescita infinita, certi che i limiti del pianeta non sarebbero mai stati un ostacolo. Ma oggi che molte altre aree geografiche si sono avviate lungo la strada della crescita economica, il vecchio capitalismo occidentale ha cominciato a capire che la crescita infinita non può esistere.

La transizione complicata: la produzione di energia elettrica. Foto Couleur – Pixabay.

Materie prime: chi le ha e chi le sa lavorare

A suonare il campanello d’allarme è perfino l’Ocse, l’ufficio studi dei paesi più ricchi incaricato di elaborare strategie di crescita economica per loro conto. Secondo le sue previsioni, da qui al 2060 la domanda mondiale di materie prime crescerà più del doppio, passando dagli attuali 79 miliardi di tonnellate a 169. Del resto, la pressione sui minerali è già evidente attraverso i prezzi.

Il litio carbonato, solo per citare un esempio, è passato da 20mila dollari a tonnellata nel 2018 a 80mila dollari nel gennaio 2023. Certo, i prezzi hanno sempre un andamento altalenante perché risentono della speculazione finanziaria, ma le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia rispetto alla domanda di minerali a fini energetici non ammettono dubbi. Secondo i suoi calcoli, nel 2040 la domanda di nichel sarà due volte più alta rispetto al 2010, mentre quella di cobalto cinque volte più alta. Quanto al litio, nel 2030 la sua richiesta sarà quattro volte più alta rispetto a oggi. Di conseguenza un quesito si pone con forza: nel futuro ci saranno minerali a sufficienza per tutti? E se non dovessero essercene, chi deciderà chi può averne? Sicuramente un grande decisore sarà il prezzo di vendita, destinato ad aumentare per tutti i minerali: chi potrà comprarli a qualsiasi prezzo sarà il vincitore, gli altri dovranno leccarsi le ferite. A fare da discrimine, insomma, sarà la ricchezza. Ma anche la nazionalità perché saranno avvantaggiati i paesi con riserve nel proprio sottosuolo e con capacità di raffinazione. Una situazione ad oggi molto sbilanciata.

Parlando di estrazione, ad esempio, si scopre che pochi paesi sono produttori di minerali critici. Spicca la Repubblica democratica del Congo per cobalto e tantalio, il Sudafrica per il manganese, la Cina per le terre rare, l’Australia e il Cile per il litio. E se passiamo all’attività di lavorazione e raffinazione delle materie prime, scopriamo che il livello di concenrazione è ancora più marcato.

Da questo punto di vista il primato spetta alla Cina rispetto a una grande quantità di metalli. La sua quota di raffinazione si aggira intorno al 35% per il nichel, al 50% per l’alluminio, al 60% per litio e cobalto, addirittura al 100% per le terre rare pesanti. Uno scenario che spaventa in particolare l’Unione europea, che fra tutte le potenze economiche è quella più sguarnita di minerali e di imprese siderurgiche.

Dalla globalizzazione all’autarchia

Ormai il tempo della globalizzazione, del consideriamoci tutti amici e lasciamo che il mondo sia un unico grande mercato dove ognuno va a comprare dove è più conveniente, è passato. Le imprese non fanno soldi solo per sé, ma sono anche garanzia di introiti per le casse statali e fonte di stabilità occupazionale. Di conseguenza, la politica ha scoperto che troppa globalizzazione fa male agli interessi interni e ha cominciato a tirare il freno. Anche su richiesta di tutte quelle imprese nazionali che dalla globalizzazione ci stavano rimettendo, tutte le grandi potenze economiche stanno virando verso un maggior senso di casa per ridurre la dipendenza dall’estero rispetto alle risorse strategiche. Hanno iniziato gli Stati Uniti ed è seguita a ruota l’Unione europea che, nel marzo 2023, ha varato un regolamento per rilanciare l’apertura di miniere dismesse e siti industriali utili a produrre metalli strategici per la transizione energetica. L’obiettivo dichiarato è che per il 2030 si estragga internamente almeno il 10% dei minerali strategici e si lavori nei paesi europei il 40% dei minerali utilizzati. È anche previsto che il 25% provenga da materie prime riciclate. In ogni caso, il regolamento più che obblighi per i governi, prevede facilitazioni finanziarie e normative per favorire il nuovo corso autarchico. Che, però, non tutti vedono con favore perché l’estrazione si accompagna spesso a processi di alterazione ambientale che inquinano il territorio, compromettono le falde acquifere, pongono a rischio la salute degli abitanti. Di questo tema, però, ci occuperemo nel prossimo articolo.

 Francesco Gesualdi

 




I costi della carne


Dalle stalle ai laboratori: è la carne cosiddetta «artificiale». In Italia è vietata da una legge ad hoc. Eppure, la carne «normale» ha ormai costi insostenibili. Ambientali ma non solo.

Già prima che i trattori invadessero le strade d’Europa, gli allevatori italiani si erano fatti sentire presso il nostro governo con una richiesta singolare. Chiedevano una legge per proibire la produzione della carne detta «artificiale». Che significa? Da quando in qua la carne si produce nei laboratori invece che nelle stalle? In realtà, succede già negli Stati Uniti e a Singapore, mentre l’Unione europea ci sta pensando. Con grande preoccupazione degli allevatori di tutto il mondo che ovunque si battono contro la carne di laboratorio. Come andrà a finire dipende dalla forza che ogni categoria economica coinvolta nella partita sarà capace di mettere in campo nei confronti della politica. Al momento, in Italia hanno vinto gli allevatori che il 1° dicembre 2023 hanno ottenuto una legge, la numero 172, che vieta la produzione e la vendita di carne da «colture cellulari» nel nostro paese. Il futuro rimane, però, una questione ancora tutta aperta.

Allevamenti, metano e cereali

L’interesse degli studiosi per la carne prodotta in laboratorio è di vecchia data, ma ha avuto un’accelerazione da quando abbiamo capito che i cambiamenti climatici sono una cosa seria e che sono dovuti in gran parte all’agire dell’essere umano. Una responsabilità che risiede nella produzione eccessiva di gas a effetto serra. Di quei gas, cioè, che, accumulandosi in atmosfera, intrappolano i raggi solari provocando un surriscaldamento della superficie terrestre. Il gas maggiormente responsabile del fenomeno è l’anidride carbonica, ma ce ne sono anche altri come il protossido d’azoto e il metano. Ed è proprio quest’ultimo a chiamare maggiormente in causa la responsabilità degli allevamenti.

La Fao stima che i gas serra associati all’allevamento animale ammontino a 7,1 gigatonnellate, pari al 14% di tutti i gas serra prodotti dall’agire umano a livello mondiale. In sintesi, un settimo dei gas serra proviene dagli allevamenti animali principalmente come metano, prodotto non tanto dalle deiezioni, quanto dalla digestione dell’erba. Più precisamente il metano si forma nell’apparato digerente dei ruminanti: mucche, bufali, pecore, capre, cammelli, che passano ore e ore ogni giorno a ruminare l’erba che altrimenti non potrebbe essere digerita. Il processo di digestione è coadiuvato da batteri anaerobi produttori di una grande quantità di metano che l’animale espelle attraverso la bocca e la via intestinale.

Nel conteggio della Fao, tuttavia, oltre al metano emesso direttamente dai ruminanti, sono comprese anche le emissioni di anidride carbonica connesse alla produzione di soia, nonché mais e altri cereali dati in pasto agli animali.

Si stima che tra il 35 e il 40% dell’intera produzione mondiale di cereali sia destinata agli animali, una quota destinata a salire considerato l’aumento del consumo di carne.

Suoli, falde, acqua

Per di più i problemi ambientali creati dall’allevamento animale riguardano anche altri ambiti, come testimonia il territorio della Lombardia, dove suoli e falde sono contaminati dall’alta concentrazione di allevamenti. Altrettanto catastrofico è l’impatto sul consumo di acqua (ne servono 15 tonnellate per ogni chilo di carne), sul consumo di terre agricole e sulle foreste eliminate per fare spazio ai pascoli e alla produzione di soia.

Un insieme di problematiche destinate ad aggravarsi considerato che, nel Sud del mondo, c’è una classe media in crescita che pretende di mangiare carne nella stessa quantità del Nord del mondo.

In effetti esistono ancora profonde differenze nel consumo di carne a livello mondiale. L’istituto Our world in data informa che si va da un consumo pro-capite di 136 kg l’anno a Hong Kong, a 3 kg nel Burundi, passando per i 126 degli Usa, i 65 della Cina e i 70 dell’Italia.

In ogni caso, negli ultimi sessant’anni, si è assistito a un aumento considerevole di animali allevati: se nel 1960 si contavano bovini per un miliardo di capi e ovini-caprini per 1,3 miliardi, nel 2020 il numero di bovini è passato a un miliardo e mezzo, mentre quello degli ovini-caprini a due miliardi.

Carne, alimento critico

I costi ambientali della carne sono insostenibili. Foto Harlie Solozano – Unsplash.

Che la carne sia ormai diventata un alimento critico è fuori discussione, ma sulla questione di cosa fare per porre rimedio alle sue criticità esistono esistono varie posizioni perché, in economia, più che la razionalità vale l’interesse, per fortuna con qualche eccezione. Fra gli allevatori stessi ci sono dei genuini ambientalisti che propongono di ridurre il numero di capi allevati utilizzando i pascoli come principale fonte di alimentazione. Ma si tratta di una minoranza. La maggior parte degli allevatori vuole andare avanti come sempre, ossia badando solo a costi, ricavi e rese monetarie, tutt’al più facendo qualche ritocco d’immagine piuttosto che di sostanza.

Ad esempio, succede, che la brasiliana Jbs, fra le più grandi multinazionali dedite alla macellazione animale, pur vantandosi di impegnarsi nella sostenibilità ambientale, continua a essere accusata dalle associazioni ambientaliste di acquistare bestiame allevato su tratti deforestati dell’Amazzonia.

Al di là dell’immobilismo contrapposto dagli allevatori più conservatori, tre soluzioni sono oggi sul tavolo: una di tipo esclusivamente tecnologico, una di tipo comportamentale, l’ultima di tipo misto.

Cellule in laboratorio

La soluzione di tipo esclusivamente tecnologico è quella che propone di ottenere bistecche e fettine in laboratorio, tramite un processo che inizia estraendo cellule staminali dai muscoli di animali adulti viventi (bovini, maiali, polli) per poi farle moltiplicare in laboratorio attraverso complesse metodiche di nutrimento e di divisione cellulare.

Il paese più avanzato in questo genere di sperimentazione è rappresentato dagli Stati Uniti, dove la produzione è stata ammessa dalla Food & drug administration, l’organo di vigilanza alimentare e farmaceutica.

Una ventina di società, all’apparenza tutte start-up di giovani imprenditori, si sono già lanciate nel settore ottenendo un fatturato, nel 2023, pari a 121 milioni di dollari. Una somma a sei zeri che può fare una certa impressione, ma che rappresenta appena lo 0,11% di quanto è stato ricavato nello stesso anno dalla vendita di carne tradizionale sul mercato statunitense. In effetti la produzione di carne sintetica è ancora un’iniziativa in germe con molti nodi da sciogliere, non ultimo quello dei costi. Per diventare competitiva, la carne sintetica dovrebbe essere venduta sul mercato finale a non più di 10 dollari al chilo; in realtà produrla oggi costa ancora fra i 22 e i 120 dollari al chilo, a seconda del tipo di carne. Ma gli operatori del settore sperano di riuscire a dimezzare i costi per il 2030.

Gli allevamenti producono metano, uno dei gas serra responsabili della crisi climatica. Foto Iomig – Unsplash.

Abitudini alimentari

La carne sintetica piace a vari ambiti della società civile. Piace alle associazioni animaliste perché elimina la sofferenza animale. Piace a certi sanitari perché annulla l’uso di antibiotici oggi abusati nel mondo della zootecnia. Piace a chi si occupa di ambiente perché contribuisce ad abbattere i gas serra e a ridurre il consumo di terre fertili. Ma i risvolti sanitari possono essere molti e solo il tempo potrà dirci se la carne di laboratorio possa nascondere qualche proprietà mal tollerata dal nostro organismo, che oggi ignoriamo. In altre parole, ci vorrebbe maggiore prudenza in nome del principio di precauzione.

Quanto all’aspetto ambientale, una piena valutazione deve anche considerare l’aumento di materiale richiesto dalla costruzione di nuovi impianti industriali e l’incremento di energia elettrica richiesta per farli funzionare. Energia elettrica neutra o a forte impatto ambientale a seconda della fonte primaria utilizzata.

All’opposto della soluzione tecnologica c’è quella di tipo comportamentale secondo la quale il problema non è sostituirsi alla natura, ma inserirsi nel suo corso. In altre parole, ciò che bisogna fare è cambiare le nostre abitudini alimentari. Bisogna avere l’accortezza di cercare le proteine che ci servono in alimenti di tipo vegetale in modo da consumare meno carne e quella poca produrla in maniera sostenibile.

La carne – si sa – è particolarmente utile in età infantile perché contiene tutti gli ingredienti proteici utili alla crescita. Ma i nutrizionisti ci informano che si può ottenere un risultato altrettanto soddisfacente anche da una dieta che combina correttamente legumi e cereali. La classica pasta e fagioli tipica della dieta mediterranea che i medici non mancano mai di raccomandarci. Una dieta buona per la salute umana e per la sostenibilità del pianeta.

Uno studio condotto nel 2017 da Helen Harwatt e pubblicato sulla rivista Climatic Change, ha mostrato, ad esempio, che se tutti gli americani sostituissero la carne bovina con fagioli, ceci e altri legumi, il paese sarebbe vicino a raggiungere gli obiettivi di riduzione di gas serra che Barack Obama aveva indicato per il 2020.

Dieta vegetariana

Fra queste due posizioni si inserisce una terza proposta che offre un cambio alimentare in salsa tecnologica. Che si può riassumere nel tentativo di convertire le masse a una dieta vegetariana tramite un processo di finzione. Il ragionamento dei proponenti è che la gente è troppo attaccata alla carne per abbandonarla, per cui va fatta passare alla dieta vegetariana con l’inganno. Ossia, facendole credere di stare addentando un hamburger mentre mangia un pasticcio di fagiolini, cavoli, piselli, che – per forma, colore e sapore – assomiglia in tutto e per tutto a un hamburger fatto di carne. Un prodotto da non confondersi con il tofu o e il seitan, che benché comunemente definiti anch’essi «carne dei vegetariani», non presentano nessuna similitudine sensoriale con la carne. L’hamburger vegetale, invece, sanguina addirittura come l’hamburger animale. Un risultato ottenuto non per magia, ma grazie alla miscelazione di ingredienti estratti da varie specie vegetali fra cui soia, funghi e frutti tropicali, sottoposti a sofisticate lavorazioni.

Varie imprese hanno subito sentito odore di soldi nella «carne vegetale» e vi si sono buttate a capofitto, compresi miliardari come Bill Gates e colossi della stessa industria della carne, come Cargill e Jbs. Oggi il mercato della carne vegetale a livello mondiale vale 6,1 miliardi di dollari, non molto rispetto alle migliaia di miliardi di dollari che girano attorno alla carne vera e propria, ma pur sempre un ammontare interessante.

La deforesazione per far posto alle cotivazioni cerealicole e agli allevamenti sono sempre più frequenti e devastanti. Foto James Baltz – Unsplash.

Quale strada?

In conclusione, delle tre proposte, quella che personalmente ritengo meno risolutiva è la terza, che anzi mi pare dannosa per la sua connotazione consumistica. Meglio investire in risorse educative per cambiare le abitudini dei consumatori piuttosto che sprecare risorse materiali per manipolare prodotti che la natura rende già pronti all’uso in forma diretta. Anche la prima proposta mi genera scetticismo, quasi spavento, per l’avanzare eccessivo della tecnologia che da serva rischia di trasformarsi in padrona. Per non parlare dei suoi effetti di lungo periodo di cui non sappiamo niente. Alla fine, rimane in piedi solo la seconda proposta, quella della riduzione e della semplicità. La strada che ci rifiutiamo di imboccare, ma l’unica che potrà salvarci.

Francesco Gesualdi

 

 

 




El Salvador: Il caffè secondo Bukele


Mani di fatica piene dei frutti del caffè, uno dei principali prodotti agricoli di El Salvador. Foto di Rodrigo Flores – Unsplash.

Sommario

 

La mappa illustra l’estensione dell’Impero maya in America Centrale.

Parabola discendente

Il passato / dai fasti alla caduta

La storia di El Salvador, il più piccolo Paese dell’America Centrale, ha conosciuto i fasti della civiltà maya, la conquista spagnola e, in epoca recente, una sanguinosa guerra civile.

El Salvador è il più piccolo paese dell’America Centrale, con una superficie di circa 20mila chilometri quadrati, paragonabile come dimensioni a poco più della Puglia. Nell’affascinante mosaico storico del continente americano, il paese spicca per una storia unica, profondamente radicata nelle civiltà precolombiane, in particolare in quella dei Maya.

Questo antichissimo popolo, noto per le sue raffinate conoscenze in vari campi del sapere (astronomia, matematica, arte, architettura), ci ha lasciato un’eredità indimenticabile che ha influenzato la cultura di El Salvador.

Le scoperte archeologiche di vasi, gioielli e utensili – ancor oggi sottovalutate rispetto a quelle dei vicini di casa Honduras, Guatemala, Belize e Messico – raccontano la storia di una società con ricche tradizioni artistiche e una profonda spiritualità, intrisa di rituali e miti, strettamente legata alla comprensione dell’astronomia e dei cicli naturali.

Eccezionali osservatori del cielo, la loro capacità di calcolare complessi cicli astronomici è testimoniata dal famoso Calendario maya, sistema che combinava un calendario solare con un intervallo rituale di 260 giorni alla base della pianificazione delle semine, dei raccolti e dei momenti più propizi per le cerimonie religiose.

La civiltà maya

I Maya non erano organizzati in un’unica entità politica, bensì in una rete di città stato, ognuna con la propria gerarchia sociale e politica. I re erano considerati intermediari con il mondo degli dei, governavano su una élite di nobili, sacerdoti e guerrieri, ed erano sostenuti da agricoltori, artigiani e commercianti, ciascuno con un ruolo ben definito nella società. Abili urbanisti, utilizzavano tecniche di costruzione delle città assai efficaci e rispettose dell’ambiente, attente ai frequenti terremoti della regione e adottando metodi avanzati di gestione delle risorse idriche e agricole, tra le quali quella del pregiato «nettare degli dei» giunto sino ai nostri giorni, il cacao.

La civiltà maya si sviluppò lungo un periodo di circa 2.300 anni, dal 900 a.C. fino all’arrivo degli spagnoli che ne segnò il declino definitivo. Lungo tale arco temporale luoghi come Chalchuapa, importante centro cerimoniale e di scambio culturale influenzato dalla grande città di Teotihuacán in Messico, Tazumal e San Andrés raggiunsero il loro massimo splendore, ma il sito forse più famoso ed emblematico in El Salvador è Joya de Cerén, spes-so paragonata alla Pompei delle Americhe per la maniera in cui tutto si è conservato a causa di un’eruzione vulcanica avvenuta intorno al 600 d.C. In seguito, il movimento della popolazione e delle attività verso Nord, lungo la penisola dello Yucatán, unito all’arrivo degli spagnoli con le malattie da essi portate, nonché le politiche coloniali, contribuirono al collasso di quanto restava della struttura sociale e politica nel Paese.

Ciononostante, il lascito maya – evidenziato dalle continue scoperte archeologiche e storiche – è tutt’oggi palpabile in El Salvador: i discendenti dei Maya – riconoscibili dai tratti somatici – mantengono viva la lingua, le tradizioni e le usanze, collegando passato e presente del Paese.

L’arrivo degli spagnoli

Il 31 maggio 1522 sbarcò nella baia di Chorotega – oggi Golfo di Fonseca – lo spagnolo Andrés Niño, dando avvio alla conquista coloniale del Reino de España in El Salvador. Due anni più tardi Hermán Cortés inviò il suo feroce luogotenente Pedro de Alvarado alla conquista di un Paese che, all’arrivo degli spagnoli nel XVI secolo, terminata la dominazione maya, era occupato da due grandi gruppi etnici: i Pipil, che occupavano la regione centrale e occidentale del Paese, e i Lenca, che vivevano nelle terre orientali. I Pipil erano un popolo di origini nahua che, in seguito alla caduta di Teotihuacán in Messico, si trasferirono verso Sud portando con sé la lingua nahuatl, idioma ancora parlato in El Salvador sotto forma di varianti locali spesso chiamate pipil o nawat.

Spinti dalla ricerca di oro e dalla volontà di espandere l’impero spagnolo, i conquistatori trovarono una forte resistenza indigena guidata da leader come Atlácatl – ancor oggi studiato con orgoglio a scuola per la «battaglia delle montagne» che mise in fuga gli Alvarado – ma, infine, la superiorità militare e le malattie portate dall’Europa ebbero il sopravvento, con conseguenze devastanti per la popolazione indigena, una drastica riduzione demografica e profondi cambiamenti sociali, con l’imposizione di nuovi costumi, di una nuova religione e l’inizio di un’economia basata sulle piantagioni.

la cattedrale (in stile gotico) di Santa Ana. Foto Paolo Rossi.

Il cristianesimo e la gerarchia sociale

La conversione al cristianesimo fu forzata e i centri religiosi indigeni furono distrutti o trasformati in chiese cristiane: tale processo non solo cambiò le credenze religiose, ma anche le pratiche culturali, l’arte e l’architettura.

Dalla società coloniale fortemente stratificata, vennero istituite grandi piantagioni, soprattutto di caffè, che divennero presto il fulcro dell’economia salvadoregna, gestite attraverso un sistema di encomienda, che concedeva ai colonizzatori spagnoli il controllo delle terre e la manodopera indigena. In cima alla gerarchia vi erano gli spagnoli nati in patria, seguiti dai creoli, discendenti di spagnoli nati in America. Gli indigeni e gli africani schiavizzati occupavano gli strati più bassi della struttura sociale che, ancora oggi, sopravvive in varie forme nella società salvadoregna contemporanea.

L’era coloniale fu scandita dall’ascesa e declino dei tre principali prodotti ancora oggi coltivati in El Salvador: il cacao, il balsamo e l’añil – o indaco – richiestissimo dall’industria tessile europea per tutto il Settecento.

Gli spagnoli introdussero nuovi stili architettonici, mescolando elementi europei con influenze locali: città come San Salvador e Santa Ana furono fondate e costruite secondo il tipico modello spagnolo, con una piazza centrale circondata da edifici governativi e religiosi, con uno stile ancora ben visibile nei centri storici delle città salvadoregne. Sebbene l’accesso all’educazione fosse limitato principalmente ai figli dei coloni spagnoli, furono fondate scuole e università, importanti per la diffusione delle idee dell’illuminismo che, in seguito, influenzarono la lotta per l’indipendenza e la formazione dell’identità nazionale salvadoregna.

L’indipendenza

La lotta per l’indipendenza di El Salvador e il successivo processo di formazione della repubblica sono eventi cruciali che hanno modellato la storia e l’identità nazionale del Paese, segnando la transizione da una colonia spagnola a una nazione indipendente attraverso un percorso turbolento e complesso.

L’insoddisfazione per il dominio coloniale crebbe tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, con le idee dell’illuminismo, la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese che influenzarono le élite criolle, già tormentate dalle riforme economiche spagnole che minacciavano gli interessi dei proprietari terrieri locali.

Figure come il sacerdote intellettuale José Matías Delgado (1767-1832) emersero come leader del movimento indipendentista: la sua leadership, insieme ad altri come Manuel José Arce, giocò un ruolo fondamentale nel mobilitare il sostegno alla causa indipendentista. Il 5 novembre del 1811 lanciò il primo grido di indipendencia, al quale rispose tutto il Paese. Ci vollero però dieci anni per proclamarla, l’11 settembre del 1821, come parte di un movimento più ampio che coinvolse l’intera America Centrale. Tuttavia, ciò non significò immediatamente la fine dell’influenza spagnola o una transizione fluida al governo autonomo poiché, inizialmente, El Salvador divenne parte dell’impero messicano di Agustín de Iturbide prima di unirsi alla Federazione delle province unite dell’America Centrale nel 1823, segnata però da tali tensioni interne e lotte di potere che alla fine portarono al suo dissolvimento.

La nascita della repubblica

Dopo il dissolvimento della federazione, El Salvador proclamò la propria sovranità e si costituì come repubblica indipendente (1841). Sforzi significativi per costruire le istituzioni di un nuovo stato, tra cui la creazione di un governo, un codice legale, e l’organizzazione di un esercito furono le sfide che affiancarono la definizione di una politica agraria e la gestione delle tensioni tra diverse classi sociali. Le piantagioni di caffè divennero centrali, con una crescente dipendenza da tale singolo prodotto per le esportazioni, sino a portare a una maggiore disuguaglianza e conflitti di proprietà sulla terra.

Al contempo, il periodo post indipendenza vide anche un’espansione della vita culturale e intellettuale: la stampa libera e la letteratura fiorirono, contribuendo a formare una nuova identità nazionale salvadoregna. Furono fondate nuove scuole e istituzioni educative, rendendo l’istruzione più accessibile e contribuendo a plasmare la futura classe dirigente del Paese.

Andavano però gestite anche la diversità etnica, la disuguaglianza economica e la creazione di un sistema politico stabile, questioni mai veramente affrontate che portarono alla Rivolta di Izalco del 1932 quando i jornaleros, i braccianti a giornata, dissero basta ai capataces, i guardiani della produttività. Guidata dal contadino pipil José Feliciano Ama (1881-1932), l’insurrezione sfociò in quello che viene ricordato come la masacre indigena del ‘32, aprendo la strada ad anni di dittatura militare che, più che reprimere i campesinos, voleva sradicare ogni fermento comunista nel Paese.

La guerra civile e gli accordi di pace

Dagli anni 40 ai 70 seguirono assassini politici, lotte ideologiche, repressioni politiche ed elezioni contestate, che portarono a frequenti scontri tra governi di destra e movimenti di sinistra e al conflitto che esplose nel 1980, quando gruppi di guerriglieri di sinistra, uniti nel Frente Farabundo Martí para la liberación nacional (Fmln) iniziarono una lotta armata contro il governo che durò dodici anni, caratterizzata da una violenza brutale, massacri, scomparse forzate e violazioni dei diritti umani commesse da entrambe le parti. La situazione attirò l’attenzione internazionale, in particolare degli Stati Uniti, che videro il conflitto come parte della più ampia lotta contro il comunismo in America Latina e che per questo fornirono un significativo supporto militare ed economico al governo del Paese. Si stima che, durante la guerra civile salvadoregna, oltre 75mila persone siano morte e migliaia scomparse, interi villaggi siano stati distrutti, causando massicce ondate di rifugiati e sfollati.

Dopo anni di combattimenti le pressioni internazionali e la stanchezza della popolazione portarono ai negoziati di pace del 1992, con la firma degli accordi di Chapultepec, che posero fine al conflitto.

Essi prevedevano riforme democratiche, la dismissione delle forze guerrigliere e la creazione di una Commissione per la verità per indagare sulle violazioni dei diritti umani. A quel punto la società salvadoregna dovette affrontare il difficile compito di integrare gli ex combattenti, risarcire le vittime e costruire un sistema politico e legale più equo e inclusivo. Ad oggi, disuguaglianze economiche, ingiustizie e diritti umani violati costituiscono ancora questioni aperte.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

Mons. Oscar Romero tra la sua gente. Foto Equipo Maiz-CNS-CAFOD.

Nel segno di Romero

Chiesa e missionari

L a storia dei missionari in El Salvador è un complesso intreccio di fede, conflitti e cambiamenti sociali: dall’arrivo dei primi missionari spagnoli fino alla tragica morte di monsignor Óscar Romero nel 1980, la presenza e l’attività della Chiesa cattolica hanno giocato un ruolo cruciale nella formazione della società salvadoregna. Prima dell’arrivo degli spagnoli nel XVI secolo, El Salvador era abitato da diverse culture indigene, tra cui i Pipil, discendenti dei Nahua. L’arrivo degli spagnoli portò i primi missionari cattolici che introdussero il cristianesimo, trasformando radicalmente le strutture religiose e sociali preesistenti.

Durante il periodo coloniale la Chiesa cattolica stabilì una forte presenza nel Paese, diventando uno dei principali strumenti di colonialismo spagnolo: i missionari si concentrarono sull’educazione e la conversione delle popolazioni indigene, la costruzione di molte chiese e la diffusione della fede cattolica. Fu anche un’epoca di grande sofferenza per i popoli indigeni a causa delle malattie, della violenza e dello sfruttamento. Dopo l’indipendenza del 1821, El Salvador affrontò periodi di instabilità politica nei quali la Chiesa giocò un ruolo assai importante, talvolta al fianco dei potenti, talvolta come voce di chi non ne aveva.

Nel XX secolo, la Chiesa iniziò a prendere una posizione più attiva contro le ingiustizie sociali, in particolare sotto la guida di figure come il vescovo Óscar Romero, la «voce dei senza voce».

Nominato arcivescovo di San Salvador nel 1977, Romero divenne presto una figura chiave nella lotta per i diritti umani e la giustizia sociale durante il periodo di crescente violenza e repressione politica. La sua predicazione e le sue azioni erano incentrate sulla difesa dei poveri e degli oppressi, con aspre e aperte critiche contro la violenza generalizzata e le violazioni dei diritti umani da parte del governo e dei gruppi paramilitari. Fu a causa di tali forti condanne verbali che, lunedì 24 marzo 1980, fu assassinato mentre celebrava la messa nella cappella dell’ospedale La Divina Providencia: la sua uccisione scosse la comunità internazionale e divenne un simbolo della lotta per i diritti umani e la giustizia sociale, sia in El Salvador che all’estero.

L’omicidio fece di monsignor Romero un martire, al punto di essere santificato il 13 maggio del 2015 da papa Francesco. Come San Romero d’America, i suoi devoti lo celebrano ogni 24 marzo. Secondo molti, la sua uccisione fu il preludio a una guerra fratricida, che sarebbe durata 12 anni.

La storia dei missionari in El Salvador è intrinsecamente legata alle vicende politiche, sociali e religiose del Paese. Dall’era coloniale fino alla tragica morte di monsignor Romero, i missionari hanno avuto un impatto profondo, fungendo sia da agenti di cambiamento sia da custodi della tradizione, in una storia segnata da conflitti e ricerca di giustizia. La loro eredità continua a influenzare la società salvadoregna, ispirando nuove generazioni a lottare per un futuro più equo e pacifico.

P.R. e J.L.H.D.

22 maggio 2015, San Salvador, una folla enorme saluta la beatificazione di mons. Romero. Foto: Luis Astudillo C. – Cancillería.

Un ricco mosaico di etnie e culture

I popoli indigeni

El Salvador è un Paese con un patrimonio culturale indigeno profondamente radicato, testimonianza di una storia ricca e complessa. Oltre ai Maya e agli Xinca, le principali culture precolombiane includevano i Pipil, discendenti dei Nahua, e i Lenca. Ciascuna di queste culture – con proprie lingue, tradizioni e pratiche spirituali – ha contribuito al mosaico etnico e culturale del Paese. Anche gli idiomi indigeni, un tempo parlati diffusamente, stanno oggi vivendo un periodo di rivitalizzazione: numerosi progetti educativi e culturali mirano a preservare e promuovere queste lingue come parte integrante del patrimonio nazionale, riconoscendone il valore per la conservazione della diversità culturale e la trasmissione di conoscenze tradizionali.

Le pratiche spirituali delle culture indigene salvadoregne, profondamente connesse alla terra e ai cicli naturali, sono sopravvissute nonostante il sincretismo con il cristianesimo portato dalla colonizzazione spagnola. I rituali indigeni spesso comprendono offerte alla terra, danze rituali e cerimonie di guarigione, tutte pratiche che non sono solo espressioni religiose, ma anche modi per mantenere una relazione equilibrata con la natura e per conservare la coesione comunitaria. Molti festival tradizionali combinano elementi indigeni e cristiani – ad esempio, il Dia de los muertos è una celebrazione che fonde riti indigeni con la tradizione cattolica dove si onorano gli antenati con offerte di cibo e preghiere, così come nella Danza de los historiantes, eseguita durante le feste di paese, costumi colorati e maschere elaborate narrano storie locali di miti e leggende – e le cerimonie indigene spesso coinvolgono rituali che cercano di stabilire una connessione con il sacro, che sia rappresentato dagli antenati, dagli spiriti della natura o da altre divinità.

Spesso, inoltre, i rituali includono danze, canti, l’uso di piante medicinali e offerte di cibo e bevande. I riti di guarigione e la medicina tradizionale giocano, infatti, un ruolo vitale nella comunità indigene: guaritori e sciamani usano erbe, preghiere e riti per curare malattie fisiche e spirituali, mantenendo viva una tradizione di conoscenze mediche tramandate di generazione in generazione, sottolineando l’importanza di vivere in armonia con l’ambiente e ricordando l’interdipendenza dell’uomo con la natura.

Il patrimonio indigeno e le tradizioni spirituali di El Salvador sono ricche di storia, cultura e significati. La loro conservazione non è solo una questione di mantenere vive le tradizioni, bensì un modo per celebrare e riconoscere la diversità culturale del paese, offrendo preziose lezioni sulla sostenibilità, la comunità e il rispetto per l’ambiente.

P.R. e J.L.H.D.

Un sorridente Nayib Bukele con la moglie Gabriela Rodriguez mostra il certificato del Tribunale elettorale che attesta la sua vittoria: sarà presidente del Salvador fino al 2029 (San Salvador, 29 febbraio 2024). Foto Marvin Recinos – AFP.

Dalle «maras» al «bitcoin»

IL presente / la rinascita del paese centroamericano

I salvadoregni hanno rieletto in massa Nayib Bukele, personaggio controverso ma carismatico. Al suo governo si deve sia la sconfitta delle bande criminali (le terribili «maras») che l’introduzione del «bitcoin». Ma non tutto è bello come sembra.

Nel corso degli ultimi decenni, El Salvador ha vissuto profondi cambiamenti, culminati con l’elezione a presidente di Nayib Bukele. Lo scorso 3 febbraio 2024 il politico – figlio di un uomo d’affari di origine palestinese – è stato riconfermato nella carica, ottenendo l’approvazione di oltre l’84% dei cittadini votanti.

Entrato in carica nel 2019 con il partito da lui stesso fondato (Nuevas ideas), Bukele si è fatto subito notare per il suo stile carismatico e un utilizzo intensivo dei social media.

Già sindaco di Nuevo Cuscatlán e poi di San Salvador, ha catturato l’attenzione dell’elettorato giovane e urbano con la sua retorica anti establishment e il suo impegno a combattere la violenza, la corruzione e a modernizzare il Paese.

Il presidente Bukele con alle spalle un ritratto di mons. Romero. Foto Secretería de comunicación de El Salvador.

Dopo Arena e Farabundo

Primo presidente dopo la fine della guerra civile a non appartenere a uno dei due principali partiti politici, Frente Farabundo Martí (Fmln) e Arena, ha affrontato di petto questioni critiche come la bassa crescita, l’alta disoccupazione e l’emigrazione, divenendo subito idolo delle masse. Una delle sue mosse più audaci è stata l’adozione, nel 2021, del bitcoin come moneta legale (accanto al colón salvadoregno e al dollaro statunitense), decisione controversa che ha attirato l’attenzione internazionale e che ha anche sollevato preoccupazioni sulla stabilità finanziaria del Paese (pure nell’Fmi, il Fondo monetario internazionale).  Uno dei principali problemi affrontati da Bukele è stato il tasso di criminalità, dovuto alle maras, le pandillas che da lungo tempo affliggevano il Paese. Le azioni di contrasto messe in campo dal presidente sono largamente sostenute dalla popolazione, nonostante le serie preoccupazioni espresse da organizzazioni per i diritti umani riguardo alle violazioni dei diritti fondamentali (detenzioni arbitrarie e condizioni di carcerazione dure). Sotto la presidenza di Bukele, El Salvador ha sperimentato un approccio più assertivo nelle relazioni internazionali, una politica estera che ha spesso portato a tensioni con gli Stati Uniti e altri partner tradizionali, e il tentativo (ben riuscito) di attrarre investimenti stranieri con l’istituzione delle zonas francas, aree designate a promuovere l’investimento estero attraverso incentivi fiscali e doganali – per aziende del comparto manifatturiero, tessile, elettronico e dei servizi, come call center, che appartengono a investitori stranieri – tra cui esenzioni da alcuni tipi di tasse e agevolazioni per l’importazione ed esportazione di merci.

Un uomo passa davanti a un murale contro il bitcoin, la moneta virtuale adottata dal presidente Bukele nel settembre del 2021. Foto Marvin Recinos – AFP.

I motivi della rielezione

Il massiccio sostegno della maggioranza della popolazione salvadoregna nelle votazioni dello scorso febbraio è stato dovuto non solo alla lotta vittoriosa di Bukele contro le maras, ma anche a una serie di azioni da lui intraprese durante il primo mandato presidenziale. Alcuni esempi concreti sono gli investimenti nella realizzazione di infrastrutture stradali, la ristrutturazione e la costruzione di nuovi ospedali, scuole, parchi e piazze – attraverso un’apposita istituzione governativa chiamata Dom, «Direzione dei lavori comunali» – in diverse parti di un Paese convertito di colpo al turismo, attraverso la trasformazione del centro storico di San Salvador, il recupero e la ristrutturazione dei centri turistici a vocazione familiare, lo sviluppo di un vero e proprio concept turistico chiamato Surf City.

Come in tutto il mondo, il governo di Bukele ha dovuto anche affrontare la pandemia di Covid-19. La risposta del Paese è stata lodata per la sua efficienza in alcuni aspetti, come la rapida implementazione di misure di lockdown, la massiva campagna di vaccinazione e la conversione delle strutture del Centro internazionale di fiere e convegni di San Salvador a «Hospital El Salvador», attrezzato in pochissimo tempo con oltre 400 posti letto, inclusi 105 posti in unità di terapia intensiva.

Al contempo, non è stata altrettanto lodata la velocità delle misure repressive e l’uso dell’esercito per far rispettare le quarantene: le politiche di Bukele hanno da sempre sollevato questioni riguardanti la libertà di stampa, l’indipendenza della magistratura e i diritti umani e le sue mosse per consolidare il potere, inclusa la controversa sostituzione di giudici della Corte suprema, hanno suscitato timori di un’erosione della democrazia in El Salvador.

La sua riforma amministrativa del 2024 è stata una pietra miliare nel processo di modernizzazione del Paese, che ha comportato una ristrutturazione delle istituzioni governative, l’introduzione di nuove tecnologie per rendere il governo più efficiente e trasparente, la decentralizzazione di alcuni servizi per renderli più accessibili ai cittadini.

Il Paese oggi si posizione come un hub innovativo in America Centrale e la società salvadoregna odierna si trova in un delicato punto di equilibrio tra le sfide poste dalla modernizzazione, le pressioni economiche globali e la necessità di preservare la democrazia e i diritti umani. La popolazione giovane e dinamica è al centro di tali trasformazioni, portando nuove idee e aspirazioni, mentre si confronta quotidianamente con l’eredità del suo passato turbolento, alla ricerca di un suo percorso nel contesto globale.

Bukele, apprezzato e temuto

La percezione pubblica di Bukele è complessa e varia: molti lo apprezzano per il suo approccio diretto, la sua capacità di comunicare attraverso i social media e le sue politiche volte a combattere la corruzione e migliorare l’efficienza del governo. Tuttavia, esistono anche preoccupazioni riguardo al suo stile di leadership e alle sue mosse per consolidare il potere, inclusa la sostituzione di giudici della Corte suprema e la rimozione, a fine maggio, del murales di San Romero all’aeroporto di San Salvador, sostituito da pubblicità. In ogni caso, la storia di El Salvador è una vera e propria testimonianza di resilienza e capacità di adattamento, con lezioni importanti sia per la regione centro americana sia per la comunità internazionale.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

L’arrivo di un gruppo di appartenenti alle maras 13 e 18 nella mega prigione chiamata «Centro di confinamento del terrorismo» (Cecot), che si trova a 74 chilometri dalla capitale San Salvador (15 marzo 2023). Foto El Salvaodr’s Presidency Press Office – AFP.

Le maras e il pugno duro del presidente

Regime d’eccezione

La guerra civile degli anni Ottanta causò una forte emigrazione verso gli Stati Uniti d’America, generando nel contempo lo smembramento di molte famiglie salvadoregne. Fuori del paese si cercavano sicurezza e migliori condizioni di vita. Non solo negli Usa, ma anche in altri stati che avevano aperto le porte ai migranti: Canada, Australia, Svezia e, in misura minore, Messico, spagna e Italia.

Il fenomeno delle bande – chiamate maras (pandillas) – prende avvio negli Usa, dove i figli dei salvadoregni privi di documenti, vivendo o studiando in quartieri difficili, soprattutto latinoamericani, sono facile preda della delinquenza locale. Si formano la «mara Salvatrucha» (MS-13) e la «mara Barrio 18». A poco a poco, i gruppi criminali salvadoregni crescono e si organizzano in maniera autonoma. Commettono ogni tipo di atto criminale, spingendo molti giovani nei riformatori o nelle carceri. Al contempo, non avendo lo status di residenza legale negli Usa, tantissimi vengono rimandati al loro Paese d’origine: in questo modo in El Salvador confluiscono i membri delle maras senza che il Paese abbia adottato alcun tipo di controllo o alcuna misura per contenere la loro presenza. Nel corso degli anni seguenti, queste bande riescono a costituire vere e proprie strutture di potere criminale, generando terrore tra la popolazione. Nessuno osa denunciare per timore delle conseguenze per se stessi e per la propria famiglia. Mentre nei quartieri a basso reddito cresce il timore che i figli siano attratti dalle maras e da esse reclutati, in quelli ricchi, dove la gente vive in complessi residenziali privati e protetti da mura, le famiglie pagano un pizzo per la propria incolumità.

La situazione degenera a un punto tale che i poveri si vedono costretti a pagare la protezione a una banda o all’altra per non essere obiettivo delle pandillas dei quartieri vicini, mentre i ricchi iniziano a assoldare agenzie private per la sicurezza dei loro quartieri. In conclusione, nella società salvadoregna sia i poveri che i ricchi sono costretti a sottostare a un sistema in cui la sicurezza è un bene raro e comunque molto caro.

Per diversi decenni, la vita dei salvadoregni di ogni classe sociale è stata dura. Famiglie e generazioni di giovani hanno vissuto nel terrore di essere vittime dirette o indirette della violenza criminale, con una economia sommersa generata dalle maras e da loro soci (spesso appartenenti ai partiti politici al potere). Un’esistenza di terrore e ansia vissuta per molti anni, fino all’arrivo del nuovo presidente Bukele e al varo della sua strategia della «mano dura». La proclamazione dello stato d’emergenza (régimen de excepción), con la sospensione di alcune garanzie costituzionali, ha portato a un drastico calo del tasso di omicidi, ma è tuttora oggetto di aspre critiche per le violazioni dei diritti umani e l’aumento delle detenzioni senza processo, denunciate ad esempio da Amnesty international.

A livello internazionale, la sua azione più nota è stata la costruzione del mega carcere noto come «Centro di confinamento del terrorismo» (Cecot). Progettato per ospitare fino a 40mila prigionieri, al momento ne ospita più di 65mila.

Oltre alla repressione, il governo bukele cerca di promuovere iniziative di prevenzione del crimine, come programmi educativi e di sviluppo delle comunità, per ridurre l’attrattiva delle gang tra i giovani. Allo stesso tempo, sono in atto sforzi per facilitare la reintegrazione degli ex membri delle bande nella società, sebbene tale aspetto riceva meno attenzione mediatica rispetto alla repressione. Il governo ha riconosciuto che, per combattere in modo efficace le pandillas, è necessario affrontare le cause alla base del loro potere, inclusa la povertà. Tuttavia, le modalità e l’efficacia delle politiche volte a mitigare tali cause rimangono oggetto di discussione. Non c’è dubbio che l’azione politica di Bukele continuerà a essere argomento di acceso dibattito dentro e fuori di El Salvador, dove – non va dimenticato – il régimen de excepción viene prorogato ogni mese.

P.R. e J.L.H.D.

 

San Salvador, il palazzo nazionale che un tempo ospitava l’assemblea legislativa del Paese. Foto Edilberto Santana Suarez – Unsplash.

La (solita) strada lastricata di insidie

I migranti

La situazione dei migranti che attraversano El Salvador per raggiungere il Messico, generalmente come tappa verso gli Usa, è complessa e piena di sfide. Il flusso migratorio è costituito principalmente da individui e famiglie provenienti da varie parti dell’America Centrale e del Sud America, che affrontano numerosi pericoli durante il loro viaggio attraverso El Salvador, inclusi i rischi legati al passaggio in zone controllate dalle maras, oltre a possibili abusi da parte di contrabbandieri e forze dell’ordine.

Spesso i migranti viaggiano in condizioni precarie, senza accesso adeguato a cibo, acqua, riparo e cure mediche, tutte condizioni difficili che possono avere gravi ripercussioni sulla loro salute fisica e mentale. El Salvador, come altri paesi dell’America Centrale, ha le proprie politiche e leggi sull’immigrazione che possono influenzare il trattamento dei migranti, in un complesso ecosistema di norme di cooperazione regionale sulle questioni migratorie, spesso ostacolate dalle singole politiche nazionali. Lungo il percorso, i migranti devono navigare attraverso i controlli di frontiera che possono essere imprevedibili e spesso pericolosi, soprattutto se viaggiano senza documentazione adeguata. Molto spesso, i migranti dipendono dai trafficanti di esseri umani per attraversare le frontiere, il che può esporli a rischi di sfruttamento e violenza, lungo percorsi che possono cambiare rapidamente in risposta alla presenza di polizia, alle politiche di immigrazione e alle condizioni di sicurezza lungo la strada.

Le comunità lungo le rotte migratorie sono spesso coinvolte, da un lato offrendo supporto umanitario ai migranti e, dall’altro, affrontando sfide relative alla sicurezza. Numerose Ong e organizzazioni Internazionali operano in El Salvador e lungo le rotte migratorie per fornire aiuto essenziale ai migranti – cibo, alloggio, assistenza legale -. La situazione dei migranti che attraversano El Salvador verso il Messico resta un problema umanitario complesso, che richiede una risposta coordinata e compassionevole a livello regionale e internazionale. Mentre gli sforzi per regolamentare e controllare il flusso migratorio sono importanti, appare fondamentale garantire che i diritti e la dignità dei migranti siano rispettati in tutto il processo.

P.R. e J.L.H.D.

Due surfiste sulla spiaggia El Tunco, a Tamanique. Foto Eduardo Iraheta – Unsplash.

Contro la povertà, il turismo sostenibile

IL futuro / quale strada per l’economia?

Un alto numero di salvadoregni vive in povertà. Ma il piccolo territorio del Salvador offre una varietà di ambienti naturali che ne fanno una grande attrazione turistica.

In El Salvador i poveri sono ancora tanti e addirittura in aumento (più 4,4% dal 2019, anno d’insediamento di Bukele). È da poco che il Paese ha puntato sul turismo come volano per la rinascita economica. In questo senso, in un periodo di generale trasformazione, il Paese sta reinventando la propria offerta turistica, enfatizzando la protezione delle proprie risorse naturali e culturali, nonché promuovendo l’interazione con le comunità locali. La recente pandemia ha portato a una seria riflessione su come il turismo possa essere più sostenibile e rispettoso dell’ambiente: con una ripresa significativa nel 2022 e un boom nel 2023, il settore turistico ha adottato nuove pratiche, tra cui offerte innovative che si allontanano dai percorsi più tradizionali, puntando su esperienze autentiche e sul coinvolgimento delle comunità locali.

El Salvador offre una ricchezza unica di attrazioni turistiche. Noto per la sua intensa attività geologica, ospita circa venti vulcani, molti dei quali sono considerati attivi e potenzialmente pericolosi. Tra questi vulcani, i più noti includono il San Salvador, il Santa Ana (o Ilamatepec), e il San Miguel (o Chaparrastique) a causa della loro storia eruttiva e della loro vicinanza ad aree densamente popolate. Boschi, cascate e laghi pittoreschi formano una vasta gamma di ecosistemi che vanno dalle foreste nebbiose montane alle zone costiere. Posizione geografica e varietà di ambienti naturali favoriscono una notevole diversità biologica che include oltre tremila specie di piante, tra cui numerosi tipi di orchidee e alberi come balsa e ceiba, specie arboree endemiche e rare, oltre 500 specie di uccelli osservate, compresi molti migratori che fanno sosta nel Paese durante i loro spostamenti stagionali.

Anche le «pupusas»

La gastronomia del paese e le sue tradizioni culturali rappresentano un altro punto di forza.  Le esperienze che combinano natura, cultura e gastronomia stanno crescendo in popolarità. Celebrate addirittura attraverso il «Día nacional de la pupusa» ogni seconda domenica di novembre, le pupusas sono il piatto nazionale di El Salvador. Queste tortillas spesse, fatte di farina di mais o di riso, sono uniche per il loro metodo di preparazione e varietà di ripieni: a differenza di altri tipi di tortillas riempite, vengono farcite prima di essere cotte e il ripieno viene inserito al centro di un impasto di farina, poi l’impasto viene chiuso e appiattito in un disco spesso. Le pupusas sono più di un semplice piatto, in quanto rappresentano un elemento di orgoglio nazionale e un simbolo di identità culturale salvadoregna. Originarie delle tribù indigene Pipil nell’ovest di El Salvador, sono state adattate e amate attraverso generazioni, diventando un piatto apprezzato tanto a livello locale quanto internazionale.

Nonostante l’interesse crescente per un turismo più responsabile, non mancano le sfide da affrontare. Il governo deve favorire sinergia tra gli operatori turistici e tentare di migliorare l’accesso ai finanziamenti per le infrastrutture turistiche. In tal senso, la promozione digitale appare fondamentale per raggiungere un pubblico più ampio, così come servono più formazione ed empowerment di microimprese, essenziali per lo sviluppo locale del settore. Gli operatori turistici di El Salvador stanno puntando a creare esperienze uniche che riflettano la cultura e le tradizioni del Paese: esperienze agroturistiche, che combinano la visita di piantagioni di caffè e cacao con la conoscenza della produzione locale, sono un esempio di come il turismo possa beneficiare l’economia locale rispettando l’ambiente.

Un piatto di pupusas, il cibo più tipico del paese centroamericano. Immagine sbs.com.

La Strada dei fiori

La «Ruta de las flores» è una strada panoramica di El Salvador famosa per la sua bellezza naturale e la ricchezza culturale. Il percorso si snoda attraverso una serie di pittoreschi paesini e cittadine nella regione occidentale del paese, lungo la catena montuosa di Apaneca-Ilamatepec, e deve il suo nome alle numerose specie di fiori che sbocciano lungo la strada, specialmente tra ottobre e febbraio.

Lungo montagne lussureggianti, vulcani, caffè e piantagioni di zucchero, il clima fresco di montagna, con la nebbia mattutina che avvolge dolcemente le colline, offre una piacevole pausa dal clima tropicale del resto del Paese. Il percorso, di circa cinquanta chilometri che va dalla città di Sonsonate alla città di Ahuachapán – entrambi capoluogo di dipartimento – include diverse cittadine coloniali affascinanti, ciascuna con un proprio carattere unico: ne sono il cuore Nahuizalco, Salcoatitan, Juayua, Apaneca e Ataco.

Per città e cittadine

In lingua nahuat-pipil, Apaneca significa «fiume dei venti», dovuto alla sua posizione geografica situata dove una costante corrente di vento leggero produce un perfetto microclima. Il merito è della catena montuosa Apaneca-Ilamatepec, un complesso vulcanico dalla disposizione a forma di semicerchio quasi perfetto: è in questa zona che cresce il migliore caffè d’alta quota, tra gli 800 e i 1.800 metri di altitudine, di cui tutti i salvadoregni vanno orgogliosi.

Nahuizalco conta oggi oltre cinquantamila abitanti, per lo più discendenti dagli indigeni. Il suo mercato diurno e notturno rifornito di frutta, verdura e ortaggi, prodotti sulle pendici delle montagne circostanti, viene riconosciuto come vivace centro culturale e la sua eccellenza artigianale vive nella produzione di mobilia prodotta con legname locale quale alloro, cedro e cipresso. La città possiede un piccolo museo dedicato alla cultura nahuat-pipil, che vale la pena visitare, e la natura offre escursioni alle cascate La Golondrinera.

Salcoatitan è la cittadina della zona più ricca di storia e architettura coloniale, che dai suoi circa mille metri di altitudine permette di raggiungere il fiume Monterey. Conosciuta soprattutto per la vendita dell’ottima yucca fritta o bollita, prodotto che si trova nella piazza turistica della città, il parco cittadino recentemente ristrutturato offre un magnifico squarcio della chiesa coloniale e, nei fine settimana, si riempie di vita fino a tardi.

Juayua vive della produzione e lavorazione del caffè, una delle maggiori fonti di occupazione del territorio, anche se negli ultimi anni è diventata famosa per il suo Festival gastronomico, dove numerose aziende locali espongono i vari piatti tipici fuori dai loro negozi, davanti agli occhi dei turisti, che vi si deliziano prima di recarsi alle numerose cascate presenti nella zona.

Ataco è forse la cittadina più conosciuta della Ruta a livello nazionale, per la sua varietà di negozi colorati e opzioni gastronomiche di tutti i tipi di cibo. Con una popolazione costantemente in crescita, vive dei diversi impianti di lavorazione del «chicco d’oro», i mulini necessari alla trasformazione del caffè.

Il turismo del futuro

La Ruta de las flores è un esempio di turismo sostenibile, con molte iniziative volte a preservare la natura e promuovere un turismo responsabile e rispettoso delle comunità locali. Offre un’esperienza turistica diversificata e arricchente, che combina bellezze naturali, cultura, gastronomia deliziosa e un forte impegno per la sostenibilità. Nonostante questi aspetti positivi, c’è ancora la necessità di migliorare e diversificare i prodotti turistici per attirare un maggior numero di visitatori, prolungare i soggiorni e ridurre la povertà.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

Panoramica sul vulcano Santa Ana, il più alto del paese (2.400 metri). Foto Ramon – Flickr.

La scommessa delle riserve

Apaneca

El Salvador, il più piccolo paese dell’America Centrale, è testimonianza di una intensa attività per preservare il suo patrimonio naturale. Ciò si nota in particolare nella Reserva de la biosfera Apaneca-Ilamatepec, un’area caratterizzata da un ricco mosaico di ecosistemi, ma sempre minacciato dalla deforestazione e dall’espansione agricola. Progetti di conservazione e sostenibilità ambientale sono in atto per proteggere e preservare questo ambiente unico per le generazioni future.

È una delle aree naturali più affascinanti di El Salvador. Situata nella catena montuosa di Ilamatepec, nella parte occidentale del Paese, la riserva fa parte della più ampia regione ecologica conosciuta come la Ruta de las flores, famosa per i suoi scenari pittoreschi e l’ampia biodiversità. La riserva si caratterizza per un terreno montuoso e una serie di vulcani estinti o dormienti, inclusi i vulcani di Santa Ana e Izalco. L’area è nota per le sue lussureggianti foreste nebulose, le quali ospitano una grande varietà di specie di piante, molte delle quali sono endemiche della regione. Le altezze variano notevolmente, il che contribuisce a un clima relativamente fresco e umido rispetto alle regioni costiere del Paese.

El Salvador ha istituito diverse aree protette per preservare la sua biodiversità, incluse riserve della biosfera e parchi nazionali. Tuttavia, la deforestazione e la conversione dei terreni per l’agricoltura e l’urbanizzazione continuano a minacciare gli habitat naturali e la conservazione delle aree naturali rimane una sfida critica, data anche la pressione antropica intensa e l’inquinamento che ne deriva.

La riserva di Apaneca-Ilamatepec è un «modello di sostenibilità», vero rifugio per una ricca varietà di flora e fauna, dove gli amanti della natura possono trovare diverse specie di orchidee e altre piante esotiche. La fauna include una varietà di uccelli, come il quetzal, che è spesso considerato il simbolo dell’America Centrale, oltre piccoli mammiferi e una vasta gamma di insetti e rettili. Sentieri ben curati offrono agli escursionisti l’opportunità di esplorare la foresta e godere di bellezze naturali. Inoltre, l’area è rinomata per le sue piantagioni di caffè e molti visitatori partecipano a tour del caffè nel parco cafetalero per imparare sulla produzione di uno dei principali prodotti di esportazione del paese.

P.R. e J.L.H.D.

Il lago Coatepequer, formatosi in una caldera vulcanica. Foto Margarita Cisneros – Unsplash.

Hanno firmato il dossier:

PAOLO ROSSI
È professore a contratto di Intelligenza artificiale e strategia d’impresa presso l’Università del Piemonte Orientale e fondatore di una B Corp che si occupa di valutazione di impatto per il mondo profit e non profit (Promos Srl Sb). Da venti anni è alla guida di «Col’or», Ong impegnata in progetti di sviluppo sostenibile in diversi paesi del mondo, tra cui El Salvador. Come volontario, scrive progetti e cerca fondi per i numerosi enti missionari con i quali collabora. Sito: colorngo.org.

José Luis Herrera Diaz
Salvadoregno, per 40 anni è stato guida per turisti di idioma spagnolo che visitavano il Canada. Attualmente vive in El Salvador, avendo avviato una propria attività ecoturistica ad Apaneca, lungo la Ruta de las flores, dove offre ai turisti esperienze immersive nella biosfera del paese. Contatto: jlherrera@improntaturistica.com.

A CURA DI:
Paolo Moiola, giornalista redazione MC (cfr. El Salvador, «Il caffè è sempre amaro», MC febbraio 1996).

Monumento al Divino Salvatore del mondo a San Salvador, capitale del paese. Foto di Ricardo Ardon – Unsplash.




L’economia di Gandhi


Il Mahatma propone una «vita vivibile», in cui si persegue la pace. L’economia deve essere al servizio della persona e non il contrario. Ciascuno può fare la sua parte. Ad esempio scegliendo la «povertà volontaria».

L’azione nonviolenta richiede un intervento in prima persona di ognuno.

Su questo assunto si basa il libro di Erica Cupelli.

La visione di Gandhi è illuminante ancora oggi, così come lo era, ad esempio, nell’81, quando l’economista Romesh Diwan ebbe a dire, a riguardo della crisi economica di quegli anni: «Questa crisi è stata portata in superficie a causa dell’incapacità della teoria economica di spiegare gli attuali fenomeni di stagflazione (recessione e inflazione concomitanti, ndc), produttività e altro. La questione riguarda concetti alquanto fondamentali: razionalità, massimizzazione, minimizzazione, ottimizzazione, equilibrio. Senza questi fondamenti, l’intero edificio logico dell’economia neoclassica cade».

Economia gandhiana

Il cuore dell’economia di Gandhi è già stato trattato – ma non in italiano – dall’economista Das Amritananda, secondo il quale il Mahatma suggerisce di badare all’impatto dello sviluppo tecnologico sul lavoro e sulle persone: «Aumenterà la povertà? Lo stile di vita delle persone migliorerà? Quali saranno le conseguenze per l’ambiente? Solo attraverso la realizzazione del pieno impiego i poveri diverranno membri della forza lavoro tale da permettere loro di provvedere autonomamente alla loro sussistenza con dignità».

«Lavorare meno, lavorare tutti!», è uno slogan che ricordo di aver urlato per le strade di Milano, alle manifestazioni degli anni 70 e 80. Può darsi che sia stato gettato allora quel seme che mi ha portato poi a decidere di lavorare meno, guadagnare meno, avere meno per poter scegliere di non fare un lavoro che non voglio, o che non è etico, o che sfrutta qualcuno, o che uccide (compresi gli animali), ecc.

Su questa scia ho trovato nel libro di Erica Cupelli pagine di proposte operative su come organizzare il lavoro, altro che «sogni utopici».

Trascrivo alcuni passaggi: «Gandhi propone una “vita vivibile”, in cui si persegue la pace. Per questo motivo si dovrà lavorare quanto basta per comprare il pane quotidiano, così che il resto del tempo possa essere dedicato a ciò che ha vero valore, non la ricchezza materiale, ma ciò che nobilita l’anima. Allora ci si potrà prendere cura dei propri figli, assistere le persone anziane, fare volontariato, coltivare le proprie passioni, mentre, al tempo stesso, molte più persone potranno lavorare. Il miglior lavoratore sarà dunque colui che si sente a suo agio nella semplicità, l’unica via che può portare alla felicità, fatta di affetti, emozioni, vita. Con la speranza di aver illustrato in modo adeguato i fondamenti etici dell’economia gandhiana, la sfida […] sarà quella di tradurli in concetti praticabili, pur essendo consapevoli del fatto che ciò diventerà possibile solo con una profonda e sincera trasformazione del cuore».

Otto punti, un regolamento

Ditemi se non siete d’accordo con le indicazioni qui sotto, dal paragrafo Attenzione al lavoratore: «1. le ore di lavoro non superino le 6 giornaliere e le 32 ore settimanali; 2. l’orario sarà flessibile per venire incontro alle esigenze personali di ognuno; 3. l’ambiente sia quanto più possibile naturale e pieno di luce; 4. non vi siano turni notturni, eccetto per quei lavori che, per il benessere della società, richiedono tale servizio (esempio: medici, infermieri, pompieri, poliziotti); 5. nel caso di turno notturno, una persona deve essere remunerata maggiormente rispetto a un turno normale; 6. il turno di notte deve essere svolto a rotazione e non più di una volta alla settimana per ogni lavoratore; 7. venga promossa la cultura tramite l’inserimento di biblioteche negli ambienti di lavoro; 8. siano inseriti dei corsi di aggiornamento periodici […]».

Sette punti, un programma

Gli aspetti fondamentali dell’economia gandhiana possono riassumersi in sette punti: 1. proprietà nonviolenta e comunitaria gestita tramite l’amministrazione fiduciaria, cioè la delega ad alcuni esperti interni alla comunità; 2. produzione nonviolenta e uso di tecnologie appropriate; 3. consumo consapevole e limitazione volontaria del possesso dei beni superflui; 4. lavoro nonviolento e lavoro per il pane; 5. cooperazione; 6. distribuzione nonviolenta delle risorse e uguaglianza; 7. socialismo comunitario e nonviolento.

Undici consigli, una realtà

A riprova del fatto che la proposta di questo libro per un’economia diversa non è un sogno utopico, ci sono le testimonianze della vita nei villaggi indiani ai tempi di Gandhi, Vinoba Bhave e altri: «Gli ashram divennero di fatto dei luoghi di sperimentazione diretta in cui il non possesso, l’uguaglianza, il non sfruttamento, l’amministrazione fiduciaria e la scelta di una vita semplice come espressione della povertà volontaria, caratterizzavano ogni membro».

La visione di Gandhi, sperimentata nei villaggi e negli ashram indiani, si basa su questi consigli, applicabili in ogni comunità: 1. allenamento spirituale per autodisciplinarsi; 2. decentramento; 3. valorizzazione dei punti di forza della comunità; 4. scelta e utilizzo di tecnologie che siano a servizio dell’uomo; 5. incoraggiamento al lavoro manuale; 6. cura e attenzione alla natura; 7. servizio alla comunità; 8. liberazione da ciò che vincola e rende schiavi; 9. tutela dell’eguaglianza (economica e socio politica); 10. condivisione di ciò che si ha; 11. scelta di una vita semplice.

La scelta di una vita semplice è l’espressione della «povertà volontaria», formula che mi piace di più di «semplicità volontaria», anche se può spaventare.

Riassuntino colorato

Se tutte le parole lette finora sono state troppe, le trovate riassunte nella copertina del libro, i cui colori riassumono il modello gandhiano in modo immediato: il verde (valori, cultura, società) contiene e fonda il blu (economia), e non viceversa, come scrive l’autrice Erica Cupelli: «Lo schema visualizza il modello gandhiano, che guarda il mondo secondo i valori etici che […] fondano una economia al servizio dell’uomo e non viceversa».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

  • Mohandas Karamchand Gandhi, Una grande Anima. Pensieri spirituali per la vita concreta, a cura di N. Salio e C. Toscana, Red edizioni, Como 1998, pp. 128, 7,23 €.
  • Nanni Salio (a cura di),
    Gandhi. Economia gandhiana e
    sviluppo sostenibile
    , Seb27, Torino 2000, pp. 84, 12,50 €.
  • John Ruskin, Cominciando dagli ultimi, San Paolo, Milano 2014, pp. 128, 12 €.
  • Michael J. Sandel, Quello che
    i soldi non possono comprare.
    I limiti morali del mercato
    , Feltrinelli, Milano 2015, pp. 233, 11 €.
  • Roberto Mancini, L’amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Lévinas, Cittadella, Assisi 2005, pp. 296, 15,90 €.
  • Ernst Friedrich Schumacher,
    Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, Mursia, Milano 2011, pp. 310, 18 €.



Trattori selvaggi


Quella che oggi prevale è l’agricoltura industriale: a monte le multinazionali dei fertilizzanti, a valle quelle commerciali. Con una dinamica dei prezzi che premia quelle stesse aziende mentre penalizza produttori e consumatori finali. Dopo le proteste e i successivi compromessi al ribasso, a perdere sono l’ambiente e i cittadini.

I trattori che, fra gennaio e febbraio 2024, si sono visti sfilare per le vie di varie città europee, non erano macchine vecchie e di piccola taglia, ma imponenti e di alto valore economico. Segno che, a scendere in piazza, non erano tanto i piccoli coltivatori, magari dediti all’agricoltura biologica, ma i produttori di medie e grandi dimensioni pienamente inseriti nella filiera agricola industriale. Quei produttori, cioè, che si pongono l’obiettivo di ottenere rese quanto più alte possibili tramite l’impiego di macchinari sofisticati e l’uso indiscriminato di ogni tipo di sostanza chimica. Rappresentanti di un’agricoltura che, oltre ad avere pessime ricadute sull’ambiente, è anche estremamente rischiosa per i produttori stessi, perché impone l’esborso di grandi quantità di denaro senza nessuna certezza rispetto ai ricavi. I raccolti, infatti, sono sempre un grande punto interrogativo, specie di questi tempi: con il sopraggiungere dei cambiamenti climatici, di raccolti che vanno male ce ne sono sempre di più. Ma il clima che cambia è solo una delle minacce che condizionano i ricavi degli operatori del settore. L’agricoltura industriale è dominata da pochi sciacalli posizionati sia a monte che a valle della filiera. A monte ci sono le multinazionali dei fertilizzanti, dei pesticidi e dei carburanti, pochi soggetti che usano la loro posizione di monopolio per imporre prezzi di vendita più alti possibili sui propri prodotti. A valle ci sono le multinazionali commerciali, pochi soggetti che usano la loro posizione di monopsonio, ossia di acquirente unico, per imporre prezzi di acquisto più bassi possibili. Così i produttori dell’agricoltura industriale lamentano di sentirsi in una morsa che li impoverisce sempre di più.

Costi, ricavi, prezzi finali

Negli ultimi anni vari elementi hanno influito negativamente sia sul fronte dei costi che dei ricavi, mettendo in difficoltà i produttori dell’agricoltura industriale che hanno cercato di rimediare producendo ancora di più, ossia costringendo la terra a dare rese sempre più alte. Sul piano dei costi, sappiamo tutti che, nel corso del 2022, la guerra fra Russia e Ucraina ha fatto impennare i prezzi del gas e più in generale dei carburanti. Una crescita che, se per le famiglie si è tradotta principalmente in aumento delle bollette elettriche e del gas, per i produttori agricoli ha significato aumento oltre che dei carburanti anche dei fertilizzanti azotati considerato che la materia prima da cui si ottengono questi ultimi è il metano. L’Istat certifica che nel corso del 2022, in Italia, i prezzi dei beni e servizi utilizzati in agricoltura sono cresciuti del 25,3 per cento con rincari guidati soprattutto dai prodotti energetici (+49,7%) e fertilizzanti (+63,4%). Gli aumenti hanno investito tutti i settori, seppur con diversa intensità, a seconda della combinazione dei fattori produttivi. I più colpiti sono stati i produttori di semi oleosi e cereali senza risparmiare la zootecnia. Gli esborsi degli allevatori sono aumentati di media del 16,6% e più precisamente del 9,8% per l’acquisto degli animali da allevamento, del 25% per i mangimi, del 61,5% per i prodotti energetici. Incrementi di costo che non sono stati compensati da uguali aumenti di prezzo alla vendita. L’Istat informa che, sempre nel 2022, in Italia il prezzo dei beni agricoli è aumentato mediamente del 17,7% con una differenza negativa, rispetto ai costi, di circa il 7%.

Coldiretti, la principale associazione degli agricoltori italiani, è più pessimista. Basandosi sui dati Fao a livello globale, forniti nel gennaio 2024, l’associazione sostiene che a volare sono stati i prezzi del cibo al consumatore finale, mentre ai contadini i prodotti agricoli sono stati pagati il 10,4% in meno rispetto all’anno precedente. Più precisamente meno 18% per il latte alla stalla e meno 19% per i cereali nei campi. E pensare che, nel 2022, tutto il mondo era in apprensione per l’aumento del prezzo internazionale dei cereali cresciuto di oltre il 20% come conseguenza della mancata commercializzazione di quelli provenienti dall’Ucraina. Ma i guadagni sono stati intascati tutti dalle grandi multinazionali commerciali. In particolare, Archer Daniels, Bunge, Cargills, in sigla Abc, che dominano il mercato internazionale delle derrate agricole.

Il prezzo dei cereali e quello del pane. Foto Mp1746-Pixabay.

Pane e finocchi

Del resto, che esista un’ampia sfasatura fra prezzi pagati al produttore e quelli pagati al consumo finale, è cosa risaputa. Coldiretti cita il caso della filiera del pane, facendo notare che in Italia il prezzo finale di questo prodotto cresce anche di venti volte rispetto al grano. Un chilo di grano che viene pagato oggi agli agricoltori attorno a 24 centesimi di euro serve per fare un chilo di pane che viene venduto ai consumatori a prezzi che variano dai 3 ai 5 euro a seconda delle città.

Le anomalie – continua la Coldiretti – sono evidenti anche nei prodotti freschi come gli ortofrutticoli che dai campi agli scaffali dei supermercati vedono salire i prezzi di tre-cinque volte. Il tutto benché non debbano subire trasformazioni. Come esempio vengono citati i finocchi.

Secondo i calcoli di Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) del gennaio 2024, per produrre un chilo di finocchi il contadino deve spendere 18 centesimi di euro, ma riesce a venderli a 12 centesimi, mentre al supermercato sono venduti ai consumatori finali a 1,69 euro, il 1.308% in più. E pensare che i finocchi non necessitano neanche di imballaggio: sono venduti sfusi. Ulteriore conferma di come la filiera agricola sia dominata da posizioni di abuso al cui apice si trovano i signori della grande distribuzione che contribuiscono a ridurre i guadagni degli agricoltori. Signori evidentemente considerati troppo forti per essere presi di petto dalle istituzioni, per cui vengono lasciati in pace. E, infatti, è successo che gli agricoltori hanno diretto la propria protesta verso il soggetto pubblico ritenuto più malleabile. Con richieste sia nei confronti dei rispettivi governi che dell’Unione europea. Ai primi per ottenere abbattimenti fiscali e contributi ai carburanti; alla seconda per ottenere modifiche a certe sue scelte riguardanti sia il commercio internazionale che le condizioni imposte per avere accesso ai suoi contributi.

Il prezzo dei finocchi è basso per i produttori, alto per i consumatoeri finali. Foto Ylanite-Pixabay.

Accordi e concorrenza

Un fenomeno fortemente sostenuto dall’Unione europea (Ue), che alcuni agricoltori del continente considerano lesivo dei loro interessi, è rappresentato dagli accordi di libero scambio. Questi consistono in contratti fra due paesi per facilitare i reciproci scambi commerciali. Di norma le facilitazioni consistono nell’abbattimento reciproco delle barriere doganali e nell’accettare le caratteristiche produttive dei prodotti importati anche se non in linea con la legislazione del paese importatore.

Parlando di prodotti alimentari, un’eccezione ammessa di frequente dalla Ue è quella di importare prodotti ottenuti con metodiche proibite nell’Unione europea: ad esempio con l’impiego di particolari farmaci o sostanze chimiche. Pratica contestatissima dai nostri produttori che si sentono penalizzati rispetto a quelli esteri.

A gennaio 2024 l’Unione europea risultava avere ben dodici accordi di libero scambio in ambito agricolo. E non tanto con paesi che si affacciano sul Mediterraneo, quanto con paesi dell’Estremo Oriente e d’oltre oceano, come Canada, Messico, Cile, Giappone, Vietnam, addirittura la Nuova Zelanda. L’Unione europea sostiene di averli stipulati perché procurano un vantaggio ai consumatori europei e agli stessi agricoltori. Ai consumatori perché possono garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, magari a prezzi più bassi di quelli interni; agli agricoltori perché ampliano i loro sbocchi di mercato con le esportazioni.

E può darsi anche che sia così. Ma solo per i grandi produttori che possono permetterselo, metre quelli piccoli, più orientati al mercato interno, si lamentano perché subiscono la concorrenza sleale di prodotti provenienti dai paesi agevolati dagli accordi di libero scambio. Un esempio è rappresentato dall’accordo recentemente stipulato con la Nuova Zelanda: gli allevatori europei dediti al latte e agli ovini temono di essere danneggiati dai prodotti lattieri e animali provenienti da questo paese che, in virtù degli abbattimenti tariffari, potrebbero entrare a prezzi più bassi di quelli esistenti internamente. Lo stesso vale per alcuni prodotti provenienti dall’Ucraina. In particolare, gli agricoltori di Polonia e Francia, grandi produttori di cereali, hanno chiesto che venisse rivisto l’accordo di libero scambio stipulato con l’Ucraina già nel 2016, perché la guerra ha alterato tutti i flussi commerciali creando una situazione di concorrenza sleale in seno all’Unione europea. Richiesta accolta dalla Commissione europea che, nel marzo 2024, ha introdotto restrizioni alle importazioni agricole provenienti da questo paese.

Le regole della Ue

I produttori si lamentano anche delle regole ambientali imposte dall’Unione europea per poter godere dei contributi agricoli. Il sistema di sostegno all’agricoltura oggi previsto in ambito europeo prevede sia forme di agevolazione finanziaria per specifici investimenti, sia contributi a fondo perduto in rapporto alla quantità di terra posseduta.

In ogni caso i meccanismi di godibilità sono tutti organizzati affinché i beneficiari principali siano le grandi aziende. Ciò nonostante, sono soprattutto i piccoli produttori a lamentarsi delle condizioni da rispettate per potere accedere ai contributi e alle agevolazioni. In particolare, sono messe sotto accusa alcune regole che l’Unione europea ha imposto a tutela della biodiversità e della salvaguardia dei suoli.

Le più odiate sono quelle che limitano l’uso di pesticidi e che prevedono l’obbligo di tenere a riposo il 4% dei propri terreni.

I piccoli produttori sostengono che si tratta di condizioni capestro che riducono la loro capacità produttiva e quindi i loro già magri guadagni. Richieste di nuovo accolte dalla Commissione europea che, nel febbraio 2024, ha reso più blanda la regola di messa a riposo delle terre e ha ritirato la proposta di regolamento tesa a ridurre del 50% l’uso di pesticidi entro il 2030.

Nelle campagne i braccianti agricoli sono spesso sottopagati. Foto Tim Mossholder-Unsplash.

Ambiente e cittadini

Gli agricoltori industriali tireranno un respiro di sollievo: nell’immediato i loro guadagni sono salvaguardati. Ma per la collettività nel suo insieme si tratta di una disfatta perché continuerà ad aggravarsi il degrado ambientale di cui l’agricoltura industriale è una forte responsabile.

Quello che servirebbe è una profonda revisione del modello economico che seguiamo, un radicale ripensamento del modo di produrre e consumare per fare finalmente pace con la natura. Non per amore disinteressato verso il pianeta, ma per amore di noi stessi, per garantirci un futuro meno problematico.

La grande sfida è avviare questo processo di cambiamento senza lasciare indietro nessuno. Ma, per riuscirci, bisogna cominciare a prendere consapevolezza che cambiare è necessario e che occorre farlo con spirito di solidarietà. Ossia sapendo soccorrere coloro che maggiormente sono investiti dai mutamenti, ma al tempo stesso sono troppo deboli per affrontarli da soli.

Fra essi ci sono sicuramente anche gli agricoltori, specie quelli di piccola taglia, che vanno aiutati a passare a pratiche di tipo biologico senza subire contraccolpi eccessivi.

Francesco Gesualdi




Privato non è bello


Beni comuni persi dalla comunità a favore dei singoli. Questo sono le privatizzazioni. Anche l’antica Roma distingueva tra ambito «pubblico» e ambito «privato», ma quest’ultimo prese il sopravvento quando, nel Settecento, gli inglesi permisero ai grandi proprietari di recintare le terre collettive.

Capita a molti politici di condannare certe scelte, quando sono all’opposizione, e di perseguirle, quando sono al governo. Uno degli ultimi casi riguarda la presidente del Consiglio Giorgia Meloni che, nel 2018, scriveva sui social: «Poste [italiane] è un gioiello che deve rimanere in mano pubblica». Passata dall’opposizione al governo, in un’intervista televisiva rilasciata nel gennaio 2024 la stessa Meloni cambiava opinione prevedendo la possibilità di procedere a privatizzazioni comprendenti anche Poste italiane. Scelta puntualmente ufficializzata il 26 gennaio 2024 dal Consiglio dei ministri.

«Privatus» versus «publicus»

Da qualche decennio le privatizzazioni sono diventate pratica corrente di tutti i governi, sia quelli di destra che di sinistra, forse perché i margini di differenza fra le due sponde ideologiche si stanno restringendo sempre di più. Nel contempo, però, va precisato che, dietro questa parola, si racchiudono vari concetti, assai diversi fra loro per meccanismi e portata politica.

Da un punto di vista etimologico, privatizzare deriva da privatus, parola che, nell’antica società romana, indicava la condizione dei singoli individui in contrapposizione allo Stato definito publicus. Ma è bene ricordare che, dalla stessa radice, proviene anche il verbo «privare» che significa togliere, sottrarre. E si scopre che, presso gli antichi, il soggetto di riferimento era lo Stato che considerava la «roba» dei singoli come qualcosa che era stato sottratto alla sua potestà.

Una concezione che ritroviamo ancora oggi nel verbo privatizzare che si riferisce ai beni comuni persi dalla comunità a favore di singoli. Un fenomeno che ebbe un grande impulso nell’Inghilterra del Seicento e del Settecento quando il Parlamento autorizzò i grandi proprietari terrieri a recintare le terre che, fino ad allora, avevano lo status di proprietà collettiva (enclosures acts). Un processo tutt’altro che terminato considerato che la collettività continua a essere depredata delle sue proprietà e delle sue attività in nome delle motivazioni più varie.

Lo Stato e le crisi

Per una comprensione più articolata dei processi di privatizzazione è bene tenere a mente che, nel corso del tempo, l’idea di Stato ha avuto profonde modificazioni, con cambiamenti anche nella tipologia dei beni posseduti e delle attività svolte. Per quanto riguarda le proprietà, una categoria di beni tradizionalmente posseduti dagli Stati sono sempre stati quelli naturali: mari, fiumi, laghi, coste. Però, con l’avanzare del modello capitalista, lo Stato si è ritrovato anche proprietario di attività industriali, non per scelta ma come rimedio ai processi di autodistruzione che spontaneamente il capitalismo tende a mettere in atto. Emblematica la grande crisi che investì il mondo industrializzato nel 1929 o quella del 2008 che coinvolse l’intera finanza internazionale. Benché molto diverse fra loro, entrambe hanno avuto in comune il crollo di valori finanziari che mettevano fortemente a rischio il sistema bancario, nei confronti del quale i governi si sono sempre sentiti in dovere di intervenire in caso di cattiva parata. Nel 1929 la crisi riguardò il valore dei titoli azionari, ossia dei titoli attestanti la proprietà delle aziende. Titoli che le banche possedevano a piene mani. Il problema è che, se i titoli crollano, anche le banche vacillano perché risultano impoverite e, nella paura di non poter riprendere ciò che hanno depositato, molti risparmiatori corrono in banca per riprendersi i propri soldi. Ma così facendo trasformano il rischio in realtà perché nessuna banca è in grado di restituire in poco tempo tutti i soldi ricevuti in deposito.

Per il capitalismo il sistema bancario rappresenta la spina dorsale e nessun governo può permettersi di assistere inerme al suo naufragio. Perciò, dopo la crisi del 1929, molti governi si organizzarono per salvare le proprie banche. Ciascuno con il proprio programma. Il governo di Mussolini optò per due strategie: nazionalizzare le banche più traballanti e acquistare i titoli deteriorati posseduti da tutte le altre. A questo scopo, nel 1933 venne creato l’Istituto di ricostruzione industriale (Iri) e lo Stato italiano si trovò maggiore azionista, se non azionista unico, di decine di complessi industriali attivi nei settori chiave del paese: armame-

nti, telecomunicazioni, siderurgia, meccanica. Nelle intenzioni, l’Iri doveva essere liquidato di lì a poco, ma sopravvisse e nel dopoguerra procedette a ulteriori salvataggi divenendo il maggiore gruppo italiano che comprendeva aziende chimiche e meccaniche, siderurgiche e alimentari.

Privato versus pubblico. Foto Wesley Tingey-Unsplash.

Il vento ideologico cambia

Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, in tutta Europa dominava un pensiero politico favorevole all’intervento dello Stato in economia. Non a caso in quel periodo, in Italia nacque l’Eni, di totale proprietà pubblica, per l’estrazione di gas e petrolio, mentre l’intero comparto dell’energia elettrica venne portato sotto controllo pubblico tramite l’Enel. Ma, a partire dagli anni Ottanta, il vento ideologico cambiò e anche in Italia ci furono pressioni per spogliare lo Stato delle sue attività produttive. L’annuncio al mondo della finanza venne dato in circostanze carbonare, niente po’ po’ di meno che a bordo di un panfilo di sua Maestà la Regina d’Inghilterra. Era il 2 giugno 1992, festa della Repubblica, quando nel porto di Civitavecchia attraccò lo yacht Britannia per fare salire a bordo vari dirigenti dello Stato italiano, fra cui Mario Draghi, direttore generale della Banca d’Italia. A bordo erano già presenti rappresentanti della finanza londinese pronti ad accogliere la delegazione italiana. Questa, durante una gita che aveva come meta l’isola del Giglio, avrebbe dovuto relazionare sulle prospettive di privatizzazione in Italia. L’evento venne confermato da Mario Draghi nel corso di un’audizione alla Commissione bilancio nel marzo 1993, ma venne descritto come un banale convegno.

Meno imprese pubbliche

Le prime privatizzazioni avvennero nel 1993 e riguardarono alcune imprese alimentari che videro Nestlé come principale acquirente. Più avanti fu la volta dell’attività telefonica, petrolifera, elettrica, automobilistica. Talvolta attraverso la cessione di tutte le quote, come è avvenuto nel caso di Cirio (Iri), talvolta attraverso la cessione di quote parziali come nel caso di Eni, Enel, Poste e varie altre.

L’ultimo rapporto Istat certifica che, nel 2020, le società a partecipazione pubblica sono 7.969, precisando che alcune ricadono in questa categoria perché possedute in tutto o in parte da ministeri, mentre altre vi ricadono perché partecipate da enti locali, o dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), una banca particolare controllata dal ministero dell’Economia. Considerato che, in Italia, le imprese sono 1,6 milioni, le società a partecipazione pubblica rappresentano solo lo 0,5% del totale. Con la prospettiva che continuino a calare, dal momento che, dal 2012 al 2020, hanno registrato una flessione del 25%.

Fino a ora abbiamo valutato le privatizzazioni usando come criterio quello della proprietà. Ma il concetto di privatizzazione ha significati più ampi e comprende anche le finalità dell’impresa. Prendiamo, ad esempio, Ferrovie dello Stato. Da un punto di vista della proprietà è una società pubblica perché posseduta interamente dal ministero dell’Economia. Ma, da un punto di vista delle finalità, è come una qualsiasi società privata perché il suo fine non è il servizio pubblico, ma il profitto. Quando si ha come obiettivo il servizio pubblico si accetta di avere anche dei bilanci in perdita, magari perché ciò serve a mantenere bassi i prezzi dei biglietti o perché serve a tenere aperte anche delle tratte poco frequentate. Se si ha per obiettivo il profitto, si fanno scelte che privilegiano i più facoltosi rinforzando il raccordo ad alta velocità di città importanti, mentre si mantengono in cattivo stato le tratte locali frequentate dai pendolari. Una politica che, purtroppo, non si riscontra solo nell’ambito dei trasporti, ma anche di servizi ancora più essenziali come l’acqua.

Il caso dell’acqua

Prima del 1990 gli acquedotti erano gestiti da aziende municipalizzate, strutture autonome da un punto di vista tecnico operativo, ma un tutt’uno con i Comuni da un punto di vista economico e politico. L’azienda municipalizzata faceva pagare un prezzo per i servizi che forniva, ma l’ammontare era deciso dal consiglio comunale in base a criteri sociali. E se l’incasso non bastava per fare fronte a tutte le spese o agli investimenti da effettuare, provvedeva il Comune  con integrazioni di altra natura. Semplicemente perché l’acqua non era considerata una merce, ma un diritto da tutelare. Nel 1990 questa impostazione cominciò a essere smantellata tramite norme che spostavano la gestione dalle aziende municipalizzate ad aziende pubbliche. Da un punto di vista linguistico la differenza è impercet-

tibile, ma da un punto di vista giuridico la differenza è abissale.

L’azienda pubblica, pur essendo di proprietà del Comune, diventa un corpo a sé stante, una sorta di figlio adulto che deve arrangiarsi da solo. D’ora in avanti non può più ricorrere a mamma Comune: deve coprire tutte le spese da sola con i proventi delle sue vendite. I prezzi li decide lei stessa non più secondo criteri di equità sociale, ma secondo logiche di contabilità di bilancio. Per di più è una Spa, una Società per azioni. Per legge il suo compito è garantire profitti agli azionisti. Un cambiamento totale di prospettiva: la municipalizzata guardava alla gente, la Spa guarda agli azionisti. Potremmo dire «all’azionista» visto che il capitale è del Comune. Ma la Spa ha la caratteristica che le quote si possono vendere, e altri soci possono aggiungersi.

Le leggi che seguirono aprirono l’ingresso ai privati e le multinazionali dell’acqua calarono come cavallette per entrare nelle società pubbliche costituite per gestire gli acquedotti. Tanto per citare i casi più clamorosi, Suez è penetrata in Acea, azienda del Comune di Roma, controllando un pacchetto azionario che oggi è al 23%. Veolia, invece, è stata a lungo in Acqualatina, azienda dei comuni della provincia di Latina, con una quota del 49%, ceduta a Italgas nel luglio 2023. Ma, ad argini rotti, è successo di tutto: la compagine degli azionisti delle società pubbliche si è allargata a banche e affaristi, alcune aziende pubbliche si sono fuse fra loro, altre si sono compenetrate in un groviglio che non permette di capire chi possiede e chi è posseduta. Alcune sono addirittura finite in borsa com’è il caso della romana Acea, dell’emiliana Hera, della lombarda A2A. Acea la ritroviamo addirittura in Honduras a gestire l’acquedotto di San Pedro Sula, come se fosse una multinazionale qualsiasi.

Prima gli azionisti

La motivazione addotta per vendere le società pubbliche ai privati, è stata la necessità di fare soldi per pagare il debito pubblico. I fatti hanno dimostrato che si è trattato di un’operazione inutile perché ha procurato solo gocce rispetto a un oceano. La motivazione addotta per chiudere le municipalizzate e fare gestire i servizi pubblici a società per azioni aperte ai privati è stata l’efficienza. Ma i fatti dimostrano che a guadagnarci sono stati gli azionisti, non i cittadini.

La verità è che i processi di privatizzazione sono figli di un progetto ideologico teso ad affermare la supremazia del mercato sulla logica dei beni comuni e sui diritti dei cittadini. Un processo fortemente promosso dall’Unione europea che ha posto il mercato e la concorrenza a fondamento del proprio ordinamento. Tant’è che condiziona ogni sua concessione all’attuazione di riforme tese a consolidare il processo di mercantilizzazione dell’economia e della società. Lo stesso Pnrr è stato un’occasione utilizzata in questa direzione. Prima o poi i cittadini europei si accorgeranno dell’inganno e pretenderanno un’altra Europa.

Francesco Gesualdi

Privato versus pubblico. Foto Call-me-Fred_Unsplash.




Scandalo in spiaggia


In Italia ci sono 8.970 chilometri di coste. Circa un terzo sono balneabili. Di queste la metà sono date in concessione dallo Stato. Sempre ai soliti e a prezzi ridicolmente bassi. Nel frattempo, i cittadini pagano e le poche spiagge libere sono nel degrado.

C’era una volta una lite tra lupi che oscurava un altro tipo di contenzioso: quello tra lupi e agnelli. Così si potrebbe riassumere la vicenda andata in scena negli ultimi anni e che ha come oggetto la gestione delle spiagge italiane.

Le regole europee

Per la prima parte della vicenda, quella riguardante la lite fra lupi, la storia si può fare iniziare nel 2006 allorché l’Unione europea (Ue) varò una direttiva, la numero 123, passata alla storia come direttiva Bolkestein, in onore del Commissario che la elaborò.

Oggetto della direttiva è l’integrazione dei servizi nel mercato comune europeo. Obiettivo facile da enunciare, ma difficile da attuare perché i servizi non si possono separare dalle imprese che li offrono.

Nel caso di auto, biciclette, caciotte e qualsiasi altro tipo di manufatto, il mercato comune si crea permettendo la libera circolazione dei beni senza coinvolgimento delle imprese produttrici. I produttori possono doversi uniformare a regole comuni in materia di igiene, sicurezza, imballaggi, ma niente di più.

Spiagge, uno scandalo italiano. Foto Gianni Crestani – Pixabay.

Se, invece, parliamo di servizi bancari, di trasporti, di telecomunicazioni, di ristorazione, o addirittura di assistenza sanitaria, istruzione, insomma di tutte quelle attività che procurano un beneficio nel momento stesso in cui sono prodotte, il libero mercato si può creare solo permettendo alle imprese produttrici di muoversi da un Paese all’altro. Se l’impresa francese vuole aprire un ristorante a Roma, deve avere la possibilità di trasferirsi dalla Francia all’Italia, magari con personale francese se lo ritiene utile. Oppure potremmo immaginare un’impresa di facchinaggio polacca che decide di trasferirsi in Spagna, Germania, o qualsiasi altro Paese dell’Unione per gestire l’attività di magazzino di grandi complessi commerciali. Ma con quale personale può farlo: quello locale o quello del Paese di origine? E pagando i dipendenti secondo quali livelli salariali? E con quali regole contributive? Ecco alcuni quesiti che il trasferimento dei servizi apre nell’ambito di una lista ben più lunga che comprende aspetti giuridici, fiscali, sociali, salariali e molto altro. Tematiche a cui la direttiva Bolkestein ha voluto rispondere creando regole comuni valide per tutta l’Unione. Mantenendo sempre come faro il principio della concorrenza, tanto caro all’ordinamento europeo.

Inizialmente si temeva che la Bolkenstein potesse essere il cavallo di Troia per imporre in tutta l’Unione la privatizzazione dei servizi pubblici, ma il punto 8 della premessa chiarisce: «È opportuno che le disposizioni della presente direttiva relative alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi si applichino soltanto nella misura in cui le attività in questione sono aperte alla concorrenza e non obblighino pertanto gli Stati membri a liberalizzare i servizi d’interesse economico generale, a privatizzare gli enti pubblici che forniscono tali servizi o ad abolire i monopoli esistenti per quanto riguarda altre attività o certi servizi di distribuzione».

Del resto, in altre parti del testo, si precisa che la direttiva non si applica ai servizi di interesse generale menzionando specificamente la sanità e i trasporti.

Per la verità, nel testo non si fa mai espresso riferimento neanche alle spiagge o alle attività balneari, ma esse rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva perché si tratta di attività turistiche svolte su concessione, ossia su autorizzazione delle autorità pubbliche che concedono l’uso di beni appartenenti alla collettività. Nel caso specifico le spiagge.

I beni del demanio statale

In gergo i beni di proprietà pubblica si definiscono demaniali, parola derivante dal latino dominium, «dominio», che il francese antico ha trasformato in demaine, a indicare tutto ciò che è sottomesso all’autorità statale. Un elenco che, per quanto riguarda l’Italia, è racchiuso nell’articolo 822 del Codice civile italiano: «Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale». Ma nel 1942 il Codice della navigazione, articolo 36, stabilì che «L’amministrazione marittima, compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo». Un altro provvedimento tornò sul tema nel 1993, stabilendo che le concessioni avevano la durata di quattro anni. Termine esteso a sei anni da una legge del 2001 che però fece anche di più. Da una parte previde la possibilità di rinnovo automatico a ogni scadenza. Dall’altra stabilì che, in caso di nuovi bandi, i soggetti già in possesso di una concessione erano privilegiati rispetto agli altri. Così in Italia si è formata una casta di concessionari balneari talmente blindata da impedire l’ingresso a ogni nuovo aspirante.

Una situazione non condivisa dalle istituzioni europee che a più riprese hanno chiesto allo Stato italiano di uniformarsi al diritto europeo e in particolare alla Bolkestein secondo la quale sia il rilascio di nuove concessioni, sia il rinnovo di quelle in scadenza, debbono seguire procedure pubbliche trasparenti e imparziali tali da consentire a nuovi operatori di concorrere su un piano paritario.

Nel 2009 ci fu una prima iniziativa della Commissione europea che minacciò l’Italia di una pesante multa se non avesse modificato la normativa. Ma la lobby dei gestori balneari era potente e per vari anni lo Stato italiano si è esibito in un penoso teatrino che ha mandato in scena il varo di nuove leggi che facevano finta di cambiare il quadro normativo mentre tutto rimaneva immutato. In certi casi peggioravano addirittura la situazione, come fece il primo governo Conte che, nel dicembre 2018, estese le concessioni in vigore fino al 2033.

Ue-Stato: la saga infinita

Nel frattempo, anche la Corte di giustizia europea e la magistratura italiana sono state costrette a pronunciarsi sulla questione dando sempre torto all’Italia. Nel 2022 il governo Draghi tentò di mettere la parola fine sulla vicenda varando una legge che faceva scadere tutte le concessioni al dicembre 2023. Ma nel febbraio 2023 la legge nota come «Mille proroghe» ha rinviato la scadenza di un altro anno, al dicembre 2024. Al che la Commissione europea è sbottata e nel novembre 2023 ha mandato al governo italiano una nuova missiva dandogli due mesi di tempo per uniformarsi alla direttiva Bolkestein. Insomma, la saga continua, difficile dire quando andrà in onda la puntata finale.

A gennaio 2024 il governo Meloni non aveva ancora detto come intendeva risolvere la questione. Stretto fra le pressioni dei concessionari italiani e le minacce della Commissione europea, il problema del governo Meloni è capire come uscirne senza scontentare nessuno. Ma in cuor suo sa che la lite fra lupi è ormai stata vinta da quelli europei.

L’unico modo per sparigliare le carte sarebbe quello di abbandonare i lupi e prendere le difese degli agnelli, ossia dei cittadini che chiedono di considerare le spiagge beni comuni non privatizzabili da mettere gratuitamente a disposizione di tutti. Come succede in Spagna dove le spiagge sono tutte libere, con possibilità per i privati di allestire i propri servizi a pagamento solo sui terreni di retrovia.

Canoni ridicoli, evasione, lavoro nero, abusi

In Italia ci sono spiagge in abbondanza. L’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) certifica che su 8.300 chilometri di coste, 3.270 sono rappresentate da spiagge sabbiose o ghiaiose. Ma la maggior parte di esse sono accessibili solo a pagamento perché sono controllate da un’industria balneare che nessuno sa quantificare con esattezza.

Secondo il sistema delle Camere di commercio, nel 2021 gli stabilimenti balneari in Italia ammontavano a 7.173, ma il dato non torna con i numeri forniti dal Sid, il Sistema informativo del demanio, secondo il quale nello stesso anno le concessioni balneari erano 12.166. Una media di quattro stabilimenti ogni chilometro di spiaggia.

Anche il giro d’affari dell’industria balneare rimane un mistero: le valutazioni cambiano a seconda del tipo di impresa inclusa nel settore.

Le stime, pertanto, oscillano fra i 2 e i 15 miliardi di euro l’anno. È certa, invece, l’esiguità dell’incasso che lo Stato ottiene dalle concessioni. Una media di 95 milioni l’anno, ha calcolato la Corte dei conti. Un ben magro bottino considerati anche gli episodi di illegalità riscontrati nel settore balneare. Il riferimento non è tanto all’evasione fiscale e al lavoro nero, non documentabili, ma alla presenza di tratti di litorale occupati da muri e cancelli nonché edifici costruiti abusivamente, come denuncia anche il Rapporto spiagge di Legambiente del 2022. Una situazione inimmaginabile in Francia dove l’80% della lunghezza e l’80% della superficie della spiaggia deve essere libera da costruzioni per sei mesi l’anno. Non a caso gli stabilimenti vengono montati e smontati a ogni stagione. Inoltre, nel territorio francese, i comuni, che sono gli enti preposti al rilascio delle autorizzazioni e delle concessioni, sono obbligati a informare la collettività di qualunque progetto e di qualunque nuovo soggetto che intenda gestire le spiagge. Al tempo stesso i cittadini possono effettuare proposte sulla corretta gestione del patrimonio costiero pubblico.

Spiagge, uno scandalo italiano. Foto GMaiga – Pixabay.

Beni comuni trascurati

L’Italia è fra i paesi europei con le più alte quote di spiagge date in concessione.

Legambiente segnala che la percentuale di costa sabbiosa gestita da stabilimenti privati è mediamente del 43% con regioni che arrivano molto più su. Succede, ad esempio, in Liguria, Emilia Romagna e Campania, dove quasi il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti balneari.

Nel comune di Gatteo, in provincia di Forlì e Cesena, tutte le spiagge sono in concessione, ma anche a Pietrasanta (Lucca), Camaiore (Lucca), Montignoso (Massa), Laigueglia (Savona) e Diano Marina (Imperia) siamo sopra il 90%.

Alla fine, per la libera balneazione, rimangono solo pochi metri quadrati, spesso nei pressi di aree degradate. In effetti la libera balneazione non è solo un problema di estensione, ma anche di qualità delle spiagge. Scrive Legambiente: «In molti Comuni le uniche aree non in concessione sono quelle vicino allo scarico di fiumi, fossi o fognature dove al massimo ci si può sdraiare a prendere il sole, non certo a fare il bagno dal momento che la balneazione è vietata perché il mare è inquinato. Ma nessuno controlla che le spiagge libere non siano relegate in porzioni di costa di «serie B», mentre i numerosi cittadini che vogliono fruirne meri- terebbero di trovarle almeno in luoghi monitorati e balneabili».

Il 13 dicembre 2022, in occasione dell’assemblea nazionale di Confesercenti, la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, sostenne che le spiagge vanno affidate ai privati perché «se uno va a vedere le spiagge libere, in posti anche meravigliosi, ci sono i tossicodipendenti, rifiuti e nessuno che pensa a tenerle in ordine».

La ministra dimentica che, in quanto rappresentante della Repubblica, avrebbe l’obbligo di elaborare proposte capaci di tenere insieme decoro e godimento dei beni comuni da parte di tutti. Quanto alla tossicodipendenza non è certo con la repressione e con le recinzioni di epoca previttoriana che si risolve il problema. Soprattutto la ministra dovrebbe ricordarsi dell’articolo 41 della Costituzione secondo il quale l’iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.

Francesco Gesualdi

 




Ritorna il feudalesimo?


Viviamo in un tempo strano e unico. Unico, perché è il solo tempo che abbiamo: nessuno di noi può scegliere quando e dove nascere. Strano, perché, nonostante il nostro orgoglio per le conquiste scientifiche, le nuove possibilità della comunicazione, i risultati in medicina, i sistemi democratici, la crescita di responsabilità nei confronti dell’ambiente, stiamo vivendo innumerevoli contraddizioni.

Tra queste c’è la crisi di identità di genere e, di conseguenza, delle relazioni tra uomini e donne, della famiglia, della natalità e della difesa della vita con aborto e morte assistita che diventano diritti. C’è la democrazia che scricchiola, insidiata da autoritarismi e dittature, ma anche da politici al servizio dei grandi poteri economici.

Per quanto riguarda l’ambiente, le decisioni sono ancora dettate da chi gestisce petrolio, carbone e grandi industrie. Inoltre, nell’agricoltura si espandono i latifondi a monocoltura e l’allevamento intensivo delle multinazionali che riducono la biodiversità di vegetali e animali, le produzioni a km zero, e tolgono spazio ai piccoli agricoltori.

Altro ambito di grandi potenzialità, ma anche di enormi problematiche, è quello della comunicazione e dell’intelligenza artificiale. L’internet e lo sviluppo del digitale hanno decisamente modificato il nostro modo di comunicare, di essere informati, di studiare e lavorare. E ne sono contento. I miei confratelli dicono che sarei stato uno dei primi missionari della Consolata a usare il cellulare, e ho cominciato a smanettare sui computer dai primi anni Ottanta. Ho vissuto con gioia e aspettativa l’evoluzione di questo mondo, con il sogno che aiutasse a far sparire le guerre, a far crescere la fraternità, favorendo la conoscenza e stima reciproca, e cancellare le disuguaglianze.

Oggi, però, i media digitali rischiano di essere strumenti di manipolazione, disinformazione sistematica e controllo, rafforzando il potere dei regimi autoritari e dei monopoli economici, e facendo crescere la disparità tra la ricchezza di pochi e la miseria di molti.

Guardando alla millenaria storia dell’umanità, ci sentiamo orgogliosi di vivere in un tempo dove non abbiamo più né imperatori né feudatari e dove «uno vale uno». Non siamo più nel Medioevo, ci diciamo. Abbiamo acquistato l’autonomia della politica dalla religione, abbiamo fatto passi da gigante in tutti i campi del sapere… eppure è bastata una crisi come quella del Covid-19 per buttare all’aria tutte le nostre sicurezze e accentuare tutte le nostre fragilità, che rivelano un mondo decisamente malato. Un mondo nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi a spese della maggioranza, non solo nei paesi poveri, ma anche in quelli del Nord del mondo, mentre le istituzioni sovranazionali, Onu inclusa, diventano via via irrilevanti. Sembra iniziata l’epoca di un nuovo feudalesimo.

Che fare per reagire a una simile situazione?

Non ho soluzioni in tasca. Ma certamente una delle prime cose da fare è quella di sviluppare un pensiero critico e libero che si fondi sulle domande e sulle ragioni centrali del nostro vivere. Un pensiero che passi dall’io al noi, dalla sete di potere e ricchezza alla coscienza che solo diventando servitori del bene comune possiamo costruire bellezza, bene essere e pace.

Questo, per noi che crediamo in Gesù Cristo, può venire solo dal confronto profondo con la Parola di Dio, nella quale troviamo le chiavi e i criteri per la vera libertà interiore, per rinnovare i nostri rapporti interpersonali e sociali, per un approccio bello e responsabile al creato. Lì c’è l’humus per supportare un vero cambio di mentalità («conversione») che non sia solo un’operazione di cosmesi fatta solo di parole, ma diventi un reale impegno che si realizza in piccoli gesti quotidiani e anche in un rinnovato schierarsi nel volontariato e nella politica (come cura della polis, la città, per il bene comune, come scriveva Aristotele).

Nella Parola troviamo anche le motivazioni per non mollare, per non cedere allo scoraggiamento e non rassegnarci alla violenza del mondo nel quale viviamo, e giocare la nostra vita al servizio degli altri, come ha fatto Gesù e, sul suo esempio, tantissimi testimoni che ricorderemo in modo particolare il prossimo 24 marzo, giornata dei missionari martiri.

Gigi Anataloni




Il pensiero oltre la siepe


Povertà e miseria non sono sinonimi. Anzi, la prima può coincidere con la virtù della sobrietà. La seconda è, invece, uno scandalo da combattere. Con l’intervento dello Stato.

Povertà e miseria non sono la stessa cosa: la prima è una virtù, la seconda uno scandalo. La povertà è uno stile di vita che sa distinguere tra i bisogni reali e quelli imposti. È la capacità di dare alle esigenze del corpo il giusto peso senza dimenticare quelle spirituali, affettive, intellettuali, sociali. È un modo di organizzare la società affinché sia garantita a tutti la possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali con il minor dispendio di materiali e di energia e la minore produzione di rifiuti.

La miseria, invece, è la condizione di chi non riesce a soddisfare nemmeno i bisogni fondamentali. L’una è espressione di rispetto, sostenibilità, armonia. L’altra di degrado, violenza, ingiustizia. Dunque, si tratta di due condizioni distinte. L’una da promuovere magari ribattezzandola con termini come sobrietà, frugalità, semplicità, tanto per non dare adito a fraintendimenti. L’altra da combattere perché disumana.

Dove vive la miseria

Le Nazioni Unite definiscono la miseria come povertà multidimensionale e, limitatamente ai Paesi del Sud del mondo (Cina esclusa), calcolano che in questa condizione vivano 1,1 miliardi di persone, il 20% della popolazione di questa porzione di mondo. Persone che non mangiano a sufficienza, non hanno un alloggio degno di questo nome, che non hanno accesso neppure ai primi gradi di istruzione scolastica, che non riescono a curare le malattie più banali come una dissenteria o una bronchite.

Secondo il criterio monetario utilizzato dalla Banca mondiale, vivono con meno di 2,15 dollari al giorno. Metà di loro sono bambini e adolescenti sotto i 18 anni.

L’Africa è il continente con la più alta concentrazione di miseria: metà di tutti i miseri del mondo si trovano nell’area subsahariana. Un altro terzo è in Asia. E, se guardiamo alla distribuzione fra città e campagna, scopriamo che la miseria è prevalentemente rurale: l’84% di tutti i miseri del mondo vivono nelle campagne.

Miseria e povertà. Foto Towfiqu Barbhuiya – Unsplash.

È sempre Nord e Sud

Le ragioni per cui nel Sud del mondo la miseria continua a mietere così tante vittime affondano le loro radici nel passato coloniale, tutt’altro che tramontato. Il Nord ricco continua a dissanguare il Sud non solo tramite il tradizionale scambio ineguale, oggi esteso anche ai manufatti in virtù della deloca- lizzazione produttiva basata su salari da fame, ma anche tramite il debito e varie altre strategie finanziarie legate alla fuga dei capitali.

La Banca mondiale certifica che, nel 2021, i governi dei 120 paesi del Sud del mondo a reddito basso e medio, avevano un debito verso l’estero pari a 3.500 miliardi di dollari, per il quale hanno sborsato, nello stesso anno, 120 miliardi per interessi. Considerato che, nello stesso periodo, hanno ricevuto in donazioni 108 miliardi di dollari, se ne conclude che il Sud del mondo è stato un finanziatore netto del Nord ricco per 12 miliardi di dollari. Un esborso che la popolazione ha pagato sotto forma di minore assistenza sanitaria, minor spesa scolastica, minori investimenti per elettrificazione e sussidi all’agricoltura. Le Nazioni Unite ci informano che 4 miliardi di persone vivono in nazioni dove la spesa per gli interessi sul debito è più alta di quella per sanità o istruzione. Come se non bastasse molte multinazionali presenti nel Sud del mondo si ingegnano in tutti i modi possibili per evadere le tasse ed esportare illegalmente le ricchezze ottenute nel Paese. La fuga illegale di capitali provoca all’Africa un salasso annuo di quasi 90 miliardi di dollari, mentre nel periodo 2004-2013 l’America Latina ha perso 765 miliardi. Parola di Unctad e di Un Eclac, due organi delle Nazioni Unite che si occupano di commercio internazionale l’una e di questioni economico sociali dell’America Latina, l’altra.

Corruzione e latifondo

Alle storture internazionali si aggiungono fenomeni interni ai singoli paesi del Sud che immiseriscono ulteriormente la popolazione. Fra essi la corruzione (che contribuisce a sottrarre risorse alle casse pubbliche) e la protezione dei latifondisti a danno dei piccoli contadini. Ovunque nel mondo si assiste all’avanzata dei grandi proprietari terrieri che sottraggono terra ai piccoli contadini, ma in certi angoli del Sud del mondo le sproporzioni sono gigantesche. Secondo l’ultimo censimento agrario condotto in India nel 2011 il 4,9% dei proprietari terrieri controlla il 32% di tutte le terre agricole, mentre 101 milioni di famiglie rurali, il 56,4% del totale, non ne possiedono affatto. La mancanza di terra è una delle ragioni principali per cui l’84% degli immiseriti si trova nelle campagne.

Detto questo, si capisce che il primo passo per ridare dignità a quel miliardo di miseri è una seria riforma agraria che deve essere accompagnata da tutti gli altri correttivi necessari a garantire ai governi i fondi necessari a realizzare investimenti nel campo dell’elettrificazione, della viabilità, della sanità, dell’istruzione.

E nei paesi ricchi

Di miseri ce ne sono anche nel Nord opulento. Li vediamo nei sottopassi delle stazioni o delle metropolitane, derelitti sdraiati su cartoni di fortuna. Li vediamo anche nelle file in coda per un piatto di minestra alle mense della Caritas. Nella sola diocesi di Roma, nel 2023 sono stati distribuiti 65mila pasti gratuiti. In Italia i conti nazionali ce li fornisce l’Istat che definisce la miseria con il termine di «povertà assoluta», precisando che considera povero assoluto chiunque sia incapace di permettersi un «paniere di beni e servizi considerati essenziali», comprendente prodotti alimentari, alloggio, riscaldamento, trasporto, spese sanitarie e altro.

Secondo le ultime statistiche del 2023 in Italia la povertà assoluta colpisce 2,18 milioni di famiglie, per un totale di 5,6 milioni di persone, quasi un abitante su dieci. A fare ancora più male è sapere che il 22% dei poveri assoluti (1,2 milioni) sono bambini e adolescenti. In effetti il 13,4% di tutti i minorenni in Italia si trova in povertà assoluta, con ripercussioni non solo sul piano materiale, ma anche scolastico. Nella scuola dell’obbligo il tasso di dispersione scolastica è al 14%. Come dire che 14 ragazzi su 100 abbandonano precocemente la scuola o, se vi rimangono, è come se fossero parcheggiati considerato che non riescono a raggiungere gli obiettivi formativi prefissati. Colpisce, inoltre, la sovrapposizione delle due cifre: 13,4% di povertà assoluta e 14% di dispersione scolastica.

Aumenti e servizi pubblici

In un mondo dominato dagli scambi monetari, la miseria è il frutto di due opposti fenomeni: redditi troppo bassi e prezzi di beni e servizi essenziali troppo alti. Ad esempio, dopo l’aumento vertiginoso delle bollette elettriche verificatosi nel 2022, anche famiglie che normalmente se la cavavano si sono avvicinate al baratro della miseria. Oltre alla bolletta energetica, anche affitti troppo alti e la demolizione di servizi pubblici come la sanità pesano sulle spalle delle famiglie fragili che, non potendo sostenere i costi imposti dalle strutture private, semplicemente rinunciano
a curarsi.
Dunque, un primo fronte su cui intervenire per arginare la miseria è la fornitura di servizi pubblici gratuiti in ambiti essenziali come sanità, istruzione, trasporti. E subito dopo politiche per calmierare i prezzi di altri servizi altrettanto essenziali come alloggio, energia, cibo, acqua, che un sistema di svliluppo ideologico ha ceduto al mercato. Ricordandoci che i prezzi sono una via potente di distribuzione della ricchezza: impoveriscono chi compra e arricchiscono chi vende.

Il secondo fronte su cui intervenire è quello del reddito. In prima battuta con interventi tampone, tipo reddito di cittadinanza, per garantire un introito minimo a chi ne è sprovvisto. E, subito dopo, creando le condizioni affinché tutti possano disporre in maniera autonoma di redditi sufficienti a vivere dignitosamente.
In un sistema in cui la principale fonte di sostentamento è rappresentata dal lavoro salariato, la categoria a maggior rischio di grave deprivazione materiale è quella dei disoccupati. La Caritas conferma che il 48% delle persone che si rivolgono alle sue strutture sono disoccupati o inoccupati che fanno fatica a trovare un lavoro. Ma aggiunge che stanno crescendo anche le persone che un lavoro ce l’hanno, ma riscuotono un salario troppo basso per arrivare alla fine del mese. Si tratta dei cosiddetti «working poors» (ne abbiamo già parlato su MC a dicembre 2021), persone che sono povere pur lavorando. In Italia sono 2,7 milioni, l’11,3% di tutti gli occupati.

Il ruolo dello Stato

Le misure più urgenti per combattere la miseria sono due: garantire un salario dignitoso a chi lavora e garantire un lavoro a chi un’occupazione non ce l’ha. In ambedue i casi il ruolo del potere pubblico è determinante. Per il primo obiettivo la strada da battere è l’introduzione, per legge, di un salario minimo al di sotto del quale non si può scendere. Che non significa depotenziare l’attività contrattuale del sindacato, ma soccorrere le categorie più deboli che un sindacato non ce

l’hanno o ne hanno uno troppo debole per imporre livelli salariali dignitosi. Quanto al secondo obiettivo lo stato deve smetterla di aspettare che siano le imprese private a creare occupazione. Il lavoro può e deve crearlo lo Stato che deve concepirsi come un datore di lavoro di ultima istanza. Ossia un soggetto che assicura a tutti un posto di lavoro. L’idea non è nuova ed è interessante notare che uno dei primi a proporla fu Martin Luther King che, fra le altre battaglie, conduceva anche quella contro la disoccupazione che era un vero e proprio flagello per la popolazione nera del tempo.

In un proclama del 1964, pochi giorni prima di essere assassinato, King si scaglia contro il governo degli Stati Uniti: «È l’ostinata insensibilità del governo nei confronti della miseria che alimenta la rabbia e la frustrazione. Benché la disoccupazione semini disperazione nei ghetti neri, il governo continua a cincischiare con misure senza efficacia. Soprattutto si rifiuta di diventare datore di lavoro di ultima istanza. Continua a buttare la palla nel campo delle imprese private come se i fallimenti occupazionali registrati fin qui possano fare da garanzia di successi futuri».

Martin Luther King si appellava al governo perché sapeva che lo stato è l’unica entità in grado di creare occupazione indipendentemente da qualsiasi altra condizione. Il mercato crea lavoro solo se vende. Lo Stato, in quanto tutore dei beni comuni e produttore di servizi a beneficio di tutti, può creare occupazione per decisione unilaterale. Il mercato stesso, quando si accorge si essere in una situazione di stallo, chiede allo Stato di intervenire per ridare impulso alla macchina produttiva.

Quello che dovremmo fare è smettere di concepire lo Stato solo come stampella del mercato e vederlo, piuttosto, come la casa comune dentro la quale tutti possono trovare rifugio e una tripla area di sicurezza. Prima di tutto la salvaguardia dei beni comuni (aria, suoli, fiumi, boschi, spiagge, mari) perché la nostra esistenza dipende da un ambiente in buona salute. In secondo luogo, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (acqua, alloggio, energia, salute, istruzione e altro ancora) affinché la vita non sia più un’angoscia, ma una gioia. Infine, la garanzia di un lavoro che dia a tutti la possibilità di sentirsi utili e socialmente apprezzati.

Miseria e povertà. Foto Dulana Kodithuwakku – Unsplash.

Immaginare e fare

Se vogliamo salvarci, dobbiamo cambiare progetto. Convincerci che oltre al vendere e al comprare, al competere e al gareggiare, al profitto e allo sfruttamento, all’arricchimento personale e alla proprietà privata, esiste anche la comunità, la solidarietà, la gratuità, i beni comuni. E come loro – multinazionali, signori della finanza, investitori – hanno il diritto di organizzarsi per arricchirsi, allo stesso modo noi, i piccoli, abbiamo il diritto di organizzarci per vivere. E l’unico modo possibile è la forma comunitaria perché la solidarietà collettiva è la sola ricchezza su cui possiamo contare. Ecco perché dovremmo avere il coraggio di riorganizzarci su una logica di doppia economia: quella dei bisogni fondamentali e quella degli optional. La prima, affidata alla comunità, funzionante con il lavoro di tutti per la dignità di tutti. La seconda, affidata al mercato, funzionante con il lavoro di chi ambisce a maggiori consumi. Fantasticherie? Può darsi. Ma quando l’impostazione corrente non è in grado di dare le risposte attese, bisogna sapere gettare il pensiero oltre la siepe.

Francesco Gesualdi