Testo di Marco Bello e Francesca Rosa; foto Archivio CISV
Il conflitto armato in Guatemala (1960-1996) è stato uno dei più cruenti e con più vittime civili. Oggi, i responsabili cercano di proteggersi con leggi ad hoc. Ma negli ultimi 10 anni la presa di coscienza della società civile ha fatto molti progressi. E per questo si registra un aumento della violenza contro i militanti per i diritti umani. Storia di una rete di associazioni di donne maya per la giustizia.
«Mi avvicinai alle donne che oggi fanno parte della Red (Rete, ndr) nel 2002. All’inizio fu un avvicinamento tecnico, perché dovetti fare per loro un lavoro che portai avanti nei due anni successivi. Offrivo assistenza e formazione per l’utilizzo del microcredito, perché stavano beneficiando di un fondo. A quell’epoca studiavo “lavoro sociale”».
Juana Bacá Velasco è un’attivista per i diritti umani guatemalteca. Nata nel 1974 a Nebaj, nel dipartimento del Quiché è maya ixil. Juana è entrata in contatto con alcune associazioni che si occupano di difesa dei diritti della donna tramite la sua professione, per poi aderire alla causa, fino a fare diventare la lotta per la giustizia la sua vita. Dal 2009 è direttrice dell’Asoremi (Asociación Red de Mujeres Ixhiles, associazione rete di donne ixil, abbreviato Red, ndr), che lei stessa ha contribuito a creare. Non senza rischi. Infatti è scampata a un attentato alla propria vita nel 2004 e oggi vive sotto scorta.
La incontriamo a Torino, di passaggio per andare a Ginevra, invitata al Festival internazionale dei film sui diritti umani. Juana è pure al vertice della Defensoria de la Mujer I’x, centro di appoggio per donne vittime di violenza di genere e punto di riferimento per la lotta contro l’impunità.
Juana si racconta: «A causa di un caso di violazione che affrontammo nel 2004, mi sentii molto coinvolta, e capii l’importanza della nostra partecipazione come cittadine e anche del fatto di fare valere i nostri diritti. Così iniziai a separare il mio impegno tecnico da quello militante, che andava crescendo. Cominciammo a costruire questa rete per necessità, perché iniziammo a essere vittime di una persecuzione politica molto forte da parte di attori importanti e potenti nel comune. E questo ci portò a verificare fino a che punto noi donne potevamo unirci e reagire a queste persecuzioni.
Tentavano di ucciderci anche a livello organizzativo, perché ci opponevamo e resistevamo di fronte a questa situazione di violenza e impunità. Eravamo oltre 300 donne maya e prendemmo una decisione molto forte, ma con molta paura, perché c’era oppressione, persecuzione. Ci dicemmo: venga quello che deve venire ma stiamo insieme e affrontiamo questa situazione attraverso la denuncia, ma anche la solidarietà e l’integrazione tra noi, perché vedevamo che era meglio affrontare i problemi tutte insieme e con molto cuore. Volevamo dire cosa stavamo subendo e meritavamo che ci rispettassero».
Juana e le compagne hanno iniziato a creare la Red, un modo di unire le associazioni di donne di Nebaj per fare massa critica e portare avanti la battaglia per i diritti.
Una rete per le donne
«Iniziammo un cammino a livello organizzativo, ma anche di grande impegno come donne per poter essere soggetti dei nostri diritti. Iniziammo a costruire la Red nel 2005, fino a legalizzarla nel 2010.
Questo processo ci ha segnate fortemente. Nel 2007 ci fu una tappa importante per decidere cosa fare: proseguire la lotta, ponendo così a rischio le nostre vite, e quella delle nostre famiglie, oppure ignorare le persecuzioni, come se non fosse successo nulla. Anche grazie all’accompagnamento internazionale da parte della Ong Cisv, non ci siamo sentite sole, ma supportate e aiutate a fare il lavoro organizzativo».
I dubbi erano forti: cosa avrebbe implicato questo impegno? «Occorreva affrontare il sistema di giustizia: che conseguenze avrebbe avuto nella vita di una donna indigena maya, povera, il fatto di denunciare una violenza subita? E fino a dove questo sistema ci escludeva dal diritto di accedere alla giustizia? Queste domande ci spinsero a conoscere meglio il sistema. Avevamo diritto che la nostra denuncia fosse ascoltata». Juana nel frattempo ha proseguito gli studi laureandosi in Legge e in Scienze sociali. In questo modo si è dotata anche di strumenti, come l’interpretazione legislativa, che il «nemico», chi sta al potere, sa maneggiare bene.
Il percorso con l’Ong Cisv di Torino si è rivelato fondamentale per la Red. «Con Cisv abbiamo iniziato lavorando sui diritti umani e, in particolare, i diritti della donna. Il lavoro è stato orientato a promuovere i diritti, difenderli e proteggerli. Ma è stato pure fatto un lavoro integrato per l’empowerment (acquisire competenze per migliorare l’equità e la qualità della vita, ndr) delle donne e per invitarle a denunciare la violenza quotidiana che subiscono, per avere la propria autonomia».
Juana ripercorre quelle fasi: «Si è rivelato importante il lavoro con operatori di giustizia, autorità comunitarie, società civile, autorità educative. Perché vediamo che già a questi livelli si iniziano a violare i diritti. Occorre lavorare affinché le donne denuncino le violazioni dei loro diritti, e non le vedano come qualcosa di normale. Un lavoro che abbiamo fatto fino dal 2007. Nel 2009 abbiamo avuto dei fondi dal programma di emergenza della Cooperazione italiana in Guatemala, con i quali abbiamo finanziato la costruzione di una “Defensoria”. Questa, nel 2010, è stata messa a disposizione delle donne ixil, ma anche di altre donne nei municipi vicini, e pure sulla costa, perché molte donne ixil si sono spostate dalla loro terra di origine. Abbiamo mantenuto la comunicazione con loro per appoggiarle là dove vivono.
Il lavoro che fa la Defensoria è dare appoggio psicologico, legale, di orientamento e accompagnamento a chi subisce violenza di genere. In seguito a una ricerca che abbiamo realizzato sulle violazioni dei diritti umani a livello della regione ixil, abbiamo visto che è importante allargare l’intervento ai diritti umani generali, evitando di rimanere solo sui diritti della donna e su come appoggiare le donne per farle uscire dalla violenza. Si è allargato lo spettro per coinvolgere diversi settori della società civile e verificare la conflittualità che si ha nel comune».
Verso le elezioni
Oggi il Guatemala vive un periodo storico particolarmente delicato. Con le elezioni alle porte (previste a giugno, vedi box) sono aumentati gli assassinii di attivisti mentre regna l’impunità. Nel settembre scorso la popolazione ha manifestato pacificamente per cacciare il presidente della repubblica, l’attore comico Jimmy Morales, retto dalla casta militare.
Juana ci racconta: «Negli ultimi otto mesi in Guatemala c’è una situazione politica molto grave, pericolosa, in particolare per la vita degli attivisti dei diritti umani. Grazie a un percorso durato molti anni si è arrivati a unire la società civile organizzata.
Nei tribunali si stanno realizzando processi sulle responsabilità storiche per quello che il popolo del Guatemala, e in particolare il popolo ixil, ha vissuto nei 36 anni di conflitto armato.
Nello scorso autunno è stato evidente questo risultato: una presa di coscienza della popolazione che ha manifestato per esigere giustizia e il rispetto dei propri diritti. Per questo motivo c’è una reazione molto forte degli attori e dei responsabili coinvolti nei massacri durante la guerra. Ad esempio, nel 2013, il 10 maggio, c’è stata una sentenza di condanna con giudizio di genocidio, e poi una seconda sentenza nel settembre 2018 sui responsabili esecutori.
Nel percorso di ricerca della giustizia e di uscita dal silenzio, le donne hanno giocato un ruolo da protagoniste. Sono le donne che hanno testimoniato, donne che sono state torturate, violentate e sottomesse ad azioni di interesse dell’esercito. E quelli che governano oggi il nostro paese sono ex militari. Questo ha complicato la situazione, e in Guatemala, l’anno scorso, come riporta il rapporto dell’Udefegua (Unidad de proteccion a defensores y defensoras de derechos humanos, Guatemala) ci sono stati 25 assassinii di difensores e difensoras di diritti umani. E ci sono state anche denunce e campagne di criminalizzazione (accuse, ndr) contro gli attivisti allo scopo di spaventarli e zittirli e di proteggere chi è sotto giudizio per questi crimini».
Dove regna l’impunità
Anche a Nebaj la questione delle responsabilità dei massacri è molto sentita e per coprirle sono in atto assassinii selettivi di attivisti: «A livello locale il tema dell’impunità è stato molto forte e i colpevoli cercano di ostacolare i processi penali finalizzati a chiarire i fatti e i responsabili.
Ad esempio, a Nebaj, ci sono stati quattro femminicidi e un omicidio di attivisti ixil. Una di loro era Juana Ramirez Santiago che faceva parte del consiglio di amministrazione della Red. C’è anche stato l’assassinio di Juana Rivera, una dirigente di Codeca (Comitato di sviluppo contadino, associazione locale e ora anche partito politico, ndr), e quello del giovane Jacinto di Cotzal, un altro attivista per i diritti umani. Tutti nel 2018, tra giugno e settembre.
Questi fatti ci mostrano il sentimento dello stato e delle autorità, di quelle persone che si meritano un processo penale, una condanna per le loro responsabilità storiche, sia come mandanti intellettuali che come esecutori».
Juana continua in tono pacato, quasi parlasse di cose semplici: «Tutto ciò ha obbligato la popolazione a reagire e pronunciarsi per respingere la politica che lo stato sta portando avanti, contraria ai diritti umani e contraria al chiarimento storico per arrivare alla giustizia. La maggioranza della popolazione si è resa conto che i propri diritti sono violati, e ha capito che il fine ultimo dello stato è proteggere se stesso. Questo perché coloro che governano oggi hanno delle responsabilità nei confronti dei fatti che sono stati denunciati e che si vogliono chiarire, e che, a causa dell’impunità in Guatemala, si è sempre evitato di perseguire.
Ma ora noi guatemaltechi abbiamo capito chi sono i corrotti e chi sono i protagonisti di quelle azioni. Non si tratta di una persona singola ma della struttura dello stato del Guatemala: è un’attitudine che complica e destabilizza la governabilità nel paese. Perché uno stato non può esigere giustizia, trasparenza rispetto dei diritti umani, se è lui stesso che li sta violando, come persone e come autorità.
Siamo in una situazione frustrante, preoccupante e vergognosa, perché stanno facendo di tutto affinché non siano visibili le responsabilità che hanno verso il popolo.
Adesso la gente vuole che Morales lasci il potere, perché sta lavorando sotto l’influenza e l’interesse dei militari che hanno avuto gravi responsabilità nella storia del Guatemala».
Pensando agli ultimi 10 anni
Negli ultimi 10 anni la situazione dei diritti umani non è migliorata, ma la società civile si è dotata di strumenti di denuncia: «In passato non si vedeva l’entità del problema, perché non si alzava la voce e non si denunciava, però grazie a tutto il lavoro di diverse persone e organizzazioni, si è ottenuto che oggi si possa parlare, denunciare, senza troppo terrore. Ci possiamo lamentare che lo stato non compia il suo dovere di fare giustizia. Questa è infatti una sua responsabilità. Ma ringraziamo anche per l’appoggio di interventi internazionali. Per esempio si è ottenuto che la Commissione interamericana per i diritti umani sia intervenuta su queste norme a protezione dei colpevoli dei delitti del passato. Parliamo della legge di amnistia, che vuole ostacolare le organizzazioni della società civile e il processo di denuncia. Sono progetti di legge in corso di definizione, con l’obiettivo di proteggere giuridicamente questi grandi responsabili, violando norme costituzionali e diritti umani».
Cosa fa la Red
In questo contesto, la Red, che raggruppa nove associazioni locali per un totale di 365 donne maya ixil, è molto attiva. Continua Juana: «Per la Red l’appoggio politico e sociale è stato importante. È parte dell’appoggio al processo delle organizzazioni nella loro lotta sui temi di giustizia, prevenzione, formazione, sensibilizzazione.
Cisv ci sta accompagnando e ha condiviso, anche con la propria presenza a Nebaj, questo processo che la Red e la società civile sta portando avanti. I progetti della Red perseguono la ricerca della giustizia, attraverso le denunce delle donne, per cercare una trasformazione nella loro vita, affinché la violenza non sia più tollerata. La Red inoltre è molto impegnata nell’appoggio offerto alle sopravvissute alle violenze, e anche in interventi sul territorio comunale per ridurre la conflittualità. Appoggiamo le vittime in ambito legale, psicosociale, dando accompagnamento, ma anche incidendo in alcuni temi e spazi più politici, perché se si vuole generare qualche cambiamento occorre partire dalle autorità e dalle comunità».
Chiediamo a Juana cosa possiamo fare in Italia per appoggiare il lavoro di protezione e difesa dei diritti umani in Guatemala.
«Vi ringraziamo per tutto l’appoggio dato. È importante continuare questa relazione e ampliarla a livello internazionale perché è una forma per proteggere il lavoro, la dinamica in corso e la lotta dei guatemaltechi e guatemalteche che portiamo avanti da lunghi anni, anche grazie al sacrificio di vite. È un intervento molto politico, di protezione e di appoggio».
Marco Bello
Situazione sociale turbolenta nel paese centroamericano
Verso le elezioni… con violenza
Il presidente attore Jimmy Morales ha bloccato i lavori della commissione Onu contro l’impunità. La gente si è rivoltata manifestando pacificamente nelle città. Le tensioni
sociali e politiche sono in aumento e con esse la violenza nei confronti di leader e attivisti per i diritti umani. Un gruppo della società civile decide di candidarsi alle elezioni.
A 23 anni dalla firma degli accordi di pace che hanno messo fine a un conflitto armato interno durato oltre tre decadi (1960-1996), in Guatemala si registrano ancora gravi violazioni dei diritti umani, alti livelli di povertà, disuguaglianza, discriminazione e impunità. Secondo le Nazioni Unite (Undp 2018), il Guatemala è oggi al 127° posto dell’Indice di sviluppo umano, in discesa a causa della totale assenza di politiche che promuovano l’uguaglianza di genere e la lotta alle disuguaglianze sociali ed economiche. Inoltre, registra uno dei coefficienti di Gini (che misura la disparità economica tra poveri e ricchi) peggiori al mondo (0,63), e circa il 60% della popolazione continua a vivere sotto la soglia della povertà, percentuale che raggiunge il 76,1% nelle zone rurali, il 79,2% tra le popolazioni indigene.
Questa situazione di violenza strutturale è strettamente legata all’impianto razzista e discriminatorio dello stato che da sempre esclude le popolazioni maya, agli alti livelli d’impunità e di corruzione che caratterizzano l’attuale governo di Jimmy Morales, eletto nel 2015 con il sostegno dell’ala più reazionaria dell’esercito. La sua politica, come quella del predecessore Otto Perez Molina, è caratterizzata da corruzione, militarizzazione dei territori e repressione.
Diritti sempre più negati
Negli ultimi tre anni il Congresso non ha registrato progressi nella legislazione relativa alla promozione dei diritti economici, sociali e culturali della popolazione e ha invece adottato posizioni e proposte legislative che favoriscono l’impunità, limitano la partecipazione politica e violano i diritti delle fasce più deboli della popolazione, ovvero popoli indigeni, donne e minoranze (ad esempio la proposta di legge 5377 per riformare la Legge di riconciliazione nazionale, che concederebbe l’amnistia per tutti i crimini commessi durante il conflitto armato).
L’apice della politica governativa a favore d’impunità e corruzione si è toccato nel cosiddetto «Caso Cicig», la Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala, un’entità finanziata dall’Onu, che dal 2007 appoggia la procura e altre istituzioni statali nelle indagini sui reati commessi da reti criminali. Tra i casi più emblematici coadiuvati dalla Cicig, si ricorda il «Caso della Linea», che ha portato all’arresto di molti funzionari governativi e dell’ex presidente Peréz Molina insieme all’ex vice Roxana Baldetti. Dopo aver aperto, insieme alla procura di stato, un’indagine su presunti finanziamenti illeciti elettorali che coinvolge l’attuale presidente e il suo partito, Jimmy Morales ha dichiarato non gradito il coordinatore in loco della Cicig, Iván Velasquez, e ha sciolto unilateralmente la commissione, violando gli accordi internazionali ratificati dallo stesso stato guatemalteco, e le sentenze della Corte Costituzionale guatemalteca, la quale ha reiteratamente affermato l’illegittimità di tale decisione.
Cresce la società civile
L’attivismo a favore dei diritti umani e della lotta all’impunità della società civile organizzata guatemalteca ha registrato un progressivo incremento nel corso dell’ultima decade, soprattutto nelle aree rurali del paese. Un’importante organizzazione di base, la Codeca (Comitato di sviluppo contadino), con un alto numero di affiliati tra le popolazioni indigene e contadine, ha deciso di costituire un partito politico per partecipare alle prossime elezioni, previste a giugno 2019. Questa forza della società civile organizzata nelle aree rurali ha provocato un incremento delle tensioni sociali e politiche, cui è seguito un forte aumento dei casi di criminalizzazione e aggressione contro militanti dei diritti umani: nel 2018 si sono registrati 391 attacchi a difensori dei diritti, 26 omicidi, tra i quali anche quello di Juana Ramirez, socia fondatrice di Asoremi, il 21 settembre e 147 casi di criminalizzazione. Un incremento del 136% rispetto al 2017, una situazione che richiama i periodi oscuri della recente storia del paese, incluso il conflitto armato interno, e che ha portato il Guatemala al quarto posto a livello mondiale per numero assoluto di militanti assassinati. Le vittime sono principalmente uomini e donne indigeni che lottano per la difesa dei diritti alla terra e dei diritti umani, e molte di queste, tra cui due dall’inizio del 2019, erano attivisti o candidati del partito di Codeca. Il livello d’impunità per questo tipo di crimini è quasi totale.
L’apertura della campagna elettorale lo scorso marzo in vista delle elezioni di giugno ha, di fatto, incrementato le violenze e i conflitti sociali.
Francesca Rosa
Abbiamo un «piccolo» problema a Gaza
Due paesi abbracciati. Due paesi strettamente legati. Due stati che non si riconoscono. Ma c’è chi crede nella pace e così nasce un movimento di donne attiviste. Mentre un gruppo di suore lavora con bambini audiolesi. Reportage tra Israele e Palestina. Dalle due parti del muro.
Testo e foto di Valentina Tamborra
Il tassista guida veloce verso la frontiera con la Giordania. Qui a Eilat, sulla punta più estrema di Israele, al confine con l’Egitto, la guerra è un concetto lontano. Spiaggia, barriera corallina, locali alla moda: qui la vita, almeno all’apparenza, scorre tranquilla. Non fosse per l’avviso trovato nella camera dell’hotel dove ho dormito: «Il rifugio antiaereo si trova nell’interrato, piano -1».
Ma Israele è così: da Tel Aviv a Eilat, a un primo sguardo superficiale, non ci sono motivi di tensione. Eppure il 10 agosto, solo due giorni prima del mio arrivo, c’è stato l’ennesimo scambio di missili fra Israele e Gaza.
Il tassista sostiene che il problema di Israele siamo noi giornalisti e media: raccontiamo una guerra che non c’è.
Se fosse il mio primo incontro di questo tipo mi stupirei, ma dal primo giorno in Israele ho avuto la netta percezione che ci sia una ferrea volontà di rimozione. Forse è, in parte, una difesa: vivere in un costante stato di allarme porta a un fatalismo estremo che sfocia nel tentativo di trovare la normalità lì dove di normale c’è ben poco.
Di tutt’altro avviso è invece Hamutal Gouri, fondatrice, insieme ad altre quaranta donne, del movimento «Women wage peace» (Le donne muovono la pace).
Sedersi accanto
Il movimento nasce nell’estate del 2014, racconta Hamutal, per creare uno spazio dove sedersi l’uno accanto all’altro, pur essendo in disaccordo, e avere così la possibilità di creare un dialogo.
Il movimento ogni anno elegge un gruppo di quattro donne che formano la squadra al comando per dodici mesi. Non si basa su una figura carismatica, ma sulla partecipazione popolare.
Women wage peace è una realtà controcorrente non solo perché professa la pace. Hamutal mi spiega, infatti, che in Israele vige ancora una mentalità fortemente maschilista. Il regno della donna è la casa: lì è la regina, ma dalla vita pubblica viene tenuta fuori.
Women wage peace sfida questa realtà: le donne combattono perché la loro voce venga ascoltata.
Dunque è un doppio obiettivo quello che si prefiggono: da un lato l’accesso alla vita pubblica, la libertà di opinione, e dall’altro, ovviamente, un accordo di pace.
Hamutal mi spiega che sono ispirate dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu 13-25 che stabiliva che, siccome le donne sono le più colpite nei conflitti, devono anche divenire parti attive nella trasformazione e nella risoluzione degli stessi.
«È molto più facile per me credere che ci possa essere una pace o una collaborazione tra Ebrei e Palestinesi, credere nel potere delle persone e specialmente delle donne di portare la pace. È molto più facile per me pensare questo, piuttosto che accettare il fatto che non ci sarà mai pace». È lo spirito che ha mosso donne coraggiose a dare il via a quello che ad oggi è diventato un movimento con 40mila persone iscritte.
Una varia umanità
Women wage peace raccoglie iscritti da tutto il mondo: decine di migliaia di membri appartenenti alle frange politiche di destra, centro e sinistra, arabi, ebrei, laici, religiosi, dai paesi alle periferie, donne dai kibbutz e dagli insediamenti. Tutti uniti per la richiesta di un mutuo accordo nonviolento condiviso da entrambe le parti.
Moltissime le iniziative organizzate: a partire dalle tremila donne che nel 2015 hanno circondato la Knesset – il parlamento monocamerale di Israele – per chiedere un’iniziativa di pace, e dalla celebre Marcia della speranza, nel 2016, quando trentamila persone, donne e uomini, ebrei e arabi, israeliani e palestinesi hanno marciato per due settimane dal Nord del paese sino a Gerusalemme.
Le immagini di quella marcia hanno fatto il giro del mondo: migliaia di donne piene di speranza, di commozione e di gioia unite in un tentativo pacifico ed estremo allo stesso tempo.
In un mondo dominato, almeno di questi tempi, dalla ferocia, è sconvolgente trovare tanto accanimento nel ricercare una pace che molti ritengono impossibile.
Sì, perché Hamutal crede fermamente nella pace, pur essendo lei nata e cresciuta a Gerusalemme, fra conflitti e confini delimitati da mura e filo spinato. Lei, costretta a prestare servizio militare, giacché in Israele la leva è obbligatoria per tutti, eccezion fatta per gli ebrei ultraortodossi. Le donne devono prestare servizio per due anni, gli uomini per tre.
Un mondo senza check point
Quando nacque il suo primo figlio, Daniel, Hamutal gli promise che non sarebbe dovuto entrare nell’esercito. Sognava un mondo come quello che aveva solo sfiorato quando, da ragazza, aveva lavorato per una compagnia aerea. Mi racconta che un giorno le dissero di avere passato il confine del Belgio e che lei si stupì di non aver visto neppure un check point, militari, armi. Fu in quell’occasione che iniziò a immaginare un mondo senza reti, senza delimitazioni.
Ma la promessa fatta a Daniel fu, suo malgrado, una bugia. La cosa certa è che nessuna madre mette al mondo un figlio per mandarlo in guerra. Questo è il pensiero che sta alla base del movimento Women wage peace. Donne come madri, in senso universale. Unite a dispetto dei confini: che tuo figlio sia israeliano, palestinese, ebreo, musulmano, cristiano, la speranza è una sola: che possa vivere in pace. Che non debba conoscere l’orrore della guerra.
Per Hamutal fu un brutto momento quello nel quale accompagnò Damiel al bus che l’avrebbe portato al centro di addestramento. E ancora peggiore il giorno della cerimonia quando dovette sentirlo pronunciare il giuramento: «Giuro di difendere il mio paese anche se dovessi sacrificare la mia vita per esso». Ad Hamutal si riempiono gli occhi di lacrime nel raccontarlo: «Stavo li seduta e pensavo solo: questo è mio figlio, il mio unico figlio maschio, il mio primogenito, lo amo più di ogni altra cosa al mondo e devo sentirgli dire che morirebbe pur di difendere il proprio paese?».
Preghiera per le madri
Questo dolore e questa speranza stanno alla base anche della bellissima canzone che fa da inno del Movimento, Prayer of the mothers, di Yael Deckelbaum, che recita così: «Tra il cielo e la terra ci sono persone che vogliono vivere in pace, non arrenderti, continua a sognare di pace e prosperità. Ascolta la preghiera delle madri, porta loro la pace, porta loro la pace».
Una sorta di «stabat mater» moderno. Un grido di speranza che dice la volontà di non vedere più i propri figli ammazzati in una guerra che ormai ha violato ogni luogo, persino il deserto.
E pensando al deserto tornano alla mente le parole di Emil Cioran, filosofo e saggista rumeno: «Gli asceti cristiani pensavano che solo il deserto sia senza peccato, e lo paragonavano agli angeli. In altre parole, non c’è purezza se non là dove non nasce nulla».
Israele e Palestina smentiscono il suo pensiero: qui pure il deserto non è esente dal peccato.
Un’altra cosa che sconvolge, infatti, viaggiando lungo le strade che conducono alla Valle del Giordano, a luoghi considerati sacri non solo dai cristiani ma anche da ebrei e musulmani, è la presenza costante di filo spinato, mura, carri armati, aree di tiro, cartelli che segnalano pericolo.
L’ultima cosa che mi dice Hamutal, prima di salutarmi, è che non si capacita di come il suo popolo che ha tanto sofferto, che è stato martoriato, vessato, privato di una terra, possa ripetere tali atrocità su un altro popolo.
La memoria storica che qui viene continuamente celebrata (basti pensare al monumentale complesso museale dello Yad Vashem, costruito per documentare e tramandare la storia del popolo ebraico durante la Shoah preservando la memoria dei sei milioni di vittime dell’Olocausto), pare cadere nell’oblio non appena si pensa a ciò che accade in Palestina e in particolare sulla striscia di Gaza.
Gaza 2014
In Palestina, a Betlemme, trovo il corrispettivo, in versione molto più semplice e non monumentale, dello Yad Vashem: un muro dipinto di nero, con i nomi di tutti i bambini morti sulla striscia di Gaza nel 2014 scritti a mano.
Proprio nell’estate di quell’anno Israele lanciò nella striscia di Gaza l’operazione «Margine protettivo» con l’obiettivo di fermare il lancio di missili verso il proprio territorio ed eliminare i tunnel di Hamas. Esplose così uno tra i più sanguinosi conflitti israelo-palestinesi della storia recente. A farne le spese, moltissimi civili. Una vittima su cinque, in quei giorni di violenza, era un bambino.
Betlemme è un altro luogo sacro violato dalla guerra. Nel 2002, durante la seconda intifada, duecento palestinesi si rifugiarono nella Chiesa della Natività, protetti da quaranta frati e quattro suore. L’assedio durò trentanove giorni. I frati francescani, custodi dei luoghi santi, misero al primo posto l’aspetto umanitario, accogliendo i fuggitivi. Oggi, di quei momenti di paura e disperazione non si ricorda granché. La Basilica accoglie ogni giorno centinaia di pellegrini che molto spesso non sanno dei tragici eventi che hanno segnato questo luogo.
La storia scomoda viene costantemente e metodicamente rimossa. Infatti, se di una situazione si smette di parlare, presto la si dimentica.
Donne (suore) coraggio
A Betlemme, esiste un altro gruppo di donne coraggiose: le suore di Effetà. Ad oggi si prendono cura, all’interno dell’istituto da loro fondato nel 1971, di 150 bambini.
La scuola è specializzata nella rieducazione audio fonetica dei bambini audiolesi residenti nei Territori palestinesi. Suore coraggiose, da sempre attive sui luoghi di confine, di conflitto, hanno di recente perso una sorella in Siria. Nonostante questo, stanno progettando di muoversi verso il confine giordano per aiutare i profughi siriani, che oggi sono quasi 20.000.
Il nome Effetà si rifà a un passo del Vangelo secondo Marco: «E gli condussero [a Gesù] un sordomuto, pregandolo di imporgli una mano. E portandolo in disparte gli pose le dita negli orecchi (…) e disse “Effetà” – Apriti».
Gli allievi provengono da diverse zone della Palestina: Betlemme, Beit Jala, Sahour e zone limitrofe come Ramallah e Hebron, dove le condizioni di vita sono molto dure. Purtroppo dalla scuola restano esclusi i bambini della regione di Gerusalemme e del Nord per via dei problemi di trasporto e soprattutto di passaggio, perché il muro di sicurezza che separa Israele dalla Palestina circonda e chiude quasi interamente la città di Betlemme.
Queste suore si trovano ogni giorno a operare in un territorio ostile. Eppure, non perdono mai il sorriso.
Suor Laura, direttrice dell’istituto, e suor Bruna, educatrice, mi raccontano che il loro sogno è di poter ampliare la struttura, accogliere più bambini e soprattutto far sì che si radichi il pensiero che la sordità non preclude una vita sociale attiva e partecipativa. In Palestina, infatti, questa problematica viene trattata con vergogna da parte delle famiglie. Eppure riguarda una percentuale del 3% della popolazione, e in alcuni villaggi particolarmente isolati, si arriva sino al 15%, classificandosi così fra le più alte del mondo. Questo avviene principalmente a causa dell’eredità genetica in quanto circa il 40% dei matrimoni in Palestina è endogamico, ovvero combinato all’interno della famiglia allargata.
Le suore di Effetà, lavorano perché questi bambini abbiano il diritto a una vita quanto più possibile serena e integrata pur vivendo ogni giorno in un contesto difficile.
La presenza del muro di sicurezza, il filo spinato, le telecamere, i militari armati e i check point certo non sono la premessa ideale a un’infanzia serena.
Camera con «svista»
Proprio a Betlemme è nato il «The walled off hotel», l’hotel provocazione di Banksy, artista e writer inglese, considerato uno dei maggiori esponenti della steeet art e molto noto anche per il suo attivismo politico. Costruito proprio a ridosso del muro che separa Israele dalla Palestina (Betlemme dista poco più di 20 minuti in bus da Gerusalemme), si fregia del titolo di «Hotel con la peggiore vista del mondo».
Dalle camere si può vedere il muro, le torrette di controllo, e, subito oltre, i territori israeliani.
Una vista da incubo sulla continua violazione della libertà, anche solo di quella dello sguardo, operata in quei territori. L’hotel oggi è diventato un vero e proprio polo di attrazione turistica: in molti vengono qui a lasciare la propria firma, la propria frase sul muro di separazione. Senza nulla obiettare al messaggio di Banksy, resta da capire quanto questa spettacolarizzazione del dolore possa portare reale beneficio.
All’interno dell’hotel è stato creato anche un museo e una galleria che raccontano la storia della Palestina e dell’occupazione da parte degli israeliani. Ci sono guide che portano in giro i turisti per far vedere loro le condizioni di vita attorno al muro e all’interno dell’Aida Camp, il campo profughi fondato nel 1948, il cuore della lotta all’occupazione israeliana.
La volontà è certamente quella di far conoscere la situazione del popolo palestinese: George, un ragazzo che lavora per l’hotel di Banksy, mi racconta, per esempio che l’acqua viene razionata. Distribuita ogni due settimane e nel giorno prefissato ogni quartiere dovrà raccoglierne quanta più possibile.
In effetti, guardando i tetti delle case palestinesi, si possono osservare su ciascuna serbatorni d’acqua. Qualora una famiglia dovesse terminare la propria scorta, dovrà andare a procurarsela direttamente alla compagnia che controlla l’erogazione, pagando circa 70-80 dollari per riempire il serbatornio.
George mi racconta anche delle restrizioni che il governo israeliano impone per lasciare il paese: l’unico aeroporto vicino, infatti, è quello di Ben Gurion (Tel Aviv), in territorio israeliano e, dunque, interdetto ai palestinesi. Questo significa che è necessario recarsi in Giordania. Per passare il confine ci possono però volere dalle 7 alle 10 ore e una volta giunti all’aeroporto si devono affrontare code lunghissime, 4, 8, 10 ore di attesa perché questo è l’unico punto dal quale si può partire verso altre destinazioni.
Gaza blindata
La situazione a Gaza risulta ancora diversa. Qui non si può entrare e da qui non si può uscire. Alcune volte viene dato un permesso per recarsi in Egitto attraverso il Sinai o per raggiungere la West Bank (Cisgiordania) in occasione di feste particolari. Qualora però dovesse scadere il permesso, anche per un semplice ritardo di poche ore, non si potrà più lasciare Gaza.
Il muro continua a progredire: i lavori non si sono fermati e anzi attraversano anche i territori beduini.
George mi chiede di scattare foto: alle case, al muro, ai bambini, alle persone. Dice che in Europa deve arrivare il messaggio che i palestinesi non sono pronti a farsi saltare in aria, non ci tengono a morire, né a lanciare pietre. Vogliono solo quei diritti fondamentali che ad oggi vengono loro negati.
Mi guardo intorno: case semplici, di pietra, spazzatura ammassata contro il muro e per le vie, bambini che scorrazzano su vecchie biciclette sgangherate e un centro ricreativo per l’infanzia che è praticamente da demolire.
Eppure, a neanche venti minuti di distanza, c’è Gerusalemme: città sacra, città meravigliosa. Un mondo altro, quasi impossibile da immaginare. È la duplicità, la coesistenza di due realtà così diverse fra loro che lascia interdetti.
Mi chiedo se un turista, lasciato il messaggio sul muro, riesca a comprendere cosa significa vivere, crescere, condurre un’esistenza normale laddove ogni mossa è controllata, verificata, limitata.
C’è un solo luogo a Betlemme che lascia un po’ di spazio a occhi e cuore: è il deserto che si estende poco oltre la città. Vi è un santuario e poi chilometri di roccia e sabbia. È territorio palestinese, ma zona C, ovvero sotto il controllo israeliano. Qui, forse, finalmente, si riesce a lasciar vagare lo sguardo senza che venga bloccato da muri e filo spinato, senza che, costantemente, ci si senta chiusi in gabbia. Questa parte del deserto è il luogo dove George viene a sedere di tanto in tanto per immaginare una vita diversa.
Valentina Tamborra
Donna, dono e solidarietà
Dedichiamo la campagna di Natale alle donne: bambine, adolescenti, adulte, anziane spesso costrette a portare i pesi maggiori nelle loro comunità. Per questo vanno protette, valorizzate e messe in condizione di generare il cambiamento verso società più eque.
Testo di Chiara Giovetti, foto AfMC
Mi chiamo Oyun,
ho dieci anni e vivo alla periferia di Ulan Bataar, la capitale della Mongolia. Sono arrivata qui insieme alla mia famiglia dopo l’ultimo dzud, l’inverno più freddo che c’è. Lo dzud fa diventare tutto bianco e gelido e fa morire moltissime bestie, a volte anche le persone@.
Noi, ad esempio, siamo dovuti venire in città perché avevamo perso tutto. Le nostre pecore, i nostri cavalli e i nostri yak. Erano tanti, io non so quanti, papà li conosceva tutti per nome. Papà è stato triste per tanti giorni, stava sempre in silenzio ed era strano, perché papà di solito è un tipo allegro. Una volta l’ho visto davanti a una pecora stesa a terra, anche lui stava immobile e piangeva. Lui dice di no, ma io l’ho visto che gli scendevano le lacrime.
Alla fine, una sera ha parlato a me, a mamma e ai miei tre fratelli. Ha detto che non si poteva più fare niente, che dovevamo prendere la nostra gher (la casa tenda tipica della Mongolia) e andare in città. I miei fratelli avevano delle facce tristi, io no, in città c’ero stata pochissime volte ed ero curiosa di vedere bene com’era. Ma adesso che sono qui da quasi due anni mi manca andare a cavallo nella steppa, aiutare papà e i miei fratelli a far guadare il fiume agli animali, vedere le volpi o le marmotte che sbucano all’improvviso e poi scappano via.
Dove abitiamo ora, le case sono troppo vicine, si sentono i rumori, a volte si sentono anche le persone litigare e dire cose brutte. E poi c’è un odore cattivissimo, tanta polvere e a volte vedo anche del fumo grigio che, quando lo respiri, ti fa bruciare il naso. Dove abitavo prima c’era solo l’odore dell’erba, delle pecore e del latte e quando respiravi non ti bruciava niente@.
Qui in città vado a scuola e, dopo la scuola, vado dai missionari. Anche loro hanno una gher e al pomeriggio noi bambini possiamo andare lì a giocare, disegnare, fare i compiti. Facciamo anche merenda. La mia amica Sarnai l’altro giorno mi ha detto che era contenta di fare merenda perché la sera, a casa, a volte non mangia niente. La sua famiglia era una delle quattro che teneva il proprio gregge insieme al nostro. Anche loro sono dovuti venire in città dopo lo dzud. Il papà della mia amica non ha un lavoro e certi giorni non può comprare da mangiare. Lui è molto arrabbiato per questo e una volta l’ho visto fuori dalla sua gher che urlava e faceva piangere la mamma di Sarnai. Altre volte l’ho visto che camminava in un modo strano, non riusciva a tenere dritte le gambe, sembrava che gli facessero male. Forse è malato.
Io sono più fortunata, perché mio papà ha trovato un lavoro. Un suo amico che viveva già in città gli ha insegnato ad aggiustare le macchine e adesso lavora nell’officina. Così noi abbiamo sempre da mangiare. Solo una volta che mio fratello si era ammalato la mamma ha dovuto comprargli delle medicine e per un po’ di giorni abbiamo mangiato solo pane e latte perché non c’erano abbastanza soldi. Questa è un’altra cosa che ho notato della città: i grandi parlano sempre di soldi. Quando eravamo nella steppa, invece, papà dei soldi non parlava quasi mai e parlava sempre di pecore. Forse i soldi sono le pecore della città.
Mi chiamo Naisula
e oggi si sposa mia sorella Regina. Sono tornata alla mia manyatta (recinto per gli animali di una famiglia nel quale ci sono una o più capanne secondo il numero delle mogli di un uomo, ndr) vicino a Maralal per un po’ di giorni. Perderò un po’ di lezioni all’università, ma ne vale la pena.
Prima di venire al villaggio sono passata a Wamba per far visita a sister Grace, la missionaria preside della scuola secondaria che ho frequentato: era commossa quando mi ha salutato. Lei sa bene che sono venuta a festeggiare qualcosa di più di un matrimonio ed è anche grazie alla sister se le cose sono andate così.
Era con lei che a scuola parlammo del cut (più esattamente Mgf, mutilazione genitale femminile, ndr), il taglio che le ragazze della nostra «tribù» devono farsi fare per poter essere considerate donne e sposarsi. In quei giorni la nostra preside era molto triste: una delle ragazze della scuola era morta da poco in conseguenza di un’infezione causata proprio dalla Mgf praticata durante le vacanze tra un anno scolastico e l’altro. E pensare che era stata lei a volere il taglio, per non essere trattata con disprezzo – da inferiore – dalle sue compagne di scuola già iniziate.
Noi eravamo spaventate, perché sapevamo che presto la cerimonia poteva toccare anche a noi, o alle nostre sorelle più piccole, come Regina. Allora sister Grace ci parlò della cosa con calma e delicatezza, ma anche con molta determinazione: «Non sono arrabbiata con nessuno – disse -, ma non voglio che questo succeda a un’altra di voi».
Insieme a lei c’era Catherine, una signora di un villaggio non lontano dal mio, anche lei aveva frequentato la stessa scuola anni prima e aveva poi iniziato a lavorare in un centro per la promozione delle donne.
La signora ci parlò a lungo; ci disse di non avere paura, che ci avrebbe aiutate e che sarebbe venuta nei nostri villaggi. Era necessario venire di persona per parlare con i nostri genitori, perché aveva visto che non bastava affrontare la questione solo con noi. Prima che la nostra amica morisse, alcune organizzazioni avevano iniziato a fare delle cerimonie di iniziazione alternative, senza il taglio. Ma le facevano lontane dai villaggi e senza la famiglia, senza il coinvolgimento degli anziani, perciò per la gente del villaggio non valeva niente. E alla fine le ragazze venivano «tagliate» comunque.
Noi sapevamo bene il perché. Nei rituali dell’iniziazione il taglio è solo il culmine più evidente di tanti altri gesti che preparano e celebrano la «nascita di una persona nuova» nella famiglia, nel villaggio, nel clan. E il padre, in tutto questo, ha un ruolo speciale, unico. Ogni padre ci tiene moltissimo, anche il mio. Le famiglie vogliono che sia fatta nella casa dove le ragazze sono cresciute e che la gente del villaggio partecipi alla festa. Anzi, questo è talmente importante che ogni quattordici anni circa, tutte le famiglie di un clan si spostano per mesi in un villaggio speciale, detto lorora, proprio per celebrare l’iniziazione e l’inizio di una nuova generazione.
Catherine venne al villaggio, parlò con la comunità e poi con le singole persone. Parlò anche con i miei tre fratelli e con i loro amici. Spiegò a tutti perché era morta la nostra amica e anche che cosa era successo ad altre ragazze che erano ancora vive ma avevano enormi problemi di salute: erano finite all’ospedale per un’infezione, avevano dolori continui e a causa di questo spesso non potevano lavorare o studiare. La sua proposta era semplice: la cerimonia sarebbe rimasta identica in tutto, tranne che nella parte in cui si faceva il taglio.
Ci volle un po’ perché la gente del villaggio smettesse di rifiutare l’idea. Molti padri e anche diverse madri all’inizio dicevano che, senza taglio, nessuno avrebbe più voluto le loro figlie come mogli. Qualcuno pensava anche che le ragazze avrebbero più facilmente preso malattie come l’Hiv o che sarebbero diventate prostitute.
Catherine rispose a tutte queste obiezioni, con pazienza, tornando al villaggio parecchie volte, anche con gli infermieri dell’ospedale e altre donne che lavoravano con lei al centro. Mio padre a poco a poco si convinse. Disse che non era d’accordo con tutti questi cambiamenti e non li capiva, ma che mia madre aveva ragione su una cosa: le sue figlie non potevano morire come la loro amica. Io e mia sorella ricevemmo il permesso di fare la cerimonia senza il taglio.
Tre anni dopo nostro padre annunciò che stava negoziando la dote con la famiglia di un ragazzo che voleva mia sorella in moglie, una famiglia importante che aveva molto più bestiame di noi. Regina era spaventata. Adesso era entrata anche lei alla secondaria e non voleva lasciarla. E non aveva idea di chi fosse il ragazzo che l’aveva chiesta in sposa. Raccontai tutto a Catherine che tornò al villaggio per parlare con mio padre e mia madre, spiegò loro che Regina era troppo giovane e che per il suo bene era meglio aspettare ancora qualche anno e lasciare che finisse la secondaria. Mio padre si arrabbiò moltissimo: «Ho già accettato la cerimonia come la volete voi», disse, «ora basta. A sposarsi non si muore. Se io non do mia figlia a una famiglia che me la chiede, qualcun altro rifiuterà la propria figlia a un membro della mia famiglia. I miei parenti soffriranno a causa mia e non mi vorranno più fra loro».
Papà sembrava inamovibile e Regina, che si era rassegnata, lasciò la scuola; dimagrì tanto, mangiava a stento e cominciò a non parlare quasi più.
Ma in quei giorni la figlia di un nostro parente perse il bambino che portava in grembo, finì all’ospedale e rimase in vita per un soffio. Aveva sedici anni e il suo corpo, semplicemente, non era pronto per una gravidanza. Mio padre fu molto colpito, credo abbia pensato che quello che era successo era un segno, un messaggio per lui. Non volle vedere nessuno per due giorni, poi chiese lui di vedere Catherine.
Rimasero tanto tempo seduti a parlare su un tronco al limitare della manyatta e quando ebbero finito, mio padre chiamò mia madre, Regina e i miei fratelli e disse a mia sorella che poteva tornare a scuola. Mia madre non mosse un muscolo del viso mentre mio padre parlava, ma Regina dice che appena lui girò le spalle per rientrare in casa lei fece un sorriso come non le aveva mai visto fare.
Regina ha continuato e finito la secondaria e mentre era a Wamba a studiare ha conosciuto Daniel, il giovane uomo smilzo diplomato in elettrotecnica che sta per diventare mio cognato. A dire la verità lo è già: lui e Regina si sono sposati la settimana scorsa in chiesa a Wamba ma hanno voluto fare anche il matrimonio tradizionale qui al villaggio, per rendere omaggio ai loro genitori e alla cultura dalla quale veniamo. La famiglia di Daniel ha anche pagato la dote, come vuole la tradizione.
Guardo il bel viso di mia sorella decorato con ocra rossa, il suo collo ornato di collari colorati, cerco di immaginare la sua gioia quando fra poco indosserà il mporro engorio, la collana delle donne sposate, e ringrazio Dio perché siamo qui.
Mi chiamo Milagros,
ma a scrivere questa lettera è mia nipote, Noellys. Io so leggere ma ho difficoltà a scrivere. Alle donne indigene della mia età non è stato insegnato bene.
Domani partiamo. Lasciamo la nostra terra e andiamo in Brasile. Qui a Tucupita non si può più stare. Il Venezuela ormai è troppo povero. Io ho il diabete e qui non riesco più a comprare le medicine. Mio figlio Raphael ha un lavoro, ma il suo salario di un mese basta appena per mangiare una settimana e niente altro.
Andremo prima in un posto che si chiama Pacaraima. Hanno fatto tutti così. Tutti quelli che sono partiti prima di noi. Sono tantissimi. Poi andremo a Boa Vista oppure a Manaus, così ha detto Raphael. Lui cercherà un lavoro e speriamo di poter stare meglio.
Sono preoccupata, molto preoccupata. Il viaggio è lungo e io sono vecchia. Farò molta fatica. Poi bisogna sperare che tutto vada bene. Che facciamo se i brasiliani non ci vogliono? Se ci cacciano? Se ci attaccano? A qualcuno partito prima di noi è successo@.
E quando saremo di là che cosa succederà? Mio figlio e mia nuora troveranno lavoro? Io potrò aiutarli? Certamente terrò i miei nipoti mentre i loro saranno al lavoro. Io so anche fare le amache e i cesti di moriche. Io e mia sorella Maria lo abbiamo insegnato a tante donne, eravamo le più esperte. Troverò la palma di moriche là dove andiamo? E qualcuno vorrà le mie ceste?
Chiara Giovetti
Queste storie, raccontate da donne immaginarie, non sono inventate, piuttosto le abbiamo messe insieme. Sia le donne che le storie. Le abbiamo ascoltate nella periferia della capitale della Mongolia, dove vivono le bambine come Oyun alle prese con il difficile adattamento alla città. Un’impresa per chi ha vissuto sempre all’aria aperta con le greggi e si trova ora a dover affrontare povertà, alcolismo, violenza ed emarginazione. E un inquinamento mostruoso, con quantità di polveri sottili 133 volte più alte di quelle che l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) considera accettabili e una funzionalità polmonare dei bambini del 40% più bassa rispetto ai coetanei che vivono in aree rurali.
Le abbiamo incontrate in Kenya, dove organizzazioni locali – nelle quali spesso lavorano donne formate nelle nostre scuole – cercano di accompagnare le comunità a comprendere i danni causati dalla Mgf e trovare vie alternative all’iniziazione alla vita adulta e al matrimonio.
Le abbiamo intuite nelle parole delle anziane indigene come Milagros, che si trovano a vivere in un mondo capovolto dove nessuno le può più proteggere e accudire perché possano riposare dopo una vita passata a lavorare e prendersi cura della famiglia ma, al contrario, devono rimettersi in gioco e migrare – come a oggi stanno facendo centinaia di migliaia di venezuelani – o, bene che vada, cavarsela da sole@.
Chiara Giovetti
A tutte queste donne è dedicato il nostro Natale. Perché siamo convinti che prima dei doni da scambiarsi e da aprire venga il dono delle persone. E chi dice donna, dice dono.
Vuoi aiutarci?
Chi dice donna dice… dono
Quest’anno, per la nostra campagna di Natale, parliamo di donne: tanto preziose quanto poco valorizzate in molti dei paesi nei quali lavorano i missionari della Consolata. Le seguiamo in tutte le fasi della loro vita: bambine, ragazze, adulte, anziane, studentesse, lavoratrici, madri, nonne.
«Tanto tempo fa in un discorso fatto all’Onu dissi che volevamo che gli uomini facessero qualcosa per noi. Quel tempo è passato. Non chiederemo agli uomini di cambiare il mondo, lo faremo noi stesse». Così si è rivolta al World Economic Forum di Davos lo scorso gennaio Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace 2014, attivista pachistana per il diritto all’istruzione che nel 2009 i talebani cercarono di zittire sparandole alla testa. Malala ha esortato ogni donna e bambina a farsi sentire, denunciando le discriminazioni e violenze che vedono nelle loro comunità e nelle loro società.
Se le donne e le bambine del mondo decidessero di farsi sentire tutte contemporaneamente, il pianeta diventerebbe un posto piuttosto rumoroso. Risuonerebbero, infatti, le parole di protesta di 34 milioni di bambine in età da scuola elementare che non sono in classe; più forte di tutte sarebbe la voce di 15 milioni di potenziali alunne – 9 milioni nella sola Africa – che probabilmente in un’aula non ci metteranno mai piede.
Si sentirebbe inoltre il lamento del miliardo e duecento milioni di donne che nel corso della vita hanno subito violenza fisica o sessuale almeno una volta e di 750 milioni di donne che si sono sposate prima dei 18 anni. Oggi continuano a essere costrette al matrimonio almeno 23 bambine al minuto, per un totale di 12 milioni all’anno@. Si udirebbe senz’altro il grido di dolore – e in questo caso non è un’espressione retorica – di 200 milioni di donne e bambine che hanno subito una forma di mutilazione genitale in trenta paesi del mondo@.
Questo coro è solo immaginario; ma le singole voci sono reali e ben distinguibili. I nostri missionari le ascoltano ogni giorno nel loro lavoro, cercando di fare loro da megafono e di trovare risposte efficaci.
Spose invece che alunne
Tra i Turkana (nel Nord Ovest del Kenya, distribuiti nelle contee del Turkana, Samburu e Marsabit), nascere femmina in una famiglia di pastori nomadi significa spesso dover rinunciare alla scuola. Lo sanno bene i missionari che operano a Loyiangalani e che da circa dieci anni portano avanti un’iniziativa di alfabetizzazione per bambini (destinati a essere pastorelli) e bambine (destinate al matrimonio precoce) che non sono mai andati a scuola.
La contea Turkana è una di quelle che ha il tasso di scolarizzazione più basso: solo metà dei bambini vanno a scuola, contro il 92% della media nazionale. Per le femmine, l’abbandono scolastico è ancora più probabile e i matrimoni precoci ne sono una causa.
Nella contea Samburu, dove si trova il Wamba Catholic Hospital – gestito dalla diocesi di Maralal di cui è vescovo monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata – la situazione delle bambine è ancora più complessa. Qui, secondo uno studio dell’Unicef (esteso anche ad altre quattro aree dove vivono i gruppi etnici Masaai, Pokot, Somali e Rendille) al problema dei matrimoni precoci si affianca e si lega quello delle mutilazioni genitali femminili (Mgf o – in inglese – Fgm, female genital mutilation). Su un campione di quasi 5.300 donne intervistate, per Wamba i dati sono preoccupanti: la mutilazione (escissione della clitoride senza infibulazione, la quale, quest’ultima, comporta anche la cucitura della vagina, ndr) riguarda il 95% delle donne di 18-49 anni e il 57% delle bambine fra i 10 e i 17@.
Alcuni punti sulla Mgf
La questione delle mutilazioni genitali femminili è complessa e va capita bene nel suo contesto. L’esperienza dei nostri missionari e missionarie evidenzia che:
– è una pratica ben radicata nella tradizione culturale di molti (non tutti) popoli africani;
– non viene praticata per ragioni igieniche e non è un fatto privato;
– è sempre legata a due riti di alto significato culturale e sociale, come l’iniziazione o il matrimonio;
– è il segno della nuova identità sociale della bambina (o giovane) che, con il rito, diventa «adulta».
Si tratta dunque di un fenomeno culturalmente complesso e radicato, al punto che molte ragazze chiedono di essere sottoposte all’escissione prima di iniziare la scuola secondaria per non essere escluse o umiliate dalle loro compagne. Per contrastare questa pratica non basta quindi dire «no alle Mgf»: occorre aiutare la comunità a creare forme alternative e socialmente accettate di rituali di passaggio e iniziazione.
L’abolizione delle Mgf o la loro sostituzione con altri riti devono conciliare il diritto della persona all’integrità del proprio corpo con la sua esigenza di essere pienamente inserita, accettata e rispettata nella sua società e cultura.
Il peso dei condizionamenti sociali
Che la pressione sociale e la mancanza di consapevolezza dei propri diritti spingano molte donne a prendere posizioni che le danneggiano è confermato anche dal dato riportato in un rapporto Unicef del 2014. Nel mondo, quasi la metà delle adolescenti (15-19 anni) pensa che un marito o un partner siano giustificabili se picchiano la moglie o la compagna in alcune circostanze: se la moglie litiga con il marito, esce senza avvertirlo, trascura i bambini, rifiuta di avere rapporti sessuali o brucia il cibo. In Africa subsahariana, Medio Oriente e Nord Africa le adolescenti convinte di questo superano la metà@.
Il lavoro dei nostri missionari in questo paese si è recentemente arricchito di un metodo di formazione che si chiama «pedagogia della cura» e che nella zona di Puerto Leguizamo coinvolge gli studenti delle scuole superiori in percorsi di controllo e gestione delle frustrazioni e della rabbia e di risoluzione pacifica dei conflitti interpersonali. Anche attraverso questi percorsi si sta tentando di eliminare la violenza che spesso nasce «in contesti familiari caratterizzati da abuso di alcol, machismo e povertà» e che nella stragrande maggioranza dei casi hanno nelle bambine e nelle donne le principali vittime.
Le barriere invisibili
Gli ostacoli che impediscono alle donne di avere accesso a istruzione e sanità non sono sempre facili da individuare: solo una relazione costante e ravvicinata con le comunità può permettere di scorgerli e rimuoverli. Spesso, infatti, questi ostacoli derivano dalla reticenza ad affrontare temi considerati tabù, come il ciclo mestruale, oppure dal delicato equilibrio nei rapporti fra uomo e donna all’interno della famiglia.
Unicef stima che le scuole prive di servizi igienici adeguati nei paesi a basso reddito siano circa la metà. E basta che una scuola manchi dei servizi perché le ragazze rinuncino ad andare a lezione durante il periodo mestruale. Questo problema, stando ai dati diffusi dall’Unesco, interessa una ragazza su dieci in Africa subsahariana, causando per ciascuna una riduzione del venti per cento del tempo passato sui banchi e, a volte, il totale abbandono del percorso scolastico.
Quanto all’accesso ai servizi sanitari di base: ci sono ostacoli evidenti come la mancanza di strutture, e poi altri meno visibili, ma ugualmente determinanti, come le resistenze culturali. Un esempio è il lungo dialogo tra i missionari della Consolata di Dianra, Costa d’Avorio, e le comunità locali per decidere la costruzione di alcuni centri di salute nei villaggi legati al dispensario di Dianra Village (vedi Cooperando, MC Aprile 2017). Poiché lì le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi (e quindi andare dall’équipe medica per se stesse o i figli), i missionari hanno dialogato con i leader comunitari perché tutti fossero sensibilizzati sull’importanza dell’assistenza sanitaria.
La Costa d’Avorio ha uno dei tassi di mortalità materna più alti dell’Africa subsahariana (645 madri decedute ogni 100mila nati vivi nel 2015@) e quasi tre donne su dieci partoriscono senza l’assistenza di personale qualificato.
Il difficile accesso al mercato del lavoro
La partecipazione attiva delle donne alla vita economica di una comunità genera benefici per tutti. Uno studio McKinsey del settembre 2015 ha stimato che, se le donne fossero economicamente attive alla pari degli uomini, il Pil mondiale aumenterebbe di 28mila miliardi entro il 2025. Se ogni paese, anche non raggiungendo la completa parità di genere, si impegnasse almeno a «copiare» il vicino più virtuoso nel garantire alle donne la partecipazione alla vita economica, l’aumento del Pil sarebbe comunque pari a 11mila miliardi di dollari a livello globale, con un aumento del 12% in Africa e del 14% in America Latina. La sola India vedrebbe aumentare la sua crescita del 16%. Per i paesi in via di sviluppo presi nel loro insieme la fetta di aumento del Pil sarebbe di circa 4mila su 11mila miliardi di dollari@.
Il World Economic Forum ha stilato una classifica dei paesi del mondo che misura la parità di genere: i quattro più vistuosi sono l’Islanda, la Norvegia, la Finlandia e il Ruanda, mentre il primato negativo va allo Yemen, seguito da Pakistan, Siria e Ciad.
Nonostante le numerose conferme del loro valore, le donne rimangono a livello globale meno pagate e più probabilmente disoccupate o occupate in lavori precari rispetto agli uomini. Su di loro ricade quasi sempre l’incombenza di occuparsi dei familiari, si tratti di bambini, anziani o malati.
Investire sulle donne
Le esperienze dei nostri missionari confermano che investire sulle donne paga: i numerosi progetti di piccola imprenditoria e microcredito in RD Congo, Kenya, Costa d’Avorio hanno consentito alle donne di sostenere le proprie famiglie, pagare le spese mediche e coprire i costi per l’istruzione dei figli. Il microcredito che i missionari gestiscono nel Nord della Costa d’Avorio ha percentuali di restituzione del prestito che non scendono mai sotto il 98%. A Camp Garba, in Kenya, il lavoro con le donne dei gruppi etnici turkana e borana iniziato con un progetto di agricoltura e sartoria è stato fondamentale nel ricostruire i rapporti fra le comunità all’indomani degli scontri che nel 2012 opposero i due gruppi etnici e che avevano portato alla morte di trenta persone, alla distruzione di 150 case e all’esodo forzato di tremila sfollati. Oggi, un gruppo consolidato di donne turkana, borana e somale continua a collaborare per mandare avanti le attività ed è riuscito a coinvolgere altri membri della comunità in un progetto di allevamento di bestiame.
Le incerte prospettive per le donne anziane
Il mondo sta invecchiando, avverte la prestigiosa rivista scientifica inglese The Lancet: nel 2015 le persone sopra 60 anni di età erano 900 milioni, nel 2050 saranno due miliardi e la maggior parte di queste vivrà nei paesi in via di sviluppo, principalmente in Asia. Ma anche l’Africa subsahariana vedrà i suoi anziani triplicare: dagli attuali 53 milioni a 150. Eppure, lamenta il direttore dell’International Longevity Centre all’Università di Cape Town, Sebastiana Kalula, nell’agenda politica dei governi africani il fenomeno e il tema di come affrontarlo non appaiono fra le priorità. L’invecchiamento interesserà maggiormente le donne, che tendono a vivere più a lungo degli uomini sia nei paesi ad alto reddito che in quelli più poveri@. A questo fenomeno se ne combinano altri due: in primo luogo, la migrazione verso le città porterà i due terzi della popolazione mondiale a vivere in centri urbani; inoltre, la precarietà del lavoro spingerà le persone a lavorare più a lungo e più lontano da casa. Un possibile effetto del combinarsi di invecchiamento, inurbamento e precarietà potrebbe essere che le donne anziane non solo non saranno accudite dai familiari più giovani, ma potrebbero trovarsi loro stesse costrette a occuparsi dei loro nipoti. Già oggi, la condizione degli anziani abbandonati, ammalati e in povertà assoluta è ben nota ai missionari della Consolata che a Sagana, Kenya, gestiscono una casa per le anziane o che a Guiúa, in Mozambico, hanno avviato un programma per anziani malnutriti fra i quali le donne sono la maggioranza.
Chiara Giovetti
CAMPAGNA
DI NATALE 2018
Un dono…
per riparare i danni
«Chi dice donna dice danno», recita un detto popolare. Nel detto può esserci del vero, a patto di completarlo: «Chi dice donna dice danno… che lei subisce». Ogni giorno, in tutto il mondo.
Il nostro impegno è da sempre quello di proteggere, promuovere e valorizzare le donne, ma quest’anno vogliamo fare di più: ci impegneremo a eliminare i danni che le donne subiscono e aiutarle a dimostrare alle comunità quanto la loro presenza sia un dono.
❤ Con 10 euro puoi donare il materiale didattico a una bimba
nei nostri asili.
❤ Con 10 euro garantisci a una donna un parto sicuro,
con 50 euro un parto cesareo.
❤ Con 50 euro copri un mese di cibo, farmaci e assistenza
per un’anziana seguita nei nostri centri.
❤ Con 100 euro sostieni il salario mensile di un insegnante
per l’alfabetizzazione delle donne.
❤ Con 300 euro sostieni a distanza una bambina
della scuola primaria.
I Perdenti 38. «T2OS»: Chiquitunga, Maria Felicia Guggiari Echeverría
Grande gioia in tutto il Paraguay sabato 23 giugno 2018 per la proclamazione di Chiquitunga come la prima beata nata in terra Guaranì. La solenne celebrazione, presieduta dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, come delegato di papa Francesco, si è svolta nella capitale Asunción, nello stadio Pablo Rojas del Barrio Obrero.
La nuova beata è María Felicia de Jesús Sacramentado, al secolo María Felicia Guggiari Echeverría, suora dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, nata a Villarica (Paraguay) il 12 gennaio 1925 e morta ad Asunción il 28 aprile 1959. Nella sua terra tutti la conoscono con il simpatico soprannome in lingua guaranì di Chiquitunga, che il suo papà le diede fin da piccola a motivo del suo fisico minuto.
Chiquitunga è diventata, così, la prima donna paraguayana a essere annoverata tra la schiera dei beati della Chiesa. Commentando tale evento, mons. Edmundo Valenzuela, arcivescovo della capitale, ha affermato che María Felicia Guggiari Echeverría è ascesa «alla gloria degli altari» in quanto tutta la sua vita fu interamente dedicata al Signore e ai poveri della sua terra. Mons. Valenzuela ha poi proseguito dicendo che: «Chiquitunga ha avuto una vita ricca di apostolato e contemplazione, sapendo mettere insieme questi suoi doni dentro una militanza molto intensa nell’Azione Cattolica (ricordiamo che prima di entrare nel Carmelo ella fece parte per diversi anni dell’A.C. paraguayana) dove si distinse come brillante catechista di bambini, ragazzi e giovani, oltre ad essere costantemente vicina ai poveri, agli emarginati e ai bisognosi».
Il 14 agosto 1955, all’età di 30 anni, abbracciò la vita contemplativa entrando nel ramo femminile dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, dove assunse il nome di María Felicia de Jesús Sacramentado. A causa di una malattia fulminante, si spense il 28 marzo 1959.
María Felicia, parlaci un po’ di te, della tua storia, della tua famiglia, in poche parole presentati a noi che conosciamo ben poco della tua vita e del tuo meraviglioso paese.
In famiglia eravamo sette fratelli ed io ero la primogenita, mio papà si chiamava Ramón Guggiari mentre la mamma Arminda Echeverría. Fui battezzata a tre anni, a cinque anni fui accettata nel Collegio Maria Ausiliatrice e a dodici anni feci la Prima Comunione.
Un evento che ebbe una particolare rilevanza nella tua vita, o sbaglio?
Da quel momento mi accordai con Gesù per migliorarmi giorno dopo giorno, per essere sempre più buona, più attenta ai bisogni e alle esigenze di chi mi stava attorno.
Già ma le turbolenze politico-militari del tuo paese, cominciarono a condizionare molto presto la tua esistenza.
Mio padre era noto in città come fervente oppositore a una visione politica e ideologica molto affine al fascismo che andava insinuandosi in quel periodo nella società paraguayana. Le sue ferme prese di posizione per una democratizzazione del nostro paese gli costarono l’esilio. Di conseguenza anche la nostra famiglia subì tutta una serie di angherie che turbarono non poco il clima di casa nostra.
Ovviamente tu non potevi sottrarti a quello che accadeva, sia nel tuo paese come nella tua famiglia.
Infatti, solo con molte difficoltà potei terminare la scuola primaria. Nel 1940 iniziai gli studi secondari fino ad ottenere il diploma di maestra elementare.
In quegli anni oltre alla scuola ci furono altre circostanze che ti portarono ad assumere ruoli molto importanti che incisero non poco nella tua vita. Se non sbaglio sei stata una delle prime ragazze del tuo paese ad aderire all’Azione Cattolica.
Un anno fondamentale nella mia vita giovanile fu il 1941, quando entrai a far parte dell’Azione Cattolica che proprio in quell’anno veniva istituita in Paraguay. E con l’entusiasmo dei neofiti, insieme ad alcuni amici, iniziammo ad organizzare riunioni e momenti di preghiera cui partecipavo con assiduità. Appresi così a conoscere e ad amare Gesù, che dal quel momento in poi fu per me l’ideale di vita del quale mi innamorai appassionatamente. A 17 anni decisi di consacrarmi all’apostolato dell’AC offrendo a Cristo tutta la mia esistenza.
Anche la tua pratica quotidiana di fede si perfezionò tantissimo.
In questa fase della mia gioventù mi dedicai interamente al Signore, che ricevevo quotidianamente, anche se ciò comportava alzarmi di buon’ora e recarmi alla messa a digiuno (da mezzanotte), per poter ricevere la santa comunione.
Non ti limitavi però a partecipare solo alle celebrazioni liturgiche.
È vero, il resto della giornata lo trascorrevo visitando gli ammalati e gli anziani. Mentre all’interno della vita associativa dell’Azione Cattolica, mi venne affidato un compito speciale e delicatissimo, ovvero seguire le «Piccolissime», cioè le bambine più piccole della mia parrocchia, un compito al quale ero preparata da tempo per l’impegno che avevo assunto in famiglia nel servizio verso i miei fratellini.
Sei davvero di una umiltà disarmante, infatti noi sappiamo che facevi molto altro.
Oltre che seguire le attività delle «Piccolissime» di AC, cercavo di avere una certa attenzione agli umili, ai malati, agli abbandonati, ai carcerati di qualunque tendenza politica o religiosa fossero. Quando li visitavo mi proponevo di dare loro sempre un pizzico di gioia e di allegria.
Una volta ritornato tuo papà dall’esilio, la tua famiglia si trasferì da Villarica ad Asunción per avere più tranquillità grazie all’anonimato della capitale e ritrovare così un po’ di pace.
Ad Asunción decisi di iscrivermi alla Scuola Normale per diventare maestra di scuola e una volta diplomata trovarmi un lavoro. In quel tempo cercavo di modellare la mia vita interiore su un permanente cammino di fede, fatto di speranza e amore, tutto ciò per essere più fedele a Gesù e vivere con maggiore coerenza il suo messaggio di tenerezza infinita, quindi invitando tutti al perdono reciproco e alla riconciliazione specialmente con gli avversari politici dopo anni di incomprensione.
In quel periodo conoscesti un giovane di cui t’innamorasti perdutamente.
Proprio così. Durante un’assemblea di AC, conobbi Ángel Sauá Llanes, un giovane studente di medicina, membro del comitato direttivo dell’opera, con il quale simpatizzai subito e dopo poco tempo iniziammo a uscire insieme per svolgere il nostro apostolato fra la gente.
La frequentazione di un giovane fu ben accettato dai tuoi, inoltre facilitava il tuo uscire di casa per i numerosi impegni – legati all’Azione Cattolica – che avevi avviato in diversi quartieri della città.
Sì e oltre tutto lavorare gomito a gomito con Ángel, mi diede l’opportunità di entrare in quei quartieri periferici nei quali per una ragazza sola sarebbe stato pericoloso avventurarsi. Con il tempo la simpatia tra noi si approfondì, fino a trasformarsi in un vero sentimento di amore reciproco. A quel punto cominciai a interrogarmi: «Cosa vorrà dirmi il Signore con questo amore che non ho cercato e che Egli ha suscitato nel mio cuore?».
Dopo intensi momenti di preghiera e lunghe riflessioni fu chiaro che il disegno che Dio aveva preparato per voi era piuttosto originale.
Difatti una sera egli mi confidò che avvertiva nel profondo della sua coscienza in maniera molto chiara la chiamata a diventare sacerdote. Allora compresi che con il mio sentimento genuino di amore, Dio mi chiedeva di amarlo come «sacerdote» e «santo».
Per cui il primo ottobre 1951, di comune accordo realizzammo quello che si chiama «sposalizio mistico», insieme ci consacrammo a Maria Immacolata perché presentasse questa nostra «piccola offerta» a suo figlio Gesù: Ángel sarebbe diventato sacerdote ed io mi sarei consacrata a Dio nel mondo o dove il Signore mi avrebbe indicato.
E cosa avvenne dopo?
Il primo aprile 1952 prendemmo l’impegno di separarci «a causa di Dio e per Dio» e il dieci dello stesso mese lui partì per l’Europa dove avrebbe terminato i suoi studi di medicina e iniziato quelli di teologia per il sacerdozio. Nei mesi seguenti gli scrissi una gran quantità di lettere incoraggiandolo ad andare avanti sulla strada intrapresa per seguire la sua vocazione.
Immagino che anche per te nella nuova situazione venutasi a creare cambiarono molte cose.
Partecipando agli Esercizi spirituali dell’AC nel gennaio del 1954, anch’io giunsi a prendere una decisione fondamentale per la mia vita, decisi di consacrarmi completamente a Dio nel Carmelo, realizzando quello che era un po’ il ritornello della mia vita fin dall’adolescenza, quando espressi il mio ideale di vita cristiana in una formula: «T20S», ad imitazione delle formule chimiche che vedevo nei miei libri e che stava a significare «Tutto Ti Offro Signore». E con un’autentica grande gioia nel cuore, donai a Gesù tutta me stessa: la mia giovinezza, il mio amore, l’impegno del mio apostolato.
E così il 2 febbraio del 1954, festa della Presentazione di Gesù al tempio, varcasti la porta della clausura e, con il sorriso sulle labbra, attorniata da tutta la tua famiglia che tanto amavi, entrasti nel Carmelo di Asunción.
Alcuni giorni dopo il Signore iniziò il suo lavoro di purificazione della mia persona facendomi attraversare quella che i mistici chiamano «la notte dello spirito». L’incertezza sulla scelta fatta si impossessò di me. Pensavo che forse era stato un errore lasciare il mondo, dove svolgevo tanto bene i miei molteplici impegni; che chiudermi in clausura era come mettere la lampada sotto il moggio.
Del resto, è abbastanza scontato che in questa fase della tua nuova vita potessi avere qualche momento di timore e apprensione.
Devo dire che l’apice dell’oscurità lo raggiunsi durante gli Esercizi Spirituali prima della vestizione solenne, ma a poco a poco queste paure si dileguarono. Nella nuova vita al Carmelo cominciavo a sperimentare la vicinanza dell’Amato a cui chiedevo insistentemente una cosa sola: «Amore per amare». Finalmente il 14 agosto del 1955 ricevetti l’abito claustrale del Carmelo.
Ti sentivi pienamente realizzata come donna, come religiosa e come monaca.
La mia vita nel Carmelo non poteva essere più semplice e gratificante, infatti non facevo altro che amare, amare e amare di più Gesù e i suoi fratelli, ovvero gli esseri umani di tutto il mondo, a qualunque continente o popolo appartenessero, soprattutto i più poveri ed emarginati. Un sentimento speciale lo coltivavo per le mie consorelle di comunità, per i sacerdoti, che avevo sempre presenti nelle mie preghiere, a cominciare dal mio «amico» che si preparava al sacerdozio, per i poveri e gli umili.
Il 15 agosto 1959 avrebbe dovuto essere il giorno del suo impegno definitivo di amore con il Signore, con la professione perpetua solenne. Ma María Felicia «sentiva» che Lui voleva incontrarla prima, e lei come sempre era pronta. Nel gennaio del 1959, le fu diagnosticata una epatite infettiva. Fu portata alla Croce Rossa per essere debitamente curata. In effetti, durante la Quaresima, poté essere dimessa. Ritornò al suo amato piccolo monastero. Si dedicò alla vita monastica con tutta la sua generosità unita al desiderio sempre più vivo d’immolazione. Giunse la Settimana Santa e si unì spiritualmente alla Passione di Gesù, mettendo a disposizione tutta la sua creatività piena di fantasia ed amore.
Il Venerdì Santo, il cappellano, dandole la comunione, notò un livido nella lingua. Il sabato cominciarono a manifestarsi macchie di sangue che la domenica ed il lunedì di Pasqua si moltiplicarono. Il martedì una grave emorragia allarmò la Madre priora che fece venire immediatamente Freddy Guggiari, il fratello medico. La diagnosi fu immediata: «Porpora trombotica».
Il giovane dottore uscì singhiozzando dalla stanza dell’inferma: «Essere medico e non poter salvare mia sorella!». Ricoverata di nuovo nell’Ospedale della Croce Rossa, cominciò il suo Calvario, la sua unione definitiva con la Croce, con una pazienza e un’allegria incredibili. Chi la vedeva anche solo per pochi istanti diceva: «È un’altra Teresina di Lisieux». Lei però desiderava tornare presto al Carmelo e il Signore la accompagnò al Carmelo del Cielo.
Ogni giorno era circondata dai suoi familiari a cui María Felicia ripeteva: «Sono felice di morire nel Carmelo!», anche in quei momenti non si spense mai il sorriso sulle sue labbra. Alle quattro del mattino del 28 aprile, la si udì bisbigliare: «Gesù, che dolce incontro! Vergine Maria!». Furono le sue ultime parole prima di entrare nel Regno dei Cieli.
Don Mario Bandera
Racconti di donne straniere in Italia
Testi delle seguenti donne straniere e non: Alessandra Rosa, Luisa Zhou, Jacqueline Nieder, Dounya Mahboub, Angela María Osorio Méndez | Foto di: Carlo Cretella | A cura di: Gigi Anataloni | Per gentile concessione del «Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre»
Il concorso, promosso dalla regione Piemonte e dal Salone internazionale del libro di Torino, e ideato nel 2005 da Daniela Finocchi, è diretto alle donne straniere (anche di seconda o terza generazione) residenti in Italia, con una sezione per le donne italiane che vogliano raccontare le donne straniere che hanno incontrato e che hanno saputo trasmettere loro «altre identità».
Al concorso si possono inviare racconti e/o fotografie, la premiazione avviene nella giornata di chiusura del Salone del libro di Torino e le opere selezionate ogni anno sono pubblicate in un’antologia.
Non vengono messi limiti, né barriere. Si può scrivere e fotografare a qualsiasi età e in qualsiasi condizione, che si sia una bambina delle elementari o una donna detenuta, e si può partecipare da sole, con opere realizzate a quattro mani, ma anche in gruppo. E se l’italiano scritto non lo si padroneggia ancora, non importa, ci si può far aiutare da un’altra donna italiana (il bando del concorso non solo lo ammette ma lo incoraggia). Scopo del progetto è dare voce a chi spesso non ce l’ha e creare occasioni di scambio, relazione, conoscenza.
Il progetto opera sotto gli auspici del Centro per il libro e la lettura, dell’Istituto autonomo del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo e, in dodici anni, è diventato qualcosa di più grande e complesso, svolge oltre 100 incontri ogni anno su tutto il territorio nazionale con laboratori, incontri, presentazioni, convegni, reading e tanto altro. Inoltre, dal ricco materiale di narrazioni raccolte sono nate e continuano a svilupparsi tante altre iniziative e progetti che vanno dalla realizzazione di video e prodotti multimediali a mostre, libri, spettacoli teatrali tratti dai racconti e festival internazionali.
La nostra riconoscenza a Daniela Finocchi, ideatrice e coordinatrice del Concorso nazionale letterario «Lingua Madre», per aver voluto condividere con i lettori di MC queste storie di vita.
Tutti i testi del 2016 sono pubblicati nel volume: Lingua Madre Duemilasedici. Racconti di donne straniere in Italia, edizioni SEB27. Concorso Letterario Nazionale Lingua Madre
Casella Postale 427 – Via Alfieri, 10 – 10121 Torino Centro
Aprì la porta e si accorse che era venerdì… dai corridoi proveniva un olezzo nauseante di pesce (il venerdì in prigione c’è sempre il pesce… e c’è sempre lo stesso olezzo!). Come ogni mattina, A. si era alzata verso le 7.30 e, bevuto il suo caffè, aveva cominciato a sbrigare le faccende di «cella» (già, nulla cambia, nemmeno in prigione, quelle ci toccano sempre) e fu proprio in quel momento che, alzati gli occhi verso quell’orizzonte, grigio anche nei giorni di sole, vide Ele davanti all’ufficio matricole. Per chi non lo sapesse quest’ufficio si potrebbe descrivere come una specie di tornello che se lo prendi in un senso è la prima porta verso l’inferno, ma se lo prendi al contrario è l’ultima porta prima del paradiso: Ele quel giorno lo stava prendendo dalla parte sbagliata. In qualche modo A. fu immediatamente colpita da quella miriade di colori su sfondo nero, era un arcobaleno di fucsia, verde pisello e giallo; A. pensò tra sé e sé che nonostante quella ragazza fosse «nera» (perché è così che le detenute bianche chiamano quelle di colore) di «nero» aveva ben poco e sprigionava allegria colorata in ogni suo movimento, mentre il suo atteggiamento complessivo aveva un non so che di armonico, di aggraziato.
Dai corridoi proveniva il solito brusio: «Ecco, ne arriva un’altra», «Nuova giunta», «Africa» e via via cominciava la lotteria per scoprire per quale motivo Ele stava entrando a far parte di quella grande famiglia allargata (già, perché, per molti detenuti il carcere diventa, per un determinato periodo di tempo, una nuova famiglia, mentre per altri è l’unica che abbiano mai avuto… per tutti comunque è la famiglia adottiva che nessuno può rifiutare).
Mentre la vedeva camminare, A. avrebbe voluto avvisarla, prepararla, proteggerla come una mamma fa istintivamente verso una figlia (d’altronde si dice che una tigre in gabbia rimane sempre una tigre ma anche una madre in gabbia rimane sempre una madre), perché Ele sembrava proprio una bambina dal corpo agile di una gazzella e dagli occhi impauriti di un cerbiatto e una madre riconosce sempre la paura negli occhi di un bambino. Però dalle finestre del carcere non si può urlare, si rischia un rapporto disciplinare (la prima cosa che ti insegnano in carcere è quella di farti gli affari tuoi, che è quasi sempre meglio) e allora A. rimase in silenzio.
A. sapeva che Ele stava per affrontare la parte più forte del dolore, quella più «invasiva» dell’entrata in carcere; infatti, nonostante la gentilezza istintiva con la quale una donna tocca un’altra donna, quella divisa blu notte l’avrebbe spogliata di tutto, le avrebbe fatto aprire le gambe e con un colpo di tosse le avrebbe chiesto di buttare fuori l’ultima parte di Africa che ancora teneva nascosta dentro di sé; solo chi ci è passato sa cosa si prova a spogliarsi quando non ti vuoi spogliare, quando non è ora di farlo, e cosa si prova a rimanere nude di fronte a qualcuno che non sei stato tu a scegliere, senza neppure ricevere un qualsiasi compenso come prezzo della tua vergogna, del tuo avvilimento! «Povera Ele!» pensò A.
Il caso volle che Ele finisse proprio di fronte alla cella di A., portava sulle braccia un lenzuolo, una coperta, lo shampoo, lo spazzolino, il dentifricio… ma era la paura a pesarle maggiormente e a farle piegare le braccia, come se stesse portando un peso spropositato per le sue forze.
La chiusero nella cella n. 16 e alla chiusura della porta A. vide Ele trasalire… e chi è stato in carcere sa bene perché si sobbalza al rumore delle chiavi che chiudono la cella dietro di te: è un rumore sinistro che non si dimentica più, mai più.
Ele ebbe solo un momento per guardare negli occhi A. poi scoppiò in un pianto silenzioso e nella sezione smisero tutti di parlare, smisero di fare qualsiasi cosa per ascoltare e rispettare quel pianto. In prigione con le lacrime ti puoi fare la doccia ma nessuno si permette di prenderti in giro quando piangi, nessuno osa dire di smettere, perché si impara a rispettare il dolore degli altri, a volte più del proprio.
Un’ora dopo, A. preparò un buon caffè, scaldò un po’ di latte, due biscotti e li porse ad Ele… Ele non parlava, sorrideva e diceva solo «grazie», ma in quel sorriso A. aveva visto tutta l’Africa che quella povera ragazza aveva lasciato da bambina e quel sorriso… non riuscirà mai più a dimenticarlo.
Ele consegnò ad A. un plico di carte: erano scritte in italiano ed Ele di italiano sapeva poco o niente, solo qualche rara parola che le serviva per lavorare, di cui non andava certo fiera, ma che all’occorrenza usava con profitto.
In quei fogli c’era la previsione di un infausto futuro (chissà perché i magistrati tendono sempre a rendere le cose più brutte e gravi di quello che sono in realtà… per «spaventarti» dicono, come se di paura Ele non ne avesse già provata abbastanza in quella buia strada del sesso dalla quale proveniva). In ogni caso le quaranta pagine di carte che Ele nemmeno capiva avevano il peso di quaranta catene di ferro e la stavano imprigionando.
Ad un certo punto A. vide che Ele aveva smesso di piangere, che si era alzata in piedi di fronte alla finestra… non che ci fosse nulla di interessante da guardare al di fuori di quell’apertura sigillata con una grata di ferro, a parte le ciminiere di una discarica che non avevano nulla da spartire con le distese africane in cui Ele aveva trascorso la sua infanzia. A. sapeva che il cuore può procurarsi in breve tempo il biglietto per qualsiasi viaggio ed immaginò che Ele stesse appunto viaggiando verso le savane e le colline del continente in cui era nata, dove forse aveva trascorso gli unici momenti sereni della sua giovane e travagliata vita: non volle disturbare quel momento e la lasciò in pace, a gustarsi quel tramonto, quel sole che si stava preparando alla notte. A. non poteva immaginare che cosa sarebbe successo in seguito e col senno di poi, avrebbe pensato «chissà se disturbandoti avrei potuto modificare gli eventi successivi… chissà se…».
Alle 18 la divisa blu notte dalle unghie smaltate cominciò il controllo delle celle, «la conta» in gergo penitenziario, e arrivata davanti a quella di Ele l’aveva chiamata ma lei non rispose; la guardia carceraria, in un misto di rispetto, fretta e superficialità abitudinaria non insistette e non la richiamò. Mezz’ora dopo però ritornò, forse spinta da un presentimento, chiamò di nuovo Ele ed ancora una volta ella non rispose: quel silenzio cominciò a diventare sospetto, quasi arrogante, al punto da indurre la guardia ad aprire con nervosismo la cella ed entrare per scuotere la ragazza ed obbligarla a rispondere alla chiamata.
Fu in quel momento che A. sentì un urlo di terrore provenire dalla cella di Ele e vide la divisa blu dalle unghie laccate cercare con tutte le forze di sollevare Ele da terra e staccare quel filo di nylon che le serrava la gola. Per fare ciò la guardia carceraria si era rotta tutte le unghie, quasi tutte le unghie, ma tutto risultò inutile e vano.
Era il periodo peggiore del «sovraffollamento carcerario» e quella guardia era l’unica sul piano: da sola non ce l’avrebbe mai fatta… e fu costretta ad aprire la cella di A. e a chiederle aiuto per sostenere quel corpo, che tra la vita e la morte pesava il doppio… Di fronte alla morte, non c’è colore, non c’è divisa che tenga e la divisa blu notte tremava perché non riusciva a staccare Ele da quel letto, alle sbarre del quale la ragazza di colore si era appesa e si stava lentamente lasciando morire.
«Un paio di forbici». Urlò la guardia. «Dammi un paio di forbici, presto!».
«Non abbiamo forbici», rispose A., sgomenta.
«Un coltello, allora. Per l’amor di Dio, dammi qualcosa per tagliare quel filo!», continuava ad urlare disperatamente la divisa blu notte…
Ma in prigione non ci sono coltelli, non c’è nulla per tagliare… Ci si può far male e comunque certi aggeggi possono servire come strumenti di offesa.
Con la forza e il coraggio della disperazione A. e la guardia riuscirono a rompere il filo di nylon e ad adagiare Ele nel corridoio. Adesso era veramente diventata nera, ma un nero che non aveva nulla a che vedere con il colore della sua pelle viva e giovane che aveva catturato l’attenzione di A. Tutto il corpo di Ele, A. e la guardia se ne resero immediatamente conto mentre la stavano liberando dai vestiti, stava assumendo il colore di chi sta morendo per asfissia: solo la bava biancastra che le usciva dalla bocca segnava un netto ed orribile contrasto con tutto quel nero di morte.
A. si chiuse in cella da sola; ormai erano arrivati i paramedici con il defibrillatore, ma dopo alcuni tentativi, alle 19.45 l’apparecchiatura con la gelida frase “no more signal” aveva decretato che Ele nella cella 16 non sarebbe più tornata.
A modo suo Ele era tornata libera.
A. non riuscì a trattenere le lacrime e pianse, pianse come non aveva mai fatto prima di allora… eppure neppure la conosceva… non sapeva nemmeno il suo nome… e non capiva perché… ma pianse e pianse ancora…
Piangeva per quel sorriso di un attimo che tuttavia l’aveva colpita per sempre.
A. pensava ad Ele come a una farfalla: per lei infatti era nata, vissuta e morta nello stesso giorno, così colorata e così fragile.
Nessuno forse l’avrebbe cercata, nessuno avrebbe sentito la sua mancanza… nessuno avrebbe saputo dove Ele era volata (se arrivi nel giardino del carcere speri che chi ti conosce in fondo non lo scopra mai), ma A. sapeva cosa era stata per lei e sapeva che non avrebbe mai più potuto dimenticarla.
Il giorno dopo, sulla stampa, quasi in ultima pagina, in mezzo a qualche strana pubblicità, c’era un trafiletto di quattro righe che diceva «prostituta nigeriana si suicida in carcere». Ancora una volta nessuno aveva pensato che fosse importante darle un’identità… c’era solo l’età, 32 anni, ed A. pensò che a lei era sembrata più giovane, molto più giovane.
Il giorno dopo A. scrisse sulla porta della tragica cella, rigorosamente messa sotto sequestro, questo messaggio:
«Cara Ele spero tu sia tornata vento tra gli alberi della tua Africa.
Corri, vola, libera e felice al di là del tempo e dei luoghi.
Ogni volta che sentirò sulle guance un vento caldo
penserò alla carezza del tuo sorriso…
Ti ho chiamato Ele perché in nigeriano Ele vuol dire gazzella».
Alessandra Rosa
Nasce a Torino nel 1966. Si diploma al Liceo classico Massimo D’Azeglio e si laurea alla Scuola universitaria di Scienze motorie. Lavora per un periodo presso il ministero dell’Interno, studia Scienze infermieristiche e insegna educazione fisica presso la propria società sportiva, della quale è anche presidente. Divorziata e mamma di tre ragazze, è stata in regime di arresti domiciliari fino al gennaio 2017. Attraverso la scrittura, scoperta durante il periodo di restrizione carceraria, riesce a visualizzare il suo dolore, metabolizzarlo e non averne più paura. Scoprire la sensibilità letteraria le permette di vincere ogni forma di pregiudizio. Il suo racconto La storia di Ele ha vinto il Premio Speciale Giuria Popolare della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
(S)corri nelle mie vene. Sottopelle
di Luisa Zhou – [Cina]
Per quanto detestasse il villaggio, Ayue amava percorrere quella strada in salita che l’avrebbe portata alle immense, infinite risaie di Yuhu.
Le piaceva il suono dei suoi passi sulla pietra nuda, il chiacchiericcio delle case che si affacciavano sulla via, il tepore del sole sulla pelle alle otto del mattino. Sapeva bene che l’afa estiva l’avrebbe investita con tutta la sua violenza da lì a qualche ora, proprio per questo cercava di godersi quel momento in un misto di aspettativa e leggerezza. Una delle poche consapevolezze che aveva, infatti, era che nelle terre della provincia di Wencheng il mese di luglio – almeno per lei – aveva il sapore degli incubi, intensificato dal ronzare delle zanzare e dall’umidità che pareva soffocarli tutti in una morsa. Tuttavia, il panorama delle campagne cinesi aveva una bellezza intrinseca che difficilmente poteva essere messa in dubbio. All’orizzonte il profilo delle montagne permetteva al cielo di scivolare su e giù in un’altalena di colori e di forme, mentre le nuvole scorrevano pigre sullo sfondo.
Era come contemplare una di quelle tele ad olio dove i contorni sono sfuggenti, sfumano nel sogno. Ayue amava sollevare lo sguardo e perdersi in tutto questo, cadere fuori dal tempo e risvegliarsi all’improvviso, con una fotografia in più negli occhi.
Ogni tanto cercava di immaginarsi anche una vita lì, nel paese che aveva visto nascere i propri genitori – una vita semplice, contadina, scandita da momenti precisi e ripetuti nel tempo. Sveglia all’alba, colazione, giro al mercato, pranzo, qualche risata strappata, cena, una partita a mahjong, un’ultima passeggiata alla luce dei lampioni.
Ma non sarebbe sopravvissuta, non sarebbe riuscita a vincere quella quotidianità fatta di terra, di legna, di lenta rassegnazione – era difficile riconoscersi in un luogo così diverso da quello in cui era nata lei, l’Italia.
Ciò che sua madre chiamava ??, jiaxiang, paese natale, per lei non era altro che una serie di edifici tutti uguali in un paesino nella regione di Zhejiang. Nient’altro, se non un minuscolo puntino nella geografia della Cina.
Come avrebbe potuto trovare le sue radici in un posto del genere?
In quale misura avrebbe potuto comprendere, sentire, la sua identità, tanto era sospesa fra un mondo e l’altro? Era come rimanere immobili a metà di un ponte, indecisi della direzione da prendere.
L’unica cosa che le restava da fare era osservare le acque sotto di lei, il fiume inarrestabile della vita, cercando di riemergere dai propri pensieri.
Spesso, in balìa dei tumulti che le sconvolgevano la mente, Ayue tratteneva il respiro, come in apnea. In perenne attesa che qualcuno arrivasse a risolvere il groviglio delle sue emozioni.
Si ricordava ancora la volta in cui era andata in Grecia, dopo cinque anni di studi classici. Era salita sull’acropoli di Atene con quella che era la sua classe, quando ad un tratto una delle sue compagne, la cui nonna era originaria di Patrasso, cominciò a piangere. Di un pianto che significava più di mille parole.
Non singhiozzava, ma le lacrime scendevano copiose di fronte allo spettacolo del Partenone, della capitale intera, come se all’improvviso il sangue avesse cominciato a ribollire e a gridare l’appartenenza a quella terra infuocata e splendida come solo le cose eterne sanno essere.
E Ayue l’aveva guardata, l’aveva vista trasformarsi, piena di consapevolezza.
È casa mia, sembravano dire i suoi occhi, anche questa è casa mia.
Ma non sembrava esserci «casa» per quella ragazza italo-cinese, non ancora.
Non dimenticarti le tue origini. Le intreccerò con quelle nuove.
Non puoi comportarti da italiana. Sto solo cercando di essere me stessa.
Non tradire i valori della famiglia. Vi amerò per sempre, ma rispetterò ciò che è giusto.
La vita è lavoro, lavoro, lavoro. La vita è un’esplosione di bellezza nei posti più inaspettati.
Tu non appartieni a questo posto. A quale posto appartengo allora?
A cosa ti serve continuare a studiare? Per andare oltre, per superare i confini.
Quando aprirai una tua attività? Voglio poter creare.
Ti devi sacrificare per la famiglia. Non significa rinunciare ai miei sogni.
Non puoi stare con un ragazzo italiano. Non saranno altri a scegliere chi amerò.
Sei cinese. E molto di più.
La prima volta che aveva visitato i nonni al villaggio era stata delusa dalla rapidità con cui era scemato il suo entusiasmo, ma aveva solo sette anni e i bambini si annoiano in fretta. Soprattutto, sanno essere tanto intelligenti da tenersi alla larga dalle domande esistenziali che portano al limbo delle non risposte. Crescendo, tuttavia, si decide di volere di più dalla vita, di essere di più – si vuole dare un perché alle proprie azioni, un senso ai propri sogni, una giustificazione ai propri errori.
Ed è in questo punto della storia che Ayue si sentiva persa.
Sentiva la propria identità sfuggirle di continuo, sabbia fra le dita, in costante mutamento. Le capitava di guardarsi allo specchio e non riuscire a dare un nome al proprio riflesso.
Era la figlia cinese dei proprietari del ristorante vicino al centro.
Era la studentessa italiana che aveva scelto il liceo classico.
Era la ragazza senza nazionalità che si rifugiava nel respiro della scrittura.
Alla ricerca di una terra a cui appartenere.
Cittadina del mondo, le piaceva definirsi, come molti altri prima di lei.
Continuò a camminare sul ciglio della strada, mordendosi il labbro inferiore come faceva tutte le volte che non sapeva bene cosa dire.
In quel momento, non trovava le parole per parlare con se stessa.
Pochi passi più indietro, la madre la seguiva con sguardo distratto, concentrata sulle diverse colture della terra. Patate, erbe, verdure, fiori.
Era capace di riconoscere tutte quelle piante attraverso un’occhiata veloce delle foglie, a cui ogni tanto aggiungeva una carezza, strofinandole fra le dita in un gesto che le illuminava i pensieri.
Pochi passi più avanti, un signore. In testa il ??, douli, il tipico cappello di paglia dei contadini, fra le mani più di settant’anni e un’ascia per tagliare la legna.
Ayue si intenerì a quella vista. Notò le braccia magre, ma forti dell’uomo, e il mezzo sorriso che aveva sulle labbra nel momento in cui si accorse delle due passanti. Lo vide fare un cenno di saluto e chinarsi di nuovo a lavoro.
C’era un’incredibile forza in quei movimenti, una forza che aveva reso grande una cultura millenaria – impossibile restare indifferenti.
La giovane si sentiva come lacerata dal desiderio di avvicinarsi a quel popolo, ma, al contempo, tendeva a rifiutarlo, a negarlo a se stessa perché troppo distante, diverso, in una lotta che l’avrebbe costretta a rinunciare a una delle sue sfaccettature. Sarebbe stata una sconfitta, e lei non l’avrebbe permesso.
In quel momento la madre la superò, mentre lei rallentò il passo per osservare ancora un poco il signore.
Era colpita dalla precisione dei tagli, dalla costanza, dall’alzarsi e abbassarsi della lama che, in alcuni istanti, pareva catturare addirittura la luce del sole.
Con questo ricordo in tasca, Ayue proseguì la camminata, tenendo d’occhio la schiena della madre. Le vennero in mente tutti i litigi che avevano avuto, tutte le parole che si erano dette senza forse volerlo.
Per un attimo, le si strinse il cuore al pensiero di quella donna smarrita in una realtà che non riconosceva come la propria, con un pugno di speranze e due bambini al seguito.
Cina, Italia, Italia, Cina. Ti senti più italiana o più cinese? A quella domanda, Ayue non sapeva mai come rispondere.
Per dire qualcosa di sincero, avrebbe dovuto scavare in profondità, sporcarsi le unghie con il fango delle apparenze, andare oltre la superficie.
Forse, solo allora, avrebbe capito che la sua identità non era fatta di percentuali e di esclusioni. Era qualcosa di più, qualcosa che viveva sotto pelle, che le scorreva nelle vene come sangue.
Era il suo io più intimo, senza il quale lei non sarebbe stata la stessa.
Madre e figlia stavano ancora camminando, ora fianco a fianco, quando ad un tratto il cielo si rabbuiò. Iniziò a piovere – dapprima piano, quasi timidamente, poi sempre più forte, fino a sfociare in un vero e proprio acquazzone estivo, di quelli che ti colpiscono la pelle con violenza, che ti lasciano smarrito ma inebriato, che riecheggiano sulla pietra, liberandoti dai pensieri.
Le due donne cominciarono a correre, ma non c’era modo di sfuggire al diluvio.
Poi, così com’era arrivato, all’improvviso tutto finì, lasciando solo foglie bagnate e odore di pioggia.
Ayue si fermò, il respiro affannato – si spostò i capelli dal viso, assaporando il gusto dell’acquazzone sulle labbra. Guardò la madre, anche lei completamente fradicia, e non riuscì a trattenere un sorriso.
Esausta, sollevò gli occhi al cielo, riprendendo fiato.
E fu allora che se ne accorse: sopra le loro teste, le nuvole avevano lasciato spazio ad un arcobaleno dai colori così vividi da rapire anche lo sguardo della madre. Per quanto fossero diverse, c’erano ancora dei punti in comune.
E c’era così tanta bellezza in questo.
Luisa Zhou
Luisa Zhou nasce a Torino l’11 gennaio 1995 da genitori originari di un piccolo villaggio nella regione di Zhejiang, nella Cina meridionale. Luisa cresce, scrive, sogna e la sua infanzia e l’adolescenza sono strettamente legate al ricordo di un ristorante. Frequenta il liceo classico masticando la lingua dell’epica e della tragedia per cinque anni, tuttavia sui suoi documenti appare la scritta «nazionalità cinese». A diciannove anni decide di partire per Hangzhou, dove trascorre un anno sabbatico alla ricerca delle proprie origini. Al suo rientro in Italia, continua quella che è l’ordinaria vita di una ragazza universitaria. Il suo racconto, (S)corri nelle mie vene. Sottopelle, ha vinto il Premio Speciale Slow Food-Terra Madre della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
Eleonora
di Jacqueline Nieder [Italia]
Sei sdraiata al caldo, sotto le lenzuola pulite. Il ginecologo ti ha controllato un’altra volta ma vorrei che lo facesse di nuovo, per essere certa che non ti accadrà nulla. Mi alzo e cerco l’infermiera. Mentre mi allontano, ti lamenti. Non sono sicura se è perché me ne sto andando o perché finalmente ti ho lasciata sola. Quando torniamo, l’infermiera mi assicura che manca poco, che ogni cosa sta seguendo il suo corso naturale. Me lo ripeto di continuo, ma la luce al neon dei corridoi elude il passare del tempo, lo deforma. È facile confondere ciò che è stato con ciò che sta per accadere. Siamo in Italia, dopotutto, e sono passati vent’anni, dovrei smetterla di avere paura. Non si sentono i colpi di carro armato prima dell’alba o i passi dei soldati che fanno irruzione nell’ospedale e uccidono chi, in fondo, è già morto. Mi dico che sei al sicuro mentre confondo i suoni delle macchine e i lamenti delle altre pazienti con quelli delle sirene. Eleonora. Le hai dato un nome di questa terra ma tua figlia sarà figlia di questa terra? E noi di cosa siamo figlie?
Fuori è già buio. La luce sopra al letto si riflette sulla tua pelle bianca a tal punto che sembra emanata da te e ti trasfigura. Le rughe di dolore che hai sul viso, nello sforzo di spingere, somigliano a quelle di una maschera crudele. All’improvviso, ti sento fredda e mi fai paura. Non riesco a guardarti. Mi stringi la mano fino a farmi male e ho bisogno di andar via. Quando la contrazione ti lascia riprendere fiato, mi libero ed esco dalla stanza, con il pretesto di cercare ancora l’infermiera.
Non volevo guardarti nemmeno la prima volta, non te l’ho detto mai. Sei nata poco dopo l’inizio della guerra, nel ‘93. In tutti questi anni non ti ho mai raccontato di Osijek e del nostro passato. In fondo, non ti è mai interessato, forse perché sapevi che era da lì che veniva il mio rancore.
Ti dò un’ultima occhiata. Hai cappelli rossi così belli, le pareti azzurre ricordano un cielo, ma la tua espressione mi spinge ad allontanarmi. È la stessa di quella volta al parco, quando avevi sei anni. Facevi piovere delle piccole zolle di terra su un formicaio con la medesima leggerezza con cui gettavano le bombe su Osijek. Ti divertiva veder impazzire quelle povere bestiole, e ti sgridavo e avevo paura di te.
Sentivo tornare un rancore lontano. Osijek era un enorme formicaio, i muri segnati dai colpi di mortaio. La strada principale aveva ceduto sotto il peso dei cingolati. Vivevo con mio marito, Saša, in una piccola villetta ai limiti della città, vicino ai campi di mais. L’abbiamo lasciata quando è scoppiata la guerra e sono cominciate le retate. Ogni settimana cambiavamo posto. Cercavamo le abitazioni già perquisite o abbandonate. Molti serbi erano scappati, lasciando la città. Noi forzavamo le porte e dormivamo nei loro letti, senza accendere le luci quando scendeva la notte. Avevamo imparato a trovarci nel buio e a restare in silenzio per giorni interi. Qualche volta, nel bel mezzo della notte, le stanze venivano inondate da una luce calda come quella del sole, ma ogni volta era soltanto il fuoco croato appiccato alle case serbe.
Verso la metà di giugno, mentre Saša era andato a cercare da mangiare, scesi in strada e vidi dei ragazzi attorno a un furgoncino rovesciato. Con le lamiere che avevano recuperato, stavano costruendo un’enorme croce sul ciglio della strada. Due di loro erano soldati, con delle barbe lunghe e incolte. L’altro indossava un cappello di lana e aveva un fucile legato alla schiena. Nessuno di loro portava la fascia bianca al braccio, ciò voleva dire che non erano croati. Non so bene perché, ma cominciai a pregare. Quando se ne andarono, attraversai la strada e m’inginocchiai vicino alla croce. Cercavo l’erba medica per poterla mangiare. Ne presi un bel fascio anche per Saša e rientrai a casa.
Di quella sera ricordo gli odori. Ricordo l’odore di sudore che riempì la stanza quando fecero irruzione mentre stavo dormendo. L’odore di bruciato che entrava dalla finestra, che si mescolava all’odore della mia paura. Erano gli stessi delle lamiere, i due soldati e il civile. Sentivo ancora sulle labbra l’aroma dell’erba e della terra. Quando se ne andarono, gli odori sparirono con loro. Non li riesco più a sentire, nemmeno dopo tutto questo tempo.
Sapevo di aspettarti. Ne ero consapevole già da quella stessa notte, mentre la vicina, che aveva sentito le grida, mi lavava nella vasca da bagno piena di acqua e sale. Mi sono presa a pugni la pancia per la disperazione. Ma non te ne sei andata, per fortuna, non te ne sei andata.
La notte successiva siamo partiti per andare da mia sorella. Abitava fuori città, al confine con i boschi. In cuor mio speravo avesse ancora una gallina o due, non ne potevo più di soffrire la fame. Abbiamo deciso di muoverci a piedi, per nasconderci nei campi e camminare lontano dalle strade. Saša è morto proprio lì, con una gamba prigioniera in una trappola per lupi. Non avevo abbastanza forza per trascinarlo. Sono rimasta con lui per tre giorni finché non se n’è andato.
Da mia sorella non sono mai arrivata. Ho camminato finché ho potuto, nella direzione opposta rispetto ai rumori, alle luci e alle voci che sentivo. Ad un certo punto mi sono trovata davanti a una vecchia casa di boscaioli. Dentro, si erano nascoste alcune donne e un ragazzo giovanissimo, serbo come mio marito. Un disertore, uno che ad ammazzare metà della sua famiglia si era rifiutato. Mi accolsero senza dire niente. Entrai in quella casa come un fantasma e loro entrarono nella mia vita nello stesso modo.
Tra quelle donne una era impazzita. Ogni tanto si metteva a gridare e sbavava, presa dai tremori. Il ragazzo le tappava la bocca perché avevamo paura di farci sorprendere persino dal sole al mattino. Mangiavamo le radici, il mais e le lepri cacciate con i lacci. Eravamo in tre con le pance gonfie. Una aveva solo quattordici anni. Perse il bambino al secondo mese, poco dopo il mio arrivo. L’altra, di trenta, lo partorì e lo abbandonò in mezzo al campo.
Tu, invece, sei arrivata d’inverno. Dovevano esserci venti gradi sotto zero. La neve era alta un metro e rendeva tutto più sopportabile, nascondeva le cose. Sei venuta di notte e ti ho maledetto. Tremavo dal freddo e dalla fame. Le donne più forti mi hanno portato vicino alla caldaia a legna. Hanno detto che così, forse, non sarei morta e non saresti morta neanche tu. Ricordo il sudiciume, i ratti che correvano lungo i muri e avevo paura che cominciassero a mordermi e non riuscissi a difendermi. Sono rimasta sola per molto tempo, poi la ragazzina è venuta con il serbo. Mi hanno messo una coperta e hanno fatto pressione sul mio stomaco per aiutarti a uscire. Sei venuta in fretta. Ho sperato che fossi nata morta, non avrei avuto il coraggio di lasciarti su un cumulo di neve. Invece hai cominciato a piangere e io con te. Ed è stato in quel momento, credo, nella spinta istintiva che ne è seguita, nelle braccia protese in avanti, nelle mani aperte, che è cambiato tutto. E come ti ho avuta, ti ho stretta, nascosta dentro il seno, sotto la coperta, vicino alla caldaia. Ti alitavo in fronte per non farti congelare e ti baciavo come se fossi un miracolo. Ti ringraziavo di essere venuta da me. Così, ora, in questo ospedale, dopo vent’anni, sento ancora il bisogno di chiederti perdono. Per ciò che è rimasto del rancore, per la storia che non ti ho mai raccontato, per le mie paure che a volte credo di vedere sul tuo viso.
Sto cercando di tornare da te, mi sono persa nei corridoi del padiglione Ovest. Chiedo indicazioni a una signora anziana che sembra un vigile e conosce tutto di questo posto. Mentre corro nella giusta direzione, sento che mi chiami. Quando entro nella stanza, l’infermiera sta sollevando Eleonora e dietro ci sei tu, i capelli rossi e sudati appiccicati alla fronte. La prendi, la baci, la stringi e ringrazi Dio e me. Me. Hai Eleonora negli occhi mentre mi avvicino a voi e mi rendo conto che il nostro passato, tu, lo hai sempre conosciuto. Solo ora capisco, dopo vent’anni, che il perdono me lo avevi già dato quel giorno, in quella cantina, in quella Croazia, mentre ti alitavo sul viso per non farti congelare.
Jacqueline Nieder
Nasce a Parma nel 1991 da padre argentino, originario di Buenos Aires, e madre mantovana. Frequenta un liceo scientifico sperimentale con indirizzo linguistico, apprendendo l’inglese e il francese; si laurea in Lettere Moderne all’Università di Bologna e attualmente vive a Torino, dove studia Storytelling alla Scuola Holden. Ama leggere e narrare storie. Il suo racconto Il cappello del Signor E è pubblicato sulla rivista per bambini dei «MagazziniOz» e riceve menzioni d’onore in concorsi di poesia. Ama la fotografia e tiene una fitta corrispondenza con la nonna che definisce sua amica di penna. Il suo racconto, Eleonora, vince il Premio Sezione Speciale Donne Italiane della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
Changes
di Dounya Mahboub [Marocco]
Mio padre, uomo ignorante e violento, fisicamente corpulento, massiccio, duro con se stesso e il prossimo, vedeva in me qualcosa di insolito e di diverso nei miei atteggiamenti. Ogni volta che mi vedeva, diceva: «Dounya, non basta pregare cinque volte al giorno, il nostro Dio ci osserva, più devoti siamo e migliore sarà la nostra esistenza!».
Avevo diciotto anni, aiutavo mia madre in casa e guardavo le mie tre sorelle più piccole. Mio padre, fervente religioso, parlava sempre della guerra di Dio verso gli infedeli, diceva che noi credenti eravamo il suo mezzo divino per purificare la nostra religione ed era giusto punire con violenza anche quelli contrari alla guerra santa. Non accettavo questi discorsi ma ero obbligata a non rispondergli, a non fare nulla, immobile al termine delle sue frasi, con il volto impassibile deglutivo quelle parole, perché se avessi osato controbattere e dar vita a una discussione, mi avrebbe picchiata e poi avrebbe picchiato anche mia madre che non c’entrava nulla. La mia schiena era pur sempre dritta e i miei pensieri rimanevano conformi al mio essere, a quella che sono: atea.
Vivevo fingendo, un’attrice di un film che non consiglierei a nessuno, schiava di una religione che non mi appartiene. Pensavo: per quanto ancora? Mi succedeva spesso di perdermi nel vortice assiduo di una speranza ignota. Sentivo freddo quando pensavo alla resa della mia anima mortale, i brividi mi affannavano il respiro, mi alzavo e allo specchio della camera riprendevo possesso della ragione, guardandomi il volto, pensavo certa: «Sono io, sempre io, la ragazza che trova ragione nel sognare un mondo migliore».
Un mattino, nella mia camera, sotto le coperte, stavo aspettando che la luce entrasse dalla finestra perché le riflessioni della notte mi avevano fatto capire che non c’era più tempo da perdere. Mi alzai dal letto e appena mio padre uscì di casa, presi mia madre da parte e le dissi: «Basta mamma! Così non voglio più vivere, preferisco la morte a questa vita».
Mia madre, con le lacrime agli occhi, abbracciandomi disse: «Hal targhabi fi lhoroub!? Aina?».
«In Italia, mamma».
Sapevo benissimo che ottenere un visto per l’Italia non era per niente semplice e le azioni che dovevo svolgere in segreto richiedevano molto tempo e tanta speranza. Dopo alcuni giorni, mi diressi all’ambasciata Italiana a Rabat: con l’iscrizione avrei potuto ottenere un visto lavorativo di sei mesi; intanto mi misi in contatto con mio zio, già in Italia da alcuni anni. Gli raccontai di tutte le pressioni che subivo da mio padre e di tutta la voglia che avevo di scappare.
Mio zio, dopo diversi mesi e vari tentativi, riuscì a trovare una famiglia benestante e, dopo la notizia di mio zio, tutto si trasformò in luce ai miei occhi e nessuno poté più fermarmi. Durante una notte così calda che le candele accese nella casa si scioglievano come burro al sole, scappai, senza lasciare alcuna traccia di movimenti rumorosi che avrebbero potuto infastidire il sonno di mio padre. Ero disposta ad assumermi la responsabilità di un lavoro, per ottenere un permesso di soggiorno. In quel periodo di tempo non avevo mai perso la speranza, sulla mia vicina partenza. Quando poi arrivò, durante il volo, il cuore mi batteva così forte e lo stomaco faceva così male fino a nausearmi, i miei pensieri si perdevano unendosi alla scia dell’aereo, senza mai disperdersi, però. Mi calmavo sapendo che stava per incominciare una nuova vita.
Arrivata a Milano, sperduta in quel grande aeroporto, da lontano, vidi mio zio che mi cercava fra la gente, mi misi a correre fino a lui e, abbracciandolo, le mie paure si sbiadirono sul suo volto sorridente. Giunta finalmente ad Asti potevo girare per quelle vie che profumavano di libro ancora da aprire. Ero ospite di mio zio in corso Alba, molto vicino alla casa in cui dovevo incominciare a lavorare. In quella casa ricca di oggetti a me sconosciuti, svolgevo diverse mansioni e imparavo con grande entusiasmo i piatti tipici piemontesi per la preparazione del pranzo e della cena. Passavo molte ore nella biblioteca della casa, per la sete di sapere che avevo sempre avuto.
Già da bambina leggevo tutto quello che trovavo, ma in Marocco i libri non potevamo permetterceli e mio padre controllava sempre le mie letture; poter leggere così tante cose diverse mi ha permesso di farmi una cultura, solo mia, nessuno mi diceva cosa leggere. Ho preso il diploma e adesso mi mancano tre esami per laurearmi in Scienze politiche a Torino.
Continuo a lavorare per pagarmi gli studi, sperando un giorno di tornare, fiera di me stessa, a Marrakech e portare via, dalle grinfie di mio padre, mia madre e le mie sorelle, che non meritano quella vita.
Sento di essere dove volevo vivere…
Sento di essere una straniera ancora, ma di non avere più la paura di allora…
Conquistatrice di sogni e di viaggi, vago nell’anima del mondo, portando nel cuore le mie origini.
Dounya Mahboub
Nasce il primo gennaio 1994, a Marrakech, in Marocco. Si trasferisce in Italia, ad Asti, all’età di sedici anni, dove tuttora vive con suo zio. Lì frequenta il liceo linguistico «Ugo Foscolo» e, dopo aver conseguito il diploma, si iscrive all’Università degli studi di Torino per seguire il corso triennale in Scienze politiche e sociali. Dopo la laurea, desidera intraprendere una carriera diplomatica e aspira alla politica internazionale: le piacerebbe diventare assistente parlamentare europeo. Il suo racconto, Changes, ha vinto il Premio Speciale Rotary Club Torino Mole Antonelliana della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
Jet lag affettivo
di Angela María Osorio Méndez [Colombia]
Unità di misura Utc, il fuso orario. È così che devo misurare la metà delle mie relazioni interpersonali, in perenne jet lag affettivo: «Ci sentiamo al mio pranzo, ossia per la tua colazione»; «no, a quell’ora non posso, sarò nel pieno del sonno». Un constante rendez-vous sfuggente, perché in effetti ci dimentichiamo spesso di quegli appuntamenti su Skype quando viviamo quell’altra parte delle nostre vite, quella parte fatta da carne e ossa, contatti e odori.
«Il jet lag, spesso indicato come “mal di fuso” […] è una condizione clinica che si verifica quando si attraversano vari fusi orari (di solito più di due fusi orari), come avviene nel caso di un lungo viaggio in aereo […]. Il fenomeno si verifica a causa dell’alterazione dei normali ritmi circadiani». Wikipedia con usuale semplicità spiega la condizione che io vivo da sei anni, senza viaggiare o prendere aerei o attraversare time zones. Questa è la storia della costante «alterazione dei normali ritmi» affettivi e dei meccanismi impiegati per provare a metterli in sincronia e far collidere le nostre diverse e lontane Utc, annullando le distanze spaziali e temporali per cui possa esistere un solo piano, il nostro, dove emisfero Nord e Sud diventino un tutt’uno.
| JET LAG, 7h | 23:00 UTC -5; 06:00 UTC +2
A 2.640 metri sopra il livello del mare (s.l.m.) l’ossigeno è scarso, ma noi bogotani riusciamo a respirare benissimo. Siamo come quei mammiferi marini che riescono a mantenere il fiato per più di un’ora sott’acqua, tutto grazie ovviamente a uno degli adattamenti più estremi che esistano in natura. No, non sto dicendo che a Bogotá si viva in apnea, per quanto a volte i suoi abitanti possano sembrare sirene scappate dalle isole Sorrentine: nella capitale a volte piove tanto, ma a volte piove pure tantissimo e la gente come per magia sembra prendere quella forma, metà pesce metà umano. A 2.640m s.l.m., a quest’ora a Bogotá la maggior parte dei suoi dieci milioni di abitanti sta andando al letto; i pochi negozi ancora aperti iniziano a chiudersi; le luci nelle case e negli appartamenti a spegnersi; il traffico a diminuire di intensità. Ai 239m s.l.m. di Torino invece, le serrande iniziano ad alzarsi, le panetterie ad aprire e la moka a diffondere il suo profumo di mattina italiana: caffè es-pres-so. Un rito osservato, compreso e imparato solo con il passare dei mesi dal mio arrivo in Italia e con tanta fatica. «Ma come preparate il caffè in Colombia? Ma senza la moka? E allora come?» «D’accordo ti spiego io: l’acqua va fino alla valvola, o se vuoi un po’ più in alto se la moka lo permette. Il caffè lo devi mettere con questo cucchiaio asciutto, metti la mano così intorno e fai questo movimento. Il migliore caffè è questo, prendi solo questo marchio, non gli altri! Stretta bene la moka la metti sul fuoco basso e fai uscire il caffè piano, fino al fischio. Ecco, la moka si usa così».
All’inizio mi sembrava impossibile e oggi mi sembra impossibile non farlo. La moka ormai significa mattina, senza di lei non ci si sveglia. Ed insieme al caffè in tazza piccola a colazione ci sono biscotti dolci, oppure brioche dolci, magari alla marmellata. Ogni tanto baro e il mio caffè diventa un americano, lungo e in tazza grande, e puntualmente incontro lo stupore degli italiani a cui racconto che a 2.640m s.l.m. per colazione si mangia solo cibo salato: i soliti café con leche o chocolate, huevos revueltos , arepas con queso y pan. Il caffè americano è ammesso quando ho voglia di iniziare la giornata più alla colombiana.
| JET LAG, 7h | 01:00 UTC -5; 08:00 UTC +2
A 239m s.l.m. le arterie della città pulsano. Tram, bus, metro, bicicletta, auto, bike sharing, car sharing, passi veloci… ogni flusso si intreccia e ciascuno disegna il proprio tracciato strategico. La prima tratta in bicicletta, la seconda parte sul tram arancione che porta alla coincidenza che finalmente arriverà a destinazione. Ma in alcuni casi si può pure cambiare l’ordine, prima il bus, a seguire il ToBike ed infine il tram. Oppure solo la bici o alle volte solo il bus. Ma questa dimestichezza arriva solo dopo anni di pratica e di percorrenza delle vie della città, perché qua le strade non sono semplici numeri, qua le strade sono vere e proprie biografie ed è più che ovvio che non sia facile orientarsi fra tutti questi nomi. Appena arrivata in città, ho abitato fra le strade degli artisti; una condizione meravigliosa che sembrava impormi tacitamente il mandato di vivere artisticamente. Non so se ci sono effettivamente riuscita, ma quando ogni giorno da via Antonio Canova imboccavo via Benvenuto Cellini, fino alla fermata del bus, a me sembrava sempre di camminare in un museo.
Bogotá invece, con il suo passato coloniale, ha una rete stradale che segue i lineamenti del cardo e del decumano: la toponomastica della griglia che ne risulta non utilizza nomi di municipi e personaggi storici, bensì è composta da numeri, ordinali e cardinali. Oggi vengono chiamate carreras e calles: le prime sono le strade che vanno dal Nord al Sud e le calles sono quelle perpendicolari alle carreras. La numerazione delle calles nasce da Plaza Bolivar, piazza principale della città, e aumenta fino al numero duecento verso il Nord e altrettanto verso il Sud. Le carreras invece crescono di cifra da Est verso Ovest, partendo dalla catena di montagne che costeggia imponente e rigogliosa la città da Nord a Sud, definendo il suo limite naturale. Con questa configurazione urbanistica non c’è bisogno di interiorizzare i nomi e le vocazioni di vie e quartieri per potersi muovere, ma esiste sempre la possibilità di ubicarsi all’interno della griglia. Dall’incrocio della calle diciotto con la carrera quarta per dirigersi all’angolo della calle quattordici con la carrera seconda, basta spostarsi quattro isolati verso Sud e due verso Est. Sommare e sottrarre è l’unico modo per arrivare.
| JET LAG, 7h | 03:00 UTC -5; 10:00 UTC +2.
A 2.640m s.l.m. le persone dormono. Mia madre dorme, mio padre dorme, le mie sorelle dormono, i miei fratelli dormono, i miei amici dormono, le mie amiche dormono e io, a 239m s.l.m faccio una pausa, una pausa caffè al bar con i miei colleghi. In Colombia i bar servono solo bevande alcoliche e aprono solitamente alla sera.
La prima volta che mi hanno chiesto se volevo andare al bar per l’intervallo a metà mattina mi sono stupita, non riuscivo a capire cosa volevano fare i miei compagni. «Bere a metà mattina?». Solo più tardi ho capito che al bar si va per il caffè e che questo si beve al banco, in piedi e al volo! Una volta ancora, questo per me non era affatto scontato: in Colombia il caffè si beve da seduti accompagnato da chiacchiere rilassate, non in fretta e meno che mai in piedi.
Durante la loro ultima visita in Italia è stato naturale per mia madre e mia zia, quelle che ora dormono a 2.640m s.l.m., affidarsi alla scritta «cappuccino al banco 2 euro» per andare a consumare la bevanda calda sedute al banco, che in spagnolo significa panchina. Ingannate crudelmente dalla similitudine fra banco in italiano e banco in spagnolo, hanno scoperto solo al momento di pagare che banco sta per bancone, fermezza su due piedi e sveltezza di consumazione.
| JET LAG, 7h | 05:00 UTC -5; 12:00 UTC +2
A 239m s.l.m. è ora di pranzo, ed ancora una volta si discute di pasta.
Lui: «Con il pesto non si mangia mai la pasta lunga»; io: «E allora prendi quella corta che c’è lì nello scaffale!». Lui: «Ma no, ma neanche i maccheroni vanno bene! Portami le caserecce, o i fusilli, la pasta deve essere un po’ attorcigliata».
Lui, ride. Lei a lui: «Lo so che c’è chi mangia la pasta lunga col pesto, ma con lei bisogna essere tranchant: non le percepisce queste sottigliezze soggettive…».
In Colombia la struttura di un pasto inizia tipicamente con la frutta servita in un piatto piccolo, preferibilmente di vetro. La seconda portata si chiama sopa e consiste appunto in una zuppa, che deve essere servita calda e su un piatto fondo; la terza pietanza si chiama seco. La parola seco in spagnolo vuole dire asciutto, ed è legittimo che venga dopo la zuppa, che è sugosa. Per il seco solitamente si compongono nel piatto diversi elementi: verdure, carne o legumi, e immancabilmente il riso bianco, il cui ruolo è fondamentale per il seco. Tutti gli altri ingredienti possono variare a piacere, ma il riso bianco è la colonna portante del seco. Insieme al seco si beve il jugo, ogni giorno fatto con un frutto diverso: ieri lulo, domani mora, oggi guanabana. Ed infine si chiude con il tinto, una specie di caffè americano e a volte un dolce come un bocadillo de guayaba, una gelatina guava.
Io però a 239m s.l.m. sto mangiando un primo, un secondo e dopo un po’ d’insalata con pane e dopo la frutta tagliata al tavolo e, per finire, un caffè es-pres-so con un gianduiotto.
| JET LAG, 7h | 07:00 UTC -5; 14:00 UTC +2
A 2.640m s.l.m. la gente si sta alzando. Mia madre si sveglia, mio padre si sveglia, tutti si svegliano, compresa me, che sono a 239m s.l.m. e a un mare di distanza. Mi sveglio come loro, ma non da una notte stellata, io mi sveglio dalla siesta: un’attività che in qualche modo riesce a sincronizzarmi con la Colombia e con i suoi ritmi circadiani, con il suo fuso orario.
E questa comune sveglia crea lo spazio e il tempo per una condizione di simile dissimilitudine, di uno strano stare insieme a distanza, un paio di ore di sole condiviso, anche se qua è calante e là è in ascesa. Sono proprio queste le ore preferite per gli appuntamenti cibernetici. Servono solamente internet, un dispositivo portatile, auricolari, uno spazio silenzioso dove poter parlare e del tempo.
Ma in questo primo pomeriggio a 239m s.l.m. queste condizioni fanno fatica a declinarsi nella realtà e sembrano escludersi a vicenda: se ho la connessione, il computer e le cuffie, non ho tempo, o non sono nello spazio adatto; se non ho impegni e sono in un bel luogo, accogliente e favorevole a una bella chiacchierata, magari ho anche con me pc e auricolari, mi manca internet, e cosi via, in costante compromesso spazio temporale.
Ma a volte riusciamo a sospendere il jet lag e ci sincronizziamo per un po’, a volte per alcuni minuti, magari per alcune ore. Diventiamo una specie di piano topologico, dove la distanza tra punti non conta: le nostre diverse condizioni spaziali e temporali s’incontrano in un istante, in una topografia e cronologia che non esiste, loro a 2.640m s.l.m. con il loro fuso orario UTC -5 ed io ai 239m s.l.m. con il mio UTC +2. In questo modo apriamo un’altra dimensione che per noi, che siamo connessi, esisterà oltre il tempo della durata di questa chiamata.
Anche dopo, ognuno di noi sentirà scorrere un ritmo parallelo a quello del proprio quotidiano, e in ogni cosa che faremo, caffè che prenderemo, traffico che sfideremo, convenzione che decostruiremo sarà presente l’idea dell’altro, dall’altro lato dell’oceano, respirando un’altra composizione chimica di aria: fino alla prossima tregua di jet lag affettivo.
Angela María Osorio Méndez
Nasce nel 1986 a Bogotá, in Colombia. Nel suo paese d’origine studia Arti visive; si trasferisce in Italia e ottiene la doppia laurea italo-colombiana in Architettura presso il Politecnico di Torino. Nel 2014 inizia il dottorato in Studi Urbani del Gran Sasso Science Institute (Gssi), presso L’Aquila. Realizza progetti di sviluppo territoriale attraverso iniziative culturali e artistiche, come The School of Losing Time a Londra e Mirafiori Millefogli, in corso di attuazione, a Torino. Il suo racconto, Jet lag affettivo, ha vinto il Primo Premio della XI edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre.
Paesi islamici: Donne e cristiane, due volte nel mirino
Testo di Marta Petrosillo sulla condizione delle donne cristiane nei paesi islamici |
In alcuni paesi a maggioranza islamica, le frange estremiste fanno sentire il loro peso. E le donne cristiane affrontano una condizione di doppia discriminazione: sono donne e sono cristiane. Dalle violenze sessuali alle norme sull’abbigliamento, al diritto famigliare, fino alle situazioni estreme di rapimenti e conversioni forzate le donne rischiano per la loro fedeltà al Vangelo.
Doppiamente discriminate: perché donne e perché cristiane. È la condizione di tante donne che vivono in molti paesi del mondo, in particolare in alcuni dei 50 a maggioranza islamica1.
Anche se, ovviamente, vi sono considerevoli differenze tra un paese musulmano e un altro, possiamo identificare alcuni schemi comuni: disparità di genere, violenze domestiche, stupri, femminicidi, mutilazioni genitali, matrimoni forzati di adolescenti e bambine.
In 12 di essi, la sharia è l’unica fonte del diritto2, mentre in altri – a volte anche paesi in cui l’Islam non è maggioranza -, pur essendoci sistemi legislativi non confessionali, la legge coranica, discriminatoria nei confronti delle donne, è comunque applicata al diritto civile e a questioni di diritto privato, come il matrimonio, il divorzio, l’eredità, la custodia dei figli3. Ciò significa che, ad esempio, la testimonianza di una donna in tribunale vale la metà di quella di un uomo4. Se quanto appena detto si applica a tutte le donne, quindi anche alle musulmane, le fedeli di minoranze religiose devono affrontare il doppio delle ingiustizie e delle discriminazioni.
A queste condizioni ordinarie, si aggiungono poi, sempre più spesso, le violenze da parte dei gruppi estremisti.
La violenza dei gruppi radicali
Le cause delle violenze ai danni delle donne cristiane nel mondo da parte di gruppi islamisti radicali sono numerose. Tra queste: l’odio a sfondo religioso; il desiderio di umiliare, conquistare, intimidire e disonorare gli «infedeli» e le loro comunità; la specifica intenzione di strappare le donne alla loro fede.
Molti gruppi jihadisti considerano lo stupro e la conversione forzata delle donne non musulmane come parte della da’wa, letteralmente «richiamo, appello, propaganda», una forma di proselitismo inteso come un dovere per gli aderenti a questi gruppi.
Interessante, a tal proposito, una sorta di vademecum pubblicato dall’Isis nel dicembre 2014, nel quale si trova, tra gli altri, anche il seguente passaggio: «Non vi è alcun dubbio tra gli studiosi che sia permesso catturare le donne miscredenti, infedeli, quali le appartenenti alla gente del libro o le pagane».
Molte delle molestie e degli abusi sessuali ai danni delle donne appartenenti a minoranze religiose sono istigati da leader fanatici che attraverso le loro accese prediche incitano e/o perdonano le violenze contro gli infedeli.
Nel 2013 un leader del radicalismo salafita giordano, residente a Damasco, Yasir al Ajlawni, ha emesso una fatwa che consentiva a tutti gli oppositori di Bashar al-Assad di «catturare e avere rapporti» con qualsiasi donna non sunnita. Tale fatwa ha di fatto giustificato quanto accaduto qualche tempo dopo a Qusair, città del governatorato di Homs, allora in mano al fronte al-Nusra, dove la quindicenne cristiana Mariam è stata presa dal comandante del battaglione del gruppo jihadista e costretta a contrarre matrimonio islamico con lui. Violentata e ripudiata, è stata poi «passata» ai suoi uomini. L’iter si è ripetuto con quindici uomini in quindici giorni. Dopodiché la giovane, ormai mentalmente instabile a causa dello shock, è stata uccisa5.
Il codice di abbigliamento
Il salafita radicale egiziano Hisham el-Ashry, nel gennaio 2013 ha affermato in tv in prima serata che le donne cristiane dovrebbero coprirsi, ma che «se preferiscono essere stuprate, possono continuare a non portare il velo».
Apparentemente dello stesso avviso è l’imam Sami Abu-Yusu, della moschea salafita Al-Tawhid di Colonia, in Germania, secondo il quale le molestie e gli abusi verificatisi nel capodanno del 2016 nella città tedesca non sono avvenuti per colpa di molestatori e stupratori, quanto delle donne che si trovavano in piazza «seminude e con indosso del profumo provocante»6.
Questi casi ci introducono a un altro problema: il codice d’abbigliamento islamico. Anche se indossare indumenti quali hijab, niqab o abaya non è obbligatorio nella maggior parte degli stati musulmani, a volte le donne che non si attengono al codice di abbigliamento islamico sono insultate, assalite, violentate e perfino uccise perché vestite in maniera «provocante».
In alcuni paesi, invece, il velo è obbligatorio per legge, e anche le donne non musulmane sono costrette a indossarlo in pubblico. Uno di questi è l’Iran, dove l’articolo 102 del Codice penale prevede sanzioni per le donne che si mostrano con il capo scoperto. In Arabia Saudita le donne che non indossano un abaya (lungo vestito nero che copre l’intera figura) e che non coprono il viso e i capelli sono spesso molestate dalla mutawwi’a, la polizia religiosa. In Sudan la legge punisce con un massimo di 40 frustate chiunque «abbia un abbigliamento indecente o immorale». Sono diversi infatti i casi di donne cristiane condannate alla fustigazione o al pagamento di multe salate soltanto per aver indossato i pantaloni o gonne ritenute troppo corte dalla temuta hisbah, la polizia religiosa.
Stupri e rapimenti
Un altro dramma è quello degli stupri e dei rapimenti. Se in genere nel mondo le violenze sessuali sono tra i crimini denunciati con più difficoltà (in media il 10 per cento delle vittime), ciò è ancor più riscontrabile nei paesi a maggioranza islamica. Le donne che sono state stuprate hanno paura di essere rinnegate dalla propria famiglia o di diventare vittime di delitti d’onore. Inoltre, nei paesi in cui la legge punisce l’adulterio, un esempio è il Pakistan, le donne che hanno subito violenza rischiano perfino di essere condannate.
La sharia definisce lo stupro (zina bil-jabr) come una forma imposta di fornicazione o adulterio (zina). In alcuni paesi, tante donne preferiscono tacere perché sanno che se non riusciranno a provare la violenza, verranno accusate di adulterio – provato dalla stessa denuncia di stupro – e incorreranno in punizioni quali arresto, fustigazione o condanna a morte per lapidazione, una pena ancora applicata in Arabia Saudita, Pakistan, Sudan, Yemen, Emirati Arabi Uniti e in dodici stati della Nigeria del Nord.
Se sono molte le donne islamiche che decidono di rimanere in silenzio, sono ancora più numerose le vittime non musulmane che non denunciano la violenza subita. Ciò le rende degli obiettivi facili.
Nel 2003 la Commissione nazionale sullo status delle donne in Pakistan ha riferito come almeno l’88% delle donne pachistane detenute in carcere fossero state arrestate per aver denunciato uno stupro che non avevano potuto provare. Nel paese asiatico numerose braccianti e lavoratrici domestiche cristiane e indù subiscono violenza dai loro datori di lavoro.
Le conversioni forzate
Un altro fenomeno preoccupante è il rapimento e la conversione forzata di donne, ragazze e perfino bambine, appartenenti a minoranze religiose, poi costrette a contrarre matrimonio islamico con il proprio aggressore. Secondo molte Ong locali, ogni anno in Pakistan almeno mille ragazze indù e cristiane vengono rapite e costrette a convertirsi. Un numero probabilmente inferiore a quello reale, data la difficoltà con cui tali eventi vengono denunciati alle autorità.
Quando la famiglia della vittima sporge denuncia alla polizia locale, l’aggressore sostiene che la ragazza si è convertita spontaneamente e accusa a sua volta la famiglia di cercare di costringerla a riabbracciare il Cristianesimo. La vittima viene dunque invitata a testimoniare, ma sarà costretta a giurare di essersi convertita volontariamente. E come se non bastasse, non è raro che la famiglia della ragazza sia a sua volta minacciata – specie se vi sono altre figlie femmine – e costretta a cambiare città.
Uno degli ultimi casi riguarda Elisha Iqbal, appena 12 anni, violentata e costretta a convertirsi all’Islam. Elisha è stata sequestrata a Pindorian, Islamabad, da un uomo nel febbraio 2018, ma quando suo padre Iqbal e sua madre sono andati a denunciare il fatto, anziché cercare la ragazza, i poliziotti li hanno arrestati per aver formulato false accuse.
Un altro caso drammatico che riguarda un tentativo di conversione forzata in Pakistan è quello di Asma Yaqoob, la venticinquenne cristiana di Sialkot, bruciata viva lo scorso aprile dal suo fidanzato perché si era rifiutata di convertirsi all’Islam.
Il caso di Boko Haram
In Nigeria, la setta islamista Boko Haram (cfr. MC ottobre 2016) ha dichiarato apertamente di considerare il rapimento e la conversione forzata delle donne cristiane come parte di un piano per terrorizzare i cristiani e obbligarli a lasciare il Nord della Nigeria. Una pratica balzata agli occhi del mondo con il rapimento di 276 studentesse avvenuto a Chibok, nello stato di Borno, nella notte tra il 14 e il 15 aprile del 2014. Tante ragazze – l’ultimo caso è del febbraio 2018 – hanno raccontato di essere state rapite e condotte in case di imam e emiri per essere violentate e convertite con la forza.
Tra loro Rebecca Bitrus, 28 anni, recentemente arrivata in Italia ospite di Aiuto alla Chiesa che Soffre. Era il 21 agosto 2014 quando membri di Boko Haram hanno invaso il suo villaggio nello stato di Borno, al confine tra Ciad e Niger. Rebecca, incinta del terzogenito, fuggiva assieme a suo marito Bitrus e ai loro figli Zachary e Jonathan, all’epoca di tre e un anno. Con i bambini però non riuscivano ad andare abbastanza veloci e, siccome Rebecca sapeva che se i Boko Haram li avessero raggiunti avrebbero ucciso suo marito, ha detto a Bitrus di andare avanti senza di loro.
Non ci è voluto molto prima che i terroristi raggiungessero la donna e i suoi due bambini. Catturati, li hanno condotti in un loro accampamento assieme ad altri prigionieri. È iniziato così un lungo incubo durato due anni, durante il quale Rebecca ha perduto il bimbo che portava nel grembo e il più piccolo degli altri due. «Ricordo ancora le grida delle ragazze violentate davanti ai miei occhi». I jihadisti hanno intimato più volte a Rebecca di convertirsi all’Islam, ma lei ha sempre rifiutato. Così, per punirla, hanno preso il piccolo Jonathan lanciandolo nel fiume e lasciandolo annegare. Rebecca però non si è piegata e i suoi carcerieri l’hanno rinchiusa in una cella senza acqua e cibo per giorni. Quando hanno riaperto la cella, convinti di trovarla morta, hanno scoperto invece che era ancora viva. L’hanno poi venduta come schiava a un membro della setta che ha abusato ripetutamente di lei. Da una di queste violenze è nato in seguito un bambino, a cui è stato dato un nome islamico che lei, una volta libera, ha cambiato in Cristopher, portatore di Cristo. Quando l’esercito nigeriano ha raggiunto l’area in cui era tenuta prigioniera, Rebecca ha approfittato della distrazione dei suoi carcerieri per fuggire assieme ai suoi figli. Ora si è ricongiunta con suo marito, con il quale vive assieme al loro Zachary e al piccolo Christopher.
L’Egitto di al-Sisi
Non troppo diversa la situazione in Egitto, dove sono frequenti i rapimenti e le conversioni forzate di donne cristiane. Tali episodi non rappresentano una novità nel paese, nel quale si riportano casi fin dai tempi della presidenza di Sadat (1970-1981), ma a partire dalle rivolte di Piazza Tahir ha raggiunto livelli preoccupanti. Rapimenti e conversioni forzate non mancano neanche oggi, con l’attuale presidenza del generale al-Sisi, nonostante le promesse governative al riguardo. Un ex rapitore, intervistato dal World Watch Monitor nel 2017, ha infatti rivelato che esiste una rete di salafiti dediti a rapire le ragazze cristiane per convertirle all’Islam. I soldi per finanziare tale network provengono in larga parte dall’Arabia Saudita.
Una ragazza cristiana può valere fino a 2.500 euro. Anche qui, quando le ragazze scompaiono, inizia il calvario delle famiglie, costrette a fare i conti con un sistema discriminatorio.
Il più delle volte anziché registrare il caso come rapimento, gli agenti si limitano a segnalare la sparizione della ragazza.
Un episodio significativo è quello di Nadia, adolescente cristiana rapita a soli 14 anni dalla sua casa nella periferia del Cairo. La famiglia ha sporto denuncia contro un uomo di 48 anni. Ma pochi mesi dopo le autorità hanno deciso di chiudere il caso, quando l’avvocato del rapitore ha fornito loro un certificato di matrimonio tra l’uomo e la sua sposa quindicenne. Tutto regolare dunque, nonostante la legge egiziana affermi che il matrimonio e la conversione di ragazze minorenni sia illegale.
Marta Petrosillo portavoce di Acs Italia
Note:
1- Due in Europa, 15 in Asia-Pacifico, 19 in Medio Oriente-Nord Africa, 14 in Africa Subsahariana.
2- Mauritania, Somalia, Sudan, Arabia Saudita, Afghanistan, Brunei, Iran, Iraq, Maldive, Pakistan, Qatar, Yemen. Anche nella Provincia di Aceh (Indonesia) e in 12 stati della Nigeria del Nord.
4- Sicuramente in Arabia Saudita e in Pakistan. Secondo alcuni attivisti, anche nelle corti shariatiche inglesi: si legga Flora Bagenal, Britain probes Sharia courts’ treatment of women, upi.com, 28/06/2016.
5- Rape and atrocities on a young Christian in Qusair, Agenzia Fides, 02/07/2013.
6- Katherine Weber, Egyptian preacher suggests christian women wear veils to avoid rape, Christian Post, 10/01/2013.
7- «Violenze di Colonia? Colpa delle donne, indossavano profumo ed erano mezze nude». Il commento di un imam della città tedesca, L’Huffington Post, 21/01/ 2016.
Aiuto alla Chiesa che Soffre
Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) è una Fondazione pontificia nata nel 1947 e attualmente presente in 23 paesi con altrettante sedi nazionali.
Ha una doppia missione.
Da un lato quella di sostenere la Chiesa in tutto il mondo e in particolar modo laddove essa è perseguitata, discriminata o priva di risorse. Sono oltre 5mila i progetti realizzati annualmente in 150 paesi. Recentemente la tragica situazione mediorientale ha spinto Acs ad agire in special modo in quest’area, sostenendo le chiese e le popolazioni locali soprattutto con aiuti emergenziali e umanitari. In Iraq dal giugno 2014, inizio della crisi dell’Isis, al giugno 2017, ha finanziato progetti per oltre 35,7 milioni di euro ed è impegnata nella ricostruzione dei villaggi cristiani della Piana di Ninive distrutti dallo Stato islamico. In Siria dal marzo 2011 al dicembre 2017 la Fondazione è intervenuta con progetti per oltre 20 milioni di euro.
La seconda parte della missione di Acs consiste nel denunciare le violazioni alla libertà religiosa e nel promuovere il rispetto di questo fondamentale diritto. Uno strumento importante è in tal senso il Rapporto sulla libertà religiosa nel mondo. Nato nel 1999, il rapporto, tradotto in 7 lingue, fotografa la situazione della libertà religiosa in 196 paesi con riferimento a tutte le fedi.
Inoltre la Fondazione pontificia promuove eventi di sensibilizzazione sul dramma dei cristiani perseguitati. L’ultimo è stato il 28 febbraio 2018, quando Acs ha illuminato di rosso il Colosseo in ricordo dei tanti cristiani che ancora oggi versano il loro sangue a causa della propria fede. Prima ancora, la Fondazione aveva illuminato di rosso la fontana di Trevi a Roma, la cattedrale e il palazzo di Westminster a Londra, la basilica del Sacro Cuore a Parigi, il Cristo Redentor a Rio de Janeiro e molti altri monumenti in tutto il mondo.
Acs Italia
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Congo RD: Denis Mukwege, il medico che ripara le donne
Testo di Mario Ghirardi |
È un medico africano, come tanti altri. Ma lui decide di restare nella sua terra, il Kivu, e di curare le donne vittime di violenze inaudite. Diventa il massimo esperto mondiale in materia. Rischia in prima persona, perde amici e stretti collaboratori in attentati. Si guadagna il soprannome di «medico che ripara le donne».
Denis Mukwege parla con ritmo cadenzato e con toni di voce pacati. Racconta della Repubblica Democratica del Congo (Congo Rd), di golpe militari, di mercenari senza scrupoli, di stupri elevati a sistematica arma di guerra, di minerali insanguinati, di coltan, di un’Europa spesso alla finestra, di bambini che muoiono in miniera perché noi possiamo lavorare o trastullarci con il telefonino. Mi viene voglia di scagliare lontano lo smartphone che pure in questo momento è il mio strumento di lavoro per registrare e fotografare. Ma sarebbe inutile e forse anche dannoso, visto che i telefonini andrebbero smaltiti ben diversamente.
Per capire l’accorato appello del dott. Mukwege, dobbiamo partire dal suo passato: laureato in medicina in Francia, è tornato in Africa, nella sua regione natale, il Kivu, attorno ai Grandi Laghi, per combattere una battaglia che è poi diventata bandiera di chi vuole scuotere l’opinione pubblica mondiale di fronte a un massacro che ha già coinvolto milioni di vite umane e che in quei luoghi, a cavallo dell’equatore, dura da decenni.
L’ostinazione premiata
La scintilla dell’impegno sociale a 360 gradi di questo cortese professionista, diventato oggi punto di riferimento anche politico, scattò quando si trovò, stesa sul tavolo operatorio del reparto di ginecologia dell’ospedale da campo da lui creato a Panzi, ai confini orientali della Congo Rd, una ragazza che aveva fatto nascere egli stesso una dozzina d’anni prima. Era stata orrendamente stuprata come centinaia di altre sue coetanee. Nel 1989 fece il suo primo tentativo di dare corpo a un reparto ospedaliero di maternità a Lemera. Distrutto dalla guerra. Ne fece un altro a Bukavu, sua città natale. Distrutto anch’esso. Infine ne mise in piedi uno a Panzi, dove dal 1999 ha curato ben 50mila donne. Un numero enorme, vittime di stupri e di violenze sessuali di ogni genere, la gran parte con ferite di arma da fuoco ai genitali.
«Identifico ognuna di loro con mia moglie», commenta. In questo trova la forza morale di proseguire nella sua opera, anche oggi che ha compiuto il giro di boa dei 60 anni.
Ormai il dottor Mukwege, soprannominato «l’uomo che ripara le donne», è riconosciuto come uno dei più grandi esperti a livello internazionale nel trattamento dei danni patologici e psicosociali provocati dalla violenza sessuale praticata in Congo Rd in modo sistematico. Un’arma di guerra per colpire le donne nell’intimo del loro essere, distruggere simbolicamente il futuro mutilando gli organi genitali con ogni tipo di oggetti inseriti nella vagina, anche di bimbe di pochi mesi, e praticando tagli ai seni. Squartare donne incinte e seppellirle ancora vive è un altro atto ricorrente durante le incursioni delle bande armate. Tanta crudeltà ha lo scopo preciso e immediato di annientare sul nascere qualsiasi tentativo di ribellione dei villaggi, facendo sprofondare anche gli uomini in uno stato di sudditanza.
Impunità totale
Pochissimi denunciano le violenze, non solo per la paura delle ritorsioni e dello stigma sociale, ma anche perché i casi in cui i tribunali hanno fatto giustizia sono sinora rari, visto che queste soldataglie senza volto aggrediscono i villaggi sconfinando dagli stati vicini e si spostano senza sosta. Un dato: a fronte di 15mila accuse formali, le condanne sono state 12. «Il silenzio è alleato degli stupratori – afferma Mukwege -. La vittima tace per vergogna e per paura di essere discriminata. Io devo combattere al loro fianco perché le donne sono forti, sono capaci di vivere per gli altri. Ho curato 50mila donne, ma pensiamo sempre che dietro a un numero c’è un essere umano, è questa consapevolezza che deve farci reagire. Avevo un successore, Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, l’hanno assassinato a fine aprile dell’anno scorso. Tuttavia non mi fermerò».
Oltre la medicina
Con mariti e figli traumatizzati, le donne, che in Africa continuano a essere il perno su cui ruota la vita sociale, sono costrette ad abbandonare famiglia e lavoro, portando con sé quelle profonde ferite che soltanto un personaggio come Mukwege è in grado di lenire.
Il suo aiuto oggi sta andando persino oltre, affiancandole nella ricerca di nuove competenze lavorative, offrendo l’opportunità alle più giovani di tornare a scuola e dando loro appoggio se intendono rivolgersi alla giustizia. Scelte pagate letteralmente sulla propria pelle. Mukwege è stato vittima di attentati, tra cui quello in cui è stata assassinata la sua guardia del corpo, e amico, Joseph Bizimana, e di irruzioni armate nella sua casa con minacce di morte e il rapimento della figlia. Costretto a fuggire in Scandinavia, è ritornato a Panzi non appena un gruppo di donne, che peraltro vivono con meno di un dollaro al giorno, hanno racimolato con una colletta i soldi per pagargli il viaggio aereo. È questo un comportamento che gli è valso il «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», voluto trent’anni fa dall’Unione europea per celebrare il ricordo del fisico nucleare russo e assegnato ogni anno in riconoscimento di chi combatte la sua personale battaglia a favore dei diritti dell’uomo. E non è un caso se il primo a riceverlo fu Nelson Mandela.
Radici storiche
Il motivo fondamentale per cui il Congo Rd è squassato da tanta violenza lo ha denunciato lo stesso Mukwege durante il suo discorso alle Nazioni Unite già nel 2012, poco prima dell’attentato: lo sfruttamento delle sue risorse minerarie. Fenomeno che risale almeno alla metà dell’800, quando il Congo fu acquisito come proprietà personale dal re del Belgio Leopoldo II. Sfruttamento che è costato almeno dieci milioni di morti. «Se il Congo è ormai da 25 anni una polveriera – commenta l’antropologo Luca Jourdan che abbiamo incontrato a fianco di Mukwege durante un suo tour italiano di sensibilizzazione dell’opinione pubblica organizzato dal torinese Centro di Studi Africani (Csa) – le cause risalgono proprio all’epoca coloniale, quando prima i traffici di schiavi e avorio, e poi quelli della gomma favorirono gli interessi sfrenati dei signori della guerra, che già allora terrorizzavano i villaggi mozzando le mani a chi non produceva i quantitativi stabiliti, come punizione e monito». I belgi non portarono civiltà. «I primi ammutinamenti dell’esercito – prosegue Jourdan – produssero il tentativo di secessione della regione del Katanga, poi la presa del potere da parte di Mobutu nel ’65, con l’esercito che fornisce quadri e ministri, ma senza che il dittatore si fidi dei suoi generali perché non li controlla. Oggi è il tempo di Joseph Kabila, delle elezioni promesse ma rinviate (la presidenza di Kabila è scaduta il 19 dicembre 2016, ma lui resta capo di stato)». L’esercito congolese è in realtà un attore della crisi, poiché non esiste una sola catena di comando. È un esercito integrato con le fazioni ribelli, però i gruppi non si mescolano, ognuno risponde ad un proprio capo. Il risultato è che i «warlords» spadroneggiano ognuno nel suo ambito, controllando, in accordo col governo, l’estrazione del coltan e degli altri minerali indispensabili all’industria dell’elettronica, che costano alla popolazione le violenze combattute da Mukwege.
Mario Ghirardi
Miniere, eserciti e interessi globali
Stupri, figli del coltan
In Congo Rd permane una situazione di grande instabilità. In uno dei paesi con il sottosuolo più riccho al mondo, il 60% della popolazione vive nell’indigenza. Mentre nell’Est le milizie usano la violenza sulle donne come arma di guerra.
La regione congolese dei Grandi Laghi vive un conflitto internazionale tra i più complessi dell’Africa, aggravato dal precipitare della situazione nel confinante Burundi nel 2015, dai massacri nelle regioni del Kasai nel 2017 e dalla permanenza al potere in Congo Rd del presidente Joseph Kabila, ancora oggi, nonostante il suo mandato presidenziale sia scaduto nel 2016. La presa di posizione del dittatore nel far slittare le elezioni è tesa a voler accedere al suo terzo mandato presidenziale contro i dettami della Costituzione vigente che ha fatto saltare nell’anno anche la preannunciata visita di papa Francesco. Le ondate di profughi hanno alimentato ulteriori tensioni e conflitti tra gruppi armati ribelli per il controllo delle miniere superficiali. In esse uomini e bambini sono ridotti in schiavitù per l’estrazione del coltan, preziosissimo materiale, straordinariamente resistente al calore, senza il quale gli smartphone non potrebbero esistere e che qui si trova nelle maggiori concentrazioni al mondo (cfr. MC luglio 2015 e giugno 2016).
Il coltan, fondamentale anche per l’industria aerospaziale, fa gola a tutti, con i cinesi in prima linea alla ricerca di accordi commerciali, insieme a Stati Uniti ed Europa, per accaparrarsi quelli che sono ormai conosciuti come i «minerali insanguinati». La posta in gioco è altissima e nessuno vuole farsela scappare, ma il prezzo da pagare in termini di diritti umani è pure enorme, con vittime principali le donne e i bimbi anche di pochi mesi. Il Congo Rd ha arrestato la sua crescita economica, ma non demografica. È uno dei paesi più povero del pianeta con oltre 6 persone su 10 che vivono sotto la soglia di indigenza assoluta. I delitti sono in costante aumento, il numero di donne violentate supera il mezzo milione, con gli stupri usati come strumento per far nascere i figli dei vincitori oppure al contrario per rendere impossibile la nascita di una successiva generazione delle etnie sottomesse. Una situazione terribile attorno alla quale resta moltissimo da fare anche in termini di consapevolezza dell’opinione pubblica occidentale. Lo stupro di guerra come quello praticato in Kivu è stato riconosciuto infatti ufficialmente come crimine contro l’umanità e concausa di genocidio soltanto nel 2008, elaborando a livello legislativo con un ritardo smisurato quanto successe nel 1992, a danno dei bosniaci musulmani nell’allora Jugoslavia.
Chi estrae il coltan non gode di alcun diritto in cambio di un lavoro massacrante retribuito con spiccioli di dollaro. Bambini e uomini trasportano i secchi sulla testa sotto il sole a picco o sotto le piogge torrenziali, come schiavi di una società che non offre alcuna alternativa di sopravvivenza e nemmeno possibilità di scolarizzazione. I livelli di sicurezza sul lavoro sono infimi e si muore con facilità in quelle voragini della montagna, che diventano tombe, da cui i signori della guerra non si degnano nemmeno di portare alla luce i cadaveri per restituirli alle famiglie. La beffa sono i cartelli pubblicitari nei villaggi confinanti che promettono l’accesso gratuito a Facebook per tutti.
La tracciabilità dei materiali potrebbe essere un primo modo per limitare gli abusi. L’Unione europea nell’aprile scorso ha finalmente approvato un regolamento comunitario in questo senso, che però non sarà applicato prima del 2021. La normativa obbligherà tutti gli importatori europei di stagno, tungsteno, tantalio e oro a dichiarare le loro fonti di approvvigionamento con l’istituzione di un apposito registro e sistematici controlli sul rispetto degli obblighi di responsabilità, la cosiddetta «due diligence», in modo da mantenere elevati standard e garantire che non ci siano punti di contatto tra l’origine dei minerali e le bande armate. Dal patto però Bruxelles sembra aver escluso i minerali di cobalto, nonché il divieto di importazione di prodotti finiti che contengano il minerale, lasciando aperta la strada ai telefonini cinesi. Intanto contemporaneamente il presidente Usa Trump smantella il Dodd-Frank Act, un provvedimento per una volta in sintonia con quello adottato dalla Ue e promulgato dal predecessore Barack Obama nel 2010.
Siamo alla fine degli anni Sessanta a Tuuru, sulle colline vulcaniche che dal Monte Kenya scendono verso l’Oceano Indiano. Si sta costruendo un acquedotto per un centro di bambini poliomielitici. L’acqua è a 25 km di distanza, nella foresta dello Njambene. Arrivano fondi da donatori. Il progetto prevede l’acquisto di un grosso scavatore per accelerare i tempi. Ma l’uomo che è la mente e il cuore del progetto non è convinto. Si siede e fa due conti. Uno scavatore, una decina di operai, tre mesi di lavoro da una parte. Zappe e carriole, cento operai, tre anni di
lavoro dall’altra. Costo: invariato. Sceglie le zappe. Cento operai sono cento famiglie. E poi lo scavo fatto da un uomo con la zappa attraverso un campicello di mais è certo meno distruttivo di quello fatto con uno scavatore. Risultato? Dopo quasi cinquant’anni quell’acquedotto è ancora là e disseta quasi mezzo milione di persone e animali. Altri progetti coevi, fatti con «lo scavatore»,
sono da tempo spariti nel nulla, ingoiati dalla foresta.
La storia che vi ho raccontato non è nuova. Tante volte su questa rivista vi abbiamo parlato dell’acquedotto di Mukululu e di fratel Mukiri, Giuseppe Argese, il silenzioso.
Ho pensato a lui leggendo i numerosi articoli di giornali e riviste che di questi tempi informano entusiasti o, al contrario, suscitano paure a proposito dei robot e dell’intelligenza artificiale destinati a soppiantare il lavoro degli uomini. Come se a «rubarci il lavoro» non bastassero i «disperati» che provengono «da zone in cui il valore della vita umana è pressoché uguale a nulla» (come ha scritto un esimio professore). Ci si mettono pure i robot.
Davvero i robot? Non sono certo loro che decidono dove e come lavorare, in quali fabbriche, in quali settori, in quali aree. Il robot che gestisce in automatico gli acquisti e le vendite di azioni in borsa, non si attiva da solo, ma qualcuno ha scelto di usarlo così per guadagno, anche se rovina tantissimi altri. Il drone che sgancia la bomba su una festa di nozze in Afghanistan, è programmato e mandato da un uomo, non agisce autonomamente. Anche il fantastico robot che esegue operazioni chirurgiche di alta precisione, non agisce di sua iniziativa. L’algoritmo (oggi con «l’algoritmo» si spiega tutto!) che nei social controlla tutto e tutti alla faccia della privacy non si è creato da solo, ma è perfezionato da uomini controllati da altri uomini che in testa non hanno certo il bene-essere dell’umanità ma il denaro. È un caso che un gruppo ridottissimo di individui diventi sempre più ricco proprio mentre la maggioranza impoverisce? E non solo impoverisce, ma diventa sempre più litigiosa e spende sempre di più in muri e barriere e armamenti (che non portano maggiore pace e sicurezza, ma certo arricchiscono chi li produce e vende).
Non sono contro i robot e il progresso. Tutt’altro. Ma mi preoccupa l’erosione della libertà e il sempre maggior controllo che dobbiamo subire attraverso robot e programmi usati per condizionare la nostra vita. Vorrei poter usare la tecnologia, non essere usato attraverso di essa.
Come qualcuno ben più importante di me insegna, se al centro delle nostre scelte politiche, economiche e sociali non c’è l’uomo, la sua dignità e il suo bene-essere, rischiamo davvero di costruirci un mondo invivibile, sempre più diviso, ingiusto e meno umano.
Uomo al centro, come «adam», uomo e donna uniti.
In occasione dell’8 marzo si scrive e parla molto di «donna». Ed è bello e giusto che lo si faccia. Mi piacerebbe però che non si parlasse solo di quelle donne che hanno il coraggio del «Metoo!». Oltre alle tante, troppe vittime della violenza di chi dice di amarle, non dimentichiamo le donne Rohingya, le Yazide, le madri siriane, le donne sudanesi, somale, nigeriane, congolesi, centrafricane e di tanti altri paesi. Non si chiudano gli occhi sulle donne, sempre più giovani, costrette a contendersi i nostri marciapiedi, a esibirsi sulle nostre spiagge, a illuminare le nostre strade; donne trafficate, vendute, sfruttate da mafie nostrane e internazionali. Donne oggetto, usate da gente perbene, da italianissimi padri di famiglia, lavoratori, impiegati e professionisti. Gli stessi italianissimi che con la bandiera tricolore sulle spalle sparano (o applaudono a chi spara) su presunti pushers e magnaccia di colore, i quali, quelli che lo sono davvero, esistono e prosperano perché italianissimi giovani e meno giovani cercano e consumano quanto essi vendono sfacciatamente.
Nel mondo si è fatto e si fa tanto per difendere, aiutare e promuovere le donne. Tanto rimane ancora da fare. Ma non basta pensare solo a loro. Gli uomini, i maschi intendo, che spesso sono la causa prima di violenze e abusi, hanno anche loro bisogno d’aiuto per ritrovare se stessi, la propria dignità, il proprio ruolo nella società, non separati o sopra le donne, ma insieme, come ci ha sognati il nostro Creatore che ha fatto dei due, insieme e inseparabili, la sua immagine.
Gigi Anataloni
Crateús, dove Dio è donna
Testi di Stefania Garini, foto cortesia CISV (Raffaele Giammaria, Viviana Pittalis e Marta Versaci) |
Nel Ceará, uno degli stati più poveri del Brasile e tra i più violenti al mondo, suor Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, combatte da sempre a fianco degli ultimi: le donne vittime di abusi, i giovani, i contadini senza terra e le pescatrici senza acqua. Animata da una fede incrollabile nel Vangelo e nella capacità umana di riscattarsi.
«Ho deciso di farmi suora a 9 anni, il giorno in cui ho assistito allo stupro di una ragazza per strada. Sono corsa in cerca d’aiuto ma nessuno è intervenuto perché dicevano che era una prostituta. Quella ragazza è stata violentata e uccisa, ma non importava a nessuno. Per me è stato terribile, mi sentivo impotente, ho iniziato a pensare che consacrandomi avrei potuto aiutare le donne, le tante vittime di violenza che nel mio paese restavano “invisibili”». Racconta così la sua vocazione suor Francisca Erbenia de Sousa, nata 53 anni fa a Quixeramobim nello stato del Ceará, Nord Est brasiliano, e dal 2006 responsabile della Caritas diocesana di Crateús.
All’epoca, il papà fa il camionista trasportando il cotone delle piantagioni, mentre la mamma si occupa dei sette figli. «I miei genitori non erano religiosi. Mio padre era legato agli ambienti politici di destra, ultraconservatori, e ostacolava la mia scelta, così a 17 anni me ne sono andata di casa per farmi suora». Da allora questa religiosa dall’apparenza dimessa, ma tenace e combattiva, non ha mai smesso di battersi per i diritti degli ultimi, a cominciare proprio dalle donne: le prostitute e le vittime di abusi, le catadores che campano raccogliendo rifiuti, le abitanti delle favelas, le contadine senza mezzi e senza terre, le pescatrici prive di prospettive economiche e riconoscimenti professionali.
Abbiamo incontrato suor Erbenia durante il suo primo viaggio in Italia lo scorso novembre (2017), in compagnia di Antonio Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, in visita a due associazioni con cui la Caritas brasiliana collabora, Cisv di Torino e WeWorld di Milano.
Teologia incarnata
Formatesi alla scuola del pedagogista Paulo Freire e della teologia della liberazione, Erbenia e la Caritas di Crateús promuovono una lettura critica delle disuguaglianze sociali, viste non come volontà di Dio cui ci si deve piegare ma al contrario come una violenza nella creazione divina. «L’esistenza di Dio si traspone nelle nostre esistenze e ci spinge a interrogarci sulla realtà che ci circonda: com’è possibile che molti di noi debbano vivere senz’acqua da bere, senza terra da lavorare, senza prospettive per i giovani? Il volto di Dio è quello che si mostra nell’Esodo: “Ho osservato la miseria del mio popolo […] conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo […] verso un paese nel quale scorre latte e miele” (Esodo 3,7-10). È un Dio capace di vedere e ascoltare gli affanni, le speranze, le perdite ma anche le potenzialità delle vite umane». Si tratta di una teologia incarnata, in cui la dimensione spirituale resta inseparabile dall’azione concreta: «La preghiera è per noi un’esigenza quotidiana, in chiave contemplativa: pregare significa contemplare la vita di ogni giorno, cercando di leggerla alla luce del Vangelo», spiega suor Erbenia. «Il nostro modo di considerarci figli e figlie di Dio ci porta spesso a unirci alla popolazione nell’occupazione delle terre rurali e urbane lasciate in abbandono, o prese indebitamente da imprese minerarie e fazendeiros» (cfr. MC novembre 2017). Iniziative che spesso sono costate aggressioni e intimidazioni. «Abbiamo subìto una forte repressione militare tra gli anni Sessanta e Ottanta, molti di noi sono stati vittime di violenze, persecuzioni, prigionia, abbiamo imparato a correre al buio per scappare. E oggi le occupazioni di terre continuano ad attirarci le “attenzioni” di fazenderos e polizia», racconta la suora senza tradire emozioni.
Pur essendo la nona potenza economica al mondo, negli ultimi due anni la situazione del Brasile è molto peggiorata, e oggi la Chiesa brasiliana si sta schierando sempre più apertamente contro il governo di Michel Temer. «Il nostro paese è un palcoscenico di corruzione, si è tornati a colpire le popolazioni indigene e gli afro discendenti, soprattutto i giovani. I diritti conquistati a fatica in 50 anni sono adesso andati perduti: pensate che i programmi d’intervento popolare sono stati tagliati del 92%», dice Erbenia, ricordando come il governo Lula avesse garantito case popolari, assegni familiari in base al numero di figli e la possibilità per i giovani poveri di accedere all’università. «Oggi, per la prima volta nella storia del Brasile, in parlamento c’è una presenza fortissima delle chiese pentecostali, che sono fautrici di una politica ultraconservatrice. E ciò favorisce un clima repressivo, violazioni dei diritti e violenza diffusa». Il Brasile è il quinto paese al mondo per femminicidi, e si calcola che più del 50% delle donne tra i 14 e i 50 anni abbiano sofferto una qualche forma di violenza. Il primo passo per cambiare questo stato di cose è «investire nella formazione, come insegnava Paulo Freire: l’oppresso ha bisogno di riconoscersi come tale per riuscire a liberarsi», spiega Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, che come suor Erbenia fa parte della fraternità mista in cui vivono insieme suore, preti e laici. «Per affrancare le donne dalla violenza occorre renderle libere su un piano pratico, autonome dal punto di vista professionale ed economico». Ed è quanto fa la Caritas nel Nord Est brasiliano insieme ad altre associazioni, come Cisv e WeWorld.
Puntare sui giovani
La Caritas, che secondo le parole di papa Francesco è «la carezza della Chiesa ai poveri», nello stato del Ceará è organizzata in 800 comunità ecclesiali di base che condividono la lettura critica della realtà volta a emancipare la persona, attraverso un’educazione contestualizzata, cioè adattata al contesto in cui vive. «Nel nostro territorio i figli e le figlie delle famiglie contadine sono tradizionalmente i più esclusi dall’istruzione. Perciò una quindicina d’anni fa abbiamo occupato un terreno per fondarvi una scuola, così da poter offrire loro una formazione di qualità sulle tecniche agroecologiche, alla luce delle specificità ambientali e sociali del territorio semiarido brasiliano», spiega suor Erbenia. La scuola accoglie ogni anno oltre 100 ragazzi e ragazze che, secondo la pedagogia dell’alternanza, per 15 giorni al mese seguono le lezioni teoriche e pratiche (sull’agricoltura, sul commercio solidale ma anche sulla gestione dei conflitti), mentre negli altri 15 giorni vanno a casa ad applicare negli orti familiari ciò che hanno appreso. I giovani che escono dalla scuola di agroecologia sono poi aiutati a trovare un primo impiego e in seguito, sempre in una logica di alternanza, spinti a frequentare l’università.
Negli anni la Caritas di Crateús, che conta oggi circa 70 membri, ha creato 126 scuole e formato 17.000 studenti, che hanno potuto «imparare il rispetto della terra e la produzione di cibi sani, senza fare ricorso ai pesticidi o a pratiche tradizionali di incendio dei terreni, e impiegando tecnologie idonee per l’immagazzinamento dell’acqua. Tutto questo nella prospettiva del Bem viver (vedi sotto) e grazie all’opera gratuita di oltre 1.500 insegnanti, uomini e donne impegnati a titolo volontario». Erbenia non usa molto la parola provvidenza, ma ogni suo discorso trasmette piena fiducia e positività per il futuro.
Il business della siccità
La maggior parte dei giovani che oggi beneficiano della formazione Caritas provengono da 2.600 famiglie di pescatori o pescatrici d’acqua dolce, che nel Ceará rappresentano i più poveri tra i poveri, isolati e ignorati dalle istituzioni. «La Caritas di Crateús, insieme al Cpp, Consiglio pastorale della pesca, e all’Ong Cisv, grazie a un progetto cofinanziato dall’Unione europea, lavora con queste famiglie alle prese con un’aridità cronica, aggravata dal fatto che qui non piove ormai da 6-7 anni».
Il problema non è solo ambientale ma politico, come ci spiega Adriano: «Il semiarido brasiliano è quello, tra tutti i semiaridi, in cui piove di più al mondo, quindi il problema non è solo la siccità ma la privatizzazione dell’acqua e l’assenza di politiche pubbliche». La siccità anzi per molti è un business: «Le imprese legate al governo producono cisterne per l’acqua in plastica, che costano attorno ai 5.000 reais (circa 1.300 euro), mentre noi le costruiamo in cemento, materiale più ecologico ed economico, che riduce i costi di un terzo».
La mancanza cronica di acqua e di pesci attenta alle risorse vitali delle numerose famiglie rurali, che vivono tradizionalmente di pesca. «Noi cerchiamo di creare opportunità alternative di reddito e spingere il governo a farsi carico del problema, perché la legge vieta, di fatto, a pescatori e pescatrici di integrare le loro entrate con altre attività produttive», spiega suor Erbenia. Anche qui, «le più discriminate sono le donne: a loro non è riconosciuto lo status professionale di pescatrici, perché vengono considerate semplici “accompagnatrici” dei mariti e “aiutanti” dei pescatori, quindi escluse dagli scarsi sussidi previsti per le aree depresse». Il Ceará è uno degli stati brasiliani dove è più radicata la cultura machista, «un modo di pensare che non è peculiare del maschio, ma impregna anche le donne, minando alla radice la loro autostima e la fiducia nelle proprie possibilità». Resta allora fondamentale intervenire con la (in)formazione, che permette di de-costruire i modi di essere dominanti e costruirne di nuovi. «Ma soprattutto all’inizio è stata dura mettere queste donne intorno a un tavolo per ragionare insieme sulla loro condizione e sulle alternative possibili. Gli uomini non volevano che partecipassero agli incontri e li sabotavano. Una donna ci ha raccontato che, quando il marito usciva di casa, la legava per i capelli al soffitto per impedirle di allontanarsi. Adesso, grazie al nostro lavoro di sensibilizzazione, alcuni uomini hanno iniziato ad aprirsi e spingono le mogli, che non si sentono all’altezza, a frequentare il centro».
La salvezza è donna
Come ci spiega Erbenia, il lavoro di empowerment delle donne si ricollega a una lettura della Bibbia in chiave «femminista» (vedi box) ispirata alle posizioni del Centro Ecumenico di Studi Biblici, in particolare alla teologia del Pés no chão, piedi per terra, che trae spunto dai lavori di Leonardo Boff e Ivone Gebara. Attraverso alcune figure chiave dell’Antico e del Nuovo Testamento – le ostetriche che disubbidiscono all’ordine di uccidere i neonati maschi; la sorella di Mosè che guida il passaggio dalla schiavitù d’Egitto alla terra promessa; Elisabetta che genera vita anche in tarda età; Maria che spinge Gesù al primo miracolo di Canaan – emerge il ruolo fondamentale della donna nella storia della salvezza. «L’atteggiamento di Gesù è sempre stato quello di domandare, piuttosto che insegnare. Sono state le donne da lui incontrate che, in vari modi, gli hanno mostrato come approcciarsi alla realtà, mettendo al centro la persona e il valore della vita». Una prospettiva non banale, in una cultura come quella brasiliana permeata di maschilismo e misoginia.
La teologia della liberazione e le pratiche sociali a essa connesse non sempre hanno incontrato i favori del Vaticano. Gli stessi vescovi brasiliani in passato si sono spesso schierati contro di essa. Ma oggi le cose stanno cambiando e nuove speranze per l’umanità, ci dice Erbenia, provengono dall’attuale pontefice che ha rappresentato una svolta rispetto al conservatorismo dei suoi predecessori: «Al di là delle dichiarazioni e degli scritti, è soprattutto il suo atteggiamento umano che stimola al cambiamento reale, nel segno di una Chiesa aperta dove il Verbo si fa carne». E del resto, conclude la suora con un sorriso, «non è un caso se papa Francesco ha vissuto molto tempo in America Latina».
Stefania Garini
La filosofia del Bem Viver
Anche oggi si può essere felici
Prendersi cura di chi si prende cura, occupandosi della terra e proteggendo la biodiversità. Non è possibile stare bene senza una dimensione comunitaria, senza un legame con l’ambiente.
«In Brasile siamo figli e figlie di un ventre violato, siamo discendenti di indigeni, africani, europei; un incrocio di popoli nato dalla violenza della colonizzazione». A questa violenza originaria, dice suor Francisca Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, risale la dicotomia che permea la storia recente del Brasile, tra avere ed essere: «Abbiamo ereditato una malattia dello spirito, pensando di poterci realizzare solo se “abbiamo”. Siamo impregnati di consumismo e siamo schiavi di questo modello, schiavi dei cellulari, dei vestiti, pronti a tutto per ottenerli: a indebitarci, a rubare, a compiere violenze finendo ai margini della società. “Abbiamo”, ma siamo infelici, il nostro è tra i paesi con il più alto tasso di suicidi al mondo, soprattutto di giovani». Per superare questo modello distruttivo, molte iniziative della Caritas di Crateús si ispirano al concetto del Bem viver.
Sviluppato da Euclides André Mances, fondatore dell’Istituto di Filosofia della liberazione, il Bem viver «consiste nell’esercizio umano di disporre dei mezzi materiali, politici, educativi e informativi per soddisfare eticamente le necessità biologiche e culturali di ciascuno, ma anche per garantire eticamente la realizzazione di tutto quanto possa essere concepito e desiderato per la libertà personale senza negare la libertà pubblica». In opposizione all’appropriazione di conoscenze, ricchezze e accumulo – con lo scopo più o meno consapevole di dominare (l’altro, il tempo, la natura…) – il Bem viver si prende cura della Madre Terra e dei suoi ritmi: «Proteggo, coltivo e mi prendo cura di un ambiente dove la vita ha le proprie leggi e il proprio tempo», nota Erbenia. In questa prospettiva una dimensione importante è quella del cuidade curanderos, il «prendersi cura di chi si prende cura», ad esempio avendo riguardo per la terra, rispettandone la biodiversità, evitando di avvelenarla con pesticidi, prendendo da essa il necessario per vivere e non di più. Questo atteggiamento di curatori e protettori del Creato ci rende a immagine e somiglianza di Dio, ed è il percorso – indicato anche da papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ – che ci permette di superare il cancro del consumismo».
Esiste un forte legame tra il Bem viver di ciascuno e quello di tutti, in una prospettiva di promozione della libertà che si muove su un piano insieme concreto e utopico, e si riconnette alle parole di Gesù: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 1-21). Come spiega suor Erbenia, «stare bene non può essere un fatto solo personale: non è possibile stare bene senza la dimensione comunitaria e senza un legame con la terra, senza che stiano bene la natura e chi la abita. È qualcosa che a Crateùs cerchiamo di realizzare anche simbolicamente attraverso la ciranda, una danza che si fa tutti assieme, in cerchio, cercando ognuno di rispettare i passi dell’altro e lasciando il giusto spazio per ciascuno. Il nostro sogno è espandere questo girotondo, per allargare il cerchio delle possibilità a sempre più persone e costruire una diversa realtà».
S.G.
La lettura femminista della Bibbia
Chi decide la storia
Le figure femminili nell’Antico e nel Nuovo Testamento hanno spesso un ruolo pedagogico e salvifico. Queste figure sono fondamentali per la vita.
Il Centro ecumenico di studi biblici segue una corrente della teologia della liberazione che valorizza il ruolo spirituale e salvifico della donna. Come spiega suor Francisca Erbenia de Sousa, si possono leggere in tal senso alcune figure femminili della Bibbia che «pur restando spesso senza nome, hanno avuto un ruolo pedagogico rispetto ai protagonisti maschili della storia della salvezza». Come le ostetriche egizie del libro dell’Esodo che, rifiutandosi di ubbidire al re e uccidere i neonati maschi ebrei, riescono a salvarli evitando uno scontro diretto contro il potere e ricorrendo a un abile stratagemma, dichiarando di non esser arrivate in tempo perché le madri avevano partorito troppo in fretta: «Le donne ebree non sono come le egiziane, sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito» (Es 1, 8-22). O come Miriam, la sorella di Mosè, che ha un ruolo significativo e guida le donne israelite nella danza e nei canti per festeggiare la liberazione dalla schiavitù quando le acque del Mar Rosso si chiudono sulle truppe egiziane (Es 15, 20-21). «Episodi come questi mostrano che chi decide la storia sono le figure femminili, che aiutano la vita: a nascere, a crescere, a sfuggire ai pericoli».
Emblematico è poi l’incontro tra Maria ed Elisabetta, che segna il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento (Lc 1, 39-45). «Elisabetta esprime la saggezza della donna che genera vita pur essendo avanti con gli anni, e accoglie una donna più giovane di lei in cui inizia ad affacciarsi la vita. È Maria qui a essere “accolta”, perché è in fuga dopo la scoperta di essere rimasta incinta. Le due donne rappresentano un Dio che si rivela tanto nella gioventù come nella vecchiaia». Analogamente, Giovanni Battista e Gesù rappresentano due modelli di umanità: il primo ha una relazione forte con la natura, vive nel e del deserto, per disintossicarsi dalle convenzioni sociali; Gesù invece ha una particolare sensibilità verso gli esseri umani, è più «prossimo» alle persone, più accogliente.
Nel Nuovo Testamento la Madonna spinge il figlio, ancora riluttante, a compiere il suo primo miracolo, insegnandogli che «bisogna agire quando è necessario» (Gv 2, 1-11). Mentre l’emorroissa che si fa strada tra la folla per toccargli un lembo del mantello gli insegna che la legge dev’essere al servizio della vita, e non viceversa (Lc 8, 40-48). «L’emorroissa è una donna impura per le perdite di sangue, non può avere contatti fisici con le altre persone, e il fatto di farsi strada in mezzo a molta gente la pone a rischio della sua stessa vita; ma il dolore e le discriminazioni le hanno insegnato ad alzare la testa, e Gesù non rimane insensibile a queste sofferenze».
Infine l’episodio dell’adultera che, in base alle leggi vigenti, deve essere lapidata (Gv 8, 1-11). «L’aspetto interessante qui è il gesto di Gesù che si china per terra, come a condividere con il suo corpo il movimento verso il basso, assumendo la sofferenza della donna e dando la propria vita in sua difesa. In questo modo è lasciata agli accusatori la responsabilità della decisione, mentre all’adultera – e a Gesù – non resta che riprendere in mano la propria vita».