L’infiltrazione negli istituti scolastici delle bande Mara Salvatrucha e Barrio 18 è un dato di fatto. Per questo, insegnare nelle scuole del paese centroamericano è una sfida che pone in rischio la vita stessa.
Dall’altra parte dello schermo di un computer, il sorriso di Rodrigo Pineda (nome di fantasia per questioni di sicurezza, ndr), direttore di una scuola pubblica honduregna, supera i circa 10mila km che ci separano diffondendo calma anche nello spazio virtuale di una videochiamata su Zoom.
Rodrigo vive a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, e 20 anni fa ha deciso di diventare professore e poi dirigente scolastico di uno dei tanti istituti comprensivi del paese che, in genere, includono le scuole di primo e di secondo grado (6-17 anni).
Il giorno in cui ha deciso di rispondere alla vocazione per l’insegnamento sapeva che, oltre alle sfide educative, avrebbe dovuto accettare anche il rischio personale che questa professione porta con sé, almeno nei casi in cui bisogna esercitarla nei quartieri più poveri della capitale honduregna, controllati e messi a ferro e fuoco dalle bande Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18.
E di fatti, ogni volta che il professor Pineda metteva piede nella propria scuola, prima che la pandemia costringesse alunni e insegnanti a vivere di didattica online, doveva far leva su tutto il suo coraggio per affrontare non solo le ore di lezione ma anche i criminali affiliati alle due bande che, da sempre, utilizzano le scuole pubbliche a proprio uso e consumo. Ormai da anni, i leader delle gang minacciano fisicamente i dirigenti scolastici per ottenere le chiavi degli istituti, dove di notte entrano per nascondere droga e armi nelle aule meno frequentate. Non era raro, infatti, che, al mattino, i bambini si imbattessero in un pacchetto di cocaina o in qualche proiettile nei corridoi, mentre si dirigevano verso le aule scolastiche. Tuttavia, la Mara Salvatrucha e Barrio 18 non sono mai state interessate agli istituti scolastici in quanto edifici. Il loro interesse è reclutarne i frequentatori. Spesso fermi davanti ai cancelli delle scuole, i membri delle due bande rivali cercavano di agganciare ragazze e ragazzi in età scolare. Questa forma di affiliazione, quasi sempre forzata, ha funzionato fino a marzo 2020 e, dal 18 aprile del 2022, giorno in cui – dopo due anni di pandemia – le classi di ogni istituto sono tornate alla didattica in presenza, rischia di riprendere a essere una pericolosa routine.
Mara Salvatrucha e Barrio 18
Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18 sono le due più grandi organizzazioni malavitose dell’America Centrale che, da decine di anni, alimentano una guerra intestina non solo in Honduras, Guatemala e Salvador, ma in parte anche negli Stati Uniti e in Canada, con l’obiettivo di controllare il monopolio del traffico di droga e armi e di gestire il giro dell’estorsione e della tratta a fine di prostituzione.
Le due bande criminali, in spagnolo chiamate maras o pandillas, nascono tra gli anni Settanta e Ottanta a Los Angeles, negli Stati Uniti. La cifra presente nel loro nome, «13» e «18», fa riferimento, infatti, al numero delle due strade della città californiana in cui vivevano e operavano i fondatori delle due gang. Entrambe le bande accoglievano migranti messicani e centroamericani e si sono diffuse nei loro paesi di origine a partire da metà degli anni Ottanta, quando, a causa di un indurimento delle politiche migratorie operato da Reagan e successivamente da Bush, sono aumentate in maniera esponenziale le deportazioni di persone arrivate sul territorio statunitense senza permesso di soggiorno, anche in giovane età. Attraverso questa operazione, una buona parte delle cellule attive delle due bande si sono ritrovate, dalla mattina alla sera, tra Salvador, Honduras e Guatemala, dove hanno continuato a crescere, diventando in breve tempo una presenza forte e strutturata tanto da sostituirsi allo stato, soprattutto nelle zone marginali e povere dove gestiscono ogni tipo di business, lecito o illecito.
Il reclutamento forzato
Per mantenere forti le maras e farle crescere, i loro leader devono reclutare continuamente nuovi membri, ragazzi da iniziare a piccole o grandi attività criminose, che possono variare dalla riscossione del pizzo nei negozi di quartiere fino alla gestione dell’intero traffico di droga verso il Nord America. Per questo motivo, alcuni membri delle gang hanno cominciato a prendere di mira le scuole più povere, cercando di convincere, con le buone o le cattive, ragazze e ragazzi tra i 10 e i 14 anni a unirsi a loro.
«Un giorno un pandillero (un membro di una banda, ndr) mi ha detto che le scuole sono praticamente il loro “incubatore”, la loro “serra”, dove crescono i loro futuri adepti. Sono i bambini più poveri, orfani o provenienti da famiglie disgregate che rischiano maggiormente di essere forzati a unirsi a loro. Quasi la metà dei miei studenti vive con un nonno o uno zio, perché i genitori sono morti o migrati negli Stati Uniti. Alcuni ragazzi vedono las maras come l’unica opzione di guadagno facile, ma molti, invece, ci chiedono aiuto. Ed è proprio per loro che scendiamo in strada e proviamo a dialogare con i capi delle bande per convincerli a lasciare stare i nostri studenti», dice Rodrigo Pineda.
Docenti assassinati
Migliaia di docenti honduregni (insegnanti, presidi, uomini e donne) hanno cercato di proteggere i loro studenti, in particolare i bambini e le ragazze, spesso vittime di rapimento anche a scopo di sfruttamento sessuale. Tuttavia, questo coraggio è costato la vita a più di 100 insegnanti fino a oggi. Secondo gli ultimi dati ufficiali elaborati dalla Commissione nazionale per i diritti umani dell’Honduras, solamente tra il 2010 e il 2017, las maras hanno ucciso 90 docenti.
Lo sa bene il preside Alberto Herrera (nome di fantasia, ndr), 52 anni di età e 32 anni di servizio nelle scuole, prima come maestro e negli ultimi anni come direttore didattico, che più di una volta nella sua vita ha dovuto ascoltare alla radio o leggere sui giornali la triste notizia dell’omicidio di un collega.
«Il problema è che alcuni studenti sono figli dei leader delle bande. In questo caso dobbiamo fare molta attenzione, perché spesso i genitori ci insultano, ci minacciano o ci aggrediscono se diamo un brutto voto a uno dei loro ragazzi – racconta Alberto -. Qualche anno fa, un’insegnante ha cercato di placare una rissa tra due ragazze e il padre di una di loro ha interpretato questa intromissione come un’umiliazione, per cui si è presentato a scuola e ha sparato al collega di fronte agli studenti durante l’intervallo».
In fuga dalle città
Rischiare la vita per fare il proprio mestiere non è accettabile per nessuno, in particolare per i più giovani, che spesso decidono di abbandonare la professione e la propria casa per sfuggire alle minacce e migrare verso le zone rurali del paese che hanno una percentuale di conflittualità inferiore a quella delle grandi città. Secondo gli ultimi dati dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che protegge i diritti dei rifugiati politici e, nel caso dell’Honduras, anche degli sfollati interni, negli ultimi cinque anni, 269 insegnanti hanno deciso di migrare all’interno del paese a causa della violenza delle gang, una violenza che, tra il 2014 e il 2018, ha interessato 247.090 persone honduregne, pari al 2,7% della popolazione.
«Questa gentaglia entra di notte nelle nostre scuole per nascondere armi e droga e di giorno spesso sentiamo il rumore di sparatorie in mezzo alla strada di fronte alla scuola. In questi casi attuiamo il protocollo di sicurezza, che significa rimanere in classe anche fino a sera e lasciare uscire i bambini solamente quando le strade sono libere», continua Pineda.
Rodrigo Pineda e Alberto Herrera sono parte attiva del Comitato di docenti (Comité de docentes), un’organizzazione di insegnanti che si batte per promuovere un’istruzione di qualità e sradicare la violenza dalle scuole. Il Comitato è sostenuto dall’Unhcr e dall’Ong Save the children che, nel 2018, ha prodotto un rapporto di denuncia sulla grave situazione di violenza nelle scuole di cui sono vittime studenti e docenti. Questi ultimi, in Honduras, sono considerati la terza categoria professionale più esposta alle brutalità delle bande. «Gli insegnanti sono tra le vittime designate dalle bande, insieme ai gestori dei trasporti pubblico-privati e agli imprenditori – afferma Vanessa Paguada, coordinatrice di Save the children del progetto di protezione dei bambini e dei giovani, in collaborazione con l’Unhcr – i professori subiscono vari tipi di abusi, tra cui estorsione, furto e violenze fisiche o sessuali. Il fatto è che le bande li vedono come un ostacolo da eliminare perché si oppongono al reclutamento dei giovani. In qualche modo sfidano le bande proteggendo i ragazzi e questo affronto è inaccettabile per il codice d’onore delle maras».
Collusione polizia e «maras»
Neppure durante la pandemia c’è stata pace, molti insegnanti, infatti, sono stati vittime anche di violenza informatica e di estorsioni online. «Questi criminali sono arrivati a chiederci anche di ricaricare le loro carte di credito e di pagare internet ai loro figli. Ovviamente – spiega il professor Pineda – lo abbiamo fatto, perché temiamo per la nostra vita e soprattutto per quella dei nostri figli e delle nostre famiglie. Il problema è che non possiamo neppure denunciare, perché tutti qui sanno che la polizia è collusa con le maras. Anzi, spesso alcuni pandilleros diventano poliziotti. Non c’è un luogo libero dalla prevaricazione di queste persone. Sono ovunque».
La mancanza di fiducia nelle istituzioni trova una ragione in più nel recente arresto, e successiva estradizione, dell’ex presidente Juan Orlando Hernández, accusato dagli Stati Uniti di legami diretti con il narcotraffico.
Durante il suo mandato, Hernández ha ordinato la militarizzazione di numerosi centri educativi, in seguito alla morte di alcuni docenti e studenti.
«Lo stato fornisce misure palliative, ma non ha mai provato a risolvere il problema alla radice. La polizia rimane a pattugliare le scuole per un po’ e poi se ne va, lasciando il campo libero alle maras, che tornano più forti e arrabbiate di prima e la violenza contro di noi e gli studenti aumenta», spiega Alberto Herrera.
Di fatto la militarizzazione del territorio voluta dall’ex presidente ha spesso portato a scontri tra esercito e pandillas che hanno coinvolto anche passanti, gente comune e studenti, braccati sotto un fuoco incrociato. Questa situazione di guerra latente ha trasformato le strade dei quartieri più poveri di Tegucigalpa in veri e propri campi di battaglia senza né vinti né vincitori, ma con un numero elevato di morti innocenti.
Record di morti
I bambini e i giovani che rifiutano il reclutamento forzato stanno di fatto sfidando – anche inconsapevolmente – i capi delle bande, che puniscono questa audacia con la morte. Una vita breve però fa parte del destino anche di chi invece sceglie di unirsi a una banda, perché è consuetudine che siano proprio i più giovani e inesperti pandilleros a essere uccisi in rapine e scontri con la polizia. Con un tasso di 30 omicidi di minori ogni 100mila abitanti, l’Honduras detiene il record mondiale di bambini e adolescenti assassinati, secondo quanto riportato da un’indagine svolta da Save the children nel 2017.
Intrappolati in una situazione di violenza claustrofobica, molti giovani honduregni sono costretti ad abbandonare la scuola e le loro case e a scappare da un parente prossimo che vive in zone rurali del paese, o, più frequentemente, verso gli Stati Uniti, sommandosi all’enorme numero di minori non accompagnati che migrano dall’America Centrale.
Secondo gli ultimi dati della US Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, da ottobre a maggio 2022 sono arrivati alla frontiera meridionale più di 100mila minori in viaggio da soli, il 23% dei quali sono honduregni.
Dispersione scolastica
Negli ultimi due anni, in Honduras il tasso di dispersione scolastica è salito alle stelle. Circa il 40% degli studenti, infatti, ha abbandonato la scuola nel 2020, a causa dell’insicurezza, ma anche del peggioramento delle condizioni economiche dovuto alla pandemia e agli effetti degli uragani Eta e Iota (del novembre 2020). Oggi il 70% della popolazione honduregna vive in situazione di povertà.
In questo panorama, un buon numero di studenti di Rodrigo e Alberto ha lasciato la scuola per iniziare a lavorare informalmente, altri sono rimasti e alcuni sono migrati, ma sono riusciti a frequentare le lezioni collegandosi online dai campi di migranti in Messico, riuscendo addirittura a terminare l’anno scolastico. «Io dico sempre che noi docenti cerchiamo di fare un buon lavoro in mezzo a un campo minato. Provo una grande soddisfazione quando incontro ex studenti che sono già adulti e hanno terminato gli studi e ora lavorano onestamente, o quando vedo un bambino che partecipa alle lezioni nonostante stia migrando da solo verso gli Stati Uniti. Per loro e solo per loro continuiamo a rischiare la vita e a lottare per fare in modo che abbiano la migliore educazione possibile anche in mezzo a tutte queste difficoltà», conclude Alberto Herrera.
Simona Carnino
Archivio MC
Gli ultimi articoli sulla violenza delle bande giovanili in Centro America e sull’Honduras:
Da tempo, l’Argentina è divenuta un grande consumatore di droghe. Il problema riguarda soprattutto la cocaina e i suoi derivati a basso costo. Lo stato, sempre alle prese con l’emergenza economica (la povertà è oltre il 40%), è inadeguato nell’affrontare la questione. Qui come altrove.
Villa Puerta 8 è un barrio piccolo: appena una ventina di manzanas (nome con cui si indicano le aree urbane i cui lati – denominati cuadras – sono costituiti da strade) dove vivono 170-180 famiglie per un totale di circa 700 persone. Sorge a lato del torrente Morón, all’incrocio con la statale 8 (Ruta nacional 8), nelle vicinanze del centro del Ceamse, la società che si occupa dei rifiuti della capitale.
Villa Puerta 8 è nel territorio del municipio Tres de Febrero, distretto San Martín della Gran Buenos Aires. Il suo nome si trova anche nel Registro nacional de barrios populares (Renabap) che raccoglie informazioni su 4.416 insediamenti popolari del paese. Ma l’interesse delle autorità statali si ferma a questa iscrizione. Per il resto, è un luogo abbandonato, privo delle strutture minime come illuminazione pubblica, sistema fognario, strade pavimentate. Per questo la definizione di «villa miseria» si attaglia perfettamente al barrio.
Qui la povertà si vede e si tocca con mano. Una povertà che, secondo i dati ufficiali dell’Instituto nacional de estadística y censos (Indec), nel 2021 ha riguardato il 40,6 della popolazione argentina.
Villa Puerta 8 è uscita dall’anonimato nei primi giorni di febbraio quando nel barrio è stata venduta una partita di cocaina adulterata che ha provocato una strage: 24 morti e quasi 80 ricoverati per grave intossicazione. Secondo le ipotesi delle autorità investigative, la droga sarebbe stata addizionata con un analgesico, il fentanyl, un oppioide sintetico considerato da 50 a 100 volte più potente della morfina.
La droga è stata venduta in dosi di mezzo grammo chiuse in bustine sigillate di color rosa al prezzo di 350-700 pesos (3-6 euro).
La droga in Argentina
L’Argentina non può essere definito un «narcostato» come il Messico, la Colombia o l’Honduras. È però un paese di transito, elaborazione e consumo di droghe. Per quest’ultimo si trova ai primi posti tra i paesi americani, alle spalle di Stati Uniti, ma vicina a Brasile, Uruguay e Colombia.
La penetrazione delle droghe nella società trova conferme importanti.
Un recente studio dell’Observatorio de la deuda social argentina, prestigioso istituto della «Pontificia universidad católica argentina» (Uca), ha rilevato che, nell’anno 2021, il 23% delle famiglie nell’Argentina urbana ha segnalato la presenza di spaccio e/o traffico di droga nell’isolato, nel vicinato o nel quartiere in cui si trova. Questa percentuale sale però al 40-60% tra le famiglie che vivono nelle zone più povere come le villas. Al contempo, la vendita e il traffico di droghe diminuiscono notevolmente dove esiste una vigilanza permanente delle forze dell’ordine, di solito nei barrios di classe media o medio alta.
Negli ultimi due decenni, sottolinea la ricerca dell’Osservatorio dell’Uca, il consumo di sostanze è aumentato in maniera particolare tra gli adolescenti e i giovani e nei settori più vulnerabili ed emarginati della società.
La Chiesa cattolica: hogares e politica
In Argentina, la Chiesa cattolica aiuta ad affrontare il problema della tossicodipendenza attraverso proprie strutture di accoglienza e recupero (Centros barriales, «Centri di quartiere»), facenti capo all’Hogar de Cristo (dove «hogar» significa focolare, casa, famiglia), associazione nata nel 2008. Nella sola Buenos Aires sono attivi 23 centri, ognuno con le proprie peculiarità, ma tutti con la finalità dello «sviluppo umano integrale». I Centros barriales includono, quindi, l’offerta di pasti, vestiario e docce, gruppi terapeutici, terapia individuale, laboratori (teatro, cinema, sport, ecc.), formazione al lavoro.
Il 4 febbraio, subito dopo la tragedia di Villa Puerta 8, i vescovi della regione di Buenos Aires hanno rilasciato un comunicato in cui si commentavano i fatti partendo da un’affermazione: «la droga uccide» (la droga mata).
Viene riportata la testimonianza di una madre di un tossicodipendente: «Mio figlio non ha ricevuto assistenza, perché se lui non vuole essere ricoverato nessuno lo prende in cura. Dormiva tutto il giorno e usciva la notte. Non riusciva a trovare un lavoro. E quando aveva un lavoro, spendeva tutto per la droga. Dall’età di 14 anni è un consumatore e da allora io sto combattendo».
Che l’esistenza quotidiana risulti sconvolta quando entra in gioco la droga è un dato di fatto. «Il problema più grande del consumo cronico – si legge sul sito dell’associazione Fundartox – è la discesa nella scala dei valori e il cambiamento nel comportamento del tossicodipendente. Costui abbanda i comportamenti più elementari di cura di sé (cibo, igiene personale), inizia a vendere i beni personali, se lavora spende il denaro destinato alla famiglia. Per mantenere il consumo, molti praticano sesso a pagamento (entrambi i sessi). La perdita delle regole sociali vissuta dall’utilizzatore lo trasforma in un altro essere, una situazione che potrebbe essere definita sindrome sociopatica. Il consumo di pasta base [di cocaina] amplifica la vulnerabilità sociale di origine, sia della persona che della sua famiglia. La dipendenza è un fenomeno complesso, va ricercata una cura medico-sociale, che non sia semplicemente la reclusione quando si commette un reato all’interno della dinamica della dipendenza».
Nel loro comunicato, i vescovi di Buenos Aires hanno ribadito la propria posizione contraria a normative che depenalizzino il consumo di alcune sostanze: «La depenalizzazione del consumo, la legalizzazione delle sostanze – si legge nel comunicato dei prelati -, non farà che aumentare il consumo e la marginalità. Sicuramente nella società prenderà piede l’idea che le droghe legali non fanno male: le droghe uccidono sempre».
Ancora più duro mons. Manuel Fassi, vescovo di San Martín, nell’omelia di domenica 6 febbraio: «Capiamolo bene, non esiste una droga buona e una cattiva, ogni droga è cattiva perché danneggia e uccide. Che sia legale o illegale, può sempre finire per uccidere la persona che la consuma. Non capiamo come possano riapparire progetti di legge che vogliono legalizzare, quando la cosa più necessaria sarebbe che appaiano politiche statali che propongano leggi di protezione e cura delle persone vulnerabili».
Abbiamo chiesto un commento a Cecilia Gonzáles, giornalista messicana dal 2002 in Argentina, autrice di vari libri sulle tematiche del narcotraffico (Narcosur, Narcofugas, Todo lo que necesitas saber sobre narcotráfico, quest’ultimo uscito anche in Italia). «Come nel resto del mondo – ci ha spiegato -, anche in Argentina il consumo di droghe è cresciuto in maniera esponenziale. Tuttavia, non c’è paragone con il Messico, il mio paese, dove si combatte una vera e propria narcoguerra».
Abbiamo chiesto alla giornalista chi siano i consumatori di droga in Argentina. «Ce ne sono – ha risposto – in tutti gli strati sociali. Le sostanze di migliore qualità si vendono tra le classi superiori, le peggiori nelle villas».
Come hanno dimostrato i fatti di Puerta 8. «Quella tragedia ha testimoniato, ancora una volta, il fallimento delle politiche statali in materia di droghe. Con la criminalizzazione dei consumatori e l’assenza di misure di salute pubblica. Occorre cambiare registro regolando i mercati e abbandonando la militarizzazione», ha commentato Cecilia Gonzáles.
La droga nel mondo: che fare?
L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sulle droghe nel mondo – World drug report 2021 -, dopo aver analizzato nel dettaglio numeri, trend e prospettive, non lascia molto spazio all’ottimismo. «L’uso di droghe ha ucciso quasi mezzo milione di persone nel 2019, mentre i disturbi causati dal loro utilizzo hanno provocato la perdita di 18 milioni di anni di vita sana, principalmente a causa degli oppioidi. Malattie gravi e spesso letali sono più comuni tra i tossicodipendenti, in particolare quelli che si iniettano farmaci. Molti di essi convivono con l’Hiv e l’epatite C. Il traffico illecito di droga continua a frenare anche l’economia e lo sviluppo sociale, mentre ha un impatto sproporzionato sui più vulnerabili ed emarginati, e costituisce una minaccia fondamentale per la sicurezza e la stabilità in alcune parti del mondo. Nonostante i comprovati pericoli, l’uso di droghe persiste e, in alcuni contesti, prolifera. Nell’ultimo anno, circa 275 milioni di persone hanno fatto uso di droghe, in aumento del 22% rispetto al 2010. Entro il 2030, i fattori demografici prevedono che il numero di persone che faranno uso di droghe cresceranno dell’11 per cento in tutto il mondo e del 40 per cento nella sola Africa». Se tutti concordano sulla gravità del problema, le posizioni sono molto distanti rispetto a come affrontarlo con una netta contrapposizione tra proibizionisti (e sostenitori della «guerra alla droga») e legalizzatori (almeno di alcune sostanze).
Dubbi sono sorti anche a Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. L’ex presidenta cilena, tra l’altro di professione medico, nel corso della 26ª Conferenza sulla riduzione dei danni da stupefacenti (Oporto, aprile 2019) ha ammesso che la cosiddetta «guerra contro le droghe» ha fallito e che il consumo è aumentato invece di diminuire.
«La guerra alle droghe deve finire» (The war on drugs must end) ha sentenziato a luglio 2021 un editoriale di «The Lancet», la più prestigiosa rivista medica del mondo.
Il fallimento del proibizionismo
Un intervento statale per regolarizzare il consumo di droghe pare comunque lontano.
«È un altro – ci ha spiegato Cecilia Gonzáles – dei pregiudizi che circondano l’uso di sostanze: l’hanno imposto un secolo fa ed è molto difficile disarmare quella narrativa. Non sappiamo davvero cosa può succedere con una regolamentazione. Quello che sappiamo, perché l’evidenza lo dimostra, è che il proibizionismo ha fallito».
Al momento sono due i paesi che stanno percorrendo strade alternative: l’Uruguay (dal dicembre 2013) e il Portogallo (dal novembre 2000). E sono le politiche sulla droga del paese lusitano che stanno ottenendo i risultati più significativi (riconosciuti, a maggio 2019, anche da un editoriale di The Lancet).
Per parte sua, il medico francese Michel Kazatchkine, membro della Global commission on drug policy (Ginevra), ha affermato: «I governi dovrebbero impegnarsi per un uso sicuro delle sostanze. Occorre affrontare il mondo così com’è. Un mondo libero dalle droghe non esiste».
Il dibattito rimane aperto.
Paolo Moiola
Archivio MC
● Reportage su droga e minori a Buenos Aires e in Brasile:
due video dell’autore su gruppi di minori consumatori di «paco» nelle strade di Buenos Aires sono visibili a questo indirizzo di YouTube:youtube.com/user/pamovideo
Glossario minimo
● Droga:
nome generico dato a sostanze che, una volta introdotte nell’organismo, agiscono sul sistema nervoso centrale provocando cambiamenti che possono influenzare il comportamento, l’umore o la percezione e predispongono alla ripetizione del consumo.
● Paco / crack:
è un residuo della pasta (pa) base di cocaina (co). Si commercializza tagliato con talco, caffeina, bicarbonato di sodio o anfetamine (ma anche con ingredienti meno nobili come veleno per topi). Si fuma in pipe artigianali. È venduto a un prezzo molto basso, produce rapida dipendenza, ha effetti devastanti sull’utilizzatore (immunologici, neurologici, psichici). Il paco è diverso dal crack, altra droga molto economica, che però si ottiene partendo dal cloridrato di cocaina e non dalla pasta base.
● Narcomenudeo:
commercio di droghe illecite su piccola scala; i narcomenudistas sono le persone che si dedicano a quel commercio.
● Cocinas:
laboratori casalinghi argentini dove si processa la pasta base di cocaina importata dai paesi confinanti.
● Kioscos / búnkers:
i luoghi dove si trovano i venditori della droga.
● Soldaditos / pajaritos / esquineros:
sentinelle, di solito minori d’età, che avvertono nel caso di arrivo di estranei nelle zone di spaccio.
● Bolseros:
gli addetti, di solito minori, che consegnano le bustine di droga ai consumatori.
● Hogares:
«case d’accoglienza» per emarginati e tossicodipendenti, di solito gestiti da organizzazioni cattoliche (salesiani di don Bosco, Hogar de Cristo, etc.).
● Villas miserias:
in Argentina, si dà il nome di «villa» alle occupazioni spontanee di terreni. Si tratta, pertanto, di insediamenti umani informali, privi dei servizi urbani basilari (acqua, fognature, energia elettrica, ecc.). Storicamente, la prima villa sorse a Buenos Aires agli inizi del 1930 e si chiamò «Villa desocupación».
Successivamente, questi insediamenti presero il nome di «villas miserias», prendendo spunto dal romanzo Villa Miseria también es América (1957) dello scrittore Bernardo Verbitsky.
Paolo Moiola
Le nuove rotte della droga
testo di Chiara Giovetti |
Le rotte del traffico di eroina passano oggi attraverso il Kenya, in particolare nella seconda città del paese che ospita un grande porto: Mombasa. Buenaventura, in Colombia, è invece da anni uno snodo importante per il traffico di cocaina.
Le conseguenze per il tessuto sociale e l’economia sono, sia in Kenya che in Colombia, devastanti.
Nel 2018, circa 270 milioni (stima media tra i 166 e i 373 milioni) di persone nel mondo ha fatto uso di droga almeno una volta. La maggior parte (192 milioni) ha consumato cannabis, mentre in 58 milioni hanno assunto oppioidi, categoria che riunisce gli oppiacei, cioè i prodotti derivati dal papavero da oppio – utilizzati da 30 dei 58 milioni di persone – e i loro analoghi sintetici, semisintetici o alcune sostanze prodotte naturalmente dal corpo. Seguono 27 milioni di utilizzatori di anfetamine e altri stimolanti, 21 milioni che usano Mdma (comunemente detta ecstasy) e 19 milioni di persone che fanno uso di cocaina@.
Recentemente Netflix ha proposto un documentario in sei puntate che ha riscosso molto successo, The Business of Drugs@. Il documentario, condotto dall’ex agente della Cia, Amaryllis Fox, raccoglie le testimonianze dirette non solo di esperti e studiosi, ma anche di vittime delle dipendenze, di spacciatori, di coltivatori e di altre persone che a vario titolo lavorano nel traffico di stupefacenti. Mostra anche come sono cambiate alcune rotte del traffico di droga in relazione a nuovi conflitti che hanno interrotto i percorsi precedenti.
Due delle puntate parlano di eroina e cocaina e dei centri nevralgici dei rispettivi traffici: il Kenya, e in particolare la città e il porto di Mombasa, e la Colombia, con il grande porto di Buenaventura.
Kenya il nuovo crocevia mondiale dell’eroina
L’eroina non viene prodotta in Kenya ma principalmente in Asia centromeridionale, specialmente in Afghanistan, dove il trenta per cento del Pil è legato alla produzione del papavero da oppio che dà lavoro a circa 600mila afghani.
Si tratta di un mercato in espansione, segnala il responsabile per l’Africa orientale dell’Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, Amado de Andres. La produzione di eroina è pari a 10mila tonnellate – la più grande negli ultimi 20 anni – e l’utenza si sta spostando dai ceti medio bassi a quelli medio alti. Il percorso che la droga seguiva per andare dalla zona di produzione all’Europa e al Nordamerica era la cosiddetta rotta balcanica; ma negli ultimi anni, a causa dei conflitti come quello siriano e dei maggiori controlli di frontiera legati all’arrivo dei migranti, quella rotta non è più sicura per i trafficanti che per questo si sono rivolti all’Africa orientale, specialmente al Kenya, con il suo porto di Mombasa, e alla Tanzania.
La posizione geografica di questi paesi africani ne fa una sorta di crocevia planetario da dove – approfittando dello scarso controllo del territorio da parte delle forze di polizia – la droga può essere poi facilmente distribuita nel resto del Continentea e negli altri.
Il Kenya, continua Amado de Andres, è il paese ideale anche perché è stabile dal punto di vista politico, finanziario e commerciale, e ha una buona infrastruttura informatica che permette ai trafficanti di comunicare in modo efficace da un continente all’altro per coordinare il trasporto e anche il pagamento della merce, per il quale utilizzano la hawala, un sistema informale di scambio di denaro – riconosciuto dall’Islam – basato sulla fiducia delle persone, che permette di effettuare pagamenti senza effettivamente muovere denaro, rendendolo così praticamente impossibile da tracciare@.
Il trasporto della droga, spiega de Andres, avviene su barche che si chiamano dhow, normalmente utilizzate per pescare e dotate di un frigo a una estremità. Nel vano che ospita il frigo si può introdurre e trasportare fino a una tonnellata di eroina.
Ma queste barche non possono avvicinarsi troppo alla costa per non rischiare di essere intercettate dalla polizia, perciò si avvalgono della collaborazione di imbarcazioni più piccole, che prelevano il carico e lo trasportano in punti meno sorvegliati della costa. Spesso si tratta di persone locali, pescatori keniani che spinti dalle grosse somme di denaro offerte loro dai trafficanti, accettano di aiutarli a scaricare e trasbordare la droga.
Uno dei metodi usati per il trasporto dell’eroina verso destinazioni esterne all’Africa, prosegue il racconto di Fox, è quello dei «container umani»: persone che inghiottono ovuli e prendono un volo per la destinazione dove la droga sarà venduta. Salim, uno degli intervistati, riporta che il trasporto di cento grammi permette di guadagnare mille dollari.
L’impatto sui giovani e sull’economia
Nella terza puntata del documentario, Fox incontra e intervista uno spacciatore – che ha il viso coperto e usa il soprannome di Mr. K – nella zona dove è nato e vive, cioè Kibera, il più grande degli slum di Nairobi.
Mr. K confeziona dosi di eroina raccogliendo da un mucchio di polvere bianca una quantità sufficiente a coprire mezza lametta da barba e facendo poi scivolare la sostanza in una cartina argentata che provvede a chiudere ripiegandone i lati. Una dose così si vende per tremila scellini, circa trenta dollari, e per acquistarla questo ragazzo kenyano paga fra i mille e i 1.500 scellini. In una baraccopoli dove lo stipendio medio è tra i 25 e i 40 dollari al mese, considera Amaryllis Fox, vendere eroina permette davvero di «svoltare».
Mr. K racconta che la prima volta che ha venduto eroina ha preso 50mila scellini (500 dollari). Non aveva mai guadagnato così tanti soldi. I clienti, continua, sono «nigeriani che stanno in prigione, cinesi, bianchi, ragazzini ricchi».
A cercare di contrastare un fenomeno che sta dilaniando la gioventù kenyana, dice Fox, si stanno impegnando politici come Mohamed Ali, un ex giornalista che nei suoi articoli si occupava della diffusione dell’eroina, che è stato fra i primi a definirla un’emergenza e che, per questo suo lavoro di informazione e denuncia, è stato eletto come parlamentare@.
Lui e il giornalista John-Allan Namu, definiscono la città di Mombasa uno stato mafioso e non esitano a segnalare infiltrazioni nella polizia e il coinvolgimento di alcuni politici che «aiutano i signori della droga a venderla o trasportarla nel paese».
Le organizzazioni attive sul campo
L’arrivo dell’eroina in Kenya lo ha reso un paese non solo di transito, ma anche di consumo. Giorno per giorno, questa trasformazione è resa evidente «dall’aumento delle le zone dove i giovani vanno per comprare droghe e farne uso e anche dalla maggior propensione dei ragazzi a farsi coinvolgere in attività criminali», conferma Agnes Mailu, programme coordinator di Solidarity with girls with distress (Solgidi), un’organizzazione legata all’arcidiocesi di Mombasa che assiste ragazze in difficoltà@.
Il documentario mostra la visita della conduttrice a una delle zone di Mombasa, un cimitero, dove i tossicodipendenti vanno per iniettarsi eroina. Qui, i volontari di un’organizzazione chiamata Muslim education and welfare association (Mewa) vanno a incontrare i tossicodipendenti cercando di dare loro assistenza, ad esempio fornendo loro siringhe nuove in cambio di quelle usate, e di coinvolgerli in un percorso per disintossicarsi.
«Oltre a Mewa», scrive padre Zachariah Kariuki, vice superiore dei missionari della Consolata in Kenya, «ci sono altri centri di recupero, anche pubblici, come il Centro di Miritini, controllato dal governo della contea» o il Reach out center, Teens watch, Coast general referral hospital, aggiunge Anges, e collaborano tutti con Nacada, l’Autorità nazionale per la campagna contro l’abuso di alcool e droghe@.
«Le autorità», continua padre Kariuki, «stanno tentando di affrontare la situazione creando i centri di recupero o dotando i centri di salute di punti nei quali coloro che cercando di disintossicarsi possano trovare metadone. Anche i tribunali fanno del loro meglio e i servizi di intelligence sono impegnati a dare la caccia e perseguire i narcotrafficanti. Ma quello della droga è sempre un ambito rischioso e corrotto». «Le persone che vendono droga sono note», conferma Anges, «ma attraverso la corruzione il problema è stato normalizzato». E normalizzato, in questo caso, non significa eliminato, ma piuttosto incluso nella normalità.
La parrocchia dei missionari della Consolata a Likoni, Mombasa, segnala padre Zachariah, sta tentando di dare il proprio contributo realizzando un programma di formazione e sensibilizzazione con i giovani in modo da ridurre il loro rischio di esposizione alle droghe, che stanno penetrando anche nella scuola. «È chiaro», continua il missionario, «che i signori della droga usano i giovani della zona di Likoni per spacciare ai loro coetanei e li pagano per farlo. Succede di sentire di ragazzi prelevati a scuola dalla polizia perché coinvolti nello spaccio».
Colombia narcotraffico, un’idra a tante teste
Nel 2017, racconta Fox nella prima puntata del documentario, la produzione di cocaina è aumentata del 25% rispetto all’anno precedente, raggiungendo le duemila tonnellate. I consumatori, lo ricordiamo, sono stimati in circa 19 milioni nel mondo; negli Stati Uniti sono raddoppiati negli ultimi sette anni.
Rodrigo Canales, professore associato di comportamento organizzativo presso l’università di Yale, spiega che il prezzo della cocaina è rimasto piuttosto stabile (intorno ai cento dollari al grammo) negli ultimi venticinque anni perché la competizione fra gli operatori del mercato di questa sostanza non si gioca sul prezzo della merce ma piuttosto sulla capacità di garantire una produzione stabile e affidabile.
Dopo la distruzione del cartello di Pablo Escobar all’inizio degli anni Novanta, ricorda il generale di brigata dell’esercito colombiano, Hernando Flores, «non c’è più un unico cartello padrone di tutto». Ma questo ha creato un problema nuovo, cioè il fatto che il narcotraffico in Colombia ora assomiglia a un’idra: tagliata una testa, cioè un cartello, ne sorgono subito tante altre.
Ci sono 82mila famiglie colombiane che dipendono dalla coltivazione della coca per sopravvivere; coltivano illegalmente 400mila ettari di suolo pubblico perché non possono permettersi di comprare terreni. La raccolta della coca – così racconta un lavoratore di una piantagione a due ore e mezza di auto dalla città portuale di Buenaventura, sulla costa centro meridionale della Colombia – frutta fino a 300mila pesos al giorno, circa 90 dollari, per chi riesce a raccogliere sei sacchi di foglie.
Porto di Buenaventura, ricchezza per pochi
Quello di Buenaventura è il principale porto colombiano: invia merci verso 300 destinazioni, gestisce intorno al 60 per cento dell’import export colombiano, movimenta fra i 300 e i 500 container al giorno e genera un gettito fiscale pari a 1.8 miliardi all’anno.
Ma il grosso della popolazione della città non beneficia per nulla della ricchezza generata dal porto: povertà e diseguaglianze sono chiaramente visibili nelle strade e nei quartieri di tutta Buenaventura. Due persone su tre sono disoccupate, oltre la metà non dispongono di acqua potabile e l’ottanta per cento vive sotto la soglia di povertà.
La giornalista Natalia Herrera, che accompagna Fox in un giro della città, spiega che i bambini a cinque anni sono già in strada, esposti alle gang criminali e al narcotraffico. A dieci anni sono spesso già attivi come «sentinelle» che aiutano le gang a evitare la polizia, guadagnando per questo «servizio» 100mila pesos, circa 32 dollari americani.
A prelevare la cocaina nei punti che i trafficanti indicano loro, a nasconderla – ad esempio all’interno di pupazzi di peluche – e a trasportarla al porto, sono invece spesso giovani disoccupati. «Guadagno due milioni di pesos», spiega un ragazzo con il volto coperto che parla con Fox mentre ricuce il peluche dove ha inserito i pacchetti di coca. Sono circa 650 dollari, una cifra che quest’uomo guadagnerebbe in due mesi se facesse un altro lavoro. «Ho più paura dei narcotrafficanti che della legge», ribatte il giovane al commento dell’intervistatrice su quanto sia pericoloso fare quello che fa. «La polizia ti mette in galera, ma se commetti un errore per strada muori».
Il duro lavoro di chi si oppone
La violenza che accompagna il narcotraffico lascia bambini senza genitori, uomini e donne senza i loro compagni e, oltre che sul piano umano, nelle famiglie, gli effetti si avvertono su quello economico.
«Ci sono fondazioni che lavorano per combattere la violenza causata dal traffico di droga», scrive padre Lawrence Ssimbwa, missionario della Consolata di origine ugandese che da anni lavora a Buenaventura. «La più conosciuta è Fudescodes – Fundación espacios de convivencia y desarrollo social@, creata da un sacerdote redentorista» e impegnata in programmi come Mujeres rompiendo silencio (Donne che rompono il silenzio) che danno sostegno e formazione alle donne che hanno perso il compagno e che devono ora provvedere da sole ai bisogni della famiglia.
«Anche la Chiesa cattolica è molto impegnata nel denunciare il traffico di droga e la violenza», continua padre Lawrence, «e per questo sia il precedente vescovo, monsignor Hector Epalza Quintero, sia l’attuale, monsignor Rubén Darío Jaramillo Montoya, hanno ricevuto minacce di morte da parte dei trafficanti di droga».
Il paro civico, cioè lo sciopero organizzato nel maggio 2017 dalla società civile di Buenaventura e durato 22 giorni, ha portato a una serie di accordi con il governo che prevedono un milione e mezzo di pesos in investimenti per migliorare la sanità, l’educazione e l’accesso all’acqua per la popolazione della città. Un ulteriore effetto delle proteste, ricorda ancora padre Lawrence, è stato l’elezione a sindaco di Víctor Piedrahita Vidal, che è uno dei fondatori del movimento che ha organizzato il paro civico.
Tuttavia, chiarisce il missionario, nonostante una maggior presenza delle forze militari nei quartieri, la violenza non è diminuita così tanto come si sperava. «Ogni settimana, nei quartieri, si sente di qualcuno che è stato ucciso o è sparito e ci sono ancora estorsioni e rapine sostenute da trafficanti di droga».
«La guerra alla droga è costata dieci miliardi e mezzo di dollari solo in Colombia», segnala Amaryllis Fox. «Mezzo milione di colombiani sono morti e lo scorso anno la quantità di cocaina trasportata è stata la più grande di sempre».
Chiara Giovetti
Nel segno del Mekong
testo e foto di Piergiorgio Pescali |
Il nuovo Laos
Un’apertura made in China
Vientiane (gennaio 2020, poco prima che il mondo si fermi per la pandemia). Il mercato notturno lungo il Mekong è affollato di turisti che, dopo aver fatto la rituale foto del tramonto sul fiume, si riversano tra le bancarelle spulciando tra magliette, borse, ciabatte e souvenir vari. I ristorantini lavorano a pieno ritmo offrendo piatti locali e internazionali, mentre i motorini sfrecciano fendendo nubi di fumo liberate delle griglie su cui vengono abbrustoliti pesci, cotiche di maiale, polli e salsicce. Sul Quai Fa Ngum, il lungofiume, i centri di massaggi – la maggior parte dei quali (è bene rimarcarlo) non offrono supplementi sessuali – fanno a gara per accaparrarsi i clienti.
La capitale del Laos, relativamente assopita durante il giorno, di notte si trasforma in un formicaio di brulicanti attività, ma rispetto alle città vietnamite, thailandesi e cambogiane, Vientiane rimane, comunque, un grande villaggio di frontiera.
L’isolamento della nazione dovuto alla sua posizione geografica, alla conformazione del territorio e all’esiguità della popolazione ha permesso al Laos di mantenere un fascino particolare nell’immaginario collettivo del viaggiatore. Scenari spettacolari immersi in una natura incontaminata, viaggi lungo i fiumi, minoranze etniche ancora relativamente isolate dall’infezione del turismo di massa e dei tour operator, sono stati per decenni le cornici ideali entro cui si organizzava una vacanza in questo paese del Sud Est asiatico.
Tutto, però, sta per cambiare in un modo così veloce che, probabilmente già nei prossimi anni, il Laos descritto oggi sarà una memoria relegata nei libri e nelle fotografie rimaste nei cassetti o nei nostri computer.
Strade e ferrovie: l’attivismo cinese
Viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare i numerosi cantieri che stanno lavorando a quel progetto colossale voluto dalla Cina inserito in quel fronte di espansione economica denominato One belt, One road, da noi meglio conosciuto come «nuova Via della Seta». L’idea, è noto, è quella di collegare il cuore produttivo cinese con il resto del mondo (Asia, Europa, Africa, America Latina) attraverso la costruzione di una rete di infrastrutture che si diramano principalmente verso Sud e verso Ovest; un piano miliardario (si parla di mille miliardi) che vede la partecipazione di una sessantina di stati, tra cui anche l’Italia. Nonostante l’economia laotiana non sia sviluppata quanto quelle dei vicini, la nazione è entrata nel mirino di Pechino essenzialmente per la sua posizione geografica che la pone come crocevia obbligato sulla linea di passaggio delle grandi arterie di comunicazione tra la Cina, il Mar Cinese meridionale e lo Stretto di Malacca.
I grandi progetti di comunicazione che collegheranno Singapore a Kunming si sviluppano attraverso la costruzione di una superstrada a quattro corsie e di una ferrovia ad alta velocità, la Pan-asiatica, lungo sei paesi (Singapore, Malesia, Thailandia, Laos, Myanmar e Cina). Il tratto laotiano si dipanerà tra Vientiane e Boten per un totale di 414 km di cui il 47% nascosti in settantacinque tunnel. Iniziata nel dicembre 2016, l’intera opera dovrebbe essere terminata (Covid-19 permettendo) a tempo di record nel 2021 (a dicembre 2019 l’80% del tratto era già stato completato), mentre nel 2023 la ferrovia sarà collegata alla rete thailandese attraverso un nuovo ponte in fase di costruzione tra Thanaleng (all’altezza di Vientiane) e Nong Khai, in Thailandia1.
Il programma è tenacemente appoggiato dal governo tramite la figura di Lattanamany Khounnyvong che, oltre ad essere viceministro dei Lavori pubblici e dei Trasporti, occupa anche la posizione di presidente del Comitato di direzione della Laos-China Railway Construction Project, l’azienda statale (30% del governo laotiano e 70% del governo cinese) che sta costruendo la ferrovia e ne gestirà l’operatività.
La popolazione laotiana ha accolto tutto sommato favorevolmente il progetto, non solo perché nella nazione ogni forma di opposizione politica e sociale alle decisioni dell’Assemblea nazionale dominata dal Partito rivoluzionario popolare è ostacolata dal governo, ma anche per il fatto che sarà facilitato lo spostamento di persone e merci garantendo, almeno sulla carta, un miglioramento delle condizioni di vita. Nella novella Thi Pak Chai («Il rifugio del cuore»), lo scrittore Thongbay Photisane descrive bene l’atteggiamento che ho riscontrato nei villaggi toccati dal progetto sinolaotiano: «La notizia dell’arrivo dei lavoratori che costruivano la strada si sparse di bocca in bocca e in ogni casa del villaggio. I più anziani apprezzarono e furono contenti che l’unica strada esistente, ormai da diversi anni polverosa, sporca, fangosa e cosparsa di buche, sarebbe finalmente stata riparata e migliorata».
Del resto, già in questi anni le reti di comunicazione laotiane sono state oggetto di ampi investimenti che si sono favorevolmente ripercossi sull’economia. Le vie, oltre ad essere state potenziate, possono contare su una buona qualità del manto stradale tanto che il 65% dei villaggi ha un accesso carrozzabile per tutto l’anno e solo il 7,9% della popolazione vive in villaggi completamente isolati (nel 2005 era il 21%). I tempi di percorrenza si sono accorciati e anche il parco dei veicoli dei trasporti pubblici è sensibilmente migliorato rendendo i trasferimenti più confortevoli. Solo vent’anni fa, spostarsi da un luogo all’altro del paese era insicuro a causa del banditismo e della guerriglia etnica; agli occidentali veniva sconsigliato di viaggiare in strada da Vientiane a Luang Prabang o nelle aree abitate da minoranze etniche meno presidiate dall’esercito. I mezzi pubblici erano rari e affollati e molti passeggeri erano costretti a spostarsi pigiati all’interno di abitacoli fatiscenti o affrontare il viaggio fermamente aggrappati sui portapacchi posti sul tetto.
È ancora Thongbay Photisane a darci uno spaccato della nuova vita nei villaggi dopo l’arrivo delle strade: «Nel villaggio i lavori per la costruzione della nuova strada continuavano. Da mattina a sera si sentiva il rumore dei trattori, dei camion e delle ruspe. La strada, prima fangosa e piena di buche, divenne liscia e larga come mai prima d’allora. Gli abitanti del villaggio strinsero amicizia con i lavoratori e la strada, in precedenza silenziosa e polverosa, prese nuova vita nel modo più straordinario. La sera i lavoratori si riunivano e si rilassavano mangiando e bevendo la tradizionale bevanda alcolica laotiana. Le ragazze, che prima d’allora non si erano mai truccate, iniziarono a farsi belle dipingendo le loro labbra con rossetti».
È al di fuori del confini del Laos, invece, che il programma di sviluppo delle infrastrutture dei trasporti incontra una maggiore opposizione.
Per finanziare il progetto ferroviario, che costerà 6,7 miliardi di dollari, Vientiane ha dovuto chiedere un prestito di 480 milioni di dollari (2,8% del Pil) alla Eximbank cinese destando la preoccupazione degli istituti finanziari internazionali per l’aumento del debito pubblico, oggi pari al 65% del Pil.
Il governo è, inoltre, accusato di aver costretto 4.400 famiglie di 167 villaggi ad abbandonare le loro case confiscando 3.830 ettari di terreno, superiori alle reali esigenze richieste per la costruzione delle infrastrutture2 e contribuendo alla deforestazione del paese (se nel 1940 la superficie forestale del paese era il 70% del totale, e nel 1995 il 47%, oggi è solo il 40%)3. Lattanamany Khounnyvong ha dichiarato che gli appezzamenti espropriati saranno risarciti, ma i proprietari lamentano che i rimborsi ottenuti, 595-715 Usd (dollari Usa) per ettaro, sono di gran lunga inferiori al prezzo di mercato, valutato attorno ai 1.420 Usd4.
Turismo, tra idealismo e devastazione
Poi ci sono i turisti che, dai finestrini dei bus con l’aria condizionata, osservano perplessi l’avanzare dei lavori temendo che sia sfregiata quella parte di mondo che invece vorrebbero mantenere intatta per portare a casa selfie con gente rigorosamente vestita in abiti tradizionali. Mantenere il Laos, al pari di qualunque altra realtà classificata come «esotica», immutabile come un dipinto naïf e idolatrare modi di vita di popolazioni indigene è una costante presente in molte realtà del turismo sui generis.
Sono tanti gli occidentali imbevuti di un ecologismo new age che idealizzano le comunità etniche elevandole a modello di sviluppo alternativo da seguire per vivere in simbiosi con l’ambiente. Poco importa se, nella realtà, la maggioranza di queste comunità vede la natura in una doppia valenza, foriera di vita e di morte. Ben lontano dalle loro menti è il concetto proprio delle società industrializzate che identifica la natura unicamente come una «madre benigna». Quando si deve lottare ogni giorno per sopravvivere non si ha il tempo, la voglia e la forza di rispettare qualcosa che si ritiene, nel migliore dei casi, indifferente al futuro e al benessere della propria famiglia e della comunità.
Viaggiando in Laos tra queste popolazioni e con i mezzi locali è chiaramente visibile la mancanza di un concetto di rispetto dell’ecosistema secondo la nostra concezione occidentale. Dai finestrini dei bus, dalle barche che solcano i fiumi o dalle verande delle case in cui abitano queste popolazioni, viene gettato nell’ambiente di tutto: sacchetti di plastica, bottiglie di vetro, abiti consunti, copertoni, carcasse di moto, auto o addirittura tuc-tuc o minibus. Strade e fiumi sono costellati di rifiuti. E sono ancora queste popolazioni che cacciano o aiutano i bracconieri a stanare e uccidere animali le cui parti anatomiche sono ritenute miracolose per la medicina tradizionale. Insomma, l’idealismo proprio di alcuni movimenti primitivisti cozza violentemente contro una realtà ben differente da quella ingenuamente proposta.
Vang Vieng è forse l’esempio più eclatante di questa doppia visione. Fino al 2012 era una cittadina devastata dal turismo giovanile: centinaia di migliaia di ragazzi muniti di zaino si riversavano nel villaggio facendo uso di stupefacenti e alcool per poi ridiscendere il fiume Nam Song a bordo di camere d’aria, tuffarsi nelle acque del fiume, lanciarsi lungo le zip-lines (speciali teleferiche a scopo ludico, ndr). I bar mettevano a disposizione le droghe più varie: da funghi allucinogeni all’oppio, dalle metamfetamine alla marijuana che, mescolate alla grande quantità di liquori offerti, formavano pericolosi cocktails.
La popolazione della cittadina non ne poteva più: il turismo e la presenza di questi backpackers, dopo aver distrutto la tranquillità e l’armonia sociale metteva a rischio lo stesso ecosistema. I rifiuti non si riuscivano a smaltire, i campi erano cosparsi di bottiglie, sacchetti di plastica, vestiti, cartacce. Il sistema sanitario locale era al collasso e il piccolo ospedale lavorava solo per salvare turisti in stato di coma alcolico, in overdose o che si erano feriti durante le loro bravate. Nei periodi di alta stagione le strutture ospedaliere dovevano curare tra i cinque e dieci turisti al giorno.
Nell’agosto 2012 le autorità laotiane decisero finalmente di dare un taglio a tutto questo: furono chiusi i bar più problematici e imposero direttive più stringenti per regolare la vita notturna ed escursionistica. Le zip-line più pericolose, quelle non in regola e i trampolini lungo il fiume vennero distrutti. Il tutto però sembra non sia bastato: ancora oggi ci sono siti5, che danno indicazioni su come sfruttare il turismo sessuale specificando in quali bar è possibile comprare droga.
Governo e Ong impegnati nello sviluppo
Al tempo stesso, però, c’è un’altra fetta, seppur minoritaria, di occidentali che prestano opera di volontariato per avviare programmi di sviluppo rurale. Uno di questi è Sae Lao6, un progetto fondato nel 2008 da Sengkeo Frichitthavong che cerca di aiutare la sostenibilità sociale e ambientale della zona di Vang Vieng, mentre un altro è l’Eefa (Equal education for all), progetto di una Ong che ha permesso a cinquecento ragazzi laotiani di frequentare classi di lingua inglese e ha avviato programmi di igiene dentale7.
In tutto il Laos diverse Ong lavorano per aiutare piccole comunità, ma non è un compito facile: il governo vuole avere sotto stretto controllo ogni attività connessa con enti stranieri e ogni visita ai luoghi dove operano le diverse organizzazioni deve essere approvata attraverso un lungo ed estenuante iter burocratico. È comunque anche grazie a questa cooperazione e a un’oculata selezione delle agenzie interessate a interventi nel paese, che l’«indice di sviluppo umano» è salito da 0,399 nel 1990 a 0,604 nel 20198.
Un indicatore ancora basso (secondo l’Onu il Laos si pone al 140° posto nella classifica mondiale), ma i successi della politica adottata dai governi succedutisi alla guida del paese dal 1975 a oggi sono evidenti. Tra il 1992 e il 2013 la fetta di laotiani sotto la linea di povertà è dimezzata passando dal 46 al 23,2% della popolazione9 e oggi l’economia è la tredicesima al mondo come ritmo di crescita10. Siamo comunque lontani dallo sradicamento di povertà e malnutrizione: il traguardo di un Pil che raggiungesse i 3.100 dollari pro capite prospettato qualche anno orsono, si è rivelato irraggiungibile. Secondo il computo della Banca mondiale, nel 2018 ogni laotiano contribuiva per 2.460 dollari alla ricchezza nazionale11. Inoltre, il benessere è estremamente segmentato sulla base di una rigida frammentazione etnica: due terzi di quella fetta di popolazione che sta sotto il livello di povertà appartengono alle minoranze nazionali e, tra queste, Mon-Khmer e Hmong sono le più colpite.
Come spesso accade nei paesi in via di sviluppo in questa parte del mondo, l’industria tessile è la calamita con cui si cercano di attirare investimenti stranieri: un centinaio di aziende, concentrate principalmente a Vientiane e Savannakhet, occupano circa trentamila persone, la maggioranza delle quali ragazze sotto i 25 anni12. Le condizioni di lavoro a cui esse sono sottoposte non raggiungono le devastanti realtà cambogiane e, a differenza di quanto accade nel vicino paese, un recente rapporto dell’International labour office (Ilo) delle Nazioni unite afferma che si sta assistendo a un lento, ma costante miglioramento nel trattamento all’interno dei reparti produttivi13. Insomma, contrariamente al liberismo economico selvaggio scelto dalla Cambogia, qui in Laos la presenza dello stato sembra farsi sentire.
La spinta e i costi delle dighe
Il motore principale con cui il presidente Bounnhang Vorachit vuole trainare l’economia nei prossimi decenni è quello energetico. Il Laos, assieme a Myanmar, Thailandia, Cambogia e Vietnam fa parte del basso bacino del Mekong14, un’area ricca di oro, metano, piombo, zinco, fosfato, potassio, gas, pietre preziose e abitata da sessantacinque milioni di persone, l’80% delle quali vive nelle campagne15.
Il territorio laotiano è una potenziale fonte di enorme ricchezza, soprattutto di energia idroelettrica. I milleottocento chilometri del Mekong che scorrono entro e lungo i confini del paese e le decine di altri affluenti potrebbero liberare milioni di watt di energia, un tesoro immenso che viene sempre più sfruttato in nome di uno sviluppo nazionale.
Secondo uno studio della Mekong River Commission16, nel 2020 lo sviluppo degli impianti idroelettrici sul fiume Mekong porterà alle casse dell’economia laotiana 21,1 miliardi di dollari che saliranno a 36,0 miliardi nel 204017,18. Queste cifre, però, non includono i costi che la nazione dovrà sostenere per fronteggiare i danni all’ambiente e alle microeconomie derivati da questa politica.
Lo sviluppo delle stazioni idroelettriche sta causando la veloce erosione degli argini dovuti sia alle innumerevoli cave, più o meno abusive, che sorgono lungo il corso dei fiumi, sia all’aumento dei sedimenti che, trattenuti dalle dighe, non riescono a scendere a valle. All’altezza di Pakse, nel Laos meridionale, i sedimenti portati a valle dal Mekong sono scesi da una media di 147 tonnellate per anno alle attuali 6619. Per fronteggiare il problema, il paese dovrà intervenire con progetti che, nel solo 2020, costeranno 228 milioni di dollari per salire a 990 milioni nel 204020. Il problema emerge in tutta la sua drammatica evidenza viaggiando lungo le vie idriche ancora percorribili dai battelli e dalle barche pubbliche o private21. I nuovi cantieri, per lo più cinesi, che innalzano dighe e centrali idroelettriche, sollevano le proteste di molti abitanti contro la dissennata politica del governo. La costruzione di sbarramenti idrici influisce pesantemente sulla vita quotidiana dei laotiani, e le tradizionali vie fluviali, solcate ogni giorno da centinaia di imbarcazioni, sono ormai interrotte o costringono ad allungare i tempi di trasferimento per aggirare gli sbarramenti. Decine di migliaia di contadini e pescatori sono stati costretti ad abbandonare i villaggi inondati dai bacini artificiali.
Sono proprio le microeconomie che si sviluppano attorno alle dighe quelle che subiranno i danni maggiori. Il governo ha affermato che il 70,8% dell’energia prodotta in Laos viene esportata22, diretta per il 44% alla Thailandia, il 10% in Cambogia e il 15% in Vietnam23. I proventi di tale operazione non andranno però a beneficiare le comunità interessate e i danni economici e ambientali saranno immensi, specialmente nel lungo periodo.
La maggioranza della popolazione che vive lungo il bacino del Mekong è impiegata nell’agricoltura, in particolare nella coltivazione del riso24. I funzionari governativi, nel tentativo di rassicurare la popolazione che imbrigliare le acque dei fiumi consentirà di regolare piene e siccità stagionali così da avere più sicurezza nei raccolti e aumentare la produzione, si sono «dimenticati» di aggiungere che, a lungo andare, il suolo rischierà di inaridirsi a causa della mancanza di ricambio naturale dei sedimenti. Tra il 2007 e il 2020 il gettito dell’agricoltura sull’economia laotiana è aumentato del 7,5% (45,7 miliardi Usd nel 2020 contro i 42,5 nel 2007), molto meno rispetto a quello cambogiano e vietnamita nello stesso periodo (rispettivamente +105% e +21,2%)25.
Anche l’industria ittica, la seconda fonte di approvvigionamento alimentare ed economico delle popolazioni rivierasche, è in pericolo a causa delle chiuse. Il gettito economico di questa attività si è dimezzato rispetto al 2007, scendendo da 8,3 miliardi di dollari ai 4,7 attuali26. Le ditte costruttrici delle dighe non hanno approntato sistemi che consentano alla fauna di passare da un tratto all’altro dei fiumi interessati dagli sbarramenti, isolandone i diversi corsi e aumentando così il rischio di estinzione. L’intera popolazione degli ottantacinque delfini dell’Irrawaddy (Orcaella brevirostris) nell’arcipelago fluviale di Si Phan Don è minacciata dalla costruzione della diga di Don Sahong27, a un chilometro e mezzo dal confine cambogiano. Entro il 2040 la quantità di pesce nel Mekong diminuirà del 50% in Laos e questo, oltre a essere un problema economico per molte famiglie, aggraverà la malnutrizione visto che il pesce è il principale alimento che garantisce un’apporto proteico alle popolazioni insediatesi lungo i fiumi laotiani.
Infine, vi è anche un problema di sicurezza, di cui numerose agenzie internazionali da tempo hanno avvertito il governo centrale, senza successo. Il disastro di Xe Pian-Xe Namnoy, nella provincia di Champasak è stato solo il più grave (e neppure l’ultimo) di una serie di incidenti succedutisi negli anni. Il 23 luglio 2018 una delle otto dighe del complesso, formato da tre dighe principali e altre cinque ausiliarie che avrebbero plasmato un bacino artificiale alto 73 metri e lungo 1.600 metri, è crollata riversando migliaia di metri cubi di acqua su diciannove villaggi, uccidendo settantuno persone e colpendo anche quindicimila cambogiani della provincia di Stung Treng. Cinquemila persone vivono ancora in campi temporanei e il governo di Vientiane ha già avvisato che occorreranno almeno quattro o cinque anni prima che si possa trovare loro una sistemazione definitiva. Nel frattempo, alle famiglie delle settantuno vittime è stato dato un indennizzo una tantum di diecimila dollari e una fornitura di venti chilogrammi di riso al mese; a tutti gli altri, oltre alle derrate alimentari, vengono consegnati 60-75 dollari mensili28.
Le responsabilità dell’accaduto vengono rimpallate da una parte all’altra. L’impianto di Xe Pian-Xe Namnoy, data la sua complessità e l’elevato costo (1,02 miliardi di dollari), è stato costruito da una cordata di imprese: le sudcoreane SK Engineering & Construction (azionaria al 26%), la Korea Western Power (azionaria al 25%), la thailandese Ratchaburi Electricity Generating Holding (azionaria al 25%) e la laotiana Lao State Holding Enterprise (azionaria al 24%).
La commissione indipendente incaricata dal governo di far luce sul motivo dell’incidente ha concluso che il crollo è stato dovuto a un difetto di costruzione29, ma le aziende coinvolte ed appoggiate dalle quattro banche thailandesi finanziatrici del progetto30, hanno rigettato l’argomentazione finale riuscendo a riprendere i lavori e a concluderli alla fine del 2019.
Di fronte a tali situazioni l’atteggiamento del governo è decisamente ambiguo: al World Economic Forum of Asean, tenutosi nel settembre 2018, il primo ministro laotiano Thongloun Sisoulith, dopo aver affermato che il «Laos non potrà diventare la batteria dell’Asia perché la nostra capacità di sviluppo energetico è molto limitata rispetto alla richiesta dei paesi Asean nostri vicini», ha subito dopo specificato che la nazione «ha la capacità di aumentare il suo potenziale in termini di risorse idriche. Possiamo produrre una quantità di energia sufficiente per il Laos e che può essere esportata nei paesi limitrofi»31.
In linea con questo schema, la mappa delle centrali idroelettriche già presenti o programmate sui fiumi laotiani è impressionante: nel 2005 c’erano undici dighe con nove stazioni idroelettriche per una capacità installata di 679 megawatt32, nel 2015 la capacità aveva raggiunto i 3.894 MW33. Nel maggio 2019 sessantatré stazioni idroelettriche fornivano 7.213 MW; altre 112 centrali erano in costruzione. A queste entro il 2040 se ne dovrebbero aggiungere 340, con un totale produttivo di 19.494 MW34.
L’alternativa, secondo il governo di Vientiane, è un ritorno al carbone più di quanto stia facendo oggi. Nel 2015 è entrata in funzione la centrale di Hongsa che ha quadruplicato la produzione di energia elettrica da carbone (da 1.055 chilotonnellate nel 2013 a 4.793 nel 2015)35.
Oggi l’energia prodotta dal paese è per il 14,9% derivata dal carbone e per l’85,1% dalle centrali idroelettriche, ma nel 2040 il divario diminuirà in un rapporto di 22 a 8836.
Il nuovo «Triangolo d’oro»
Ridiscendere i fiumi laotiani non è solo un modo per accorgersi dei cambiamenti che andranno ad influire sulla vita di sette milioni di persone, ma anche fare un tuffo nel passato. Sebbene oggi si usino ben altri canali, il Mekong è stato per decenni il punto di transito della droga proveniente dal leggendario «Triangolo d’oro». Oggi questa regione è più un retaggio per turisti, un punto geografico che riunisce in un unico vertice tre paesi: Thailandia, Laos e Myanmar. Il Laos ha creato una zona a economia speciale nella speranza di attirare miliardari cinesi con la costruzione di un casino e di alcuni hotel che si affacciano sul Mekong. Le uniche monete accettate, oltre ai dollari, sono il bath e lo yuan. I campi di oppio sono scomparsi da decenni spostandosi verso l’interno oppure, più semplicemente, sostituiti da fabbriche di metamfetamine, più facili da mimetizzare, preparare e da smerciare. Secondo un rapporto dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime) tra il 2013 e il 2018 la quantità d’oppio prodotta dal Myanmar si è ridotta del 40%, ma al tempo stesso sono aumentati i laboratori di produzione chimica artificiale di stupefacenti37.
Nei soli due mesi di febbraio e marzo 2018 nello stato Shan del Myanmar sono stati scoperti e distrutti sei laboratori di produzione di droghe sintetiche38, mentre nel 2018 in Asia Orientale e nel Sudest asiatico sono state sequestrate 116 tonnellate di metamfetamine, in aumento rispetto alle 82 tonnellate confiscate l’anno precedente39.
Il Laos è diventato terra di transito non solo delle droghe sintetiche dirette per la maggior parte verso la Thailandia, ma anche di prodotti usati per la sintesi di metamfetamine nei laboratori del Myanmar e della Cina e per il loro smercio. Efedrina, pseudoefedrina, 1-fenil-2-propanone (P-2-P) sono i reagenti più comunemente usati dai produttori. Dato che risulta sempre più difficile commerciare queste merci, i boss della droga hanno iniziato a produrle direttamente in Laos partendo da prodotti sino ad oggi non sorvegliati dalle squadre antidroga, come il 2-bromo-1-fenil-1-propanone (2-bromopropiofenone) o cianuro di sodio (NaCN).
Le metamfetamine stanno soppiantando le altre droghe: una pastiglia in Laos viene venduta sul mercato a due dollari. Non proprio conveniente, ma sicuramente meno costosa rispetto all’eroina (24 dollari al grammo). I sequestri di metamfetamine, dopo aver avuto un minimo storico nel 2016 (meno di tre milioni di pastiglie sequestrate), nel 2018 hanno raggiunto il massimo con 21 milioni di pillole intercettate40.
L’oppio e la guerra del Vietnam
Il commercio di droga nell’area del Sudest asiatico è un’attività storicamente utilizzata nel bilancio economico delle popolazioni locali. Fino agli anni Sessanta la coltivazione dell’oppio era limitata al solo consumo interno, ma l’avvento al potere di Mao Zedong nel 1949 rivoluzionò involontariamente per sempre questo equilibrio. I ribelli del Kuomintang si rifugiarono in Birmania (oggi Myanmar) e, per finanziare la loro rivolta contro i comunisti, iniziarono a coltivare oppio aiutati dalla Cia. Il commercio si rivelò così redditizio che i servizi segreti statunitensi continuarono a incentivare la coltivazione sia nel Triangolo d’oro, ma soprattutto tra le popolazioni Hmong del Laos41.
Ben presto queste minoranze e la loro abilità nel lavorare il papavero da cui si ricavava l’oppio divennero una colonna portante nella guerra contro il Vietnam. Tra il 1964 e il 1973 l’Us Air Force condusse una serie di incursioni aeree, tenute segrete al Congresso, in appoggio al governo monarchico e in opposizione al Pathet Lao, il movimento di guerriglia di ispirazione socialista. In meno di dieci anni, un paese formalmente neutrale come il Laos fu squassato da 270 milioni di bombe lanciate durante l’arco di 580mila missioni42. Queste bombe lasciano ancora oggi un segno nella società laotiana, ma pochi se ne accorgono. Sembra quasi che il Laos non sia stato scalfito dalla storia che ha plasmato l’ex Indocina. Una storia drammatica, ma al tempo stesso affascinante perché fatta non solo di eccidi, guerre, colonialismo, ma anche di popoli che hanno saputo tenere testa a potenze mondiali politicamente e militarmente soverchianti. Chi va in Cambogia sarà avvolto dai ricordi e dalle testimonianze del periodo di Kampuchea Democratica; chi cammina in Vietnam troverà ovunque memorie della guerra che, fino al 1975, ha sconvolto il paese. Chi arriva in Laos, invece, non ha la sensazione di respirare il passato più recente, nonostante il paese sia stato pesantemente coinvolto nella guerra del Sudest asiatico sin dal 1964. Sembra che la storia, qui sia stata dimenticata.
I turisti passeggiano allegramente lungo le vie delle cittadine e dei villaggi, quasi non accorgendosi delle innumerevoli bandiere con la falce e martello che ricordano di essere, pur sempre, in un paese retto da un governo socialista.
Per percepire la storia del Laos bisogna abbandonare le tradizionali vie del turismo, deviando dalle rotte principali, e cercare nelle periferie delle città o nei villaggi più isolati. È allora che si incrociano le vicende più atroci, quelle fatte di bombardamenti segreti, di mine ancora inesplose che continuano a mietere vittime, di fabbriche di protesi, di sminatori che per 240 dollari al mese rischiano ogni giorno la loro vita.
Consiglio sempre a chi si reca in Laos, di visitare la Piana delle Giare prendendo, in partenza o in arrivo, un volo aereo. È dall’alto che si ha la chiara visione di cosa abbia significato, per questa nazione essere stata costantemente martellata da bombardamenti. La provincia di Xiangkhoang è una delle aree più colpite dalle incursioni e i crateri sono ancora ben visibili nella conformazione del territorio nonostante siano passati ormai quasi cinquant’anni dalla fine delle ostilità.
I pericolosi «ricordini» della guerra
Se il Vietnam ha ereditato il dramma dell’agente arancio e la Cambogia quello delle mine, il Laos sta ancora lottando contro gli ordigni che, raggiungendo inesplosi il terreno, oggi costituiscono un pericolo per la vita di migliaia di persone. Si stima che il 30% delle bombe lanciate durante le missioni aeree non abbia detonato; il che significa che il terreno, alla fine della guerra, era cosparso da almeno 80 milioni di ordigni pronti ad esplodere.
La situazione oggi non è molto più rosea: il governo laotiano ha valutato che 8.470 chilometri quadrati di superficie del paese sarebbero contaminati da bombe a grappolo (Cluster munition remnamnts, Cmr) e 87.000 da Uxo (Unexploded ordnance)43,44, ma solo nel 2021, al termine di un lavoro di ricerca che sta effettuando il Mag (Mines advisory group), si saprà nel dettaglio quanta superficie di territorio laotiano sia ancora contaminata. A oggi, meno dell’1% delle munizioni sono state distrutte. Gli ordigni causano danni non solo all’economia del paese, ma dissestano anche la pace e la convivenza sociale. Ampie aree agricole non possono essere coltivate a causa della probabile presenza di Uxo, quindi i contadini si trovano a dover dividere terreni con conseguenti discussioni e diatribe. Inoltre, vivere con la costante paura di incappare in una bomba inesplosa innalza la tensione sociale.
La bonifica del territorio è costosa e richiede sforzi immani sia da parte del governo laotiano che da parte della popolazione. Gli Stati Uniti, principali responsabili di questa devastazione, dal 1995 al 2016 hanno donato un totale di 169 milioni di dollari per programmi di bonifica e attività correlate45 a cui si sono aggiunti 90 milioni di dollari promessi da Obama durante la sua visita effettuata nel 201646. L’allora presidente Usa era stato particolarmente colpito dalla situazione laotiana affermando che «in nove anni, tra il 1964 e il 1973, gli Stati Uniti hanno lanciato più di due milioni di tonnellate di bombe sul Laos, più di quanto ne abbiamo lanciate su Germania e Giappone assieme nella Seconda guerra mondiale. Questo ha reso il Laos il paese più bombardato nella storia. Penso quindi che gli Stati Uniti hanno un obbligo morale nell’aiutare il Laos a guarire»47.
Tremila operatori suddivisi in nove organizzazioni internazionali e due battaglioni dell’esercito laotiano lavorano nel campo della bonifica del territorio e nei programmi di prevenzione e cura traumatica della popolazione48.
La minaccia degli Uxo è data dal fatto che ognuno di essi ha un grado di pericolosità differente dovuto non solo al tipo e alla quantità di esplosivo contenuto (ci sono 186 diversi tipologie di Uxo in Laos)49, ma anche al grado di corrosione, alla profondità in cui si trovano nel terreno, alla condizione del dispositivo di innesco. Basta accendere un fuoco affinché un ordigno posto a meno di venticinque centimetri di profondità possa detonare50. È quindi indispensabile, oltre al lavoro di ricerca e disinnesco, programmare un’intensa opera di informazione presso scuole, villaggi, centri di aggregazione sociale. Nel 2012 Vientiane ha avviato Safe path forward 2 (Avanzamento del cammino di sicurezza 2), un programma che terminerà nel 2022 e che ha come obiettivo quello di ridurre le vittime (morti e feriti) da 300 a 75 mediante la bonifica di 200 chilometri quadrati di territorio all’anno51. Grazie a queste campagne e alla bonifica di terreni, gli incidenti e i morti avvenuti nel Laos tra il 2008 e il 2018 a causa degli Uxo è drasticamente diminuito passando da 302 vittime (di cui 99 morti) nel 2008 a 24 (di cui 3 morti) nel 201852.
Tutto questo, però ha un costo enorme: contro una stima di circa 50 milioni di dollari all’anno per bonificare la nazione, assistere e curare le vittime, garantire loro la sopravvivenza, il governo laotiano ne fornisce 15 milioni, contando per il rimanente sugli aiuti internazionali i quali, oltre che dagli Stati Uniti, arrivano da Irlanda, Unione Europea, Nuova Zelanda, Lussemburgo, Canada, Corea del Sud53.
La guerra, nel Sudest asiatico, non è ancora finita.
(3) World Bank Group, Lao People’s Democratic Republic Systematic Country Diagnostic, Priorities for Ending Poverty and Boosting Shared Prosperity – Capitolo 2. The nature of Lao Pdr’s growth and its constraints, pag. 11, 9 marzo 2017.
(4) Radio Free Asia, Families in Oudomxay province first to receive compensation from Lao-China Railway, 14 maggio 2018.
(8) Human Development Report 2019, Inequalities in Human Development in the 21st Century – Lao People’s Democratic Republic, Capitolo 2 – Human Development Index (HDI) § 2.1 Lao People’s Democratic Republic’s HDI value and rank, pag. 3.
(9) World Bank Group, Lao People’s Democratic Republic Systematic Country Diagnostic, Priorities for Ending Poverty and Boosting Shared Prosperity – Capitolo 1, Country context, Box 1: MDG attainment and LDC graduation criteria, pag. 2, 9 marzo 2017.
(10) ibidem, Executive summary, pag. I, 9 marzo 2017.
(13) International Labour Office (ILO), Improving the garment sector in Lao PDR: Compliance through inspection and dialogue – Independent final evaluation, giugno 2017.
(14) Il corso del Mekong è stato diviso in due bacini: l’Alto e il Basso bacino che complessivamente occupano una regione di 795mila chilometri quadrati. L’Alto bacino è l’area del fiume che scorre solo in territorio cinese per 1.995 km in tre diverse regioni: Tibet, i Tre Fiumi e il Bacino di Lancang e occupa il 25% dell’intero bacino.
(15) Jorge Soutullo, The Mekong River: geopolitics over development, hydropower and the environment, Capitolo 4 – Geographical relevance and natural resources of the Mekong River, European Parliament – Policy Department for External Relations, Novembre 2019, pag. 18.
(16) La Mekong River Commission (Commissione sul fiume Mekong) è un organismo transnazionale che comprende i governi di Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam per coordinare e promuovere uno sviluppo sostenibile del Mekong.
(17) Mekong River Commission, The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 21.
(18) Secondo la stessa ricerca, in Thailandia lo sviluppo sarà di 28,7 nel 2020 e di 81,1 nel 2040; in Cambogia di 6,6 miliardi USD nel 2020 e di 12,0 nel 2040; in Vietnam di 16,0 miliardi USD nel 2020 e di 31,7 nel 2040.
(19) Mekong River Commission, Integrated Water Resources Management-based – Basin Development Strategy 2016-2020 for the Lower Mekong Basin, Capitolo 2 – Development trends and long-termoutlook, §2.3 – Economic, social and environmental trends and outlook, pag. 30.
(20) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7 – Main scenario impact assessment results, § Cross-sector comparison, 26 dicembre 2017, pag. 25.
(21) A causa delle dighe numerose tratte fluviali oggi non sono più coperte dai barconi.
(22) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Statistics 2018, ERIA Research Project Report 2018, Maggio 2018, Capitolo 2 – Energy Balance Table § Electricity, n. 19, Febbraio 2020, pag. 31.
(23) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 21.
(24) Il 15% del riso prodotto nel mondo proviene dal bacino del basso Mekong.
(25) The Council Study, The Study on the Sustainable Management and Development of the Mekong River Basin, including Impacts of Mainstream Hydropower Projects, Capitolo 7-Main scenario impact assessment results, § Assessment tier 1: Sector-specific assessment, 26 dicembre 2017, pag. 23.
(26) Ibidem, pag. 22.
(27) La diga di Don Sahong è costruita dalla malese MegaFirst in joint venture con il governo laotiano.
(28) Pratch Rujivanarom, Special Report: Compensation talks begin for dam disaster victims, The Nation, 18 February 2019.
(29) Vientiane Times, Investigators: Dam collapse not a «force majeure» event, 29 May 2019.
(30) Le banche, tutte thailandesi, sono la Krung Thai Bank, l’Ayudhya Bank, la Thanachart Bank e la Export-Import Bank of Thailand.
(32) Lao News Agency, Laos Expects to Have100 Hydropower Plants by 2020, 6 Luglio 2017.
(33) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Outlook 2020, ERIA Research Project Report 2018 – Capitolo 1 – Introduction §1.2 Energy Supply – Demand Situation No 19, Febbraio 2020, pag. 3.
(34) Songxay Sengdara, Govt. hydro developers pave way for safe dam management, Vientiane Times, 19 June 2019.
(35) Lao Department of Energy Policy and Planning Ministry of Energy and Mines, Lao PDR Energy Statistics 2018, ERIA Research Project Report 2018, Capitolo 1 – Primary Energy Data § Coal, Maggio 2018, pag. 2.
(36) ibidem, Capitolo 5 – Model Assumptions §5.3 Electricity Generation Technologies, No 19, Febbraio 2020, pag. 54.
(37) United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc), Synthetic Drugs in East and South-East Asia – Trends and Patterns od Amphetamine-type Stimulants and New Psychoactive Substances, § Regional trends: East and South-East Asia, Marzo 2019, pag. 3.
(38) Central Committee for Drug Abuse Control (Myanmar) – CCDAC, Synthetic drug situation in Myanmar, rapporto al Global SMART Programme Regional Workshop, Chiang Rai, Thailandia, Agosto 2018.
(39) Ibidem, Synthetic Drugs in East and South-East Asia – Trends and Patterns od Amphetamine-type Stimulants and New Psychoactive Substances, § Regional trends: East and South-East Asia, Marzo 2019, pag. 1.
(40) Lao National Commission for Drugs Control and Supervision (Lcdc), Report of illicit drug seizures for 2018 and corresponding reports from previous years.
(41) «Triangolo d’oro» è il nome in codice dato dalla Cia alla regione a cavallo tra Thailandia, Birmania (oggi Myanmar) e Laos dove era concentrata la coltivazione e la produzione di oppio.
(42) Legacies of War, Unexploded Ordnance (UXO) in Laos: Background and Recommendation, pag. 1.
(43) Phoukhieo Chanthasomboune, Direttore del National Regulatory Authority, CCM intersessional meetings (Clearance and Risk Reduction session), Ginevra, 7 aprile 2014.
(44) Le bombe a grappolo, o CMR, erano lanciate per la loro capacità di penetrare tra il fogliame della giungla ed esplodere lanciando detriti in una vasta area colpendo il maggior numero possibile di nemici.
(45) U.S. Department of State, To Walk the Earth in Safety, 17th Edition, 18 dicembre 2018.
(46) I finanziamenti Usa sono principalmente diretti alle seguenti organizzazioni: Mines Advisory Group, HALO Trust, Norwegian People’s Aid, World Education, Health Leadership International, Spirit of Soccer, Geneva International Center for Humanitarian Demining, Janus Global Operations.
(47) Casa Bianca, Remarks by President Obama to the People of Laos, 6 settembre 2016.
(48) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 7.
(49) Landmine Action, Explosive remnants of war and mines other than anti-personnel mines, Global Survey 2003-2004, Marzo 2005, pag. 104.
(50) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 5.
(51) National Regulatory Authority, Safe Path Forward – II, 22 giugno 2012.
(52) National Regulatory Authority for UXO/Mine Action in Lao PDR, Unexploded Ordnance Sector Annual Report 2018, 2018, Sector Achievements: The Numbers, pag. 5.
(53) Ibidem, pag. 14.
Ha firmato questo dossier:
PIERGIORGIO PESCALI
Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.
A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.
Giamaica: «Non abbiamo altra scelta»
testo e foto di Luca Salvatore Pistone
È un piccolo paese caraibico, con un posto particolare nell’immaginario collettivo. Ma cosa succede nella sua capitale e come vive la gente? L’autore esplora i suoi quartieri più complicati e ascolta le storie di chi ci vive. Dandoci qualche elemento di comprensione, oltre gli stereotipi.
«Baby, bum bum?». Questa è l’unica frase che Roger pronuncia in presenza di ragazze. Da queste parti la galanteria non è certo di moda, ma in oltre il 50% dei suoi approcci, Roger ottiene il risultato sperato. Mentre salva sul cellulare il numero della fanciulla di turno, mi fa segno di guardarle il fondoschiena ed esclama a voce alta: «Oh my God!».
Roger, 36 anni, è muscoloso e porta dread curatissimi (tipiche trecce rasta, ndr). Ha un numero imprecisato di figli sparsi tra la Giamaica e gli Stati Uniti. Ci siamo conosciuti una decina di giorni fa in un bar e da allora non ci siamo quasi più separati. Sono ammaliato dai suoi racconti. In alcuni casi occorre fare una cernita di quanto sia vero e quanto gonfiato, ma tutto sommato sento di potermi fidare di lui. La casa che ho preso in affitto si trova a pochi metri da quella di Roger, così ogni mattina sono io a dargli la sveglia. Ci divide Mountain View, un interminabile vialone che unisce Old Hope Road e Windward Road, due delle principali arterie dell’area sudorientale di Kingston. Mountain View, che dà il nome all’intero quartiere, è uno dei ghetti più malfamati del paese.
Dentro il ghetto
Quando il dongiovanni giamaicano finisce le sue pratiche con la prosperosa signorina, raggiungiamo alcuni ragazzi del ghetto. Ci hanno dato appuntamento in una villetta in costruzione poco distante dalla bettola dove vive Roger. Sono una decina in tutto. Saliamo al secondo piano dal quale si domina tutta Mountain View. «Sei mafioso, vero?», mi chiede uno. «Ya man! (intercalare giamaicano che significa: sì amico!). Tutti gli italiani sono mafiosi», gli fa eco un altro.
Per più di un’ora si parla solo di mafia. Sono affascinati dall’argomento. E, soprattutto, sono convinti che il sottoscritto, in quanto italiano, sia un mafioso. Recitano a memoria interi spezzoni dei tre capitoli de «Il Padrino» e di «Quei bravi ragazzi». Uno fa una breve ricerca su Google e mi mostra sul display dello smartphone le facce di Riina e Provenzano. «Sei in Giamaica per fare affari? Noi siamo disponibili ad aiutarti». Più cerco di convincerli della mia estraneità alla malavita siciliana, più quelli immaginano di avere davanti a loro un pezzo da novanta del crimine organizzato.
A soccorrermi è Roger. «Dai ragazzi, diamo all’italiano un assaggio di cosa i soldati di Mountain View 99 sono in grado di fare!». Il più giovane estrae, da dietro un’impalcatura, una sacca nera. È lo stesso Roger ad aprirla e a distribuire agli amici il contenuto: un paio di pistole Beretta, tre kalashnikov e vecchi fucili d’assalto.
Metto mano alla macchina fotografica. Indossano chi un passamontagna, chi il cappuccio della felpa e chi una maglietta messa a mo’ di turbante. Si atteggiano in classiche pose da gangster e poi si siedono in cerchio su dei mattoni all’ombra di un muretto. A turno tutti prendono la parola.
«Noi della 99 dobbiamo difendere la nostra gente dai nostri nemici: la polizia e le altre gang».
«Siamo sicari. Il General (il capo mafioso) ci dice chi dobbiamo accoppare e noi lo facciamo».
«Per 200 o 300 dollari americani facciamo un lavoro rapido e pulito».
«Quando c’è da combattere con le bande rivali chiudiamo con delle transenne gli accessi a Mountain View e avvisiamo i civili di starsene tranquilli in casa».
«Cocaina e prostituzione sono in mano nostra. Alle elezioni possiamo pure muovere voti».
«Siamo costantemente in guerra. Non ci piace questa vita ma non abbiamo altra scelta».
Un mondo di gang
La 99, la 121, la 136… Quasi ogni traversa di Mountain View ha la propria gang. È un continuo gioco di alleanze, tradimenti e regolamenti di conti. A fronte di una popolazione che sfiora i tre milioni di persone, la Giamaica presenta uno dei tassi di omicidio più alti al mondo. Condizioni di forte povertà spingono larghe fette di popolazione a entrare nelle fila dei gruppi criminali. Non molti anni fa, il parlamento votò addirittura per il mantenimento della pena di morte (tramite impiccagione) – non applicata da decenni – come deterrente per arginare le violenze. E intanto, indisturbata, la Jamaican Posse, la mafia locale, detta legge nei ghetti.
Ci congediamo dagli amici sicari tra un «bless» (in Giamaica quando per salutarsi ci si benedice a vicenda) e un «respect», con la promessa, quando farò ritorno in Italia, di mettere una buona parola per loro con Cosa Nostra. Roger mi prega di seguirlo in una baracca a un paio di isolati. Resto sull’uscio. Lo sento salutare gli abitanti della casa in patwah, la lingua creola-inglese che si parla in Giamaica. E, come sempre, parte un fiume di «Ya man!».
Dopo pochi minuti, esce con uno zainetto in spalla stracolmo di marijuana. In Giamaica l’uso della cannabis è legale dal 2015 ed è possibile detenerne fino a un’oncia, cioè 28,35 grammi. Il prezzo al grammo varia in base alla qualità. Si va dai 20 centesimi di euro ai 20 euro. Per coltivarla è necessaria una licenza statale dal costo annuo pari a quasi 900 euro, cifra che in pochissimi si possono permettere. Così, gran parte delle coltivazioni sono illegali. Roger cerca di arrotondare vendendo marijuana ai turisti e non mi resta altro da fare che accompagnarlo nella sua caccia ai clienti. «I migliori sono i tedeschi», sentenzia. Torniamo a casa dopo diverse ore.
Festa di… funerale
Di sottofondo, come a ogni ora del giorno e della notte, si sentono degli spari. Mentre mi chiedo dalla mano di chi provengano, suona il campanello. È Roger. «Rapido! Ti porto a un nine night qui vicino». Senza neanche sapere di cosa stia parlando, salto sull’attenti. Finora le sue proposte non sono mai state deludenti.
In pochi minuti arriviamo nel cortile di una coloratissima villetta. C’è un baccano infernale e a fatica riusciamo a comunicare. Urla, schiamazzi, ubriachi, grigliate con bistecche di maiale e cosce di pollo, tavolini pieghevoli su cui si gioca a domino. È stato allestito anche un sound system, un impianto formato da più casse, che emette a tutto volume. Partono le danze. Siamo a un nine night, una veglia funebre. In Giamaica, come in molti altri paesi dei Caraibi, il morto viene celebrato con una festa sfrenata che parte la sera e termina alle prime luci dell’alba. Può durare anche più giorni, fino a nove, a seconda della disponibilità economica della famiglia del defunto.
«Si chiamava Paul – dice Roger – e non aveva neanche trent’anni. Io non lo conoscevo bene ma era di Mountain View. Era un soldato come me e i miei amici. L’hanno trovato morto stecchito con una pallottola alla tempia in riva al mare. L’hanno giustiziato, capito? Chissà in che giro era finito. So che il suo General ha sguinzagliato i suoi per capire cosa sia accaduto». Roger indica cautamente il General di Paul, un energumeno sulla cinquantina. Circondato da sei uomini con armi a vista, sta abbracciando la madre del morto. «Non fissarlo, qui basta uno sguardo di troppo per finire nei guai».
La nottata prosegue tra fiumi di birra calda, rum di pessima qualità, spinelli e cocaina.
Tra qualche ora si terrà il funerale di Paul. Il General fa cenno al dj di fermare la musica per pronunciare un brevissimo discorso: «Noi tutti abbiamo perso un fratello. Era poco più di un ragazzo, una persona per bene che amava la sua famiglia. Mountain View non lo dimenticherà. Paul avrà la sua vendetta». Il nine night finisce con una promessa di sangue e spari di accompagnamento.
Gli squatter di Harbour View
Il pomeriggio successivo vengo svegliato da un ragazzino. È stato Roger a mandarlo con un messaggio: «Fatti trovare pronto. Tra poco andiamo dai miei amici di Harbour View». Giungiamo a destinazione solo al tramonto. Fino a non molti anni fa Harbour View era un bel quartiere residenziale all’estremità sudorientale di Kingston. Ville a schiera sul mare abitate dalla borghesia della capitale. Poi, nel 2012, l’uragano Sandy ne rase al suolo un gran numero e danneggiò gravemente le poche rimaste in piedi. Poco dopo il passaggio di Sandy, gli abitanti delle colline circostanti, le cui baracche erano andate distrutte, scesero verso il mare e occuparono le rovine dei ricchi. Da allora non ci fu modo di mandarli via.
«Ya man! Guardate un po’ chi c’è?». Roger viene accolto quasi fosse una celebrità. Intorno a noi si crea un capannello di curiosi. Impennando, ci viene incontro una motocicletta di bassa cilindrata. I lunghi dread del provetto pilota svolazzano indisturbati. Inchioda. «Bless! Respect! Quello che vedo è mio fratello Roger?».
È Ziggy (in lingua patwah significa spinello, come Bob Marley soprannominò il suo primogenito David), uno dei capi del ghetto di Harbour View. È sulla trentina, supera non di molto il metro e mezzo, è magro come un chiodo e ha tatuaggi ovunque, anche in viso. Comincia a esibirsi in una serie di impennate su entrambe le ruote e derapate di tutto rispetto considerando il catorcio cinese che guida.
Parcheggiata la moto, Ziggy ci fa da cicerone per il quartiere. Per prima cosa vuole farci conoscere la sua compagna e la figlioletta di tre anni. Ci fa visitare la sua casa, una grande e malconcia villa a un piano. I muri sono pieni di crepe. Le stanze sono tutte spoglie e senza infissi. In una di esse ci sono una sedia, una brandina con un materasso lurido e una valigetta aperta con dentro una macchinetta da tatuatore, aghi, colori e altri attrezzi del mestiere. «Questo – illustra Ziggy – è il mio studio. Nel ghetto chi si vuole tatuare viene da me. È così che mantengo la mia famiglia. E con altri piccoli business… Vuoi della cocaina?».
Harbour View viene chiamato scherzosamente «Gaza» dai suoi abitanti. L’uragano qui e Israele nel territorio palestinese, producono il medesimo risultato: macerie. Di sera, per godere della brezza marina, Ziggy e gli altri ragazzi vanno in spiaggia e prendono posto sulle rovine di una palazzina a due piani. Tra uno spinello e un altro, si godono il panorama delle luci di Kingston. È lì che ci portano.
«Polizia, funzionari del comune, altre bande: tutti hanno provato a cacciarci via da qui», racconta un tizio con in faccia una bella collezione di cicatrici. Accarezza la canna di una pistola a tamburo. «E noi con questa li abbiamo sempre respinti. Harbour View è casa nostra. Ci abbiamo portato le nostre famiglie, abbiamo fatto dei lavori. Vogliono che ce ne andiamo? Ci devono pagare profumatamente!». Raccoglie l’approvazione dei suoi compagni.
Sono tutti armati di pistole che nascondono sotto la maglietta. Gli adolescenti li vedono come esempi da seguire e pendono dalle loro labbra. «Vedi quello in pantaloncini? – indica con la canna Ziggy -. È mio cugino. Ha tredici anni ma ha le palle per essere uno dei nostri. E vedete quel muro crivellato di colpi? È contro quel muro che lo faccio esercitare a sparare».
A Ziggy e compagnia è venuta sete. Propongono di spostarci al bar del ghetto, una casupola di legno con un piccolo cortile antistante dove delle ragazzine stanno giocando a dadi su delle casse capovolte. Ordinano tutti delle bottigliette di Magnum, la bevanda che va per la maggiore. Sull’etichetta c’è scritto Tonic Wine, un modo elegante per dire Red Bull con alcol al 16.5%. «Due di queste e fai bum bum tutta la notte», grida Roger guadagnandosi una serie di pacche sulla spalla.
Ziggy prende sottobraccio due delle ragazzine impegnate nella partita a dadi. Avranno meno di sedici anni. I tre si voltano verso di noi per qualche istante e tornano a confabulare. Poco dopo il gracile boss di Harbour View ci viene incontro. «Sono le mie cuginette. Belle, vero?». Annuiamo. Sono davvero belle. «Loro sono un altro dei miei business. Vuoi farti un giro con loro? Potresti andare a casa mia. Sono pulite, non hanno l’Aids. Che faccio, organizzo? Sono venti dollari americani, è un regalo».
Per il quarto d’ora successivo prova a convincermi in tutti i modi. Guarda le sue protette scuotendo la testa. Le due non sembrano troppo dispiaciute. Fa un ultimo tentativo disperato. «Troppo giovani? Volendo c’è mia sorella, ha quasi ventotto anni».
Luca Salvatore Pistone
Lo spaccio passa per le autostrade d’Africa
Testo di Enrico Casale
All’inizio degli anni 2000 si apre la rotta della cocaina dal Sud America all’Africa dell’Ovest per l’Europa. Da Oriente, invece, arrivano gli oppiacei e le metanfetamine. Il traffico è gestito da organizzazioni dei 4 continenti molto interconnesse. Ma l’Africa da zona di transito è diventata terra di produzione e consumo. E mancano i fondi per i trattamenti e la riabilitazione.
Crocevia di traffici, ma anche mercato di consumo. Il rapporto dell’Africa con la droga si fa sempre più forte e per le grandi organizzazioni internazionali di trafficanti, il continente sta diventando una terra ricca nella quale gestire e potenziare un business miliardario.
Il quadro complessivo non è dei più rassicuranti. «La produzione e il traffico illeciti di cannabis – spiegano i responsabili di Unodc (United Nations office on drugs and crime, l’agenzia Onu che si occupa del rapporto tra stupefacenti e crimine) – è la sfida più grande che le forze dell’ordine e le organizzazioni internazionali si trovano ad affrontare in Africa in questi anni. La foglia di cannabis è prodotta in tutto il continente mentre la produzione di resina è limitata ad alcune zone del Nord Africa (in particolare Marocco, Algeria ed Egitto, vedi box). Sebbene la cannabis rimanga la droga più prodotta e consumata nel continente, l’abuso di cocaina, oppioidi, anfetamine e nuove sostanze psicoattive si sta diffondendo rapidamente. E anche l’eroina sta prendendo piede». Tendenzialmente, l’eroina arriva per terra e per mare dall’Asia centrale (Afghanistan, Pakistan e Iran) o dal Sud Est asiatico (Birmania, Cambogia, Laos, Vietnam, Thailandia). La marijuana arriva dall’Asia centrale, ma esistono anche una produzione europea (Balcani, in particolare Albania, Macedonia, Kosovo), una nordafricana (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto sul percorso del Nilo) e una nell’Africa orientale (Eritrea, Etiopia, Somalia, Tanzania). La rotta della marijuana è più mediterranea e si mescola ai traffici di esseri umani e di armi. La cocaina invece è una produzione tipicamente latinoamericana.
Cocaina sudamericana
Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, le rotte dell’Oceano Atlantico settentrionale non sono state più sicure per i trafficanti. Troppi i controlli di polizia sui velivoli e sulle navi mercantili.
I narcotrafficanti sudamericani hanno così iniziato a guardare con sempre maggiore interesse alle rotte dell’Atlantico meridionale. Nei primi anni Duemila, l’Africa e, in particolare l’Africa occidentale, era ancora un terreno vergine per il traffico di cocaina. Esistevano però rotte collaudate per il traffico di sigarette ed esseri umani. Piste che dalla costa occidentale risalivano il Sahel, attraversavano il Sahara per giungere fino alla costa mediterranea e, da lì, all’Europa meridionale (Italia e Spagna). I narcotrafficanti sudamericani hanno così iniziato a sfruttare le lunghe coste africane per sbarcare i loro carichi di polvere bianca. Facilitati da istituzioni statali fragili e da funzionari facilmente corrompibili hanno creato le loro basi in alcuni paesi.
Il caso più eclatante è quello della Guinea-Bissau. Nell’aprile 2008, la polizia locale ha sequestrato 635 chilogrammi di cocaina, in un periodo in cui la Guinea-Bissau aveva solo 60 agenti addetti alla lotta al narcotraffico. Ovviamente il flusso di droga era grandemente superiore e i narcotrafficanti godevano della complicità di alcuni alti gradi delle forze armate. Nel traffico si dice fossero coinvolti anche esponenti dei movimenti jihadisti saheliani (al Qaeda per il Maghreb islamico, Aqmi, in particolare) che, attraverso la droga, cercavano fonti di finanziamento.
Nonostante il rafforzamento delle autorità preposte al controllo del traffico di stupefacenti, secondo Unodc, in Guinea-Bissau «l’intero bilancio del settore sicurezza e giustizia del 2018 è inferiore alla metà del valore medio di una tonnellata di cocaina venduta in Europa». «Nonostante un calo della quantità di cocaina sequestrata negli ultimi anni, il flusso di droghe che attraversa la Guinea-Bissau rimane significativo, con i trafficanti che spostano le rotte e utilizzano metodi meno tracciabili per contrabbandare la polvere bianca – osserva Antero Lopes, direttore del dipartimento legge e sicurezza presso la missione delle Nazioni Unite a Bissau -. La Guinea-Bissau è vittima del narcotraffico a causa della vulnerabilità delle sue istituzioni. Qui, il crimine organizzato corrode anche la stabilità e la democrazia». L’Onu stima che «non meno di 30 tonnellate» di cocaina passino ogni anno attraverso la Guinea-Bissau. I carichi vengono paracadutati nelle isole al largo del paese e da lì trasportati da pescherecci, verso il Nord, mentre il resto viene trasportato sulla costa da pescatori locali e poi portato da militari corrotti al di là dei confini.
La via del Marocco
A partire dal 2015, è proprio il Marocco a essere diventato uno dei principali hub per il commercio di cocaina. Nel 2017, le autorità di Rabat ne hanno sequestrato 2,5 tonnellate in una sola operazione. Sempre nel 2017 sono stati scoperti 116 kg di cocaina nel porto di Tangeri. La droga proveniva dal Brasile ed era destinata in larga parte all’Europa e in misura minore alla stessa Africa.
Ma se Guinea-Bissau e Marocco sono i punti di riferimento più importanti per i trafficanti, non sono gli unici. Grandi sequestri di cocaina sono stati effettuati, per esempio, in Tunisia. Nel 2016 la polizia è riuscita a intercettare quasi una tonnellata di polvere bianca nel porto di Tunisi diretta verso l’Italia. Altri sequestri importanti sono stati eseguiti in Ghana, Madagascar, Mali, Mozambico e Nigeria.
Passaggio ad Est
Sulla costa orientale è Gibuti il principale snodo. Nel 2017 è stata sequestrata mezza tonnellata di cocaina nel porto gibutino, il sequestro più importante dal 2004. «Negli ultimi anni – osserva Giuseppe Dentice, ricercatore dell’Università Cattolica di Milano e dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), autore, tra gli altri, di studi sui traffici illegali -, Gibuti è stata ritenuta il ventre molle del traffico di droga in Africa orientale. Dai docks del suo porto passa la droga proveniente dall’Asia in modo incontrollato. Nelle ultime indagini di polizia e in alcune inchieste giornalistiche si evidenzia il ruolo del porto di Gibuti nel traffico di armi e di droga. Anche Kenya e Tanzania sono, negli anni, diventati punti di approdo della droga e le rotte che partono da lì si uniscono a quelle di Gibuti e vanno verso Nord».
Spesso i trafficanti, secondo quanto riporta Unodc, corrompono gli agenti di polizia o i funzionari pagandoli in parte in contanti e in parte in droga. Questi ultimi, rivendono gli stupefacenti creando e alimentando un mercato che, fino a pochi anni fa, era sostanzialmente inesistente.
Non solo eroina
Se l’Africa occidentale è invasa dalla cocaina, quella orientale è la patria degli oppiacei (eroina in primis). Nei porti di Tanzania, Kenya, Gibuti arrivano carichi sempre maggiori di stupefacenti dall’Asia centrale e, in particolare, da Afghanistan e Pakistan. La droga viene trasportata sulle stesse rotte che seguono i migranti verso l’Europa, ma si diffonde anche in altre nazioni. Nel 2017 sono stati sequestrati carichi fino a 800 kg in Algeria, Egitto, Libia e Marocco, ma anche in Ghana, Madagascar, Mozambico, Sudafrica.
A combattere il traffico sono le varie polizie locali (come quella tanzaniana che ha sequestrato 27 kg di eroina nei primi sei mesi del 2017), ma anche le forze armate occidentali che mantengono una forte presenza nell’Oceano Indiano in funzione antipirateria. Le navi militari spesso intercettano i trafficanti e operano sequestri ingenti. Nel maggio 2017, la Royal Navy della Gran Bretagna ha sequestrato 266 kg di eroina che erano nascosti nel fondo del freezer di un peschereccio.
All’eroina si aggiungono anche altre sostanze. Tra esse, la metanfetamina, un derivato sintetico dell’anfetamina che, rispetto a essa, raggiunge più rapidamente il cervello con un effetto stimolante più intenso e con un maggiore potenziale di dipendenza. Prodotta in Oceania e in Asia, arriva nell’Africa occidentale e in quella centrale. Tra il 2016 e il 2017, la National Drug Law Enforcement Agency nigeriana ha sequestrato ingenti quantitativi di droga, in particolare 40 kg di metanfetamine. Sequestri sono stati compiuti anche da Kenya e Sudafrica rispettivamente 9 e 440 kg.
Oltre alla metanfetamina, vengono trafficate sostanze quali il tramadol, un oppioide sintetico, e il metaqualone, un farmaco con azione sedativa-ipnotica, simile agli effetti di un barbiturico. Sono farmaci e non rientrano nelle tabelle degli stupefacenti veri e propri, ma sono considerati pericolosi se non vengono assunti sotto il controllo medico.
Il tramadol è contrabbandato soprattutto nella regione del Sahel. Nel 2016 ne sono stati sequestrati in Niger 8 milioni di tavolette, in Nigeria 3,1 tonnellate. Negli ultimi anni la Libia è diventato un punto di transito di tramadol verso l’Egitto. Il metaqualone invece arriva dall’Indonesia e sbarca sulle coste mozambicane e sudafricane. Alla fine del 2016, la polizia sudafricana ne ha sequestrate 8 milioni di tonnellate.
Il mercato africano
Negli anni, l’Africa si è trasformata da regione di passaggio in mercato della droga. «Il fenomeno dell’abuso di sostanze stupefacenti nel continente – spiegano gli esperti di Unodc – non è facilmente quantificabile. Le autorità non effettuano un monitoraggio continuo e quindi le statistiche disponibili sono parziali o datate». Secondo le ricerche di Unodc, la sostanza più utilizzata è la cannabis. Le stime dell’agenzia dicono che il 7,5% della popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni ne fa uso (circa il doppio della media mondiale). L’Africa centrale e quella occidentale sono le regioni in cui l’utilizzo è più massiccio attestandosi intorno al 12,4% della popolazione.
Anche l’eroina sta prendendo sempre più piede. Le autorità sanitarie di Costa d’Avorio, Kenya, Mozambico, Nigeria, Tanzania, Sudafrica e Zambia hanno segnalato un incremento dei tossicodipendenti che fanno uso di questa e di altre sostanze derivate dall’oppio.
Sempre secondo Unodc, nel continente quasi due milioni di persone si iniettano o fumano eroina.
Solo un terzo dei paesi in Africa ha però un budget per il trattamento dell’abuso di sostanze. Strutture di trattamento e riabilitazione, nonché trattamenti di base e servizi sanitari correlati alla droga, sono ancora scarsi. La maggior parte del trattamento fornito è la disintossicazione, a volte solo attraverso il supporto psicosociale. In passato veniva fornita assistenza in ospedali psichiatrici sovraffollati e senza farmaci specifici. Anche se in molti paesi qualcosa si sta muovendo. Negli ultimi due anni, Burundi, Capo Verde, Eritrea, Etiopia, Kenya, Liberia, Madagascar, Mauritius, Mozambico, Nigeria, Senegal, Seychelles e Tanzania hanno investito maggiori risorse. In Kenya, per esempio, è stato introdotto un protocollo per far fronte all’abuso. Il governo di Nairobi vuole sradicare un fenomeno che colpisce i giovanissimi (il 50% dei tossicodipendenti ha tra i 10 e i 19 anni) ed è veicolo di trasmissione dell’Aids-Hiv. In Egitto e nelle Seychelles si stanno sperimentando terapie sostitutive degli oppioidi. In Senegal, nel 2017, 178 pazienti sono stati ammessi a una terapia a base di metadone. Anche in Tunisia sono stati aperti centri ad hoc mentre in Kenya, Mauritius e Tanzania hanno varato progetti per fornire aghi e siringhe sterili ai tossicodipendenti per evitare la trasmissione di malattie infettive.
Mafie e jihadisti
Il traffico di stupefacenti è gestito da più attori. «La base – continua Dentice – è formata da piccoli criminali, poveri disperati che fanno da manovalanza della malavita per procurarsi da vivere. Questa manovalanza è gestita da grandi organizzazioni criminali africane, europee e latinoamericane che collaborano nei vari settori. Il traffico di cocaina, per esempio, è gestito dalle organizzazioni sudamericane. L’eroina che proviene dall’Asia invece è in mano alle mafie asiatiche. Quando cocaina ed eroina arrivano in Europa, la protagonista assoluta è la Ndrangheta calabrese che ne gestisce il commercio fino al dettaglio. La Ndrangheta ha fortissimi legami sia con i cartelli latinoamericani sia con quelli asiatici. La Sacra corona unita, invece, gestisce tutto il traffico di marijuana ed eroina sul lato adriatico della nostra penisola. Cosa Nostra ha perso un po’ di peso nel traffico di droga, ma rimane attiva e ha collegamenti con il Nord Africa per la marijuana. La Camorra si inserisce in più mercati soprattutto nel settore della cocaina».
Anche in Africa si stanno rafforzando le organizzazioni criminali, in particolare la mafia nigeriana che oggi è la più forte e la più strutturata. Su questo cartello non si hanno grandi informazioni e sono in corso ancora investigazioni da parte delle polizie internazionali. Operazioni sotto copertura stanno cercando di definirne la struttura. Esistono poi una serie di cartelli minori in Ghana e Burkina Faso.
La zona di confine tra Burkina Faso e Niger è una zona transfrontaliera strutturata in cui operano a stretto contatto organizzazioni terroristiche e criminali.
In alcuni casi, la malavita ha collegamenti con organizzazioni politico-militari. «In Afghanistan – continua Dentice – c’è una vasta produzione di oppio che viene poi trasformato in eroina. Gran parte di questo ciclo produttivo è gestito dai talebani che poi vendono gli stupefacenti alle organizzazioni criminali che ne gestiscono il traffico. Anche in Africa occidentale ci sono complicità con governi deboli e corrotti».
In questo contesto, si inseriscono anche le milizie jihadiste. Le organizzazioni terroristiche entrano nel traffico di stupefacenti in una doppia funzione: come produttori e come gestori del traffico sui territori da esse controllati. Il caso più emblematico è quello di Mokhtar Belmokhtar, jihadista che nasce come trafficante di sigarette e droga (cocaina e marijuana), gestendo il transito dall’Africa occidentale verso l’Africa mediterranea. Quando aderisce al jihadismo militante, non abbandona la sua vecchia professione dalla quale trae importanti risorse per azioni militari terroristiche nell’Africa occidentale. Ciò fa il gioco delle organizzazioni criminali locali che sfruttano (pagando una «tassa») i collegamenti con i movimenti jihadisti per poter percorrere impunemente le vie dei traffici ed essere sicuri di avere, lungo queste rotte, l’assistenza logistica dei fondamentalisti islamici. «Qualcuno – conclude Dentice – potrebbe chiedersi: ma ciò non entra in contrasto con la fede islamica? Teoricamente sì, ma il jihadismo ha bisogno di fondi e il traffico di droga è un’ottima fonte di entrate».
Enrico Casale
Marocco: il paradiso dei fumatori
Coltivazioni «stupefacenti»
Il Marocco produce un terzo della marijuna e dell’hashish mondiale. La coltivazione è illegale, ma tollerata. E fa vivere oltre 90mila famiglie. Si è sviluppato anche un turismo legato all’«erba» da fumare.
Per il Marocco la droga è un business, illegale ma tollerato. Dalle montagne del Rif, la regione nordorientale al confine con l’Algeria, arriva circa un terzo della produzione mondiale di marijuana e hashish. Gli stupefacenti vengono poi smerciati in Europa e nel Nord America. Ma la coltivazione di cannabis alimenta anche un movimento turistico di europei e nordamericani che visitano il paese proprio perché sanno che possono trovare «erba» buona da fumare.
La produzione affonda le radici nella storia. Da secoli, le popolazioni berbere che vivono nella regione producono il kif, una droga leggera a base di hashish, pezzi di foglie e fiori di cannabis. Una coltivazione incoraggiata dai colonizzatori spagnoli, che così cercavano di mantenere la pace in una regione piuttosto turbolenta e poco incline a farsi sottomettere. Il boom esplode negli anni Settanta. In Europa, si diffonde l’uso della cannabis e nel Rif le piantagioni si estendono per ettari. Non solo, ma proprio quelle montagne diventano una delle mete privilegiate degli hippie di tutto il mondo.
Oggi, il Rif continua a essere il centro dell’industria della droga leggera marocchina. Sebbene la legge nazionale ne vieti la vendita e il consumo, fioriscono vaste piantagioni che garantiscono un reddito a più di 90mila famiglie. A ciò si associa il fenomeno del «turismo dello spinello». «Le persone sono attratte dalle montagne, dalle escursioni, dal clima – ha spiegato all’Agenzia France Presse un ristoratore -. I primi furono gli hippie che negli anni Sessanta venivano qui per cercare una vita diversa. In seguito, le autorità hanno stretto le maglie e lentamente il flusso di turisti è svanito».
Recentemente, però, i turisti sono tornati in massa. La marijuana e l’hashish sono diventati un’attrazione. Sono frequenti i festival a base di ganja (come è anche chiamato «il fumo»). Sono illegali, ma nella regione nessun agente si prende la briga di vietare le manifestazioni e di sequestrare «la roba».
«Qui – ha spiegato un coltivatore -, il clima è molto speciale e non cresce nulla eccetto il kif. Per questo è diventato per noi una fonte di reddito». I piccoli commercianti e le guide prive di licenza si rivolgono ai turisti per offrire loro hashish o un tour delle fattorie vicine per incontrare i «kifficulteurs», i produttori locali di cannabis. Le pensioni di Chefchaouen offrono un servizio simile per circa 15 euro, anche se fanno attenzione a non menzionarle nei loro opuscoli. «Qui, fumi dove vuoi – conclude un agricoltore -, eccetto davanti alla stazione di polizia».
En.Cas.
L’Africa Orientale e il khat
La droga dei poveri
La chiamano «la droga dei poveri». Il nome vero è khat (o qat). Coltivato da secoli in Africa orientale (soprattutto in Etiopia e Somalia, ma anche in Yemen), il khat è un arbusto le cui foglie fresche, se masticate, producono un effetto paragonabile a quello dell’anfetamina. Il consumo porta a un aumento della pressione sanguigna, euforia, maggiore attenzione, parlantina, soppressione dell’appetito e del bisogno di dormire.
Fino al 1980 a livello internazionale non era considerato una droga, poi l’Organizzazione mondiale della sanità l’ha inserito nella lista delle sostanze stupefacenti e da allora è equiparato alle più famose eroina, cocaina e marijuana.
Da sempre in Yemen, Somalia e in alcune regioni di Etiopia, Eritrea, Gibuti e Kenya, gli uomini masticano le foglioline a partire dalle prime ore del pomeriggio. Gli uomini yemeniti e a volte anche le donne, ma separatamente e in privato, passano anche quattro ore tutti i pomeriggi senza far molto altro che masticare le foglie. Masticare il khat è un’importante attività di socializzazione, ma al tempo stesso costituisce un grave problema economico e sociale, oltre a comportare danni irreparabili alla salute. C’è chi spende oltre il 30% del proprio reddito per l’acquisto di questa pianta.
Fino a qualche anno fa, la produzione e il consumo sono rimaste limitate all’Africa e alla Penisola araba. Poi, con l’aumento dei flussi migratori, il khat ha iniziato a diffondersi anche in Europa, perché alcuni paesi europei ne tollerano l’uso. In Olanda, per esempio, nei famosi coffee shop lo si consuma senza troppi ostacoli. Ma anche in altri paesi dove pure è vietato, il khat è consumato soprattutto nelle comunità dell’Africa orientale.
Il traffico ha così preso piede. Nel 2017, la polizia spagnola ha sequestrato due carichi di khat provenienti da Kenya ed Etiopia. Anche le forze dell’ordine italiane hanno aumentato i controlli. Negli anni la Guardia di Finanza ha sequestrato, in vari aeroporti, diverse spedizioni di foglioline, con il boom nel 2015: una tonnellata e mezzo requisita e quantità poco inferiori negli anni successivi. Segno che «la droga dei poveri» si sta gradualmente diffondendo anche da noi.
Filippine: La (sporca) guerra alla droga
Il presidente Rodrigo Duterte ha fatto della lotta alla droga la sua bandiera. I metodi che usa, tuttavia, non sono dei più legali. Spacciatori e consumatori possono essere freddati dalla polizia al minimo sospetto. Mentre le carceri del paese sono sovraffollate e i centri di riabilitazione (per tossicodipendenti) pure. Reportage (a caldo) dal paese delle settemila isole.
Testo e foto di Luca Salvatore Pistone
Canottiera bianca, pantaloni neri e mocassini marroni. Orly Fernandez veste sempre alla stessa maniera. Il viso, scarno, è incorniciato da capelli a caschetto neri corvino. Gli rimangono pochi denti, ma, tutto sommato, dimostra meno di sessant’anni, la sua età.
Esce dal suo laboratorio con un foglio tra le mani. «Glielo hanno appiccicato sul petto con del nastro adesivo. C’è scritto: “Sono uno schifoso tossico”. Gli hanno legato mani e polsi e gli hanno sparato alla tempia. Ha il cervello spappolato».
A Malabon, una città di quasi 400mila abitanti a pochi chilometri a Nord della capitale delle Filippine, Manila (nella Regione capitale nazionale), tutti conoscono Orly. Dal 2001 manda avanti la Eusebio Funeral Services, la più famosa agenzia di pompe funebri della zona.
Siede alla scrivania nello studiolo dove tiene la contabilità, accanto alla sala del commiato. Osserva per qualche secondo un cartello sopra la sua testa con la scritta «L’autopsia è gratis».
«I nostri prezzi sono competitivi. Per le persone uccise per fatti di droga – di solito le più povere – chiediamo 35mila pesos (quasi 600 euro). I nostri concorrenti arrivano a chiedere anche più del doppio».
Guerra alla droga
I governi che negli ultimi anni si sono succeduti nelle Filippine hanno dichiarato guerra allo shaboo, una metanfetamina molto potente. Il suo costo è accessibile: un grammo può valere tra gli 80 e i 100 euro, di solito è acquistato con una colletta. Le diffuse problematiche sociali hanno favorito l’ingresso e la diffusione dello shaboo nel paese. Ma è stato con l’arrivo del presidente Rodrigo Duterte, nel 2016, che si è registrato un netto aumento delle operazioni di polizia contro spacciatori e tossicodipendenti. Un personaggio, Duterte, che ha fatto della guerra alla droga la sua personalissima crociata. «Hitler ha massacrato tre milioni di ebrei (giusto puntualizzare che l’Olocausto fece sei milioni di vittime, nda) […] ci sono tre milioni di drogati. Sarei felice di macellarli. […] Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine avranno me». Queste le sue parole al momento dell’insediamento.
Sia in patria che all’estero Duterte è accusato di essere il mandante di esecuzioni extragiudiziali. Secondo diverse organizzazioni per i diritti umani, dall’inizio del suo mandato i morti ammazzati per questioni relative allo shaboo sono più di 20mila. Per la polizia questi sarebbero meno di un quarto – tutti passati a miglior vita perché avrebbero messo a rischio l’incolumità degli agenti -, mentre il numero degli arresti ammonterebbe a 100mila.
I fatti parlano chiaro: oggi nelle Filippine chi viene sorpreso a spacciare o a consumare shaboo muore. Chi ammazzato da sicari in motocicletta – qui meglio conosciuti come vigilantes -, che non si prendono nemmeno la briga di coprirsi il volto; chi in retate della polizia che viene sospettata di introdurre sulla scena del crimine armi posizionate ad hoc, per sostenere che l’agente di turno ha dovuto fare fuoco per legittima difesa; chi giustiziato con un colpo in testa e fatto ritrovare in una pozza di sangue su un marciapiede.
Così l’avvento di Duterte ha fatto la fortuna delle pompe funebri, tra cui la Eusebio. «Ho molti contatti con la polizia. Quando trovano un morto chiamano me. Anche cinque o sei cadaveri in una notte.
Ci tengo però a dire che non paghiamo nessuno per questi favori». Chi muore per fatti di droga non viene neanche più portato all’obitorio. La scientifica fa i suoi rilievi e il medico legale si limita a constatare il decesso. Lo spacciatore, o il tossicodipendente di turno, va liquidato subito, facendo spendere il meno possibile allo stato, così le forze dell’ordine si rivolgono direttamente alle pompe funebri.
«Nel caso in cui nessuno viene a reclamare il corpo – spiega Orly – lo avvolgiamo in un lenzuolo bianco e lo portiamo al cimitero. Lì viene seppellito insieme ad altri corpi non reclamati o identificati».
Pronto intervento
Sono quasi le undici di sera. Squilla il cellulare di Orly. «Ok», si limita a rispondere. Mette giù e corre ad avvisare i suoi due «giovani»: è così che chiama i suoi assistenti, coetanei Carlos e Joseph. «Andiamo, hanno trovato il corpo di un ragazzo non molto lontano da qui».
A quest’ora non c’è traffico e in pochi minuti raggiungiamo il luogo del misfatto: un vicolo cieco poco illuminato nel baranggay (quartiere) Baritan. La pioggia battente non fa desistere i più curiosi intorno al perimetro delimitato dalla scientifica.
Una signora anziana si dispera. Ha continui mancamenti. È la madre della vittima e Orly si catapulta su di lei mettendole in mano il suo biglietto da visita. Le sussurra qualcosa all’orecchio e sale sul furgoncino.
Herman, questo il nome del ragazzo ammazzato. Ventotto anni. Era uno del baranggay. È stato freddato con un colpo di pistola in un occhio mentre rincasava. Ha il volto e il busto interamente coperti dal sangue. La scientifica non si degna neanche di coprirlo.
«Fumava shaboo tutto il giorno. Sapeva quali rischi correva», dice a bassa voce una sua giovane vicina di casa. «Mi hanno detto che aveva cominciato a spacciare», le fa eco un signore di mezza età.
I poliziotti finiscono i rilievi e fanno cenno ai «giovani» di Orly di prendersi il loro morto. Lo spettacolo è finito e la folla si disperde.
Il «metodo» Duterte
Punta di diamante della crociata di Duterte è la strategia tokhang (dalla contrazione delle parole toktok «bussare» e hangyo «richiesta»), già ampiamente rodata ai tempi in cui era sindaco a Davao. I poliziotti, grazie a una rete di informatori, sono dotati di elenchi dettagliati di utilizzatori e venditori di shaboo. Sulla base di questi invitano gli spacciatori a consegnarsi alle autorità e ad avere in tal modo salva la vita. Un solo avvertimento: chi sgarra ha le ore contate. Il tokhang sembra avere dato i suoi frutti. Secondo gli archivi della polizia nazionale, in poco più di due anni di governo Duterte sarebbero state più di un milione e mezzo le autodenunce che hanno comportato un impressionante sovraffollamento delle carceri e dei centri di riabilitazione.
«La polizia ha almeno una spia in ogni baranggay. Quando questa viene a sapere di un tossico o di uno spacciatore in zona, spiffera tutto ai poliziotti che fanno fare il lavoro sporco ai vigilantes».
Fe Siega Peregrino ha 54 anni, è vedova e vive insieme ai quattro figli nell’umilissimo Distretto 2 a Quezon City, una città di oltre due milioni di abitanti confinante con la capitale Manila, sempre nella Regione capitale nazionale.
Da un anno a questa parte alla famiglia Peregrino si è aggiunta Lady Love, 12 anni, figlia di un cugino di Fe Siega. «I suoi genitori sono stati uccisi davanti ai suoi occhi. Adrian e Vivian sono stati giustiziati con una pistola da uomini mascherati. Non è importato loro di farlo davanti alla bambina. È stata Lady Love a raccontarcelo. La polizia non ha mai aperto un’indagine».
Con una scopa Fe Siega caccia un ratto che si è intrufolato in casa. «Mio cugino Adrian tirava un risciò, un lavoro molto faticoso. Non guadagnava abbastanza per mantenere moglie e figlia. Vivian faceva l’estetista a domicilio e anche i suoi guadagni erano scarsi. Poi, un giorno, hanno provato lo shaboo. Annullava la stanchezza, così potevano lavorare più ore al giorno. Hanno cominciato a spacciarla entrambi per fare più soldi. Le spie sono venute a saperlo e li hanno uccisi. Non so se avessero avuto qualche avvertimento».
In un recente dossier di Amnesty International dal titolo Se sei povero, vieni ucciso1, supportato da inchieste, reportage e testimonianze, viene spiegato come nelle Filippine nascono le liste stilate dagli informatori della polizia. Viene dato risalto a dicerie, rivalità, trascorsi reali o completamente inventati. Un agente riceve delle mazzette per delle esecuzioni: tra i 155 e i 285 euro, talvolta con un’aggiunta da parte delle autorità locali. Succede anche che un ufficiale retribuisca i vigilantes per ammazzare al posto suo.
La via della riabilitazione
Per gli spacciatori grandi, medi e piccoli delle Filippine dell’era Duterte, è possibile scegliere tra morte violenta e carcere: sono le uniche due alternative. Per i tossicodipendenti si aggiunge una terza scelta: la riabilitazione. Essere accettati in un centro di riabilitazione è una vera e propria benedizione: non c’è il rischio di essere ammazzati e dopo un periodo, relativamente breve, di trattamento, si può ricominciare una nuova vita.
Il Centro di riabilitazione per tossicodipendenti Bitucan si trova a Taguig City, altra città alle porte di Manila. Ubicato all’interno di un compound della polizia, è uno dei più grandi del paese e rientra nelle quaranta strutture di recupero riconosciute dal governo.
Il dottor Bien Leabres è il direttore sanitario della struttura: «Nell’agosto del 2016 abbiamo toccato un picco di 1.500 persone. Da allora la media mensile è di mille pazienti, anche se il nostro centro non potrebbe ospitarne più di 500 tra uomini e donne».
Tutti s’inchinano al suo passaggio. «Good morning Sir!», sono le uniche parole proferite dalle bocche dei pazienti. Ovunque regnano il silenzio più assoluto e la disciplina. Indipendentemente da età e sesso, sembrano tutti automi svuotati di ogni volontà.
«Nel 90 per cento dei casi, i nostri pazienti fanno uso di shaboo. Il restante 10 per cento si divide tra marijuana, ecstasy e cocaina». Il dottor Leabres viene interrotto in continuazione da infermieri che gli portano incartamenti da firmare. «L’intero ciclo di riabilitazione può andare dai sei mesi a un anno. Successivamente i nostri pazienti devono tornare qui con una certa regolarità, di solito una volta a settimana, per seguire un altro programma sanitario. Pagano solo una parte della quota mensile, 3mila pesos (circa 50 euro), mentre alla parte restante, 12mila pesos (circa 200 euro), ci pensa lo stato. Ma se il paziente è povero è lo stato a sobbarcarsi l’intera retta. Quasi il 70 per cento dei nostri pazienti è qui a titolo gratuito». Nella clinica, che dipende dal ministero della Sanità, ci sono scuole, atelier, mense, dormitori e un campo da pallacanestro, lo sport nazionale. I pazienti indossano dei pantaloncini e una t-shirt il cui colore varia a seconda dello stadio di guarigione. Chi è all’inizio del percorso porta il verde, chi è alla fine il bianco.
Sveglia alle cinque di mattino. Poi attività fisica e pulizie degli spazi comuni. Corsi di teatro, pittura e falegnameria. Il pasto, a pranzo e a cena, è sempre lo stesso: riso, pollo, verdure e un frutto. Nel tardo pomeriggio ogni paziente deve scrivere su un diario personale come ha trascorso la giornata, che sarà letto dalla squadra di psicologi. Alle nove in punto si spengono le luci.
«Tutte le rehab (i centri per la riabilitazione) – dice il direttore – sono sovraffollate. È per questo motivo che in parlamento si è votato lo stanziamento di fondi per la creazione di un nuovo centro di riabilitazione per tossicodipendenti a Manila che potrà arrivare a ospitare fino a 5mila persone».
Nelle carceri di Mindanao
Le rehab hanno molto in comune con le carceri. Il sovraffollamento prima di tutto. L’intero sistema penitenziario filippino sembra dovere implodere da un momento all’altro. Le prigioni, sia maschili che femminili, ospitano da due a quattro volte il numero di persone per cui sono state pensate. Costruzioni che, già sul nascere, non rispettano neanche lontanamente gli standard dettati dalle Nazioni Unite.
Dall’isola di Luzon, dove si trova la Regione capitale nazionale, andiamo in aereo a Davao, una delle città più grandi del paese, sull’isola di Mindanao. Davao è la roccaforte della famiglia Duterte, e oggi è governata dalla figlia di Rodrigo, Sara. Qui tutto inneggia ai meriti del presidente per aver ripulito le strade dell’arcipelago da tossici e spacciatori. La prigione e fattoria penale di Davao si perde a vista d’occhio. Un’area di 30mila ettari, 8mila dei quali destinati a due carceri, una maschile e una femminile. Un’immagine che più di tutte descrive le condizioni in cui versa la struttura e, più in generale, l’universo delle prigioni filippine ai tempi di Duterte è la seguente: letti a castello fino a quattro piani, due persone per materasso e amache – per chi se le può permettere – montate all’interno degli stessi letti a castello.
Nella sezione maschile, che potrebbe ospitare massimo 3mila detenuti, ce ne sono 5.400. I dormitori sono un’accozzaglia di spranghe di ferro – i letti – malamente saldate una all’altra. I prigionieri più anziani si trovano in una camerata dove i letti a castello non superano i due piani. C’è anche una camerata riservata agli stranieri, in buona parte occidentali.
Il carcere maschile di Davao è diviso in tre sezioni separate una dall’altra da una rete di ferro ricoperta di filo spinato. Nella prima, chiamata Inmate Minimum, i detenuti indossano una maglietta marrone e scontano pene sotto i dodici anni; nella seconda, Inmate Medium, magliette blu e pene dai dodici ai ventidue anni; nella terza, Inmate Maximum, indumenti colore arancione e pene dai ventidue anni all’ergastolo. In quest’ultima sono rinchiusi quasi esclusivamente tossicodipendenti e spacciatori.
Le giornate sono scandite da un programma denso. Sveglia alle 4:30; ginnastica con tracce pop e dance, doccia, colazione a base di riso e uova, lavanderia, attività facoltative come artigianato e corsi di teologia. I detenuti con la maglietta marrone possono andare a lavorare, retribuiti, nella fattoria penale. Poi pranzo, pomeriggio libero durante il quale è possibile continuare con le proprie attività, i corsi letterari, guardare la Tv o giocare a biliardo e a pallacanestro, andare a messa in chiese improvvisate o a pregare alla moschea e infine la cena. Le luci si spengono alle 21:30 in punto.
La voce dei reclusi
Incontriamo alcuni detenuti: «Il mio vicino di casa aveva allestito nel suo appartamento un piccolo laboratorio per la produzione di shaboo. Una sera, durante una retata, mi trovavo sul pianerottolo. Gli agenti arrestarono anche me credendomi un suo collaboratore». Quando accadde il fattaccio, Brian aveva 23 anni. Oggi ne ha 38. Il giudice lo ha condannato all’ergastolo.
Persone nel posto sbagliato al momento sbagliato, scambi di persona, errori giudiziari nella classificazione delle prove. Già da prima dell’arrivo di Duterte, la politica della «tolleranza zero» nei confronti delle droghe era in voga. Ufficialmente il suo governo non ha fatto altro che inasprire le leggi e mostrare i muscoli attraverso le retate della polizia.
«Vi rendete conto che sono qui per due maledettissimi grammi di shaboo? Forse ci dovrò passare tutta la vita. Non sono un drogato, volevo solo provare una cosa nuova». Ronald ha appena 22 anni.
Virgilio, 56 anni, dovrà invece scontare una condanna di vent’anni per tentato omicidio. «Un anno fa ho provato ad ammazzare mio nipote perché era diventato il disonore della famiglia. Si drogava e vendeva shaboo». Eric, 47 anni, ha stuprato una minorenne. È accaduto quasi due anni fa. «Sono pentito», è l’unica frase che si sente di dire. Dovrà rimanere dietro le sbarre sedici anni.
Le sentenze per il tentato omicidio e lo stupro sono molto meno severe di quelle per la tossicodipendenza e lo spaccio di sostanze stupefacenti. Poco importa se i quantitativi di droga siano bassissimi. Tocchi lo shaboo e, se non vieni giustiziato, finisci al fresco per oltre vent’anni o fino all’ultimo dei tuoi giorni, a discrezione del giudice.
Ciò che più sorprende, parlando con i detenuti, è che quasi nessuno si lamenta del sovraffollamento del carcere. In molti lamentano l’ingiustizia per la condanna ricevuta – quasi il 70 per cento dei prigionieri si trova qui per reati connessi alla droga – ma tutti sembrano sopportare senza eccessive rimostranze una vita tanto congestionata.
«Certo – spiega Arthuro, 61 anni, un ex professore di liceo, mentre gioca con un cucciolo di cane divenuto la mascotte del suo dormitorio – non è piacevole vivere così. Alla radio ho sentito che il congresso sta votando un disegno di legge per stanziare 3 miliardi di pesos l’anno (quasi 50 milioni di euro), per cinque anni, affinché vengano migliorati e ampliati gli istituti penitenziari esistenti. Ma io penso che siano altri i problemi. Ad esempio le visite. Sono permesse tutti i giorni, ma molti di noi provengono da altre località, da altre isole e i nostri parenti e amici devono sopportare alti costi per raggiungerci. Io vengo da lontano, sono qui da cinque anni e in tutto questo tempo ho ricevuto solo tre visite».
Chi è sposato e possiede un documento che lo certifichi, ha diritto ad accedere alla room for conjugal visit use, una stanzetta dove è possibile avere rapporti sessuali con la propria coniuge. L’ambiente consiste in quattro pareti di legno senza tetto all’interno delle camerate. Ogni camerata ha almeno quattro di queste stanze per le visite coniugali, ognuna delle quali contrassegnata da un carattere # seguito da un numero. Pertanto la moglie, non solo deve attraversare ali del carcere colme di detenuti, ma deve anche consumare l’atto con il marito nella totale assenza di privacy. A completare la scena, immagini pornografiche che tappezzano le pareti della room e ciabatte messe a disposizione delle signore. Nelle carceri femminili, invece, le camere per le visite coniugali non sono previste perché a seguito del rapporto la reclusa potrebbe rimanere incinta.
Altro fatto impressionante è il numero delle guardie. La buona condotta dei galeotti influenza il numero dei secondini preposti alla loro sorveglianza. Nella sezione Maximum, che ospita circa 1.500 persone, ci sono appena tre agenti. Una guardia per 500 persone. «Ad aiutarci – confida un secondino che chiede di rimanere anonimo – ci sono alcuni detenuti modello, come i capi dormitorio. Hanno il compito di far rispettare le regole e raccogliere eventuali lamentele. Vanno in giro con i nostri stessi manganelli, ma è raro che se ne servano. Lavoro qui da diversi anni e non abbiamo mai registrato disordini».
Luca Salvatore Pistone
(1) Il rapporto di Amnesty International citato è reperibile sul web: www.amnesty.it/filippine-la-guerra-della-polizia-ai-poveri.