Sfida alla dittatura del dollaro


Da gennaio 2025, il gruppo dei Brics, nato nel 2009, si è allargato all’undicesimo paese. Il gruppo si pone come alternativa economica ai paesi occidentali riuniti nel G7. Uno degli obiettivi dichiarati è porre fine alla supremazia del dollaro Usa.

Un nuovo soggetto si aggira per il mondo e innervosisce i paesi occidentali. Si chiama Brics, una sigla che sta per Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica. L’acronimo venne usato la prima volta in una nota sullo stato dell’economia mondiale pubblicata nel 2001 da Jim O’Neill, responsabile dell’ufficio ricerche di Goldman Sachs, potente banca d’affari. La nota voleva avvertire i governi occidentali che altri paesi stavano emergendo sulla scena economica mondiale e che nessuna nuova decisione poteva essere presa senza di loro.

Sfida al forum dei «G7»

Consiglio pertinente, se si considera che, a partire dal 1976, i paesi occidentali più potenti – Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America – avevano preso a incontrarsi annualmente per concordare risposte comuni alle principali problematiche mondiali. Il forum era stato battezzato G7 – Gruppo dei sette – e si è consolidato come l’assise internazionale, esterna al sistema delle Nazioni Unite, nella quale i potenti decidono le politiche da imporre al mondo intero.

Nel 1997, il G7 divenne G8 per l’inclusione della Russia, che però ci sarebbe rimasta solo fino al 2014, anno in cui ne sarebbe stata esclusa per essersi impossessata della Crimea (Ucraina). Intanto, al G8 del 2003, presieduto dalla Francia, furono invitati come osservatori anche Brasile, India e Sudafrica. I tre ne uscirono contrariati rendendosi conto che erano lì per pura formalità.

Lula, presidente del Brasile, chiese: «A che serve essere invitati al banchetto dei potenti per mangiare solo il dessert?». E aggiunse: «Oltre al dessert vogliamo assaporare tutte le altre vivande».

foto Willfried Wende – Unsplash

Fatto sta che, solo tre giorni dopo, i ministri degli esteri dei tre paesi si ritrovarono a Brasilia e formalizzarono la nascita del «Forum di dialogo dell’Ibsa» con l’obiettivo principale di trovare una linea di condotta comune sui tanti temi che si stavano definendo all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio. In particolare, quello sui brevetti, tenuto conto che tutti e tre i paesi ospitavano industrie che producevano grandi quantità di farmaci generici al servizio di tutto il Sud del mondo.

Intanto, in Asia, andava prendendo forma l’Irc, un tavolo composto da India, Russia e Cina per confrontarsi con regolarità su temi di interesse comune, come sicurezza, migrazioni, terrorismo.

I due forum, l’Ibsa e l’Irc, si fusero nel settembre 2006, allorché Russia e Brasile, in occasione di una riunione all’Onu, promossero un incontro allargato a Cina e India, per discutere le problematiche connesse all’assetto finanziario internazionale. Tema più che mai azzeccato considerato che di lì a poco si sarebbe scatenata una delle peggiori crisi finanziarie a livello mondiale.

Fu proprio la crisi del 2008 a dare carattere di stabilità al gruppo dei Brics che formalizzò la propria alleanza durante un nuovo incontro organizzato nella cittadina russa di Yekaterinburg, il 16 giugno 2009, data del primo summit ufficiale.

Da allora i cinque paesi (il Sudafrica si unì nel 2011), s’incontrano ogni anno e progettano iniziative comuni. Una delle più importanti fu la creazione, nel 2015, di una banca internazionale denominata Nuova banca di sviluppo (Ndb, secondo l’acronimo inglese).

Il Pil dei Brics

Nel 2001, quando O’Neill alzò per la prima volta il sipario sui futuri Brics, il loro peso sulla scena mondiale corrispondeva all’8% del Pil e al 43% della popolazione. Nel tempo sono passati al 25% del Pil, mentre la popolazione si è ridotta al 41% del totale mondiale.

Dal gennaio 2024 sono però stati ammessi altri cinque membri (Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti). A gennaio 2025 è entrata l’Indonesia, mentre altre nazioni hanno mostrato interesse ad aderire. Fra esse Thailandia, Malaysia e la Turchia che pure fa parte della Nato.

In conclusione, ben presto il blocco dei Brics potrebbe rappresentare un terzo del Pil e dell’interscambio mondiale. Basti dire che all’ultimo vertice che si è tenuto in Russia, a Kazan, dal 22 al 24 ottobre 2024, erano presenti 37 paesi. Tutti molto diversi fra loro per collocazione geografica, regime politico, posizione economica, ma tutti interessati a rafforzare la propria economia senza subire condizionamenti da parte dei potentati economici, in particolare quello statunitense.

Non a caso il grande tema al vertice di Kazan è stato quello dei pagamenti internazionali.

Negli ultimi secoli, il commercio internazionale si è espanso a dismisura, ma la scelta della moneta con cui pagare è sempre stata un problema.

In maniera molto empirica, il vecchio Mao Zedong sosteneva che a deciderlo è la dimensione dei cannoni. Come dire che si è sempre imposta la moneta del paese più forte sia da un punto di vista economico che militare. La sterlina dominava quando gli inglesi possedevano un impero su cui non tramontava mai il sole, come il denarius aureus dominava quando a comandare era Roma.

L’egemonia del dollaro e la variabile Trump

Oggi, di paesi coloniali vecchia maniera non ce ne sono più. Ma il prodotto interno lordo e la spesa militare contano ancora. Tant’è che la moneta universalmente accettata è il dollaro, espressione degli Stati Uniti, che sono i primi sia per Pil (27mila miliardi di dollari), che per spesa militare (817 miliardi di dollari). Il risultato è che il dollaro è la moneta più richiesta al mondo ed è la più usata sia per gli scambi commerciali che per le operazioni finanziarie di livello internazionale.

I paesi Brics, e in particolare la Russia, stanno progettando di sfidare questa egemonia creando un sistema di pagamento alternativo, almeno nel loro circuito. Ma la battaglia si presenta ardua dal momento che Trump ha lanciato parole di fuoco quando ha saputo che qualcuno osava mettere in discussione la supremazia della moneta Usa.

Non ancora investito delle funzioni di presidente, il 1° dicembre 2024 ha rilasciato un comunicato stampa che suonava come una vera e propria dichiarazione di guerra: «Non credano i paesi Brics che noi ce ne staremo semplicemente a guardare se provano a sganciarsi dal dollaro». E proseguendo, ha aggiunto: «Noi li avvertiamo: se proveranno a creare un nuovo mezzo di scambio interno ai Brics o a sostenere la nascita di qualsiasi altro mezzo di pagamento che sfida la potenza del dollaro, saranno colpiti con dazi doganali fino al 100% affinché perdano ogni possibilità di vendere le loro merci nella meravigliosa economia americana».

Invettive confermate dopo l’insediamento (in un discorso del 22 febbraio 2025) e dettate non solo da spirito suprematista, ma anche dalla consapevolezza che essere titolari di una moneta a valenza internazionale offre vantaggi. Ad esempio, permette di vivere al di sopra delle proprie possibilità, ossia di poter godere della ricchezza altrui, oltre che di quella prodotta internamente. Il caso americano né un classico esempio.

Il debito degli Stati Uniti

Gli Stati Uniti vivono cronicamente in uno stato di debito commerciale, nel senso che importano più di quanto esportano. Nel 2023 la differenza in negativo è stata di 773 miliardi di dollari, ma nessuno ha protestato. Se qualsiasi altro paese avesse un deficit commerciale di questo livello verrebbe subito messo sotto sorveglianza del Fondo monetario internazionale e costretto a ogni forma di sacrificio finché non avesse portato la propria bilancia commerciale in pareggio.

Gli Stati Uniti, invece, continuano indisturbati nella loro navigazione in rosso, perché possono compensare il loro debito commerciale con le grandi masse di dollari che ricevono da tutto il mondo sotto forma di capitali. Tenendo a mente che, in caso di cattiva parata, i dollari possono essere ottenuti con la stampa di nuove banconote.

La rivoluzione di Nixon 

Per la verità fino al 1971 questa possibilità era limitata dal fatto che ogni aumento di denaro esigeva un aumento di riserve di oro perché c’era l’impegno, da parte della Banca centrale statunitense, di convertire i dollari in oro qualora le istituzioni estere ne avessero fatto richiesta (era il sistema aureo o Gold standard). In quel 1971, constatando che ormai di dollari in circolazione ce n’erano troppi, il presidente americano Richard Nixon decretò la fine della convertibilità in oro lasciando molta più libertà all’emissione di nuova moneta (cioè alla stampa di nuovi biglietti). Come dire che il dominio del dollaro, oggi più che mai dipende dalla forza economica e militare degli Stati Uniti.

Eppure, già nel 1944, quando a Bretton Woods (negli Usa) si discuteva quale assetto finanziario dare al mondo che usciva dalla seconda guerra mondiale, l’economista inglese John Maynard Keynes aveva proposto un sistema di pagamenti internazionali che escludesse l’uso diretto di qualsiasi moneta nazionale.

Due i capisaldi della sua proposta. La prima: la creazione di una moneta interbancaria, il bancor, che avrebbe avuto una parità fissa con ogni moneta, da utilizzare esclusivamente come unità di conto, ossia per permettere a ogni paese di registrare il valore delle proprie importazioni ed esportazioni. La seconda: la creazione di una camera di compensazione con il duplice compito di verificare i saldi periodici di ogni nazione e concordare volta per volta le misure da adottare per permettere a debitori e creditori di ritrovare una situazione di pareggio. Un sistema ben diverso da quello in vigore oggi che costringe tutti i paesi del mondo a dotarsi di riserve in valuta forte (prevalentemente dollari o addirittura oro), per saldare le eventuali posizioni debitorie che possono venire a crearsi.

«R5», la valuta dei Brics

foto Davie Bicker-Bluebudgie-Pixabay

L’alternativa attorno alla quale stanno lavorando i Brics, per le loro relazioni commerciali, è simile a quella prospettata da Keynes. La proposta prevede la creazione di un’unità di conto, denominata «R5», il cui valore è determinato per il 40% dal prezzo dell’oro e per il rimanente 60% da un paniere di valute nazionali utilizzate all’interno dei Brics, che – di qui il termine – cominciano tutte per «R»: reais, rublo, renmimbi, rupia e rand, rispettivamente valute ufficiali di Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica.

La proposta è integrata dalla creazione di un circuito di comunicazione interbancario attraverso il quale le banche di tutti i paesi Brics possono comunicarsi in tempo reale i pagamenti che si fanno reciprocamente per le più svariate esigenze dei propri clienti.

Va detto che già oggi esistono vari circuiti di comunicazione fra banche a livello internazionale, ma quello predominante è lo Swift, con sede legale in Belgio e controllato dalle banche centrali di dieci paesi occidentali. Complessivamente, il circuito Swift comprende più di 11mila organizzazioni finanziarie e bancarie appartenenti a oltre 200 paesi e territori fra i quali fino al 2021 figurava anche la Russia, poi estromessa come ritorsione per avere aggredito l’Ucraina.

Considerata la sua posizione di paese sotto sanzioni, si capisce perché la Russia spinga più degli altri per la creazione di un sistema di pagamenti alternativo. Comunque la si metta, l’egemonia del dollaro rimane un problema perché getta sul mondo intero e, in particolare, sui paesi più deboli, le conseguenze di scelte operate per ragioni a esclusivo servizio degli Stati Uniti. Valga, come esempio, la decisione assunta negli ultimi anni dalla Banca centrale statunitense di aumentare il tasso di interesse per aggiustare la propria economia. L’effetto è stato la crescita del costo del debito a livello globale che ha obbligato molti governi del Sud a ridurre le spese sanitarie e sociali per pagare gli interessi più alti maturati sui prestiti esteri.

È troppo presto per dire se i Brics possono rappresentare una speranza di gestione alternativa dell’economia a livello mondiale, ma è salutare che qualcuno sfidi lo status quo.

Francesco Gesualdi

 




Il mondo secondo Trump


Dallo scorso 20 gennaio, Donald Trump siede di nuovo alla Casa Bianca. Prima del suo insediamento, il neo presidente statunitense ha tenuto una conferenza stampa dalla quale non sono arrivati segnali confortanti per il mondo e per l’economia.

Il 7 gennaio 2025, tredici giorni prima del suo insediamento ufficiale come 47° presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump ha tenuto una lunga conferenza stampa nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida.

Trump ha illustrato gli aspetti strategici del programma che intende realizzare nei prossimi quattro anni. Ebbene, in vari passaggi del suo discorso, i giornalisti presenti hanno stentato a credere alle proprie orecchie. Ad esempio, quando Trump ha dichiarato di volersi riprendere il canale di Panama e impadronirsi della Groenlandia.

Un mondo di nazioni in lotta

L’essenza della politica di Trump era già stata anticipata in campagna elettorale sotto l’acronimo «Maga», ovvero Make America great again, che tradotto significa «Facciamo di nuovo grande l’America».

Un credo politico che si iscrive fra le dottrine cosiddette «nazionaliste». Concependo il mondo come nazioni in lotta fra loro per l’egemonia, queste si pongono come obiettivo primario quello di garantire forza, prestigio e ricchezza al proprio paese contro tutti gli altri. Quanto alle divisioni sociali interne a ogni nazione, i nazionalisti fingono che non esistano e, giurando fedeltà al modello capitalista, pretendono che ricchi e poveri, lavoratori e imprenditori formino un corpo unico accomunato dal fatto di appartenere alla stessa nazione.

Al contrario, gli stranieri sono guardati tutti con sospetto, anche se, alla fine, sono divisi in due categorie: quella dei nemici, con politiche contrarie ai propri interessi, e quella degli amici, con comportamenti favorevoli al proprio arricchimento.

Non a caso la succitata conferenza stampa di Donald Trump si è aperta cantando le lodi di tale Hussain Sajwani, imprenditore miliardario degli Emirati arabi uniti che ha promesso di investire negli Stati Uniti 20 miliardi di dollari per l’apertura di centri informatici dedicati alla gestione dati.

In cima alla lista dei paesi nemici compilata da Trump, compare senz’altro la Cina, alla quale già nel precedente periodo di presidenza (dal 2016 al 2020), erano stati applicati numerosi dazi doganali come tentativo di limitare le sue esportazioni verso gli Stati Uniti e, quindi, la sua espansione economica.

Un agricoltore Usa con la bandiera trumpiana. Foto Laura Seaman – Unsplash.

Panama e il canale

Durante la conferenza stampa di Mar-a-Lago, il primo paese verso il quale Trump si è scagliato è stato Panama, accusato di danneggiare gli Stati Uniti in combutta con la Cina.

Oggetto del contendere è il canale che collega l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico. Un canale da sempre di importanza strategica per gli Stati Uniti, tant’è che nel 1902, prima ancora che esso venisse costruito, l’esercito Usa occupò militarmente l’area da scavare per assicurarsi la possibilità di controllare l’opera. Il canale entrò in funzione nel 1914 e rimase sotto gestione statunitense fino al 1999, allorché diventò di proprietà del governo panamense in virtù di accordi di cessione firmati nel 1977 dall’allora presidente Jimmy Carter (recentemente scomparso).

Per una ventina di anni l’amministrazione del canale da parte del governo panamense è proceduta senza particolari attriti con gli Stati Uniti, con grande vantaggio per Panama sia in termini economici che occupazionali. In effetti le attività del canale contribuiscono al 7% del Pil e al 23% delle entrate governative del paese centroamericano. Da un paio di anni, però, un problema di carattere ambientale sta mettendo in crisi la via di comunicazione.

Il problema si chiama siccità da cambiamenti climatici che riduce l’apporto di acqua al canale fino a imporre la limitazione del traffico di navi che possono attraversarlo. Tant’è che oggi, ai due imbocchi del canale, ci sono lunghe file di portacontainer in attesa di poterlo attraversare.

Le conseguenze sono negative soprattutto per gli Stati Uniti, che sono i principali destinatari delle merci che attraversano il canale. Le imprese statunitensi lamentano che i ritardi nelle consegne stanno facendo aumentare i prezzi e rallentano i loro processi produttivi. E, quasi fosse una congiura internazionale, Trump se la prende con la Cina: «Il canale di Panama è gestito dai cinesi, ma noi abbiamo regalato il canale a Panama e non alla Cina che ne sta abusando: quel regalo non si sarebbe mai dovuto fare».

Incalzato dai giornalisti che chiedevano cosa pensasse di fare, Trump non ha escluso l’uso della forza militare per fare tornare il canale di Panama sotto il controllo degli Stati Uniti affinché possa essere gestito a loro uso e consumo.

Una loro presenza militare nel mezzo dell’America Centrale permetterebbe agli Usa di combattere anche un altro fenomeno, quello delle migrazioni, tema posto anch’esso ai primi posti dell’agenda di Trump. Considerato che Panama è un passaggio obbligato per tutte le rotte migratorie provenienti dall’America Meridionale, uno sbarramento militare in quel territorio ridurrebbe di molto gli arrivi al confine tra Stati Uniti e Messico.

La Groenlandia

L’aspetto sorprendente è che Trump ha ipotizzato l’uso della forza militare per annettere anche la Groenlandia. Giuridicamente una regione autonoma facente parte del Regno di Danimarca, la Groenlandia è un’immensa isola, la più grande non continente, situata in zona artica. Vi abitano soltanto 56mila persone concentrate soprattutto nella parte sud, essendo la restante parte del paese coperta da una calotta glaciale che si estende sull’80% della superficie.

Gli Stati Uniti sono già presenti in Groenlandia fin dalla seconda guerra mondiale con una base aeronautica, la Pituffik Space Base, che si trova a 1.500 chilometri dal Polo Nord. Ma oltre che per motivi militari, la Groenlandia sta diventando appetibile anche per ragioni economiche da quando la tempera-

tura terrestre ha cominciato a salire.

Nel suo sottosuolo, infatti, si trovano non solo gas e petrolio, ma anche numerosi minerali molto ricercati dalle moderne tecnologie come litio, grafite e anche uranio. Fino a ora era impensabile cercare di estrarli a causa dell’enorme strato di ghiaccio che ricopre i giacimenti, ma con l’innalzamento delle temperature questo scoglio si va riducendo.

Per la stessa ragione sta assumendo importanza strategica anche il Mar Artico, il mare del Polo Nord, su cui la Groenlandia si affaccia assieme alla Russia, al Canada e all’Alaska. Se il mare si libera dal ghiaccio, può diventare navigabile per gran parte dell’anno, accorciando le distanze fra America del Nord, Asia ed Europa.

Per la verità già durante il precedente mandato presidenziale Trump aveva avanzato l’offerta di comprare la Groenlandia in linea con quanto aveva già tentato di fare Truman nel 1946.

La Danimarca, però, ha sempre opposto un fermo rifiuto e ora Trump minaccia non solo l’occupazione militare, ma anche potenti ritorsioni doganali pur di piegare la volontà del piccolo stato europeo.

Donald Trump. Foto TheDigitalArtist – Pixabay.

Il Canada

Nel suo discorso di Mar-a-Lago Trump ha scagliato la propria ira nazionalcapitalista anche contro Canada e Messico, paesi con i quali fino al 2020 aveva un accordo di libero scambio (il Nafta), poi trasformato, proprio durante la sua prima presidenza, in accordo di collaborazione (noto come Usmca) su punti specifici come agricoltura, flusso di lavoratori e brevetti. Temi tutti rigorosamente normati a principale vantaggio degli Stati Uniti.

Ciò non di meno, Trump rimprovera al Canada di continuare a vendere troppi prodotti agli Stati Uniti, contribuendo a rafforzare il debito commerciale che il paese a stelle e strisce ha verso il resto del mondo. Nel 2023, le merci canadesi hanno rappresentato circa un settimo del disavanzo commerciale statunitense, che complessivamente ammonta a 773 miliardi di dollari (dati Bea-U.S.Department of commerce).

«Ci mandano centinaia di migliaia di auto facendo un sacco di soldi. Ci mandano un sacco di altre cose di cui non abbiamo bisogno. Non abbiamo bisogno delle loro auto, né di altri prodotti. Non abbiamo bisogno del loro latte», ha detto Trump ai giornalisti riferendosi al vicino nordamericano.

Quindi, invece di chiedersi perché gli statunitensi comprano le merci canadesi, Trump ha partorito l’idea di risolvere il problema contabile facendo diventare il Canada un territorio statunitense.

Non a caso il giorno dopo la conferenza stampa di Mar-a-Lago, Trump ha pubblicato su una sua pagina social la cartina degli Usa comprendente anche il Canada ormai definito come 51° stato degli Stati Uniti d’America. Bontà sua, Trump ha escluso di voler piegare il Canada con l’esercito, dichiarando di volersi limitare all’impiego delle armi economiche.

Il Messico

Passando al Messico, Trump ha detto: «Abbiamo un grande deficit commerciale con il Messico, motivo per cui lo aiutiamo tantissimo».

«Il paese – ha spiegato il neo presidente – è gestito essenzialmente da cartelli criminali e noi non possiamo permetterlo. Il Messico è davvero nei guai, un sacco di guai». Poi si è buttato su una rivincita di tipo lessicale: «Cambieremo il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America».

Lanciando – infine – la stoccata finale: «Il Messico deve smetterla di permettere a milioni di migranti di penetrare nel nostro paese».

La Nato e le spese militari

Durante la conferenza stampa Trump ne ha avuto anche per gli alleati Nato, essenzialmente i paesi europei. Dichiarandosi di nuovo stufo di farsi carico della loro difesa, Trump è tornato a dire che gli alleati devono innalzare le loro spese militari. E se durante il suo primo mandato aveva chiesto che fossero portate al 2% del Pil, nel discorso di Mar-a-Lago ha spostato l’asticella ancora più in alto: «Io penso che la Nato si meriti il 5%. Non ce la può fare se rimane al 2%. […] Tutti i paesi Nato […] devono attestarsi al 5%».

Al momento, tuttavia, neppure gli Stati Uniti dedicano agli armamenti una quota di Pil tanto alta, arrivando al 3,4%. Fra i paesi Nato, solo la Polonia va più su con il 4,1%, seguita dall’Estonia con il 3,43%. Allora sorge il dubbio che la vera intenzione di Trump sia quella di annunciare al mondo l’intendimento di voler alzare ulteriormente la spesa militare degli Stati Uniti incurante del fatto che già oggi rappresenta il 38% dell’intera spesa mondiale (dati Sipri).

Dove sta andando

la democrazia? Nel complesso a Mar-a-Lago molti hanno visto un Trump ancora nelle vesti del candidato sguaiato che voleva aumentare il proprio consenso tra un popolo becero, piuttosto che un uomo di Stato che dal 20 gennaio governa il Paese più potente del mondo. Certi discorsi, tuttavia, non andrebbero fatti sotto nessun tipo di veste e il fatto che tanta gente vada dietro a chi le spara più grosse lascia molti dubbi su cosa, al giorno d’oggi, sia diventata la democrazia.

Francesco Gesualdi

 




Mondo. Rimesse dei migranti, un ponte tra Paesi

 

Nel 2023 il denaro mandato dai migranti ai loro paesi di origine nel mondo ha raggiunto la cifra record di 822 miliardi di dollari. Un aiuto importante per le famiglie. Un ponte economico e sociale tra i paesi.

 

Ogni anno Carmen manda tra i due e i tremila euro a sua madre a Lima. Da poco ha superato il concorso all’Asl città di Torino e ha iniziato a lavorare come Oss in ospedale, lasciando il precedente lavoro in una casa di riposo privata. Ha potuto anche fare un mutuo per acquistare il suo piccolo alloggio nella periferia Nord della città.

I suoi soldi aiutano la madre e due nipoti, figli di una sorella rimasta vedova a causa di un incidente sul lavoro del marito. Durante la pandemia ha mandato qualche centinaio di euro anche a suo fratello, in difficoltà a San Francisco, negli Usa.

Le rimesse, ovvero il denaro inviato dai migranti ai loro paesi di origine, sono un fenomeno economico e sociale cruciale, un flusso di risorse che collega il lavoro di milioni di persone migrate con lo sviluppo e il sostentamento delle loro famiglie rimaste in patria. Hanno un impatto significativo sia nei paesi di destinazione che in quelli di origine.

L’Italia, con la sua storica tradizione migratoria e un crescente numero di lavoratori stranieri, è uno dei principali paesi europei per volume di rimesse.

I dati: 822 miliardi di $

Carmen è una dei circa 200 milioni di migranti che nel mondo mandano denaro ai territori di provenienza. La Banca mondiale stima che nel 2023 le rimesse a livello globale siano ammontate a 822 miliardi di dollari (circa un terzo del Pil italiano).

Il paese che ha ricevuto la cifra più alta è stata l’India, con una cifra di 119,5 miliardi di dollari. A seguire, il Messico (66 miliardi), le Filippine (39), la Francia (36), la Cina (29). L’Italia è al 17° posto con 12,1 miliardi di rimesse ricevute da italiani all’estero.

Non stupisce che anche paesi ad alto reddito come Francia, Italia, o Germania (all’ottavo posto con 21 miliardi) ricevano grandi volumi di rimesse. La mobilità dei lavoratori europei che espatriano è molto alta e sotto gli occhi di tutti.

Tra i paesi dai quali escono i volumi maggiori di rimesse, troviamo al primo posto gli Usa, con 93 miliardi. A seguire, Arabia saudita (38), Svizzera (37), Germania (22), Cina (20). La Francia è al sesto posto con 19 miliardi di dollari, l’Italia all’undicesimo con 12,2 miliardi.

Secondo l’ultimo aggiornamento dell’Osservatorio nazionale sull’inclusione finanziaria dei migranti (Onifm), l’Asia si conferma nel 2024 il principale continente destinatario delle rimesse dal nostro Paese: il 40% dei flussi sono diretti verso Bangladesh, Filippine, India, Pakistan e Sri Lanka.

Interessanti variazioni sono state registrate rispetto al 2023, con incrementi significativi per paesi come Bangladesh (+17,4%) e Perù (+11%), mentre si osservano cali per altre nazioni come Pakistan (-9,6%) e Romania (-13,3%). Queste dinamiche riflettono non solo i cambiamenti demografici e migratori, ma anche l’evoluzione dei sistemi finanziari e delle politiche dei paesi di destinazione.

I costi delle rimesse per i migranti

Le rimesse rappresentano spesso una parte considerevole del reddito guadagnato dai migranti. Sono il frutto di sacrifici personali, rinunce a consumi o investimenti.

Su questa situazione già difficile, pesa anche il costo per l’invio del denaro. Nonostante gli sforzi globali per ridurlo, infatti, in Italia, secondo l’Onifm, per l’invio di 150 euro a dicembre 2024 una persona doveva pagare in media il 4,7%, con differenze significative a seconda dei paesi destinatari. Per mandare la stessa cifra in Senegal, ad esempio, il costo era del 2,6%, in Romania 3,89%, in Cina 4,89%, in Ghana 8,33%, in Brasile 9,40%.

Le piattaforme digitali sarebbero più economiche rispetto ai canali tradizionali, ma richiedono una maggiore alfabetizzazione finanziaria e digitale, e sono quindi meno usate.

L’osservatorio per l’inclusione finanziaria dei migranti, nel suo report, sottolinea che ridurre i costi di invio è una priorità sancita anche dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che mira a portarli sotto il 3%.

L’Italia ha già intrapreso iniziative, come il portale «mandasoldiacasa», per aumentare la trasparenza e promuovere la concorrenza tra gli operatori. Tuttavia, il vero potenziale risiede nello sviluppo e nella diffusione di canali digitali accessibili e nell’educazione finanziaria sia nei paesi di origine che di destinazione.

Effetti nei paesi di origine

Per i paesi destinatari, le rimesse sono una fonte essenziale di sostentamento e sviluppo. Questi fondi contribuiscono a migliorare le condizioni di vita, finanziare l’educazione, l’accesso alla salute e promuovere iniziative imprenditoriali.

Tuttavia, vi sono anche aspetti negativi: ad esempio il rischio di creare una dipendenza eccessiva dalle rimesse, cosa che può limitare lo sviluppo di economie autosufficienti. Inoltre, le variazioni dei flussi che da un anno a un altro possono verificarsi, rischiano di portare conseguenze profonde su comunità già vulnerabili.

Ponti tra comunità

Le rimesse non sono semplicemente trasferimenti di denaro, ma ponti economici e sociali che uniscono famiglie e comunità. Supportare i migranti per il loro invio sicuro ed economico significa non solo migliorare la loro qualità di vita, ma anche contribuire allo sviluppo sostenibile globale.

Luca Lorusso




Dalla globalizzazione al protezionismo


Il sistema economico è cambiato. Lo sanno bene Stati Uniti e Cina, le due prime potenze mondiali. L’Unione europea è impreparata e rischia l’irrilevanza. Per questo ha chiesto aiuto a Mario Draghi. Tuttavia, le proposte da lui formulate sono deludenti e vecchie.

Il capitalismo è uno solo per i fini perseguiti, ma è plurimo per le modalità di attuazione. A determinarne la forma sono le circostanze rappresentate dalla dimensione delle imprese, i valori dominanti all’interno della società, la volontà e la capacità di pressione popolare, la situazione ambientale, i rapporti internazionali. Agli albori del capitalismo, quando la rivoluzione industriale muoveva i primi passi, la filosofia capitalista non incontrò ostacoli: si affermò il capitalismo selvaggio del lavoro minorile, del colonialismo, delle guerre di sopraffazione. Dopo la grande crisi del 1929 ci fu un sussulto di valori sociali e, grazie a economisti come John Maynard Keynes (1883-1946), si affermò la convinzione di dover conciliare il profitto con obiettivi come la piena occupazione, la garanzia di una certa sicurezza per tutti, l’indipendenza politica di ogni popolo. Un periodo di grazia che durò fino agli anni Ottanta del secolo scorso, allorché lo spirito mercantilista più radicale ebbe di nuovo il sopravvento e iniziò l’epoca neoliberista.

Intanto in tutti i paesi industrializzati si erano affermate imprese di dimensione globale che, a fine secolo, pretesero la riscrittura delle regole mondiali per trasformare il mondo intero in un unico grande mercato, un unico spazio produttivo, un’unica piazza finanziaria.

Cominciò l’era della globalizzazione che, fra i suoi effetti, ebbe anche l’emergere di nuove potenze mondiali come Cina, India, Russia, Brasile, Sudafrica, riunite nei Brics. Potenze prima avvertite come necessarie, poi come minacce.

Nello stesso periodo si affermò una nuova rivoluzione tecnologica, quella informatica, mentre vennero al pettine tutti i guasti ambientali provocati da un sistema economico che, in nome della crescita, non si è mai preoccupata dei limiti del pianeta.

Arriviamo così ai giorni nostri caratterizzati da un ripensamento della globalizzazione, da un ritrovato desiderio di protezionismo per difendersi dall’espansione altrui, da un rigurgito di nazionalismi e di guerre di sopraffazione, dalla necessità di riorganizzare gli assetti produttivi nell’illusione di poter continuare a espandere produzione e consumi senza provocare ulteriore degrado ambientale.
In termini di potenze economiche, i paesi che hanno dominato la scena nel primo scorcio del 21° secolo sono stati Cina e Stati Uniti che si contendono la supremazia tecnologica a suon di brevetti, mentre usano l’arma doganale per ostacolare l’ingresso delle reciproche mercanzie. Recentemente sia l’una che gli altri hanno aggiunto sovvenzioni governative alle imprese per promuovere l’espansione produttiva in settori strategici come i semiconduttori e le energie alternative. Politiche andate a segno dal momento che entrambi hanno registrato crescite significative in termini di prodotto interno lordo e di investimenti.

Il declino dell’Europa

Chi invece è rimasta al palo è stata l’Unione europea che ora – ancora di più dopo il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump – è terrorizzata non solo di perdere terreno nell’arena internazionale, ma addirittura di andare verso il declino.

Grida di allarme lanciate da tutte le più grandi rappresentanze industriali. Tra esse, la European round table, il forum in cui siedono gli amministratori delegati delle prime sessanta imprese operanti in Europa, che – a dimostrare quanto la situazione sia grave – riporta i dati relativi alla produzione industriale mondiale: se nel 2000 il contributo dell’Europa ammontava al 25 per cento, nel 2020 era sceso al 16,3 per cento.

Lamenti ascoltati dalla Commissione europa che, nel settembre 2023, ha incaricato Mario Draghi di redigere un rapporto sullo stato della concorrenza dell’industria europea. Che tradotto significa capire i motivi per cui l’industria della Ue sta perdendo terreno e individuare i passi per farle riprendere quota.

Draghi è stato veloce: sei mesi dopo aveva il rapporto già pronto ma, non volendo interferire con le elezioni, ha atteso settembre per annunciare i propri risultati.

Del resto sul tema molto era stato già scritto, in particolare da parte del mondo imprenditoriale che, a detta di una trentina di Organizzazioni non governative, ha lavorato a stretto contatto con Draghi per la stesura del rapporto. Protesta, quella delle Ong, contenuta in una lettera aperta in cui si lamenta scarsa trasparenza e rapporti di collaborazione quasi esclusivi con le rappresentanze imprenditoriali. Se ci fosse stato il coinvolgimento delle organizzazioni sociali e ambientali, forse certe proposte non avrebbero trovato accoglienza.

Certo, tutti sanno che le strategie per sopravvivere e anzi farsi spazio nel mercato globale sono tematiche tutte interne alla logica capitalista, per cui sarebbe stato da ingenui aspettarsi un rapporto dai contenuti rivoluzionari. Specie quando a scriverlo è un personaggio come Draghi da sempre custode del sistema. Ma certe proposte hanno fatto sobbalzare anche i più ortodossi.

Mario Draghi (alla destra) con il presidente francese Macron. Foto European Central Bank.

Lo Stato no, i privati sì?

Complessivamente il rapporto Draghi, titolato «Il futuro della competitività europea», è composto da 400 pagine distribuite in due volumi: la parte A che offre una sintesi delle conclusioni raggiunte e la parte B che entra nei dettagli dei singoli temi e settori.

Fra i settori analizzati e fatti oggetto di proposte c’è anche quello dei minerali rari, delle industrie ad alte emissioni di anidride carbonica, del riciclo, delle energie pulite, dell’intelligenza artificiale, della farmaceutica, perfino dell’industria bellica e aerospaziale.

Benché il rapporto Draghi avanzi 170 proposte, la filosofia da cui queste derivano è un condensato di pochi elementi: crescita, innovazione, dinamismo, riduzione e ottimizzazione dei costi di produzione, approvvigionamento di materie prime in maniera sicura e a buon mercato, alta disponibilità finanziaria, sicurezza militare.

A partire da questi principi il rapporto formula proposte per ogni ambito e settore. Nel caso delle telecomunicazioni, ad esempio, indica la necessità di innovare investendo nella fibra ottica e nel 5G.

Ma il problema, secondo il rapporto, è che il settore è affollato da troppe imprese di piccole dimensioni.

In Europa i gruppi dediti alla telefonia mobile sono 34 contro tre degli Stati Uniti e quattro della Cina. Una frammentazione che dà come risultato un ammontare di investimenti di gran lunga inferiore rispetto agli altri due paesi. La conclusione di Draghi è che anche in Europa bisogna favorire la nascita di mega colossi tramite fusioni e acquisizioni. Il tutto in barba all’idea fin qui inseguita che i monopoli sono pericolosi, motivo per cui negli anni Novanta venne imposta in tutta Europa la privatizzazione di quelli di Stato dediti alla telefonia e all’energia. Avallare oggi i monopoli privati sarebbe una beffa e la dimostrazione che il vero obiettivo delle privatizzazioni non era la concorrenza, ma espropriare lo Stato della sua funzione sociale.

Il rapporto raccomanda un processo di concentrazione anche nel settore della produzione bellica, che in Europa ha un giro d’affari di 135 miliardi di euro. A tale scopo porta come esempio gli Stati Uniti che, dal 1990 a oggi, hanno ridotto il numero di imprese belliche di carattere strategico da 51 a 5. E, per non dare spazio ai concorrenti esteri, Draghi chiede ai paesi dell’Unione europea di programmare insieme gli acquisti di materiale bellico privilegiando le forniture dalle imprese europee. Ma al di là delle proposte specifiche, sorprende che un rapporto sulla concorrenza si occupi anche di produzione di armi dal momento che, in termini di valore economico, rappresenta appena il 2,5% del totale della produzione industriale europea. La risposta di Draghi è militare più che economica: «L’Unione europea proviene da decenni di bassa spesa militare, bassi investimenti nell’industria bellica e basse riserve di magazzino. Ma oggi la sicurezza alle sue frontiere è radicalmente cambiata per cui deve dotarsi di un piano per rafforzare gli investimenti nella difesa in modo da raggiungere una vera indipendenza strategica e aumentare la sua influenza geopolitica a livello globale».

Un’ulteriore conferma di come economico e militare siano profondamente intrecciati fra loro.

Fra i motivi per cui l’industria europea sta perdendo terreno, il rapporto Draghi ne sottolinea un paio: costi energetici elevati (come conseguenza della riduzione di gas proveniente dalla Russia) e incapacità di produrre internamente semiconduttori, batterie al litio e altri prodotti strategici per l’innovazione tecnologica. Due strozzature che l’Europa deve risolvere insieme a un terzo elemento di crisi che non è solo suo, ma dell’intera umanità: i cambiamenti climatici che impongono l’abbattimento dell’anidride carbonica.

Chi paga?

Un insieme di problematiche che, secondo Draghi, richiedono investimenti massicci, addirittura dell’ordine di 800 miliardi di dollari, per un numero indefinito di anni.

Ma chi paga? Il rapporto Draghi non lo precisa, ma fa capire che il peso deve essere ripartito fra sfera pubblica e sfera privata. Tant’è che formula proposte per permettere a entrambe di reperire i fondi necessari.

Per quanto riguarda i governi, Draghi avrebbe potuto proporre una tassa straordinaria sui più ricchi. Invece ha ripiegato sulla formula classica del debito con l’unica novità di farlo non individualmente, ma collettivamente, in quanto Unione europea, come già successo per il finanziamento del Next generation Eu attualizzato in Italia sotto la sigla Pnrr.

Il debito contratto dall’intera Unione europea ha il vantaggio di costare meno perché quando il prestito è chiesto da un’entità ritenuta solida, questa riesce a spuntare interessi più bassi. Ma quando arriverà il momento di restituirlo, tutti i paesi membri dovranno frugarsi in tasca, e quelli più deboli si comporteranno come sempre, ossia faranno cassa tagliando le spese, in particolare quelle a beneficio dei più poveri.

I fondi pensione

Venendo alle imprese, Draghi segnala che una difficoltà incontrata in Europa è la scarsità di capitali fuori dal circuito bancario. Fa anche notare che una delle realtà non bancarie che più investe nelle imprese è rappresentata dai fondi pensione, per cui sollecita il loro potenziamento.

Il che apre degli interrogativi sul perché si insiste tanto per demolire la previdenza pubblica. Ci è stato detto che la ragione è l’inefficienza della macchina pubblica e il peso eccessivo delle pensioni che fa indebitare lo Stato. Ma, alla luce delle parole di Draghi, viene il sospetto che la verità sia un’altra: ossia che si voglia spostare le pensioni dal pubblico al privato per fare un regalo di peso alle imprese private.

La dominanza del «meno»

Per favorire la competitività delle imprese, Draghi insiste molto anche sulle regole. Oltre a raccomandare di alleggerire il carico fiscale sulle imprese e di snellire le procedure di accesso a benefici e permessi, il rapporto raccomanda anche di ridurre gli obblighi a loro carico.

Fra questi cita espressamente una disposizione appena introdotta dal Parlamento europeo. Si tratta dell’obbligo di sorveglianza del rispetto dei diritti umani, tecnicamente definita due diligence, imposto alle multinazionali con fatturato annuo superiore ai 450 milioni di euro. Draghi cita quest’obbligo, assieme ad altri di natura ambientale e sociale, come esempi concreti di costi che sovraccaricano le imprese.

A questo punto, la domanda che occorre farsi è: dove finisce l’Europa attenta ai diritti, che abbiamo sempre detto di voler costruire, se anteponiamo la concorrenza ai diritti umani e all’ambiente?

Francesco Gesualdi

 

 




Riparare alla barbarie


Con la globalizzazione e la liberalizzazione le imprese hanno avuto l’opportunità di produrre a costi inferiori. A pagare sono stati i lavoratori e l’ambiente. Oggi, finalmente, nuove leggi sulla «due diligence» cercano di porre rimedio a questa barbarie.

Prima che la globalizzazione partisse in grande stile, diciamo una trentina di anni fa, le imprese che si presentavano ai consumatori con i loro marchi avevano l’abitudine di curare l’intero ciclo produttivo di ciò che vendevano. Parlando di vestiario, ad esempio, le imprese compravano le stoffe e le immettevano nei propri stabilimenti, funzionanti con propri dipendenti, per ottenere indumenti pronti alla vendita, partendo dal taglio e proseguendo con la cucitura, il lavaggio, la stiratura. Le imprese più esigenti sul piano della qualità gestivano in proprio perfino la filatura e la fabbricazione di stoffe a partire dal cotone o la lana.

Con la globalizzazione, questo tipo di organizzazione è andato definitivamente in frantumi per adottare una strategia produttiva che già aveva cominciato a fare capolino negli Stati Uniti negli anni Sessanta del secolo scorso. La stessa strategia che aveva permesso a Nike, il notissimo marchio di scarpe e articoli sportivi, di diventare dal nulla un’impresa mondiale.

La storia del baffo

La storia dell’impresa con il baffo comincia nel 1964, allorché Phil Knight, giovane contabile americano e appassionato di corsa campestre, s’imbatte in un paio di scarpe sportive che trova particolarmente buone. Anche il marchio è affascinante: una tigre stilizzata nel momento del salto. Phil se ne innamora e progetta di commercializzarle. Convinto com’è che qualità e aggressività siano un mix ideale per farsi strada, si galvanizza. Da tempo sogna di mettersi in affari e quella può essere la sua grande occasione.

Dopo un approfondimento, appura che le scarpe tigrate vengono dal Giappone. Ma per lui che abita sulla costa Ovest del Pacifico, quella provenienza non è un problema. Contatta l’azien-

da produttrice, l’Onitsaka Company, e ottiene il contratto di distribuzione esclusiva per gli Stati Uniti.

Phil non ha negozi, non ha spedizionieri e risolve il problema improvvisandosi venditore ambulante all’uscita delle università e delle palestre. Come mezzo di trasporto usa la sua auto su cui ha fatto stampigliare la scritta Blue Ribbon Sports, la società che ha fondato per avviare l’attività. Due soli soci: lui e Bill Bowerman, suo istruttore sportivo. Le scarpe vanno, gli affari si allargano fino a dover assumere del personale, e Phil decide di voler diventare un vero imprenditore con un marchio tutto suo. Tanto più che il socio Bill, appassionato di modellistica, ha messo a punto un modello di scarpa ancora più leggero e più comodo di quello che stanno vendendo.

Nel 1971 si decidono per il gran-

de passo, ma non possiedono stabilimenti. Perciò bussano alla porta di un altro produttore giapponese disposto a lavorare per conto terzi. Gli forniscono il modello, si accordano sul prezzo e alla data prestabilita avranno il numero di scarpe ordinate. Complete di logo che uno studente americano ha disegnato per loro in cambio di 35 dollari: una specie di baffo, uno sgorbio simile a un boomerang che, nelle intenzioni del disegnatore, rappresenta un’ala, simbolo di Nike, la dea alata della mitologia greca che personifica la vittoria. Il resto lo conosciamo. Nike è diventata una multinazionale con un fatturato di 51 miliardi di dollari, ma neanche uno stabilimento produttivo. Ottiene i suoi prodotti da terzisti dislocati in 41 paesi del mondo, quelli a costo più basso.

Nike fece scuola e quando tutte le imprese del mondo si trovarono costrette dalla concorrenza mondiale ad abbattere i prezzi di produzione, tutte scoprirono la produzione in appalto. Smisero di produrre in proprio e cominciarono a ordinare ciò di cui avevano bisogno a imprese estere localizzate in paesi a bassi salari. Prima la Corea del Sud, poi Taiwan, l’Indonesia, la Cina, il Vietnam, il Bangladesh. Ora il Kenya, l’Etiopia, il Malawi.

I proprietari di marchi sono sempre con la valigia in mano alla ricerca di paesi dove la «licenza di sfruttamento» è più alta. La loro parola d’ordine è liberalizzazione produttiva, che poi significa assenza di regole.

Irresponsabili

In un mondo produttivo senza regole, la situazione si è fatta sempre più selvaggia e agli albori del terzo millennio è tornata la barbarie produttiva del protocapitalismo ottocentesco. È tornato il lavoro minorile, le paghe da fame, l’assenza di diritti sindacali, l’insicurezza nei luoghi di lavoro.

Uno dei primi disastri si ebbe in Cina nel 1993 all’interno della Zhili, una fabbrica di giocattoli che lavorava in appalto per Chicco Artsana. Alle due del pomeriggio, scoppiò un incendio, ma le operaie non poterono uscire perché i cancelli erano chiusi a chiave. Il bilancio finale fu di 87 ragazze morte carbonizzate e quaranta ferite.

Molti altri incidenti avvennero successivamente in varie altre imprese asiatiche che lavoravano in appalto per committenti stranieri, ma quello più grave si verificò in Bangladesh il 24 aprile del 2013. Un intero palazzo di sette piani, conosciuto come Rana Plaza, crollò uccidendo 1.138 operaie e ferendone altre duemila. Frugando fra le macerie emersero etichette delle più importanti multinazionali della moda mondiale, tra cui Benetton, che, pur di fare soldi, avevano appaltato la produzione a imprese locali le quali, a loro volta, contenevano i costi di produzione risparmiando anche sulla sicurezza.

Il crollo del Rana Plaza, infatti, non fu un fulmine a ciel sereno: le lavoratrici già da tempo avevano denunciato la presenza di crepe, ma erano state ignorate.

In un mondo normale, le vittime dovrebbero ricevere almeno un indennizzo. Ma, nei vari incidenti, raramente è successo. Di solito, l’impresa terzista si rifiuta di pagare perché esonerata dalla legge locale, mentre l’impresa committente si chiama fuori asserendo di non avere alcun tipo di responsabilità verso una mano d’opera che non dipende direttamente da essa. Quelle rare volte che le vittime hanno ricevuto un indennizzo è stato grazie all’impegno della società civile che ha organizzato proteste e campagne. Così è stato per le vittime della Zhili grazie alla campagna organizzata nel 1997 dal Centro nuovo modello di sviluppo e altrettanto è stato per le vittime del Rana Plaza grazie all’intenso lavoro svolto dalla Clean clothes campaign. Campagne organizzate nei confronti delle imprese committenti che si rifiutavano di pagare non per una questione di soldi, ma di principio. Si dicevano disponibili a dare dei soldi, ma solo per la loro «bontà», non perché avessero un obbligo. La vecchia politica delle imprese disponibili a dare, se e quando vogliono, a titolo di carità e non come atto riparatorio per aver mancato in una precisa responsabilità ledendo un diritto.

La «diligenza dovuta»

Questo modo di operare da parte di diverse aziende, è reso possibile da una politica connivente che, per decenni, ha permesso alle imprese di rivendicare il diritto di intascare i soldi dello sfruttamento senza assumersi alcuna responsabilità, non perché ci fossero delle leggi che le autorizzassero, ma perché non esistevano leggi che affermassero il contrario. Niente leggi, niente diritti, niente obblighi.

Il pretesto utilizzato dai vari parlamenti nazionali per giustificare la propria inazione era la difficoltà di emettere leggi che avrebbero dovuto essere rispettate simultaneamente in più paesi. Tuttavia, già nel 2011 la Commissione Onu per i diritti umani aveva indicato la soluzione. La cosa da fare da parte degli Stati era di obbligare le imprese registrate nel proprio Paese ad assumersi la responsabilità di ciò che succede ai lavoratori e all’ambiente lungo le filiere produttive da esse utilizzate. Un concetto espresso con il termine inglese di due diligence, che in italiano potrem-mo tradurre come «diligenza dovuta» o, meglio ancora, «dovere di prendersi cura», sottinteso dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente. Un imperativo che, in concreto, si attua attraverso tre passaggi chiave: innanzitutto vigilanza, per accertarsi che tutela ambientale e diritti dei lavoratori siano rispettati in ogni punto delle filiere produttive; secondariamente, correzione di ciò che non va; infine, messa in atto di tutte le misure di indennizzo nel caso siano stati provocati dei danni.

In Europa il primo paese a raccogliere la raccomandazione delle Nazioni Unite è stata la Francia che, nel 2017, ha promulgato la cosiddetta Loi de vigilence. Nel 2021, è seguita la Germania con una legge analoga e, finalmente, nell’aprile 2024 anche il Parlamento europeo ha legiferato in materia. Con una precisazione: i provvedimenti del consesso dell’Ue non sono indirizzati direttamente ai cittadini, ma ai parlamenti o ai governi degli stati membri. Sono ordini impartiti ai paesi aderenti affinché redigano leggi nazionali secondo le indicazioni definite dal Parlamento europeo.

L’Unione europea interviene

Nel caso della due diligence, la direttiva del Parlamento europeo dà agli Stati aderenti due anni di tempo per produrre una legge che attribuisca ai grandi marchi una serie di obblighi di controllo, correzione e indenizzo: in sostanza, gli stessi previsti dalla Commissione Onu per i diritti umani.

La Direttiva europea non è perfetta: si applicherà solo a gruppi molto grandi con più di 1.000 dipendenti e un fatturato annuo superiore a 450 milioni di euro. Inoltre, prevede meccanismi di gestione e pratiche amministrative non ancora sperimentate che le imprese possono cercare di manipolare. Nonostante i suoi difetti, però, il provvedimento è importante almeno per due motivi. In primo luogo, perché rappresenta un cambio di passo rispetto al ruolo assegnato dall’ordinamento giuridico alle imprese: non più il profitto a ogni costo, ma solo se ottenuto nel rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’integrità del pianeta. In secondo luogo, perché la forza di persuasione dell’Ue potrebbe avere un effetto domino positivo su altre giurisdizioni e altri mercati.

La direttiva due diligence avrà i suoi effetti anche sulle aziende della moda, comprese le italiane. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, il settore tessile è fra quelli a più alto rischio di violazione dei diritti umani, insieme al minerario e all’agricolo. Le filiere di produzione della moda sono costellate di sfruttamento, povertà e disparità salariale, straordinari obbligatori, fabbriche insicure, prezzi di acquisto bassi e comportamenti commerciali predatori da parte dei marchi committenti.

Non c’è bisogno di andare in Bangladesh per rendersene conto: nel corso del 2024 la magistratura italiana ha preso provvedimenti contro Armani e Dior per presunta agevolazione colposa del caporalato. Del resto il Global slavery index del 2023 pone il settore tessile al secondo posto per numero di persone sottoposte a lavoro forzato. Per questo la Campagna abiti puliti, assieme al network internazionale della Clean clothes campaign, ha condotto un’intensa attività di lobby sul Parlamento europeo per ottenere l’approvazione del provvedimento sulla due diligence.

Francesco Gesualdi




L’autonomia dell’egoismo


La Costituzione italiana ha creato le Regioni come soggetti decentrati dello Stato. La questione è sempre stata: cosa possono fare e con quali soldi? E ancora: deve prevalere la solidarietà nazionale o l’egoismo regionale?

Secondo molti, la cosiddetta «autonomia differenziata» è un progetto che produrrà uno spezzatino legislativo e accrescerà le disuguaglianze fra territori. Il tema riguarda l’autonomia delle Regioni italiane, ossia quanto ognuna di esse possa fare per conto proprio nei vari ambiti che riguardano la vita dei cittadini.

Secondo la visione dei padri costituenti, le Regioni avevano essenzialmente il compito di attuare in ambito locale i servizi decisi dal governo centrale. Solo su materie molto ristrette a forte valenza locale potevano anche legiferare. Alcune di queste erano le fiere e i mercati, la caccia, l’artigianato, l’agricoltura, le foreste, la beneficenza e l’assistenza sanitaria. Ma era ben specificato che le leggi regionali dovevano rimanere dentro i limiti tracciati dai principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, né potevano essere in contrasto con l’interesse nazionale o quello di altre Regioni. In conclusione, le Regioni erano concepite come strumenti di decentramento amministrativo in un progetto di avanzamento di tutta la nazione secondo logiche di solidarietà. Pertanto, i cittadini delle regioni più benestanti erano chiamati a contribuire anche per quelli residenti in regioni più disagiate in modo da garantire gli stessi servizi da un capo all’altro d’Italia.

Nord e Sud

La Costituzione italiana è stata emanata nel 1947 ed è entrata in vigore nel 1948, ma le regioni entrarono nel pieno delle loro funzioni solo nel 1970 quando si tennero le prime elezioni regionali. Per circa un ventennio la navigazione procedette senza eccessivi scossoni, ma sul finire degli anni Ottanta nel Nord Italia si sviluppò un movimento, poi battezzato Lega Nord, che arringava le folle sostenendo che il Nord era sfruttato dal Sud. La tesi era che il Nord laborioso produce ricchezza e il Sud parassita se ne appropria per mezzo dei travasi operati dal fisco e del salasso causato dalla macchina burocratica allestita dal governo centrale. La soluzione era l’autonomia regionale, compresa quella fiscale, affinché ogni Regione potesse utilizzare al proprio interno tutti i soldi versati dai propri cittadini modulando i propri servizi in base alla ricchezza disponibile. Un progetto, insomma, spudoratamente egoistico di cui non si faceva mistero. Dimenticando che la ricchezza del Nord era stata prodotta anche grazie al sudore di centinaia di migliaia di immigrati meridionali, al congresso della Lega Nord del 5 febbraio 1994, Gianfranco Miglio, ideologo del partito, tenne il suo discorso incentrato su pidocchi e parassiti: «Il Paese che siamo chiamati a cambiare è ammalato da un esercito di pidocchi. Centralismo e parassitismo sono due fenomeni strettamente legati fra loro. Senza mutare il sistema costituzionale centralizzato noi non riusciremo a sopravvivere». Che tradotto significava riformare la Costituzione affinché venisse riconosciuta alle Regioni la facoltà di trattenere il gettito fiscale generato nel proprio territorio da utilizzare a uso esclusivo dei propri cittadini.

La (brutta) riforma del Centrosinistra

Sulla scia dei successi elettorali dei leghisti, la «questione settentrionale» si era imposta al dibattito pubblico e un po’ tutti i partiti, sinistra compresa, si affrettavano a metterci sopra il cappello. L’Ulivo stesso, in occasione delle elezioni 1996, aveva inserito al terzo posto dei punti programmatici, la voce «Autogoverno locale e federalismo cooperativo», forse pensando che se fosse riuscito a introdurre il regionalismo prima della Lega, il responso elettorale si sarebbe spostato a proprio favore. Effettivamente quella tornata elettorale venne vinta dal Centrosinistra che nel 2001, sul finire della legislatura, varò una riforma costituzionale per garantire alle Regioni maggiori spazi di autonomia fiscale, amministrativa e legislativa. In tutto, gli articoli della Costituzione modificati furono dieci, mentre cinque furono addirittura abrogati. Ma quelli che subirono i cambiamenti più profondi furono il 116 e il 117 che definiscono i compiti delle Regioni e dello Stato. La riforma stabilì che alcune materie, come l’immigrazione, la difesa, l’ordine pubblico, sono di competenza esclusiva dello Stato, mentre altre, come sanità, trasporti, protezione civile, sono materie concorrenti, ossia di competenza congiunta di Stato e Regioni: lo Stato definisce i principi fondamentali, le Regioni gli aspetti di dettaglio.  L’articolo 116, tuttavia, stabilisce che sulle materie concorrenti, le Regioni possono godere di «condizioni particolari di autonomia», ma non precisa quanto possa essere ampia. Dice solo che deve essere richiesta dalla Regione interessata e che sarà una legge specifica, approvata dal Parlamento, ad attribuirla. Dunque, ogni Regione avrà la propria autonomia, ciascuna con contenuti diversi a seconda di ciò che più le interessa. Per questo si parla di autonomia differenziata.

La legge Calderoli

Stabilito che il supplemento di autonomia non è né automatico né predeterminato, serviva una legge ordinaria per definire il percorso utile ad ottenerlo.  Quella legge è arrivata ventitré anni dopo, nel giugno 2024 per iniziativa del ministro (leghista) per gli Affari regionali Roberto Calderoli. Ma è arrivata in un momento di ripensamento politico da parte della sinistra che ora vede l’autonomia differenziata come un pericolo, anziché una conquista. Per cui ha deciso di dare battaglia per mezzo di un referendum e, se tutto procederà secondo le previsioni dei promotori, nella primavera 2025 dovremmo essere chiamati a dire se vogliamo mantenere o abrogare la legge numero 86/2024, meglio nota come legge Calderoli.

Formata da 11 articoli, la legge definisce il percorso da seguire per ottenere l’autonomia supplementare e gli ambiti per la quale può essere richiesta. Ciò che colpisce in questa legge è il ruolo marginale previsto per il Parlamento. La procedura comincia con la richiesta di supplemento di autonomia da parte della Regione interessata con la precisazione delle materie su cui la richiede. Dopo di che si apre un tavolo di negoziato con il governo per dare forma concreta all’autonomia richiesta. L’accordo raggiunto sarà poi trasmesso al Parlamento che lo trasforma in legge senza possibilità concreta di modificarne il contenuto: l’accordo è accolto o rigettato in blocco.

Rispetto agli ambiti di gestione, la legge Calderoli fa una distinzione fra le materie che rientrano nei diritti civili e sociali (sanità, istruzione, tutela ambientale) e tutti gli altri (protezione civile, ricerca scientifica, previdenza sociale complementare). Le materie del secondo gruppo possono essere discusse subito. Quelle del primo gruppo debbono aspettare il varo di altri adempimenti legislativi prima di essere negoziati. La distinzione è d’obbligo perché l’articolo 117 della Costituzione stabilisce che non si può effettuare nessun intervento sulle materie inerenti i diritti sociali e civili se prima non sono stati definiti i livelli minimi da garantire su tutto il territorio nazionale. Si tratta dei famosi Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) che devono essere determinati dallo Stato. Il compito è stato attribuito al governo che legifererà non si sa quando, anche perché si attende il pronunciamento di una commissione appositamente costituita sotto la direzione del giurista Sabino Cassese.

In ogni caso è inutile fossilizzarsi su questa o quella tecnicalità: la legge Calderoli è presa di mira come strategia per congelare l’attuazione dell’autonomia differenziata, in attesa, forse, che un’altra maggioranza rimetta di nuovo mano alla Costituzione per ripristinare un testo simile a quello che avevamo prima della riforma del 2001.

Le criticità

Le principali obiezioni avanzate dagli oppositori dell’autonomia differenziata sono due. La prima è che, da un punto di vista normativo, l’Italia rischia di diventare uno spezzatino che metterà in difficoltà cittadini e operatori economici. Ad esempio, in materia ambientale si potrebbe avere una tale pluralità di assetti normativi rispetto a procedure, autorizzazioni e controlli, da mandare in confusione chi possiede attività economiche in più regioni. Per di più la libertà normativa può incitare le regioni a lanciarsi in una pericolosa gara di permissivismo per attirare in casa propria le imprese in cerca di siti produttivi.  L’obiezione più rilevante, tuttavia, è che l’autonomia differenziata aumenterà le disuguaglianze fra regioni ricche e regioni povere. In materia finanziaria la riforma costituzionale del 2001 non introduce novità di rilievo rispetto alla versione originaria del 1947.

Entrambe le versioni affermano che le Regioni possono godere di tributi propri e partecipare a quelli erariali destinati allo Stato centrale. Ma la versione del 1947 precisava che l’autonomia finanziaria si attua «nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica». La versione del 2001 è più vaga lasciando la porta aperta a vie di definizione meno controllabili come il tavolo di negoziazione che il governo avvia con le singole regioni richiedenti il supplemento di autonomia. In effetti l’articolo 5 della legge Calderoli stabilisce che «l’intesa individua le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale».

Secondo la Corte dei Conti, nel 2021 le regioni a statuto ordinario si sono finanziate per il 35% con tributi propri come il bollo sull’auto, l’Irap, l’addizionale Irpef, e per il 65% attingendo al gettito Iva raccolto sul proprio territorio. Allo stato attuale le regioni possono trattenere una quota massima di Iva territoriale pari al 70% e debbono destinarla alla sanità che rappresenta il 62% della spesa regionale complessiva.

Attraverso un calcolo piuttosto complicato, ogni anno il governo definisce l’importo di Iva che ogni regione può effettivamente trattenere. Il calcolo avviene mettendo a confronto l’ammontare di Iva raccolto sul proprio territorio, limitatamente al 70%, con la parte di spesa sanitaria che la stessa deve finanziare. Se la spesa risulta più alta dell’ammontare raccolto, la regione riceverà dallo Stato dei soldi a compensazione; se risulta più bassa, la regione verserà l’eccesso a un apposito fondo definito «fondo di solidarietà interregionale», che lo Stato utilizza, assieme ad altre entrate, per sostenere la spesa sanitaria delle regioni in affanno. Nel 2019 le regioni che hanno contribuito al fondo di solidarietà sono state sette. In testa c’è la Lombardia con un contributo pari a 2 miliardi di euro, seguita da Lazio, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Toscana, Liguria, per un totale di 5 miliardi di euro. Fra quelle che hanno beneficiato del fondo c’è prima di tutto la Campania, che ha ricevuto 2,1 miliardi. A seguire la Puglia, la Calabria e altre cinque regioni.

Oggi, in nome dell’autonomia differenziata, le regioni più ricche possono chiedere di trattenere le loro eccedenze per fornire ai propri cittadini servizi aggiuntivi. Del resto, è per questo che hanno rivendicato il supplemento di autonomia. Sarà quindi il fondo di solidarietà a rimetterci, con il rischio che si prosciughi fino ad azzerarsi, mettendo in difficoltà lo Stato, prima ancora delle regioni più fragili, perché esso dovrà trovare altre forme di entrata per finanziare i servizi essenziali da garantire da un capo all’altro d’Italia. Se avessimo avuto una sinistra più attenta ai suoi valori storici piuttosto che alle convenienze elettorali, oggi non ci troveremmo in questo pasticcio che potrà essere risolto solo con un forte intervento popolare.

Francesco Gesualdi


Il Ssn e i livelli essenziali

L’acronimo Lea sta per «Livelli essenziali di assistenza» e indica le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket). I Lea vennero introdotti con una legge del 1992 sulla constatazione che c’erano zone d’Italia dove non si garantivano nemmeno i servizi sanitari più elementari. Pertanto, si sentì il bisogno di definire quei servizi che dovevano essere assicurati a tutti i cittadini d’Italia, ovunque essi vivessero. Il loro elenco è rivisto periodicamente ed è suddiviso in tre sezioni: prevenzione collettiva e sanità pubblica, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera. L’ultimo aggiornamento risale al 2017.

Una legge del 2000 introdusse il Sistema di garanzia, un metodo di verifica che ha lo scopo dì appurare quanto sono effettivamente garantiti i servizi sanitari essenziali nelle diverse regioni d’Italia. L’indagine si basa sull’utilizzo di un centinaio di indicatori di qualità. L’ultima rilevazione relativa al 2018 certifica che esistono ancora differenze molto marcate fra le diverse regioni d’Italia. Quella più virtuosa è l’Emilia Romagna che garantisce i Lea al 98%. All’ultimo posto c’è la Calabria con un livello di adempimento del 44%.

L’acronimo Lep sta, invece, per «Livelli essenziali di prestazioni» e indica le prestazioni e i servizi che la collettività è tenuta a garantire a tutti i cittadini rispetto ai diritti civili e sociali. I Lep, dunque, sono un concetto più ampio dei Lea. I Lep sono stati introdotti dall’articolo 117 della Costituzione, per definire i servizi che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. L’articolo 117 si limita ad affermare il principio dei Lep, lasciando che sia una legge ordinaria a definirne le modalità d’attuazione. La legge Calderoli tratta i Lep all’articolo 3 indicando i settori interessati e l’organo che deve dettagliarli. Per quanto riguarda i settori ne individua quattordici, dall’istruzione ai trasporti passando per la sanità. Quanto a chi deve dettagliarli, la legge stabilisce che sarà il governo a farlo, previa consultazione di rappresentanze regionali e di alcune commissioni parlamentari. A molti è sembrato grave che non sia previsto nessun ruolo per il Parlamento come organo collegiale, perché i Lep non sono una questione formale, ma di grande  sostanza politica e sociale. Dalla loro definizione dipendono i diritti dei cittadini, la qualità delle loro vite, perfino il livello di equità presente nella società italiana. Rimettere questioni tanto importanti alla sola valutazione del governo è davvero molto pericoloso. Ragione di più per chiedere l’abrogazione della legge Calderoli affinché sia dato, quanto meno, più potere al Parlamento.

F.G.

 




Transizione, miti e realtà


Abbandonare i combustibili fossili è un’impresa complicata e costosissima. Trovare le materie prime sostitutive lo è altrettanto. Con queste premesse, non ci sono dubbi che la transizione «verde» sarà un’impresa.

Prima il carbone, poi il petrolio, dopo il gas, fatto sta che, più o meno, da 250 anni utilizziamo combustibili fossili per produrre energia. Il risultato è che abbiamo emesso così tanta anidride carbonica da avere provocato l’innalzamento medio della temperatura terrestre di oltre un grado centigrado. Con inevitabili ricadute sul clima che ormai ha perso la regolarità di qualche decennio fa come testimoniano lo scongelamento dei ghiacciai, i lunghi periodi di siccità, le piogge torrenziali che devastano agricoltura e territori. Quando ormai il danno è già stato fatto, i centri di potere stanno meditando di fare qualcosa per mettere un freno alla produzione di anidride carbonica. L’obiettivo universalmente dichiarato è il raggiungimento di emissioni nette uguale allo zero per il 2050. Come dire che per quella data la CO2 prodotta dovrà essere ridotta di circa due terzi rispetto a quella prodotta oggi in modo da riportarla nei limiti di capacità di assorbimento del sistema vegetale presente sul pianeta.

La transizione energetica

Per riuscirci bisogna cambiare radicalmente modo di produrre energia e la parola d’ordine a livello planetario è diventata «transizione energetica» che significa un altro modo di produrre energia elettrica, di produrre calore in ambito industriale e domestico, di alimentare i mezzi di trasporto.

In ambito elettrico le nuove strategie sono il solare, l’eolico, l’idroelettrico. Ma c’è anche chi insiste nel rilancio di tecniche azzardate come le centrali nucleari, mentre si stanno conducendo ricerche nel campo della fusione nucleare, che poi significa riproduzione sulla Terra di quanto avviene all’interno del sole. Quanto alla mobilità, la nuova frontiera è rappresentata dai mezzi elettrici alimentati a batteria o celle a idrogeno.

Tra il dire e il fare: chi paga il passaggio?

La transizione energetica (o green) è tanto facile a dirsi, quanto difficile da attuarsi perché si tratta di un’operazione mastodontica con ripercussioni enormi sia sul piano finanziario che ambientale. Ad esempio, rispetto al primo aspetto, quello finanziario, la European round table, l’associazione delle principali multinazionali europee, valuta che, da qui al 2030, solo in Europa servirebbero 700 miliardi di euro per rinnovare e ammodernare il sistema di produzione e trasmissione elettrica. Fino al 2050 il costo previsto a tale scopo è di 2.300 miliardi di euro. E siamo appena all’ambito elettrico. Nel contempo vanno rinnovati anche gli altri comparti energetici: i riscaldamenti interni alle abitazioni, le fornaci interne alle aziende, la propulsione dei mezzi di trasporto che devono passare dai motori a scoppio ai sistemi alimentati da batterie elettriche o da batterie a idrogeno. Il tutto, poi, va esteso a livello mondiale, considerando anche che ci sono continenti, come quello africano, dove centinaia di milioni di persone non godono ancora di alcun tipo di fornitura elettrica.

In conclusione, secondo i calcoli effettuati dalla banca d’investimento britannica Barclays Bank, da qui al 2050 servono fra i 100mila e i 300mila miliardi di dollari, a livello mondiale, per sostituire il parco energetico oggi basato sui combustibili fossili. Come termine di paragone, si tenga conto che 100mila miliardi corrispondono all’intera ricchezza prodotta in un anno a livello mondiale.

I soldi sono un problema e il primo nodo della transizione energetica è: chi deve sobbarcarsi la spesa? La risposta dipende dall’orientamento politico, ma è verosimile che, chi più chi meno, tutti dovranno fare la propria parte: governi, imprese e famiglie, sapendo che ai governi tocca anche l’attività di regolamentazione e di indirizzo. Tutte iniziative che presentano la propria complessità, ma che sono ampiamente superabili se sostenute da un’adeguata volontà politica. Ciò che invece è di difficile soluzione riguarda gli effetti sociali e ambientali che la transizione green è destinata a sollevare.

La transizione complicata: i microchip non sono immateriali. Foto Brian Kostiuk – Unsplash.

Il materiale dell’immateriale

L’affermarsi dell’informatica ci ha fatto credere di essere entrati nell’era dell’immateriale, il tempo in cui si riesce a operare a distanza senza bisogno di alcun mezzo di trasporto né di energia per il loro movimento. Ma si tratta di un’illusione. A questo mondo, d’immateriale non c’è niente, neanche il pensiero, perché, per funzionare, il cervello ha bisogno di nutrimento, ossia di materia. E così pure i nostri congegni elettronici: per funzionare richiedono non solo energia, ma anche materia per dare forma alla tecnologia da cui dipendono. Né tragga in inganno la leggerezza dei microchip, emblema della moderna tecnologia informatica. I microcircuiti all’interno dei nostri computer e dei nostri cellulari sono distillati di processi produttivi che hanno impiegato una quantità di materiale assai più elevato del risultato finale.

Più esattamente per ottenere un microchip di appena due grammi servono 1,5 chilogrammi di combustibili fossili, 0,073 chilogrammi di composti chimici, 31,9 litri d’acqua e 0,7 chilogrammi di gas (in particolare azoto). Come dire che per produrre un microchip ci vuole una quantità di risorse materiali 17mila volte più alta del suo peso finale. Risorse entrate nel ciclo produttivo, ma poi rimosse una volta assolta la propria funzione. E, si noti bene, rimosse, ma non dissolte, bensì gettate in qualche angolo del pianeta sotto forma di rifiuto. Ogni prodotto che usiamo nasconde da qualche parte la zavorra degli scarti di produzione che gli esperti chiamano «zaino ecologico».

I nuovi materiali sono «critici»

I rifiuti nascosti sono solo uno dei problemi che accompagnano i nuovi materiali su cui si basa la transizione energetica. Altrettanto preoccupante è la nuova dipendenza che si sta profilando: il vecchio sistema energetico dipendeva dai combustibili fossili, il nuovo dipende da pochi minerali su cui è già lotta aperta per il loro accaparramento. L’Unione europea ha stilato una lista di 34 minerali strategici ai fini della transizione energetica, di cui alcuni già ampiamente inseriti nella tradizione industriale, altri solo marginalmente. Fra i primi possiamo citare il rame, l’alluminio, il nickel, che nel nuovo corso diventeranno ancora più importanti per il posto occupato nei dispositivi utili alla produzione e alla trasmissione di corrente elettrica. Fra i secondi risaltano il litio, il cobalto, la grafite, ma anche le terre rare, un gruppo di 17 elementi della tavola periodica, tra cui cerio, lantanio, scandio (vedi MC giugno 2024). Un insieme di materiali che trovano un’ampia applicazione in tutti i settori della tecnologia avanzata e delle energie rinnovabili. Fondamentali per costruire magneti, fibre ottiche, batterie ricaricabili, turbine eoliche, pannelli solari, sono elementi imprescindibili di apparecchiature di medicina avanzata, di computer, smartphone e tecnologia aerospaziale, compresa quella a fini militari.

I nuovi minerali a fini energetici sono intriganti anche per il lessico che li accompagna. Potevano essere presentati come salvifici, sostenibili, verdi o in qualsiasi altra versione positiva. Invece, sono etichettati da tutti come «critici». Valga come esempio l’Unione europea che in tutti i documenti dedicati all’argomento ne parla come «materie prime critiche». Altrettanto negativamente sono rappresentate dalle associazioni a difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Ma per ragioni opposte: la società civile teme i rischi per la natura e le popolazioni locali; l’Unione europea teme quelli per la supremazia delle sue imprese. Un timore, quest’ultimo, dettato da due fattori: la scarsità dei minerali e la loro concentrazione in pochi paesi.

Per la verità il capitalismo non si è mai preoccupato della disponibilità di risorse. Ha eletto come zona di crescita economica una porzione ridotta di mondo: soltanto questa aveva il diritto di fare razzia per ogni dove. In altre parole, i paesi occidentali si sono sempre arrogati il diritto di perseguire la crescita infinita, certi che i limiti del pianeta non sarebbero mai stati un ostacolo. Ma oggi che molte altre aree geografiche si sono avviate lungo la strada della crescita economica, il vecchio capitalismo occidentale ha cominciato a capire che la crescita infinita non può esistere.

La transizione complicata: la produzione di energia elettrica. Foto Couleur – Pixabay.

Materie prime: chi le ha e chi le sa lavorare

A suonare il campanello d’allarme è perfino l’Ocse, l’ufficio studi dei paesi più ricchi incaricato di elaborare strategie di crescita economica per loro conto. Secondo le sue previsioni, da qui al 2060 la domanda mondiale di materie prime crescerà più del doppio, passando dagli attuali 79 miliardi di tonnellate a 169. Del resto, la pressione sui minerali è già evidente attraverso i prezzi.

Il litio carbonato, solo per citare un esempio, è passato da 20mila dollari a tonnellata nel 2018 a 80mila dollari nel gennaio 2023. Certo, i prezzi hanno sempre un andamento altalenante perché risentono della speculazione finanziaria, ma le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia rispetto alla domanda di minerali a fini energetici non ammettono dubbi. Secondo i suoi calcoli, nel 2040 la domanda di nichel sarà due volte più alta rispetto al 2010, mentre quella di cobalto cinque volte più alta. Quanto al litio, nel 2030 la sua richiesta sarà quattro volte più alta rispetto a oggi. Di conseguenza un quesito si pone con forza: nel futuro ci saranno minerali a sufficienza per tutti? E se non dovessero essercene, chi deciderà chi può averne? Sicuramente un grande decisore sarà il prezzo di vendita, destinato ad aumentare per tutti i minerali: chi potrà comprarli a qualsiasi prezzo sarà il vincitore, gli altri dovranno leccarsi le ferite. A fare da discrimine, insomma, sarà la ricchezza. Ma anche la nazionalità perché saranno avvantaggiati i paesi con riserve nel proprio sottosuolo e con capacità di raffinazione. Una situazione ad oggi molto sbilanciata.

Parlando di estrazione, ad esempio, si scopre che pochi paesi sono produttori di minerali critici. Spicca la Repubblica democratica del Congo per cobalto e tantalio, il Sudafrica per il manganese, la Cina per le terre rare, l’Australia e il Cile per il litio. E se passiamo all’attività di lavorazione e raffinazione delle materie prime, scopriamo che il livello di concenrazione è ancora più marcato.

Da questo punto di vista il primato spetta alla Cina rispetto a una grande quantità di metalli. La sua quota di raffinazione si aggira intorno al 35% per il nichel, al 50% per l’alluminio, al 60% per litio e cobalto, addirittura al 100% per le terre rare pesanti. Uno scenario che spaventa in particolare l’Unione europea, che fra tutte le potenze economiche è quella più sguarnita di minerali e di imprese siderurgiche.

Dalla globalizzazione all’autarchia

Ormai il tempo della globalizzazione, del consideriamoci tutti amici e lasciamo che il mondo sia un unico grande mercato dove ognuno va a comprare dove è più conveniente, è passato. Le imprese non fanno soldi solo per sé, ma sono anche garanzia di introiti per le casse statali e fonte di stabilità occupazionale. Di conseguenza, la politica ha scoperto che troppa globalizzazione fa male agli interessi interni e ha cominciato a tirare il freno. Anche su richiesta di tutte quelle imprese nazionali che dalla globalizzazione ci stavano rimettendo, tutte le grandi potenze economiche stanno virando verso un maggior senso di casa per ridurre la dipendenza dall’estero rispetto alle risorse strategiche. Hanno iniziato gli Stati Uniti ed è seguita a ruota l’Unione europea che, nel marzo 2023, ha varato un regolamento per rilanciare l’apertura di miniere dismesse e siti industriali utili a produrre metalli strategici per la transizione energetica. L’obiettivo dichiarato è che per il 2030 si estragga internamente almeno il 10% dei minerali strategici e si lavori nei paesi europei il 40% dei minerali utilizzati. È anche previsto che il 25% provenga da materie prime riciclate. In ogni caso, il regolamento più che obblighi per i governi, prevede facilitazioni finanziarie e normative per favorire il nuovo corso autarchico. Che, però, non tutti vedono con favore perché l’estrazione si accompagna spesso a processi di alterazione ambientale che inquinano il territorio, compromettono le falde acquifere, pongono a rischio la salute degli abitanti. Di questo tema, però, ci occuperemo nel prossimo articolo.

 Francesco Gesualdi

 




I costi della carne


Dalle stalle ai laboratori: è la carne cosiddetta «artificiale». In Italia è vietata da una legge ad hoc. Eppure, la carne «normale» ha ormai costi insostenibili. Ambientali ma non solo.

Già prima che i trattori invadessero le strade d’Europa, gli allevatori italiani si erano fatti sentire presso il nostro governo con una richiesta singolare. Chiedevano una legge per proibire la produzione della carne detta «artificiale». Che significa? Da quando in qua la carne si produce nei laboratori invece che nelle stalle? In realtà, succede già negli Stati Uniti e a Singapore, mentre l’Unione europea ci sta pensando. Con grande preoccupazione degli allevatori di tutto il mondo che ovunque si battono contro la carne di laboratorio. Come andrà a finire dipende dalla forza che ogni categoria economica coinvolta nella partita sarà capace di mettere in campo nei confronti della politica. Al momento, in Italia hanno vinto gli allevatori che il 1° dicembre 2023 hanno ottenuto una legge, la numero 172, che vieta la produzione e la vendita di carne da «colture cellulari» nel nostro paese. Il futuro rimane, però, una questione ancora tutta aperta.

Allevamenti, metano e cereali

L’interesse degli studiosi per la carne prodotta in laboratorio è di vecchia data, ma ha avuto un’accelerazione da quando abbiamo capito che i cambiamenti climatici sono una cosa seria e che sono dovuti in gran parte all’agire dell’essere umano. Una responsabilità che risiede nella produzione eccessiva di gas a effetto serra. Di quei gas, cioè, che, accumulandosi in atmosfera, intrappolano i raggi solari provocando un surriscaldamento della superficie terrestre. Il gas maggiormente responsabile del fenomeno è l’anidride carbonica, ma ce ne sono anche altri come il protossido d’azoto e il metano. Ed è proprio quest’ultimo a chiamare maggiormente in causa la responsabilità degli allevamenti.

La Fao stima che i gas serra associati all’allevamento animale ammontino a 7,1 gigatonnellate, pari al 14% di tutti i gas serra prodotti dall’agire umano a livello mondiale. In sintesi, un settimo dei gas serra proviene dagli allevamenti animali principalmente come metano, prodotto non tanto dalle deiezioni, quanto dalla digestione dell’erba. Più precisamente il metano si forma nell’apparato digerente dei ruminanti: mucche, bufali, pecore, capre, cammelli, che passano ore e ore ogni giorno a ruminare l’erba che altrimenti non potrebbe essere digerita. Il processo di digestione è coadiuvato da batteri anaerobi produttori di una grande quantità di metano che l’animale espelle attraverso la bocca e la via intestinale.

Nel conteggio della Fao, tuttavia, oltre al metano emesso direttamente dai ruminanti, sono comprese anche le emissioni di anidride carbonica connesse alla produzione di soia, nonché mais e altri cereali dati in pasto agli animali.

Si stima che tra il 35 e il 40% dell’intera produzione mondiale di cereali sia destinata agli animali, una quota destinata a salire considerato l’aumento del consumo di carne.

Suoli, falde, acqua

Per di più i problemi ambientali creati dall’allevamento animale riguardano anche altri ambiti, come testimonia il territorio della Lombardia, dove suoli e falde sono contaminati dall’alta concentrazione di allevamenti. Altrettanto catastrofico è l’impatto sul consumo di acqua (ne servono 15 tonnellate per ogni chilo di carne), sul consumo di terre agricole e sulle foreste eliminate per fare spazio ai pascoli e alla produzione di soia.

Un insieme di problematiche destinate ad aggravarsi considerato che, nel Sud del mondo, c’è una classe media in crescita che pretende di mangiare carne nella stessa quantità del Nord del mondo.

In effetti esistono ancora profonde differenze nel consumo di carne a livello mondiale. L’istituto Our world in data informa che si va da un consumo pro-capite di 136 kg l’anno a Hong Kong, a 3 kg nel Burundi, passando per i 126 degli Usa, i 65 della Cina e i 70 dell’Italia.

In ogni caso, negli ultimi sessant’anni, si è assistito a un aumento considerevole di animali allevati: se nel 1960 si contavano bovini per un miliardo di capi e ovini-caprini per 1,3 miliardi, nel 2020 il numero di bovini è passato a un miliardo e mezzo, mentre quello degli ovini-caprini a due miliardi.

Carne, alimento critico

I costi ambientali della carne sono insostenibili. Foto Harlie Solozano – Unsplash.

Che la carne sia ormai diventata un alimento critico è fuori discussione, ma sulla questione di cosa fare per porre rimedio alle sue criticità esistono esistono varie posizioni perché, in economia, più che la razionalità vale l’interesse, per fortuna con qualche eccezione. Fra gli allevatori stessi ci sono dei genuini ambientalisti che propongono di ridurre il numero di capi allevati utilizzando i pascoli come principale fonte di alimentazione. Ma si tratta di una minoranza. La maggior parte degli allevatori vuole andare avanti come sempre, ossia badando solo a costi, ricavi e rese monetarie, tutt’al più facendo qualche ritocco d’immagine piuttosto che di sostanza.

Ad esempio, succede, che la brasiliana Jbs, fra le più grandi multinazionali dedite alla macellazione animale, pur vantandosi di impegnarsi nella sostenibilità ambientale, continua a essere accusata dalle associazioni ambientaliste di acquistare bestiame allevato su tratti deforestati dell’Amazzonia.

Al di là dell’immobilismo contrapposto dagli allevatori più conservatori, tre soluzioni sono oggi sul tavolo: una di tipo esclusivamente tecnologico, una di tipo comportamentale, l’ultima di tipo misto.

Cellule in laboratorio

La soluzione di tipo esclusivamente tecnologico è quella che propone di ottenere bistecche e fettine in laboratorio, tramite un processo che inizia estraendo cellule staminali dai muscoli di animali adulti viventi (bovini, maiali, polli) per poi farle moltiplicare in laboratorio attraverso complesse metodiche di nutrimento e di divisione cellulare.

Il paese più avanzato in questo genere di sperimentazione è rappresentato dagli Stati Uniti, dove la produzione è stata ammessa dalla Food & drug administration, l’organo di vigilanza alimentare e farmaceutica.

Una ventina di società, all’apparenza tutte start-up di giovani imprenditori, si sono già lanciate nel settore ottenendo un fatturato, nel 2023, pari a 121 milioni di dollari. Una somma a sei zeri che può fare una certa impressione, ma che rappresenta appena lo 0,11% di quanto è stato ricavato nello stesso anno dalla vendita di carne tradizionale sul mercato statunitense. In effetti la produzione di carne sintetica è ancora un’iniziativa in germe con molti nodi da sciogliere, non ultimo quello dei costi. Per diventare competitiva, la carne sintetica dovrebbe essere venduta sul mercato finale a non più di 10 dollari al chilo; in realtà produrla oggi costa ancora fra i 22 e i 120 dollari al chilo, a seconda del tipo di carne. Ma gli operatori del settore sperano di riuscire a dimezzare i costi per il 2030.

Gli allevamenti producono metano, uno dei gas serra responsabili della crisi climatica. Foto Iomig – Unsplash.

Abitudini alimentari

La carne sintetica piace a vari ambiti della società civile. Piace alle associazioni animaliste perché elimina la sofferenza animale. Piace a certi sanitari perché annulla l’uso di antibiotici oggi abusati nel mondo della zootecnia. Piace a chi si occupa di ambiente perché contribuisce ad abbattere i gas serra e a ridurre il consumo di terre fertili. Ma i risvolti sanitari possono essere molti e solo il tempo potrà dirci se la carne di laboratorio possa nascondere qualche proprietà mal tollerata dal nostro organismo, che oggi ignoriamo. In altre parole, ci vorrebbe maggiore prudenza in nome del principio di precauzione.

Quanto all’aspetto ambientale, una piena valutazione deve anche considerare l’aumento di materiale richiesto dalla costruzione di nuovi impianti industriali e l’incremento di energia elettrica richiesta per farli funzionare. Energia elettrica neutra o a forte impatto ambientale a seconda della fonte primaria utilizzata.

All’opposto della soluzione tecnologica c’è quella di tipo comportamentale secondo la quale il problema non è sostituirsi alla natura, ma inserirsi nel suo corso. In altre parole, ciò che bisogna fare è cambiare le nostre abitudini alimentari. Bisogna avere l’accortezza di cercare le proteine che ci servono in alimenti di tipo vegetale in modo da consumare meno carne e quella poca produrla in maniera sostenibile.

La carne – si sa – è particolarmente utile in età infantile perché contiene tutti gli ingredienti proteici utili alla crescita. Ma i nutrizionisti ci informano che si può ottenere un risultato altrettanto soddisfacente anche da una dieta che combina correttamente legumi e cereali. La classica pasta e fagioli tipica della dieta mediterranea che i medici non mancano mai di raccomandarci. Una dieta buona per la salute umana e per la sostenibilità del pianeta.

Uno studio condotto nel 2017 da Helen Harwatt e pubblicato sulla rivista Climatic Change, ha mostrato, ad esempio, che se tutti gli americani sostituissero la carne bovina con fagioli, ceci e altri legumi, il paese sarebbe vicino a raggiungere gli obiettivi di riduzione di gas serra che Barack Obama aveva indicato per il 2020.

Dieta vegetariana

Fra queste due posizioni si inserisce una terza proposta che offre un cambio alimentare in salsa tecnologica. Che si può riassumere nel tentativo di convertire le masse a una dieta vegetariana tramite un processo di finzione. Il ragionamento dei proponenti è che la gente è troppo attaccata alla carne per abbandonarla, per cui va fatta passare alla dieta vegetariana con l’inganno. Ossia, facendole credere di stare addentando un hamburger mentre mangia un pasticcio di fagiolini, cavoli, piselli, che – per forma, colore e sapore – assomiglia in tutto e per tutto a un hamburger fatto di carne. Un prodotto da non confondersi con il tofu o e il seitan, che benché comunemente definiti anch’essi «carne dei vegetariani», non presentano nessuna similitudine sensoriale con la carne. L’hamburger vegetale, invece, sanguina addirittura come l’hamburger animale. Un risultato ottenuto non per magia, ma grazie alla miscelazione di ingredienti estratti da varie specie vegetali fra cui soia, funghi e frutti tropicali, sottoposti a sofisticate lavorazioni.

Varie imprese hanno subito sentito odore di soldi nella «carne vegetale» e vi si sono buttate a capofitto, compresi miliardari come Bill Gates e colossi della stessa industria della carne, come Cargill e Jbs. Oggi il mercato della carne vegetale a livello mondiale vale 6,1 miliardi di dollari, non molto rispetto alle migliaia di miliardi di dollari che girano attorno alla carne vera e propria, ma pur sempre un ammontare interessante.

La deforesazione per far posto alle cotivazioni cerealicole e agli allevamenti sono sempre più frequenti e devastanti. Foto James Baltz – Unsplash.

Quale strada?

In conclusione, delle tre proposte, quella che personalmente ritengo meno risolutiva è la terza, che anzi mi pare dannosa per la sua connotazione consumistica. Meglio investire in risorse educative per cambiare le abitudini dei consumatori piuttosto che sprecare risorse materiali per manipolare prodotti che la natura rende già pronti all’uso in forma diretta. Anche la prima proposta mi genera scetticismo, quasi spavento, per l’avanzare eccessivo della tecnologia che da serva rischia di trasformarsi in padrona. Per non parlare dei suoi effetti di lungo periodo di cui non sappiamo niente. Alla fine, rimane in piedi solo la seconda proposta, quella della riduzione e della semplicità. La strada che ci rifiutiamo di imboccare, ma l’unica che potrà salvarci.

Francesco Gesualdi

 

 

 




El Salvador: Il caffè secondo Bukele


Mani di fatica piene dei frutti del caffè, uno dei principali prodotti agricoli di El Salvador. Foto di Rodrigo Flores – Unsplash.

Sommario

 

La mappa illustra l’estensione dell’Impero maya in America Centrale.

Parabola discendente

Il passato / dai fasti alla caduta

La storia di El Salvador, il più piccolo Paese dell’America Centrale, ha conosciuto i fasti della civiltà maya, la conquista spagnola e, in epoca recente, una sanguinosa guerra civile.

El Salvador è il più piccolo paese dell’America Centrale, con una superficie di circa 20mila chilometri quadrati, paragonabile come dimensioni a poco più della Puglia. Nell’affascinante mosaico storico del continente americano, il paese spicca per una storia unica, profondamente radicata nelle civiltà precolombiane, in particolare in quella dei Maya.

Questo antichissimo popolo, noto per le sue raffinate conoscenze in vari campi del sapere (astronomia, matematica, arte, architettura), ci ha lasciato un’eredità indimenticabile che ha influenzato la cultura di El Salvador.

Le scoperte archeologiche di vasi, gioielli e utensili – ancor oggi sottovalutate rispetto a quelle dei vicini di casa Honduras, Guatemala, Belize e Messico – raccontano la storia di una società con ricche tradizioni artistiche e una profonda spiritualità, intrisa di rituali e miti, strettamente legata alla comprensione dell’astronomia e dei cicli naturali.

Eccezionali osservatori del cielo, la loro capacità di calcolare complessi cicli astronomici è testimoniata dal famoso Calendario maya, sistema che combinava un calendario solare con un intervallo rituale di 260 giorni alla base della pianificazione delle semine, dei raccolti e dei momenti più propizi per le cerimonie religiose.

La civiltà maya

I Maya non erano organizzati in un’unica entità politica, bensì in una rete di città stato, ognuna con la propria gerarchia sociale e politica. I re erano considerati intermediari con il mondo degli dei, governavano su una élite di nobili, sacerdoti e guerrieri, ed erano sostenuti da agricoltori, artigiani e commercianti, ciascuno con un ruolo ben definito nella società. Abili urbanisti, utilizzavano tecniche di costruzione delle città assai efficaci e rispettose dell’ambiente, attente ai frequenti terremoti della regione e adottando metodi avanzati di gestione delle risorse idriche e agricole, tra le quali quella del pregiato «nettare degli dei» giunto sino ai nostri giorni, il cacao.

La civiltà maya si sviluppò lungo un periodo di circa 2.300 anni, dal 900 a.C. fino all’arrivo degli spagnoli che ne segnò il declino definitivo. Lungo tale arco temporale luoghi come Chalchuapa, importante centro cerimoniale e di scambio culturale influenzato dalla grande città di Teotihuacán in Messico, Tazumal e San Andrés raggiunsero il loro massimo splendore, ma il sito forse più famoso ed emblematico in El Salvador è Joya de Cerén, spes-so paragonata alla Pompei delle Americhe per la maniera in cui tutto si è conservato a causa di un’eruzione vulcanica avvenuta intorno al 600 d.C. In seguito, il movimento della popolazione e delle attività verso Nord, lungo la penisola dello Yucatán, unito all’arrivo degli spagnoli con le malattie da essi portate, nonché le politiche coloniali, contribuirono al collasso di quanto restava della struttura sociale e politica nel Paese.

Ciononostante, il lascito maya – evidenziato dalle continue scoperte archeologiche e storiche – è tutt’oggi palpabile in El Salvador: i discendenti dei Maya – riconoscibili dai tratti somatici – mantengono viva la lingua, le tradizioni e le usanze, collegando passato e presente del Paese.

L’arrivo degli spagnoli

Il 31 maggio 1522 sbarcò nella baia di Chorotega – oggi Golfo di Fonseca – lo spagnolo Andrés Niño, dando avvio alla conquista coloniale del Reino de España in El Salvador. Due anni più tardi Hermán Cortés inviò il suo feroce luogotenente Pedro de Alvarado alla conquista di un Paese che, all’arrivo degli spagnoli nel XVI secolo, terminata la dominazione maya, era occupato da due grandi gruppi etnici: i Pipil, che occupavano la regione centrale e occidentale del Paese, e i Lenca, che vivevano nelle terre orientali. I Pipil erano un popolo di origini nahua che, in seguito alla caduta di Teotihuacán in Messico, si trasferirono verso Sud portando con sé la lingua nahuatl, idioma ancora parlato in El Salvador sotto forma di varianti locali spesso chiamate pipil o nawat.

Spinti dalla ricerca di oro e dalla volontà di espandere l’impero spagnolo, i conquistatori trovarono una forte resistenza indigena guidata da leader come Atlácatl – ancor oggi studiato con orgoglio a scuola per la «battaglia delle montagne» che mise in fuga gli Alvarado – ma, infine, la superiorità militare e le malattie portate dall’Europa ebbero il sopravvento, con conseguenze devastanti per la popolazione indigena, una drastica riduzione demografica e profondi cambiamenti sociali, con l’imposizione di nuovi costumi, di una nuova religione e l’inizio di un’economia basata sulle piantagioni.

la cattedrale (in stile gotico) di Santa Ana. Foto Paolo Rossi.

Il cristianesimo e la gerarchia sociale

La conversione al cristianesimo fu forzata e i centri religiosi indigeni furono distrutti o trasformati in chiese cristiane: tale processo non solo cambiò le credenze religiose, ma anche le pratiche culturali, l’arte e l’architettura.

Dalla società coloniale fortemente stratificata, vennero istituite grandi piantagioni, soprattutto di caffè, che divennero presto il fulcro dell’economia salvadoregna, gestite attraverso un sistema di encomienda, che concedeva ai colonizzatori spagnoli il controllo delle terre e la manodopera indigena. In cima alla gerarchia vi erano gli spagnoli nati in patria, seguiti dai creoli, discendenti di spagnoli nati in America. Gli indigeni e gli africani schiavizzati occupavano gli strati più bassi della struttura sociale che, ancora oggi, sopravvive in varie forme nella società salvadoregna contemporanea.

L’era coloniale fu scandita dall’ascesa e declino dei tre principali prodotti ancora oggi coltivati in El Salvador: il cacao, il balsamo e l’añil – o indaco – richiestissimo dall’industria tessile europea per tutto il Settecento.

Gli spagnoli introdussero nuovi stili architettonici, mescolando elementi europei con influenze locali: città come San Salvador e Santa Ana furono fondate e costruite secondo il tipico modello spagnolo, con una piazza centrale circondata da edifici governativi e religiosi, con uno stile ancora ben visibile nei centri storici delle città salvadoregne. Sebbene l’accesso all’educazione fosse limitato principalmente ai figli dei coloni spagnoli, furono fondate scuole e università, importanti per la diffusione delle idee dell’illuminismo che, in seguito, influenzarono la lotta per l’indipendenza e la formazione dell’identità nazionale salvadoregna.

L’indipendenza

La lotta per l’indipendenza di El Salvador e il successivo processo di formazione della repubblica sono eventi cruciali che hanno modellato la storia e l’identità nazionale del Paese, segnando la transizione da una colonia spagnola a una nazione indipendente attraverso un percorso turbolento e complesso.

L’insoddisfazione per il dominio coloniale crebbe tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, con le idee dell’illuminismo, la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese che influenzarono le élite criolle, già tormentate dalle riforme economiche spagnole che minacciavano gli interessi dei proprietari terrieri locali.

Figure come il sacerdote intellettuale José Matías Delgado (1767-1832) emersero come leader del movimento indipendentista: la sua leadership, insieme ad altri come Manuel José Arce, giocò un ruolo fondamentale nel mobilitare il sostegno alla causa indipendentista. Il 5 novembre del 1811 lanciò il primo grido di indipendencia, al quale rispose tutto il Paese. Ci vollero però dieci anni per proclamarla, l’11 settembre del 1821, come parte di un movimento più ampio che coinvolse l’intera America Centrale. Tuttavia, ciò non significò immediatamente la fine dell’influenza spagnola o una transizione fluida al governo autonomo poiché, inizialmente, El Salvador divenne parte dell’impero messicano di Agustín de Iturbide prima di unirsi alla Federazione delle province unite dell’America Centrale nel 1823, segnata però da tali tensioni interne e lotte di potere che alla fine portarono al suo dissolvimento.

La nascita della repubblica

Dopo il dissolvimento della federazione, El Salvador proclamò la propria sovranità e si costituì come repubblica indipendente (1841). Sforzi significativi per costruire le istituzioni di un nuovo stato, tra cui la creazione di un governo, un codice legale, e l’organizzazione di un esercito furono le sfide che affiancarono la definizione di una politica agraria e la gestione delle tensioni tra diverse classi sociali. Le piantagioni di caffè divennero centrali, con una crescente dipendenza da tale singolo prodotto per le esportazioni, sino a portare a una maggiore disuguaglianza e conflitti di proprietà sulla terra.

Al contempo, il periodo post indipendenza vide anche un’espansione della vita culturale e intellettuale: la stampa libera e la letteratura fiorirono, contribuendo a formare una nuova identità nazionale salvadoregna. Furono fondate nuove scuole e istituzioni educative, rendendo l’istruzione più accessibile e contribuendo a plasmare la futura classe dirigente del Paese.

Andavano però gestite anche la diversità etnica, la disuguaglianza economica e la creazione di un sistema politico stabile, questioni mai veramente affrontate che portarono alla Rivolta di Izalco del 1932 quando i jornaleros, i braccianti a giornata, dissero basta ai capataces, i guardiani della produttività. Guidata dal contadino pipil José Feliciano Ama (1881-1932), l’insurrezione sfociò in quello che viene ricordato come la masacre indigena del ‘32, aprendo la strada ad anni di dittatura militare che, più che reprimere i campesinos, voleva sradicare ogni fermento comunista nel Paese.

La guerra civile e gli accordi di pace

Dagli anni 40 ai 70 seguirono assassini politici, lotte ideologiche, repressioni politiche ed elezioni contestate, che portarono a frequenti scontri tra governi di destra e movimenti di sinistra e al conflitto che esplose nel 1980, quando gruppi di guerriglieri di sinistra, uniti nel Frente Farabundo Martí para la liberación nacional (Fmln) iniziarono una lotta armata contro il governo che durò dodici anni, caratterizzata da una violenza brutale, massacri, scomparse forzate e violazioni dei diritti umani commesse da entrambe le parti. La situazione attirò l’attenzione internazionale, in particolare degli Stati Uniti, che videro il conflitto come parte della più ampia lotta contro il comunismo in America Latina e che per questo fornirono un significativo supporto militare ed economico al governo del Paese. Si stima che, durante la guerra civile salvadoregna, oltre 75mila persone siano morte e migliaia scomparse, interi villaggi siano stati distrutti, causando massicce ondate di rifugiati e sfollati.

Dopo anni di combattimenti le pressioni internazionali e la stanchezza della popolazione portarono ai negoziati di pace del 1992, con la firma degli accordi di Chapultepec, che posero fine al conflitto.

Essi prevedevano riforme democratiche, la dismissione delle forze guerrigliere e la creazione di una Commissione per la verità per indagare sulle violazioni dei diritti umani. A quel punto la società salvadoregna dovette affrontare il difficile compito di integrare gli ex combattenti, risarcire le vittime e costruire un sistema politico e legale più equo e inclusivo. Ad oggi, disuguaglianze economiche, ingiustizie e diritti umani violati costituiscono ancora questioni aperte.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

Mons. Oscar Romero tra la sua gente. Foto Equipo Maiz-CNS-CAFOD.

Nel segno di Romero

Chiesa e missionari

L a storia dei missionari in El Salvador è un complesso intreccio di fede, conflitti e cambiamenti sociali: dall’arrivo dei primi missionari spagnoli fino alla tragica morte di monsignor Óscar Romero nel 1980, la presenza e l’attività della Chiesa cattolica hanno giocato un ruolo cruciale nella formazione della società salvadoregna. Prima dell’arrivo degli spagnoli nel XVI secolo, El Salvador era abitato da diverse culture indigene, tra cui i Pipil, discendenti dei Nahua. L’arrivo degli spagnoli portò i primi missionari cattolici che introdussero il cristianesimo, trasformando radicalmente le strutture religiose e sociali preesistenti.

Durante il periodo coloniale la Chiesa cattolica stabilì una forte presenza nel Paese, diventando uno dei principali strumenti di colonialismo spagnolo: i missionari si concentrarono sull’educazione e la conversione delle popolazioni indigene, la costruzione di molte chiese e la diffusione della fede cattolica. Fu anche un’epoca di grande sofferenza per i popoli indigeni a causa delle malattie, della violenza e dello sfruttamento. Dopo l’indipendenza del 1821, El Salvador affrontò periodi di instabilità politica nei quali la Chiesa giocò un ruolo assai importante, talvolta al fianco dei potenti, talvolta come voce di chi non ne aveva.

Nel XX secolo, la Chiesa iniziò a prendere una posizione più attiva contro le ingiustizie sociali, in particolare sotto la guida di figure come il vescovo Óscar Romero, la «voce dei senza voce».

Nominato arcivescovo di San Salvador nel 1977, Romero divenne presto una figura chiave nella lotta per i diritti umani e la giustizia sociale durante il periodo di crescente violenza e repressione politica. La sua predicazione e le sue azioni erano incentrate sulla difesa dei poveri e degli oppressi, con aspre e aperte critiche contro la violenza generalizzata e le violazioni dei diritti umani da parte del governo e dei gruppi paramilitari. Fu a causa di tali forti condanne verbali che, lunedì 24 marzo 1980, fu assassinato mentre celebrava la messa nella cappella dell’ospedale La Divina Providencia: la sua uccisione scosse la comunità internazionale e divenne un simbolo della lotta per i diritti umani e la giustizia sociale, sia in El Salvador che all’estero.

L’omicidio fece di monsignor Romero un martire, al punto di essere santificato il 13 maggio del 2015 da papa Francesco. Come San Romero d’America, i suoi devoti lo celebrano ogni 24 marzo. Secondo molti, la sua uccisione fu il preludio a una guerra fratricida, che sarebbe durata 12 anni.

La storia dei missionari in El Salvador è intrinsecamente legata alle vicende politiche, sociali e religiose del Paese. Dall’era coloniale fino alla tragica morte di monsignor Romero, i missionari hanno avuto un impatto profondo, fungendo sia da agenti di cambiamento sia da custodi della tradizione, in una storia segnata da conflitti e ricerca di giustizia. La loro eredità continua a influenzare la società salvadoregna, ispirando nuove generazioni a lottare per un futuro più equo e pacifico.

P.R. e J.L.H.D.

22 maggio 2015, San Salvador, una folla enorme saluta la beatificazione di mons. Romero. Foto: Luis Astudillo C. – Cancillería.

Un ricco mosaico di etnie e culture

I popoli indigeni

El Salvador è un Paese con un patrimonio culturale indigeno profondamente radicato, testimonianza di una storia ricca e complessa. Oltre ai Maya e agli Xinca, le principali culture precolombiane includevano i Pipil, discendenti dei Nahua, e i Lenca. Ciascuna di queste culture – con proprie lingue, tradizioni e pratiche spirituali – ha contribuito al mosaico etnico e culturale del Paese. Anche gli idiomi indigeni, un tempo parlati diffusamente, stanno oggi vivendo un periodo di rivitalizzazione: numerosi progetti educativi e culturali mirano a preservare e promuovere queste lingue come parte integrante del patrimonio nazionale, riconoscendone il valore per la conservazione della diversità culturale e la trasmissione di conoscenze tradizionali.

Le pratiche spirituali delle culture indigene salvadoregne, profondamente connesse alla terra e ai cicli naturali, sono sopravvissute nonostante il sincretismo con il cristianesimo portato dalla colonizzazione spagnola. I rituali indigeni spesso comprendono offerte alla terra, danze rituali e cerimonie di guarigione, tutte pratiche che non sono solo espressioni religiose, ma anche modi per mantenere una relazione equilibrata con la natura e per conservare la coesione comunitaria. Molti festival tradizionali combinano elementi indigeni e cristiani – ad esempio, il Dia de los muertos è una celebrazione che fonde riti indigeni con la tradizione cattolica dove si onorano gli antenati con offerte di cibo e preghiere, così come nella Danza de los historiantes, eseguita durante le feste di paese, costumi colorati e maschere elaborate narrano storie locali di miti e leggende – e le cerimonie indigene spesso coinvolgono rituali che cercano di stabilire una connessione con il sacro, che sia rappresentato dagli antenati, dagli spiriti della natura o da altre divinità.

Spesso, inoltre, i rituali includono danze, canti, l’uso di piante medicinali e offerte di cibo e bevande. I riti di guarigione e la medicina tradizionale giocano, infatti, un ruolo vitale nella comunità indigene: guaritori e sciamani usano erbe, preghiere e riti per curare malattie fisiche e spirituali, mantenendo viva una tradizione di conoscenze mediche tramandate di generazione in generazione, sottolineando l’importanza di vivere in armonia con l’ambiente e ricordando l’interdipendenza dell’uomo con la natura.

Il patrimonio indigeno e le tradizioni spirituali di El Salvador sono ricche di storia, cultura e significati. La loro conservazione non è solo una questione di mantenere vive le tradizioni, bensì un modo per celebrare e riconoscere la diversità culturale del paese, offrendo preziose lezioni sulla sostenibilità, la comunità e il rispetto per l’ambiente.

P.R. e J.L.H.D.

Un sorridente Nayib Bukele con la moglie Gabriela Rodriguez mostra il certificato del Tribunale elettorale che attesta la sua vittoria: sarà presidente del Salvador fino al 2029 (San Salvador, 29 febbraio 2024). Foto Marvin Recinos – AFP.

Dalle «maras» al «bitcoin»

IL presente / la rinascita del paese centroamericano

I salvadoregni hanno rieletto in massa Nayib Bukele, personaggio controverso ma carismatico. Al suo governo si deve sia la sconfitta delle bande criminali (le terribili «maras») che l’introduzione del «bitcoin». Ma non tutto è bello come sembra.

Nel corso degli ultimi decenni, El Salvador ha vissuto profondi cambiamenti, culminati con l’elezione a presidente di Nayib Bukele. Lo scorso 3 febbraio 2024 il politico – figlio di un uomo d’affari di origine palestinese – è stato riconfermato nella carica, ottenendo l’approvazione di oltre l’84% dei cittadini votanti.

Entrato in carica nel 2019 con il partito da lui stesso fondato (Nuevas ideas), Bukele si è fatto subito notare per il suo stile carismatico e un utilizzo intensivo dei social media.

Già sindaco di Nuevo Cuscatlán e poi di San Salvador, ha catturato l’attenzione dell’elettorato giovane e urbano con la sua retorica anti establishment e il suo impegno a combattere la violenza, la corruzione e a modernizzare il Paese.

Il presidente Bukele con alle spalle un ritratto di mons. Romero. Foto Secretería de comunicación de El Salvador.

Dopo Arena e Farabundo

Primo presidente dopo la fine della guerra civile a non appartenere a uno dei due principali partiti politici, Frente Farabundo Martí (Fmln) e Arena, ha affrontato di petto questioni critiche come la bassa crescita, l’alta disoccupazione e l’emigrazione, divenendo subito idolo delle masse. Una delle sue mosse più audaci è stata l’adozione, nel 2021, del bitcoin come moneta legale (accanto al colón salvadoregno e al dollaro statunitense), decisione controversa che ha attirato l’attenzione internazionale e che ha anche sollevato preoccupazioni sulla stabilità finanziaria del Paese (pure nell’Fmi, il Fondo monetario internazionale).  Uno dei principali problemi affrontati da Bukele è stato il tasso di criminalità, dovuto alle maras, le pandillas che da lungo tempo affliggevano il Paese. Le azioni di contrasto messe in campo dal presidente sono largamente sostenute dalla popolazione, nonostante le serie preoccupazioni espresse da organizzazioni per i diritti umani riguardo alle violazioni dei diritti fondamentali (detenzioni arbitrarie e condizioni di carcerazione dure). Sotto la presidenza di Bukele, El Salvador ha sperimentato un approccio più assertivo nelle relazioni internazionali, una politica estera che ha spesso portato a tensioni con gli Stati Uniti e altri partner tradizionali, e il tentativo (ben riuscito) di attrarre investimenti stranieri con l’istituzione delle zonas francas, aree designate a promuovere l’investimento estero attraverso incentivi fiscali e doganali – per aziende del comparto manifatturiero, tessile, elettronico e dei servizi, come call center, che appartengono a investitori stranieri – tra cui esenzioni da alcuni tipi di tasse e agevolazioni per l’importazione ed esportazione di merci.

Un uomo passa davanti a un murale contro il bitcoin, la moneta virtuale adottata dal presidente Bukele nel settembre del 2021. Foto Marvin Recinos – AFP.

I motivi della rielezione

Il massiccio sostegno della maggioranza della popolazione salvadoregna nelle votazioni dello scorso febbraio è stato dovuto non solo alla lotta vittoriosa di Bukele contro le maras, ma anche a una serie di azioni da lui intraprese durante il primo mandato presidenziale. Alcuni esempi concreti sono gli investimenti nella realizzazione di infrastrutture stradali, la ristrutturazione e la costruzione di nuovi ospedali, scuole, parchi e piazze – attraverso un’apposita istituzione governativa chiamata Dom, «Direzione dei lavori comunali» – in diverse parti di un Paese convertito di colpo al turismo, attraverso la trasformazione del centro storico di San Salvador, il recupero e la ristrutturazione dei centri turistici a vocazione familiare, lo sviluppo di un vero e proprio concept turistico chiamato Surf City.

Come in tutto il mondo, il governo di Bukele ha dovuto anche affrontare la pandemia di Covid-19. La risposta del Paese è stata lodata per la sua efficienza in alcuni aspetti, come la rapida implementazione di misure di lockdown, la massiva campagna di vaccinazione e la conversione delle strutture del Centro internazionale di fiere e convegni di San Salvador a «Hospital El Salvador», attrezzato in pochissimo tempo con oltre 400 posti letto, inclusi 105 posti in unità di terapia intensiva.

Al contempo, non è stata altrettanto lodata la velocità delle misure repressive e l’uso dell’esercito per far rispettare le quarantene: le politiche di Bukele hanno da sempre sollevato questioni riguardanti la libertà di stampa, l’indipendenza della magistratura e i diritti umani e le sue mosse per consolidare il potere, inclusa la controversa sostituzione di giudici della Corte suprema, hanno suscitato timori di un’erosione della democrazia in El Salvador.

La sua riforma amministrativa del 2024 è stata una pietra miliare nel processo di modernizzazione del Paese, che ha comportato una ristrutturazione delle istituzioni governative, l’introduzione di nuove tecnologie per rendere il governo più efficiente e trasparente, la decentralizzazione di alcuni servizi per renderli più accessibili ai cittadini.

Il Paese oggi si posizione come un hub innovativo in America Centrale e la società salvadoregna odierna si trova in un delicato punto di equilibrio tra le sfide poste dalla modernizzazione, le pressioni economiche globali e la necessità di preservare la democrazia e i diritti umani. La popolazione giovane e dinamica è al centro di tali trasformazioni, portando nuove idee e aspirazioni, mentre si confronta quotidianamente con l’eredità del suo passato turbolento, alla ricerca di un suo percorso nel contesto globale.

Bukele, apprezzato e temuto

La percezione pubblica di Bukele è complessa e varia: molti lo apprezzano per il suo approccio diretto, la sua capacità di comunicare attraverso i social media e le sue politiche volte a combattere la corruzione e migliorare l’efficienza del governo. Tuttavia, esistono anche preoccupazioni riguardo al suo stile di leadership e alle sue mosse per consolidare il potere, inclusa la sostituzione di giudici della Corte suprema e la rimozione, a fine maggio, del murales di San Romero all’aeroporto di San Salvador, sostituito da pubblicità. In ogni caso, la storia di El Salvador è una vera e propria testimonianza di resilienza e capacità di adattamento, con lezioni importanti sia per la regione centro americana sia per la comunità internazionale.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

L’arrivo di un gruppo di appartenenti alle maras 13 e 18 nella mega prigione chiamata «Centro di confinamento del terrorismo» (Cecot), che si trova a 74 chilometri dalla capitale San Salvador (15 marzo 2023). Foto El Salvaodr’s Presidency Press Office – AFP.

Le maras e il pugno duro del presidente

Regime d’eccezione

La guerra civile degli anni Ottanta causò una forte emigrazione verso gli Stati Uniti d’America, generando nel contempo lo smembramento di molte famiglie salvadoregne. Fuori del paese si cercavano sicurezza e migliori condizioni di vita. Non solo negli Usa, ma anche in altri stati che avevano aperto le porte ai migranti: Canada, Australia, Svezia e, in misura minore, Messico, spagna e Italia.

Il fenomeno delle bande – chiamate maras (pandillas) – prende avvio negli Usa, dove i figli dei salvadoregni privi di documenti, vivendo o studiando in quartieri difficili, soprattutto latinoamericani, sono facile preda della delinquenza locale. Si formano la «mara Salvatrucha» (MS-13) e la «mara Barrio 18». A poco a poco, i gruppi criminali salvadoregni crescono e si organizzano in maniera autonoma. Commettono ogni tipo di atto criminale, spingendo molti giovani nei riformatori o nelle carceri. Al contempo, non avendo lo status di residenza legale negli Usa, tantissimi vengono rimandati al loro Paese d’origine: in questo modo in El Salvador confluiscono i membri delle maras senza che il Paese abbia adottato alcun tipo di controllo o alcuna misura per contenere la loro presenza. Nel corso degli anni seguenti, queste bande riescono a costituire vere e proprie strutture di potere criminale, generando terrore tra la popolazione. Nessuno osa denunciare per timore delle conseguenze per se stessi e per la propria famiglia. Mentre nei quartieri a basso reddito cresce il timore che i figli siano attratti dalle maras e da esse reclutati, in quelli ricchi, dove la gente vive in complessi residenziali privati e protetti da mura, le famiglie pagano un pizzo per la propria incolumità.

La situazione degenera a un punto tale che i poveri si vedono costretti a pagare la protezione a una banda o all’altra per non essere obiettivo delle pandillas dei quartieri vicini, mentre i ricchi iniziano a assoldare agenzie private per la sicurezza dei loro quartieri. In conclusione, nella società salvadoregna sia i poveri che i ricchi sono costretti a sottostare a un sistema in cui la sicurezza è un bene raro e comunque molto caro.

Per diversi decenni, la vita dei salvadoregni di ogni classe sociale è stata dura. Famiglie e generazioni di giovani hanno vissuto nel terrore di essere vittime dirette o indirette della violenza criminale, con una economia sommersa generata dalle maras e da loro soci (spesso appartenenti ai partiti politici al potere). Un’esistenza di terrore e ansia vissuta per molti anni, fino all’arrivo del nuovo presidente Bukele e al varo della sua strategia della «mano dura». La proclamazione dello stato d’emergenza (régimen de excepción), con la sospensione di alcune garanzie costituzionali, ha portato a un drastico calo del tasso di omicidi, ma è tuttora oggetto di aspre critiche per le violazioni dei diritti umani e l’aumento delle detenzioni senza processo, denunciate ad esempio da Amnesty international.

A livello internazionale, la sua azione più nota è stata la costruzione del mega carcere noto come «Centro di confinamento del terrorismo» (Cecot). Progettato per ospitare fino a 40mila prigionieri, al momento ne ospita più di 65mila.

Oltre alla repressione, il governo bukele cerca di promuovere iniziative di prevenzione del crimine, come programmi educativi e di sviluppo delle comunità, per ridurre l’attrattiva delle gang tra i giovani. Allo stesso tempo, sono in atto sforzi per facilitare la reintegrazione degli ex membri delle bande nella società, sebbene tale aspetto riceva meno attenzione mediatica rispetto alla repressione. Il governo ha riconosciuto che, per combattere in modo efficace le pandillas, è necessario affrontare le cause alla base del loro potere, inclusa la povertà. Tuttavia, le modalità e l’efficacia delle politiche volte a mitigare tali cause rimangono oggetto di discussione. Non c’è dubbio che l’azione politica di Bukele continuerà a essere argomento di acceso dibattito dentro e fuori di El Salvador, dove – non va dimenticato – il régimen de excepción viene prorogato ogni mese.

P.R. e J.L.H.D.

 

San Salvador, il palazzo nazionale che un tempo ospitava l’assemblea legislativa del Paese. Foto Edilberto Santana Suarez – Unsplash.

La (solita) strada lastricata di insidie

I migranti

La situazione dei migranti che attraversano El Salvador per raggiungere il Messico, generalmente come tappa verso gli Usa, è complessa e piena di sfide. Il flusso migratorio è costituito principalmente da individui e famiglie provenienti da varie parti dell’America Centrale e del Sud America, che affrontano numerosi pericoli durante il loro viaggio attraverso El Salvador, inclusi i rischi legati al passaggio in zone controllate dalle maras, oltre a possibili abusi da parte di contrabbandieri e forze dell’ordine.

Spesso i migranti viaggiano in condizioni precarie, senza accesso adeguato a cibo, acqua, riparo e cure mediche, tutte condizioni difficili che possono avere gravi ripercussioni sulla loro salute fisica e mentale. El Salvador, come altri paesi dell’America Centrale, ha le proprie politiche e leggi sull’immigrazione che possono influenzare il trattamento dei migranti, in un complesso ecosistema di norme di cooperazione regionale sulle questioni migratorie, spesso ostacolate dalle singole politiche nazionali. Lungo il percorso, i migranti devono navigare attraverso i controlli di frontiera che possono essere imprevedibili e spesso pericolosi, soprattutto se viaggiano senza documentazione adeguata. Molto spesso, i migranti dipendono dai trafficanti di esseri umani per attraversare le frontiere, il che può esporli a rischi di sfruttamento e violenza, lungo percorsi che possono cambiare rapidamente in risposta alla presenza di polizia, alle politiche di immigrazione e alle condizioni di sicurezza lungo la strada.

Le comunità lungo le rotte migratorie sono spesso coinvolte, da un lato offrendo supporto umanitario ai migranti e, dall’altro, affrontando sfide relative alla sicurezza. Numerose Ong e organizzazioni Internazionali operano in El Salvador e lungo le rotte migratorie per fornire aiuto essenziale ai migranti – cibo, alloggio, assistenza legale -. La situazione dei migranti che attraversano El Salvador verso il Messico resta un problema umanitario complesso, che richiede una risposta coordinata e compassionevole a livello regionale e internazionale. Mentre gli sforzi per regolamentare e controllare il flusso migratorio sono importanti, appare fondamentale garantire che i diritti e la dignità dei migranti siano rispettati in tutto il processo.

P.R. e J.L.H.D.

Due surfiste sulla spiaggia El Tunco, a Tamanique. Foto Eduardo Iraheta – Unsplash.

Contro la povertà, il turismo sostenibile

IL futuro / quale strada per l’economia?

Un alto numero di salvadoregni vive in povertà. Ma il piccolo territorio del Salvador offre una varietà di ambienti naturali che ne fanno una grande attrazione turistica.

In El Salvador i poveri sono ancora tanti e addirittura in aumento (più 4,4% dal 2019, anno d’insediamento di Bukele). È da poco che il Paese ha puntato sul turismo come volano per la rinascita economica. In questo senso, in un periodo di generale trasformazione, il Paese sta reinventando la propria offerta turistica, enfatizzando la protezione delle proprie risorse naturali e culturali, nonché promuovendo l’interazione con le comunità locali. La recente pandemia ha portato a una seria riflessione su come il turismo possa essere più sostenibile e rispettoso dell’ambiente: con una ripresa significativa nel 2022 e un boom nel 2023, il settore turistico ha adottato nuove pratiche, tra cui offerte innovative che si allontanano dai percorsi più tradizionali, puntando su esperienze autentiche e sul coinvolgimento delle comunità locali.

El Salvador offre una ricchezza unica di attrazioni turistiche. Noto per la sua intensa attività geologica, ospita circa venti vulcani, molti dei quali sono considerati attivi e potenzialmente pericolosi. Tra questi vulcani, i più noti includono il San Salvador, il Santa Ana (o Ilamatepec), e il San Miguel (o Chaparrastique) a causa della loro storia eruttiva e della loro vicinanza ad aree densamente popolate. Boschi, cascate e laghi pittoreschi formano una vasta gamma di ecosistemi che vanno dalle foreste nebbiose montane alle zone costiere. Posizione geografica e varietà di ambienti naturali favoriscono una notevole diversità biologica che include oltre tremila specie di piante, tra cui numerosi tipi di orchidee e alberi come balsa e ceiba, specie arboree endemiche e rare, oltre 500 specie di uccelli osservate, compresi molti migratori che fanno sosta nel Paese durante i loro spostamenti stagionali.

Anche le «pupusas»

La gastronomia del paese e le sue tradizioni culturali rappresentano un altro punto di forza.  Le esperienze che combinano natura, cultura e gastronomia stanno crescendo in popolarità. Celebrate addirittura attraverso il «Día nacional de la pupusa» ogni seconda domenica di novembre, le pupusas sono il piatto nazionale di El Salvador. Queste tortillas spesse, fatte di farina di mais o di riso, sono uniche per il loro metodo di preparazione e varietà di ripieni: a differenza di altri tipi di tortillas riempite, vengono farcite prima di essere cotte e il ripieno viene inserito al centro di un impasto di farina, poi l’impasto viene chiuso e appiattito in un disco spesso. Le pupusas sono più di un semplice piatto, in quanto rappresentano un elemento di orgoglio nazionale e un simbolo di identità culturale salvadoregna. Originarie delle tribù indigene Pipil nell’ovest di El Salvador, sono state adattate e amate attraverso generazioni, diventando un piatto apprezzato tanto a livello locale quanto internazionale.

Nonostante l’interesse crescente per un turismo più responsabile, non mancano le sfide da affrontare. Il governo deve favorire sinergia tra gli operatori turistici e tentare di migliorare l’accesso ai finanziamenti per le infrastrutture turistiche. In tal senso, la promozione digitale appare fondamentale per raggiungere un pubblico più ampio, così come servono più formazione ed empowerment di microimprese, essenziali per lo sviluppo locale del settore. Gli operatori turistici di El Salvador stanno puntando a creare esperienze uniche che riflettano la cultura e le tradizioni del Paese: esperienze agroturistiche, che combinano la visita di piantagioni di caffè e cacao con la conoscenza della produzione locale, sono un esempio di come il turismo possa beneficiare l’economia locale rispettando l’ambiente.

Un piatto di pupusas, il cibo più tipico del paese centroamericano. Immagine sbs.com.

La Strada dei fiori

La «Ruta de las flores» è una strada panoramica di El Salvador famosa per la sua bellezza naturale e la ricchezza culturale. Il percorso si snoda attraverso una serie di pittoreschi paesini e cittadine nella regione occidentale del paese, lungo la catena montuosa di Apaneca-Ilamatepec, e deve il suo nome alle numerose specie di fiori che sbocciano lungo la strada, specialmente tra ottobre e febbraio.

Lungo montagne lussureggianti, vulcani, caffè e piantagioni di zucchero, il clima fresco di montagna, con la nebbia mattutina che avvolge dolcemente le colline, offre una piacevole pausa dal clima tropicale del resto del Paese. Il percorso, di circa cinquanta chilometri che va dalla città di Sonsonate alla città di Ahuachapán – entrambi capoluogo di dipartimento – include diverse cittadine coloniali affascinanti, ciascuna con un proprio carattere unico: ne sono il cuore Nahuizalco, Salcoatitan, Juayua, Apaneca e Ataco.

Per città e cittadine

In lingua nahuat-pipil, Apaneca significa «fiume dei venti», dovuto alla sua posizione geografica situata dove una costante corrente di vento leggero produce un perfetto microclima. Il merito è della catena montuosa Apaneca-Ilamatepec, un complesso vulcanico dalla disposizione a forma di semicerchio quasi perfetto: è in questa zona che cresce il migliore caffè d’alta quota, tra gli 800 e i 1.800 metri di altitudine, di cui tutti i salvadoregni vanno orgogliosi.

Nahuizalco conta oggi oltre cinquantamila abitanti, per lo più discendenti dagli indigeni. Il suo mercato diurno e notturno rifornito di frutta, verdura e ortaggi, prodotti sulle pendici delle montagne circostanti, viene riconosciuto come vivace centro culturale e la sua eccellenza artigianale vive nella produzione di mobilia prodotta con legname locale quale alloro, cedro e cipresso. La città possiede un piccolo museo dedicato alla cultura nahuat-pipil, che vale la pena visitare, e la natura offre escursioni alle cascate La Golondrinera.

Salcoatitan è la cittadina della zona più ricca di storia e architettura coloniale, che dai suoi circa mille metri di altitudine permette di raggiungere il fiume Monterey. Conosciuta soprattutto per la vendita dell’ottima yucca fritta o bollita, prodotto che si trova nella piazza turistica della città, il parco cittadino recentemente ristrutturato offre un magnifico squarcio della chiesa coloniale e, nei fine settimana, si riempie di vita fino a tardi.

Juayua vive della produzione e lavorazione del caffè, una delle maggiori fonti di occupazione del territorio, anche se negli ultimi anni è diventata famosa per il suo Festival gastronomico, dove numerose aziende locali espongono i vari piatti tipici fuori dai loro negozi, davanti agli occhi dei turisti, che vi si deliziano prima di recarsi alle numerose cascate presenti nella zona.

Ataco è forse la cittadina più conosciuta della Ruta a livello nazionale, per la sua varietà di negozi colorati e opzioni gastronomiche di tutti i tipi di cibo. Con una popolazione costantemente in crescita, vive dei diversi impianti di lavorazione del «chicco d’oro», i mulini necessari alla trasformazione del caffè.

Il turismo del futuro

La Ruta de las flores è un esempio di turismo sostenibile, con molte iniziative volte a preservare la natura e promuovere un turismo responsabile e rispettoso delle comunità locali. Offre un’esperienza turistica diversificata e arricchente, che combina bellezze naturali, cultura, gastronomia deliziosa e un forte impegno per la sostenibilità. Nonostante questi aspetti positivi, c’è ancora la necessità di migliorare e diversificare i prodotti turistici per attirare un maggior numero di visitatori, prolungare i soggiorni e ridurre la povertà.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

Panoramica sul vulcano Santa Ana, il più alto del paese (2.400 metri). Foto Ramon – Flickr.

La scommessa delle riserve

Apaneca

El Salvador, il più piccolo paese dell’America Centrale, è testimonianza di una intensa attività per preservare il suo patrimonio naturale. Ciò si nota in particolare nella Reserva de la biosfera Apaneca-Ilamatepec, un’area caratterizzata da un ricco mosaico di ecosistemi, ma sempre minacciato dalla deforestazione e dall’espansione agricola. Progetti di conservazione e sostenibilità ambientale sono in atto per proteggere e preservare questo ambiente unico per le generazioni future.

È una delle aree naturali più affascinanti di El Salvador. Situata nella catena montuosa di Ilamatepec, nella parte occidentale del Paese, la riserva fa parte della più ampia regione ecologica conosciuta come la Ruta de las flores, famosa per i suoi scenari pittoreschi e l’ampia biodiversità. La riserva si caratterizza per un terreno montuoso e una serie di vulcani estinti o dormienti, inclusi i vulcani di Santa Ana e Izalco. L’area è nota per le sue lussureggianti foreste nebulose, le quali ospitano una grande varietà di specie di piante, molte delle quali sono endemiche della regione. Le altezze variano notevolmente, il che contribuisce a un clima relativamente fresco e umido rispetto alle regioni costiere del Paese.

El Salvador ha istituito diverse aree protette per preservare la sua biodiversità, incluse riserve della biosfera e parchi nazionali. Tuttavia, la deforestazione e la conversione dei terreni per l’agricoltura e l’urbanizzazione continuano a minacciare gli habitat naturali e la conservazione delle aree naturali rimane una sfida critica, data anche la pressione antropica intensa e l’inquinamento che ne deriva.

La riserva di Apaneca-Ilamatepec è un «modello di sostenibilità», vero rifugio per una ricca varietà di flora e fauna, dove gli amanti della natura possono trovare diverse specie di orchidee e altre piante esotiche. La fauna include una varietà di uccelli, come il quetzal, che è spesso considerato il simbolo dell’America Centrale, oltre piccoli mammiferi e una vasta gamma di insetti e rettili. Sentieri ben curati offrono agli escursionisti l’opportunità di esplorare la foresta e godere di bellezze naturali. Inoltre, l’area è rinomata per le sue piantagioni di caffè e molti visitatori partecipano a tour del caffè nel parco cafetalero per imparare sulla produzione di uno dei principali prodotti di esportazione del paese.

P.R. e J.L.H.D.

Il lago Coatepequer, formatosi in una caldera vulcanica. Foto Margarita Cisneros – Unsplash.

Hanno firmato il dossier:

PAOLO ROSSI
È professore a contratto di Intelligenza artificiale e strategia d’impresa presso l’Università del Piemonte Orientale e fondatore di una B Corp che si occupa di valutazione di impatto per il mondo profit e non profit (Promos Srl Sb). Da venti anni è alla guida di «Col’or», Ong impegnata in progetti di sviluppo sostenibile in diversi paesi del mondo, tra cui El Salvador. Come volontario, scrive progetti e cerca fondi per i numerosi enti missionari con i quali collabora. Sito: colorngo.org.

José Luis Herrera Diaz
Salvadoregno, per 40 anni è stato guida per turisti di idioma spagnolo che visitavano il Canada. Attualmente vive in El Salvador, avendo avviato una propria attività ecoturistica ad Apaneca, lungo la Ruta de las flores, dove offre ai turisti esperienze immersive nella biosfera del paese. Contatto: jlherrera@improntaturistica.com.

A CURA DI:
Paolo Moiola, giornalista redazione MC (cfr. El Salvador, «Il caffè è sempre amaro», MC febbraio 1996).

Monumento al Divino Salvatore del mondo a San Salvador, capitale del paese. Foto di Ricardo Ardon – Unsplash.




L’economia di Gandhi


Il Mahatma propone una «vita vivibile», in cui si persegue la pace. L’economia deve essere al servizio della persona e non il contrario. Ciascuno può fare la sua parte. Ad esempio scegliendo la «povertà volontaria».

L’azione nonviolenta richiede un intervento in prima persona di ognuno.

Su questo assunto si basa il libro di Erica Cupelli.

La visione di Gandhi è illuminante ancora oggi, così come lo era, ad esempio, nell’81, quando l’economista Romesh Diwan ebbe a dire, a riguardo della crisi economica di quegli anni: «Questa crisi è stata portata in superficie a causa dell’incapacità della teoria economica di spiegare gli attuali fenomeni di stagflazione (recessione e inflazione concomitanti, ndc), produttività e altro. La questione riguarda concetti alquanto fondamentali: razionalità, massimizzazione, minimizzazione, ottimizzazione, equilibrio. Senza questi fondamenti, l’intero edificio logico dell’economia neoclassica cade».

Economia gandhiana

Il cuore dell’economia di Gandhi è già stato trattato – ma non in italiano – dall’economista Das Amritananda, secondo il quale il Mahatma suggerisce di badare all’impatto dello sviluppo tecnologico sul lavoro e sulle persone: «Aumenterà la povertà? Lo stile di vita delle persone migliorerà? Quali saranno le conseguenze per l’ambiente? Solo attraverso la realizzazione del pieno impiego i poveri diverranno membri della forza lavoro tale da permettere loro di provvedere autonomamente alla loro sussistenza con dignità».

«Lavorare meno, lavorare tutti!», è uno slogan che ricordo di aver urlato per le strade di Milano, alle manifestazioni degli anni 70 e 80. Può darsi che sia stato gettato allora quel seme che mi ha portato poi a decidere di lavorare meno, guadagnare meno, avere meno per poter scegliere di non fare un lavoro che non voglio, o che non è etico, o che sfrutta qualcuno, o che uccide (compresi gli animali), ecc.

Su questa scia ho trovato nel libro di Erica Cupelli pagine di proposte operative su come organizzare il lavoro, altro che «sogni utopici».

Trascrivo alcuni passaggi: «Gandhi propone una “vita vivibile”, in cui si persegue la pace. Per questo motivo si dovrà lavorare quanto basta per comprare il pane quotidiano, così che il resto del tempo possa essere dedicato a ciò che ha vero valore, non la ricchezza materiale, ma ciò che nobilita l’anima. Allora ci si potrà prendere cura dei propri figli, assistere le persone anziane, fare volontariato, coltivare le proprie passioni, mentre, al tempo stesso, molte più persone potranno lavorare. Il miglior lavoratore sarà dunque colui che si sente a suo agio nella semplicità, l’unica via che può portare alla felicità, fatta di affetti, emozioni, vita. Con la speranza di aver illustrato in modo adeguato i fondamenti etici dell’economia gandhiana, la sfida […] sarà quella di tradurli in concetti praticabili, pur essendo consapevoli del fatto che ciò diventerà possibile solo con una profonda e sincera trasformazione del cuore».

Otto punti, un regolamento

Ditemi se non siete d’accordo con le indicazioni qui sotto, dal paragrafo Attenzione al lavoratore: «1. le ore di lavoro non superino le 6 giornaliere e le 32 ore settimanali; 2. l’orario sarà flessibile per venire incontro alle esigenze personali di ognuno; 3. l’ambiente sia quanto più possibile naturale e pieno di luce; 4. non vi siano turni notturni, eccetto per quei lavori che, per il benessere della società, richiedono tale servizio (esempio: medici, infermieri, pompieri, poliziotti); 5. nel caso di turno notturno, una persona deve essere remunerata maggiormente rispetto a un turno normale; 6. il turno di notte deve essere svolto a rotazione e non più di una volta alla settimana per ogni lavoratore; 7. venga promossa la cultura tramite l’inserimento di biblioteche negli ambienti di lavoro; 8. siano inseriti dei corsi di aggiornamento periodici […]».

Sette punti, un programma

Gli aspetti fondamentali dell’economia gandhiana possono riassumersi in sette punti: 1. proprietà nonviolenta e comunitaria gestita tramite l’amministrazione fiduciaria, cioè la delega ad alcuni esperti interni alla comunità; 2. produzione nonviolenta e uso di tecnologie appropriate; 3. consumo consapevole e limitazione volontaria del possesso dei beni superflui; 4. lavoro nonviolento e lavoro per il pane; 5. cooperazione; 6. distribuzione nonviolenta delle risorse e uguaglianza; 7. socialismo comunitario e nonviolento.

Undici consigli, una realtà

A riprova del fatto che la proposta di questo libro per un’economia diversa non è un sogno utopico, ci sono le testimonianze della vita nei villaggi indiani ai tempi di Gandhi, Vinoba Bhave e altri: «Gli ashram divennero di fatto dei luoghi di sperimentazione diretta in cui il non possesso, l’uguaglianza, il non sfruttamento, l’amministrazione fiduciaria e la scelta di una vita semplice come espressione della povertà volontaria, caratterizzavano ogni membro».

La visione di Gandhi, sperimentata nei villaggi e negli ashram indiani, si basa su questi consigli, applicabili in ogni comunità: 1. allenamento spirituale per autodisciplinarsi; 2. decentramento; 3. valorizzazione dei punti di forza della comunità; 4. scelta e utilizzo di tecnologie che siano a servizio dell’uomo; 5. incoraggiamento al lavoro manuale; 6. cura e attenzione alla natura; 7. servizio alla comunità; 8. liberazione da ciò che vincola e rende schiavi; 9. tutela dell’eguaglianza (economica e socio politica); 10. condivisione di ciò che si ha; 11. scelta di una vita semplice.

La scelta di una vita semplice è l’espressione della «povertà volontaria», formula che mi piace di più di «semplicità volontaria», anche se può spaventare.

Riassuntino colorato

Se tutte le parole lette finora sono state troppe, le trovate riassunte nella copertina del libro, i cui colori riassumono il modello gandhiano in modo immediato: il verde (valori, cultura, società) contiene e fonda il blu (economia), e non viceversa, come scrive l’autrice Erica Cupelli: «Lo schema visualizza il modello gandhiano, che guarda il mondo secondo i valori etici che […] fondano una economia al servizio dell’uomo e non viceversa».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

  • Mohandas Karamchand Gandhi, Una grande Anima. Pensieri spirituali per la vita concreta, a cura di N. Salio e C. Toscana, Red edizioni, Como 1998, pp. 128, 7,23 €.
  • Nanni Salio (a cura di),
    Gandhi. Economia gandhiana e
    sviluppo sostenibile
    , Seb27, Torino 2000, pp. 84, 12,50 €.
  • John Ruskin, Cominciando dagli ultimi, San Paolo, Milano 2014, pp. 128, 12 €.
  • Michael J. Sandel, Quello che
    i soldi non possono comprare.
    I limiti morali del mercato
    , Feltrinelli, Milano 2015, pp. 233, 11 €.
  • Roberto Mancini, L’amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Lévinas, Cittadella, Assisi 2005, pp. 296, 15,90 €.
  • Ernst Friedrich Schumacher,
    Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, Mursia, Milano 2011, pp. 310, 18 €.