Osea, profetizzare con la vita


Ci sono alcuni artisti dei quali diciamo che fanno arte con la loro stessa vita, con le loro scelte, con il loro stile personale. Succede anche nel mondo biblico che alcuni profeti annuncino il volto di Dio con le proprie azioni. Lo fanno Geremia ed Ezechiele, che a volte si mettono a fare gesti strani, enigmatici, per introdurre le loro predicazioni. Ma, secoli prima di loro, succede in modo straordinario e sconvolgente anche a un altro profeta, forse meno noto ma che affascinerà molto i redattori biblici.

Un libro complicato

Il profeta Osea ha il privilegio di un libro dedicato interamente a lui. Un libro, però, che è discretamente difficile. La sua parte più ampia, dal capitolo 4 in poi, è in poesia, come succede spesso alla profezia ebraica, e allude, in modo a volte stringatissimo, a vicende che gli ascoltatori devono conoscere bene. Come succede alle canzoni contemporanee, non solo non c’è bisogno di spiegare tutti i particolari, ma addirittura è meglio mantenere un po’ di ambiguità, perché siano gli ascoltatori a completare il discorso, facendolo così più proprio.

Osea vive e profetizza nel regno di Israele del Nord, intorno alla capitale Samaria e al suo tempio di Betel, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. È un periodo delicato, che si chiude nel 721 a.C. con la distruzione del tempio e l’annessione dello stato allo spietato impero neoassiro. È probabile che prima della distruzione del tempio alcuni sacerdoti e scribi siano riusciti a fuggire a Gerusalemme, portandosi dietro tradizioni, storie e anche manoscritti, tra cui forse anche i capitoli dal 4 al 14 del nostro libro, che in effetti in alcuni passaggi sembra scritto in una lingua strana e non sempre comprensibile in tutti i dettagli.

Quando si fa un trasloco, però, anche in situazioni molto meno drammatiche di quelle vissute dagli antichi scribi, si coglie l’occasione per liberarsi di ciò che non interessa più, e si sceglie di trasportare solo ciò che si ritiene ancora prezioso. Evidentemente, il libro di Osea è tra i tesori che i fuggiaschi samaritani non vogliono perdere e, una volta arrivati a Gerusalemme, ne spiegano il valore ai sacerdoti locali. Qualcuno, per renderlo più comprensibile, aggiunge un’introduzione in prosa, in un linguaggio che è molto più facile da capire di quello del testo in poesia.

Un matrimonio difficile

«Va’ e prenditi per moglie una prostituta» (Os 1,2). Così inizia il libro di Osea, non proprio un grande punto di partenza per un matrimonio, tanto più in un mondo come quello ebraico ossessionato dalla purità anche nei legami coniugali perché ritiene che i figli non sono semplicemente i discendenti dei genitori, ma sono iscritti in una trasmissione della benedizione divina che risale fino ad Abramo. Offuscare quella linea di trasmissione significa, in ultimo, offendere anche Dio. Eppure è Lui a chiederlo al profeta di sposare una prostituta spingendolo a vivere la propria vita in un modo apparentemente lontano dai precetti divini.

Fin dall’inizio, però, si chiarisce che la posta in gioco non è «soltanto» la vita di una persona, infatti il versetto continua così: «perché il mio paese continua a prostituirsi» (Os 1,2). Insomma, il testo ci suggerisce subito che il matrimonio di Osea è un’immagine del rapporto di Dio con il suo popolo. Al profeta viene chiesto di sposare una prostituta perché è Dio stesso a trovarsi sposato a un popolo infedele. Quello che farà Osea sarà un’immagine dell’intenzione divina. Il profeta annuncia il messaggio divino con la propria stessa vita.

Quell’intuizione di partenza prosegue nei figli, che ricevono nomi certo non troppo beneauguranti: il primo viene chiamato Izreèl (Os 1,4), come la valle nella quale fu distrutto dai filistei l’esercito ebraico di Saul (1 Sam 29,11; 2 Sam 4,4), o in cui si trovava la vigna che un re desiderava e che la sua regina, Gezabele, riuscì a strappare al legittimo proprietario facendolo ingiustamente condannare a morte (1 Re 21) e dove la stessa Gezabele venne uccisa e abbandonata ai cani (2 Re 9). Non un posto di buon auspicio, insomma, ma un luogo in cui si sono verificati episodi di ingiustizia che Dio vuole vendicare (Os 1,4-5), proprio come ci aspetteremmo da un Dio severo e giusto.

Dopo Izreèl nascono poi anche Non-amata e Non-popolo-mio (Os 1,9).

Un matrimonio improbabile segnato da rapporti difficili anche con i figli, immagine di un Dio che evidentemente non è contento del suo popolo e che inizia a pensare di doverlo punire. D’altronde, è diritto e, sostanzialmente, quasi dovere di un capofamiglia farsi rispettare anche con le cattive.

Una soluzione «divina»

La possibilità di un castigo severo e inflessibile aleggia in tutto il libro. In fondo, è ciò che ci si aspetta che faccia un marito, proprietario della moglie, ed è ciò che solitamente si pensa che dobba fare Dio. Quante volte persino noi, moderni ed evoluti, ci diciamo che se Dio ci fosse e fosse attento a noi, certe ingiustizie non le sopporterebbe.

Anche Dio, verrebbe da pensare, è tentato da una soluzione violenta e chiara (Os 2,11-15) che forse non lo rallegrerebbe, ma almeno lo vendicherebbe.

E invece Egli trova una soluzione diversa. Non quella che l’uomo si aspetterebbe, ma quella che meglio corrisponde al cuore.

«La condurrò nel deserto», là dove non ci sono distrazioni, dove si può essere soli, come lo erano Dio e il suo popolo durante i quarant’anni di peregrinazione verso la terra promessa, «e parlerò al suo cuore», cercando di convincerla, di farsi ascoltare e ubbidire. «La sedurrò» (Os 2,16). «E in quel giorno non mi chiamerai più “mio signore”», o, per usare il termine ebraico che può suonare familiare persino a noi, «non mi chiamerà più “mio baal”». «Baal» era il modo con cui i Cananei, molto diffusi e importanti nel nord d’Israele, si riferivano al loro dio, che poi coincideva con il modo con cui la moglie parlava al marito, riconoscendolo a lei superiore e suo «capo». «In quel giorno non mi chiamerai più “mio signore” ma “mio uomo”» (Os 2,18), come un’innamorata, che riconosce in colui che ha di fronte non il suo padrone, ma il suo amato, una persona con la quale sta in rapporto alla pari.

E, siccome impostare in questo modo il rapporto amoroso significa per Dio (e per Osea) non avere certezze (un padrone può imporre la sua volontà, un amante no), da qui in poi Dio si mette ad attendere una risposta, e a sognare.

Dio immagina di mettere pace in tutta la natura (2,20), sogna una relazione fatta di «giustizia e diritto», unendo l’aspetto più formale, esteriore, legale (diritto) e quello più profondo di equilibrio nel rapporto, di profonda sintonia e correttezza (giustizia). Poi ancora immagina «amore» (il termine indica l’affetto gratuito, disinteressato, dei genitori verso i figli) e «benevolenza», atteggiamenti che rimandano però alle viscere, ai sentimenti più diretti, spontanei, passionali e intimi. Dio sogna, cioè, che la realtà esteriore del matrimonio dica quella più interiore del desiderio di vivere insieme, e che l’attrazione si esprima anche in dono gratuito e generoso.

«A Izreèl risponderanno il grano, il vino nuovo e l’olio» (Os 2,24), così che la valle diventata sinonimo di maledizione si riempirà di quei doni agricoli che, secondo i cananei, era baal a garantire. «Amerò Non-amata, e a Non-popolo-mio dirò “Popolo mio”, ed egli mi dirà “Dio mio”».

È un sogno. Dio sta immaginando un matrimonio di totale amore. Sta sognando, perché ancora in attesa di una risposta.

Un amore senza condizioni

Tutti noi sogniamo un amore incondizionato. O, più egoisticamente, di essere amati senza condizioni. Anche se, nella storia, viviamo anche di patti: «Se non mi sei fedele, se non mi ami, anche io mi disamorerò».

Il libro di Osea, la vita di Osea, ci dicono che Dio non ha intenzione di mettere condizioni. Ne è tentato, come tutti gli amanti, e ipotizza la punizione vendicativa. Ma decide di essere troppo innamorato per mettere a rischio questa relazione.

Nel capitolo 11, in poesia, Osea fa ripercorrere a Dio la storia con il suo popolo, al quale ha insegnato a camminare tenendolo per le ascelle, da dietro, come un papà che non vuole abbandonare ai pericoli il figlio ma desidera che impari a camminare con fiducia nei propri mezzi (11,3), e che ha preso in braccio per baciarlo sulla guancia (11,4): «Li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore».

Certo, si è trovato di fronte ingratitudine e tradimento (11,2). Ma di fronte alla possibilità, che sarebbe reale, di punirlo (11,6-7), si lascia intenerire: «Come potrei abbandonarti? Come potrei trattarti come Admà e Seboim?» (le due città distrutte insieme a Sodoma e Gomorra, cfr. Dt 29,22). Dio si sente struggere le viscere all’idea di fare del male al proprio figlio (Os 11,8). «Io sono Dio, e non uomo» (Os 11,9), e questa affermazione, che potremmo anche interpretare dicendo che di sicuro, se decide di punire, punirà, diventa invece la premessa per affermare che lui non castigherà. Dio ha deciso, è dalla parte della vita del suo popolo. Parlerà al suo cuore, tenterà di sedurlo, ma non gli farà del male.

Tutto questo Osea lo intuisce, chissà se in sogni o visioni, o semplicemente continuando a meditare sul volto di Dio che emerge dalla storia d’Israele. E capisce che se Dio è così, quella è l’immagine precisa dell’amore vero. Perché, di fronte a una donna che continua a prostituirsi anche da sposata (Os 3,1), Osea si sente chiamato a fare non ciò che gli altri pensavano che dovesse fare (costringerla, denunciarla e piuttosto farla lapidare, mostrando chi era il capo), ma ciò che Dio farebbe, amando incondizionatamente, persino senza essere corrisposto allo stesso modo, senza essere capito (in fondo, Gomer, la moglie, potrebbe pensare di aver fatto il suo «dovere», dandogli tre figli).

Un’intuizione abissale

Tutto ciò sarebbe già tantissimo. Ma può darsi che ci sia dentro persino di più.

Osea vive e profetizza nel nord d’Israele, dove è più forte la presenza delle popolazioni di religione cananea, che, stando a quanto riusciamo a ricostruire, prevede anche la prostituzione sacra come atto religioso. Perché mai una donna sposata e con figli, amata dal marito, dovrebbe tornare a prostituirsi? Può darsi che il libro di Osea suggerisca addirittura che Gomer, la moglie, sia una cananea, e che continua a frequentare quegli altri dèi.

Osea sarebbe chiamato ad amare una donna infedele e di un’altra religione, e, facendolo, «rappresentare» Dio stesso, il quale non sarebbe allora attento ai doveri religiosi, a riti o formule di fede, ma al rapporto d’amore. Quasi come se dicesse: «Non mi importa neppure se non vuoi essere tra i miei fedeli; ma amami».

Capiamo quanto il libro e la vicenda di Osea possano aver sconvolto gli antichi fedeli. Abituati (un po’ come noi, se siamo sinceri…) a pensare a un Dio potente, inflessibile e giudice severo ma giusto. Sono invece messi davanti a un cuore amante, che vuole essere amato. A costo di trascurare convenzioni, norme e «buone abitudini». E si trovano davanti un profeta che decide di vivere come Dio, un Dio che, nella vita di Osea, si mostra fragile, pronto ad ammettere che non smetterà di amare e di attendere con paziente ansia una risposta.

Da parte di Dio non ci sono incertezze: sarà Lui stesso a guarire Efraim dalle sue infedeltà (14,5), a far fiorire il popolo e a porsi per lui come un cipresso sempreverde (14,9; il cipresso era la pianta tipica dei luoghi della prostituzione sacra a Baal, ndr.). Capita che nel Primo Testamento si paragonino i giusti ad alberi radicati lungo corsi d’acqua (Sal 1,3; Sir 50,8), ma mai altrove si ricorre a queste immagini per definire Dio. È come se qui si volesse anticipare che Dio non solo garantirà sempre la sua protezione, ma addirittura che si farà presente in mezzo a loro come un uomo. Con Gesù quell’immagine e quel desiderio di comunione misericordiosa prenderanno il loro volto definitivo.

Angelo Fracchia
(Camminatori 08 – continua)




Rut. Amore contro ogni convenzione


Nel turbinio di dibattiti mondani di questo anno, c’è chi ha fatto notare che il legame tra Camilla Parker Bowles e Carl Windsor (anche noto come Carlo iii re del Regno Unito) avrebbe avuto tutte le caratteristiche per piacere all’industria cinematografica e alla nostra cultura romantica, eccetto una: i due innamorati, infatti, che sono legati da affinità sportive e intellettuali, ma osteggiati dalle famiglie perché lui nobile e lei no, e che, costretti a matrimoni «convenienti», non si perdono mai di vista finché un giorno finalmente coronano il loro sogno d’amore, diventando addirittura sovrani, non sono belli.

Per il nostro mondo culturale, la bellezza fisica, secondo i canoni correnti, è decisiva per far appassionare le persone alla vicenda, e per far accettare un amore non convenzionale (che causa anche gravi sofferenze ad altri).

Ogni cultura ha i suoi cliché di accettabilità. L’antica cultura biblica non fa eccezione, anche se si sforza a volte di sfidare i propri stessi criteri.

In quel mondo, infatti, le barriere da non superare nelle relazioni e nei matrimoni, erano quelle del clan, o almeno del popolo di appartenenza.

Anche quel mondo (come il nostro) era poi ben consapevole che la relazione tra suocera e nuora non era normalmente la più serena e pacifica. Ma nella Bibbia troviamo una storia che manda in crisi ogni cliché.

Una famiglia sfortunata

Un uomo di Betlemme di Giuda, spinto dalla fame, si trasferisce con la moglie Noemi e due figli nelle pianure di Moab (nell’attuale Giordania). Elimèlec deve essere veramente disperato, perché tra moabiti e giudaiti non è mai corso buon sangue, si sono combattuti in diverse guerre e si disprezzano a vicenda. Quando la tradizione di Genesi presenta Moab come il figlio di Lot nato da un incesto (Gen 19,30-37), esprime la consapevolezza di quanto i due popoli si assomiglino (Lot, padre di Moab, è nipote di Abramo), e, allo stesso tempo, quanto odio ci sia tra i due vicini al di qua e al di là del Giordano.

A Moab quell’uomo non solo trova lavoro, ma anche due mogli per i figli, e qui i benpensanti di Giuda non avrebbero potuto far altro che scuotere il capo, disapprovando la scelta. Chissà se poi avranno detto «Ben gli sta» quando sono venuti a sapere che, uno dopo l’altro, sono morti il capofamiglia e i suoi due figli senza lasciare eredi.

Il mondo antico non è tenero nei confronti di chi si trova senza protezioni familiari. La legge molto spesso non tiene conto delle persone sole. E per Noemi trovarsi vedova, senza figli né nipoti, in una terra straniera, accompagnata solo da due nuore, straniere anch’esse, è la peggiore situazione possibile. Lei, consapevole e generosa, invita le nuore a tornare alla loro famiglia di origine, sperando che possano essere nuovamente accolte, almeno loro. In quanto a lei, proverà a tornare nel proprio paese, sapendo di avere davanti una sorte di elemosina e stenti.

Le nuore straniere, membri di un popolo odiato e disprezzato dal suo, in realtà, si mostrano tenerissime e delicate, in quanto, innanzitutto, rifiutano di abbandonare la suocera. Poi una delle due, piegata dalle insistenze e magari anche dalla consapevolezza di tutto ciò che avrebbe altrimenti dovuto sopportare, accetta l’offerta di Noemi. L’altra, invece no. Rut, duramente, pone fine alle discussioni: «Dove andrai tu, andrò io; dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo; il tuo Dio sarà il mio Dio» (Rt 1,16). Non ci viene detto il perché di questa dura presa di posizione di Rut. Noi proveremo, alla fine, a ragionarci su, sapendo però che sono ipotesi nostre, non del testo.

La ruota gira… e la si aiuta

Noemi ritorna, quindi, nella terra di Giuda, accompagnata dalla nuora Rut. Sono entrambe vedove. Come prevedibile, una volta tornate nella regione d’origine della suocera, nessuno si prende cura di loro. Certo, tutta Betlemme va in subbuglio alla notizia (Rt 1,19), ma in ultimo le due donne devono rassegnarsi ad andare a chiedere l’elemosina.

O, per meglio dire, a spigolare. Il testo precisa, infatti, che ritornano in Giudea al tempo della mietitura dell’orzo (Rt 1,22), ossia in primavera, e Rut si propone subito come spigolatrice. Nella mietitura capita che qualche spiga cada per terra, o venga lasciata indietro, soprattutto agli orli dei campi. La legge mosaica prevede che queste spighe non dovebbano essere raccolte, ma lasciate ai «poveri e forestieri», come parziale rimedio alla loro miseria (Lv 19,9; 23,22).

Il caso (o la Provvidenza?) vuole che Rut capiti a spigolare nel campo di un uomo buono, che, informatosi su di lei, e venuto a sapere del gesto di affetto che sta offrendo alla suocera, la prende sotto la sua ala protettrice.

Booz, questo è il nome dell’uomo, la invita a tornare a spigolare da lui, garantendole di aver dato ordine che nessuno la molesti (è una giovane donna vedova, senza protezione: la preda migliore) e che la lascino attingere dall’acqua dei lavoratori (Rt 2,8-9). Poi, addirittura, contro tutti i propri interessi economici, ordina ai mietitori di lasciare cadere apposta delle spighe dove lei sta raccogliendo (Rt 2,16).

In effetti, alla fine della giornata, dopo aver battuto l’orzo, Rut ne porta a casa quasi un’efa, che sono circa venti chili (Rt 2,17). Non a caso Noemi, vedendola arrivare con tutto quel peso, non può che stupirsi e le chiede che cosa le sia successo.

Alle spiegazioni, Noemi si illumina ancora di più e progetta un piano astuto e, in fondo, anche non del tutto corretto.

Il generoso padrone del campo d’orzo, infatti, è un parente del marito di Noemi, e potrebbe «riscattare» Rut prendendola come sposa e assicurando al primogenito il nome del marito defunto, cioè, in definitiva, assicurare una discendenza a Elimèlec. È la cosiddetta legge del levirato, sulla quale anche Gesù è stato questionato (Dt 25,5-6; Mt 22,25-28). Ma anziché chiedere serenamente a Booz se sia disposto a compiere questo dovere, Noemi, per garantire il successo a Rut, la spinge a un inganno.

La invita ad aspettare l’ultimo giorno di mietitura, quando gli uomini «si rallegreranno il cuore» (Rt 3,7), formula che indica chiaramente il bere fino a ubriacarsi. A quel punto Rut deve sdraiarsi accanto a Booz, «dalla parte dei piedi» (Rt 3,4). Con la parola «piedi», nella lingua ebraica, a volte ci si riferisce eufemisticamente ai genitali. Praticamente Noemi invita Rut a coricarsi davanti a Booz quando lui sarà ubriaco, confidando nel fatto che al mattino l’uomo non si ricordi di quanto accaduto nella notte e, vedendola sdraiata ai suoi piedi, deduca di aver approfittato della giovane vedova.

Le conseguenze

Le cose andranno persino meglio. Booz, svegliandosi a metà notte, si trova davanti Rut, che lo invita a «stendere il suo mantello» su di lei (Rt 3,10): Rut non si limita, quindi, a lasciar intendere a Booz che potrebbe essere successo qualcosa, ma lo invita a farlo.

Lui, in realtà, si comporta da signore: la tiene a dormire nell’aia quella notte, ma la fa alzare mentre è ancora buio, perché nessuno pensi male di lei, le riempie il sacco di orzo per la suocera e si impegna a superare tutti gli intoppi che ancora ci sono.

Alla fine, Booz sposerà Rut, e da loro nascerà il nonno del re Davide (Rt 4,17).

Per gli ebrei del tempo che leggono questa storia ritenendo fondamentale la piena purità di sangue dei membri della propria comunità, è uno shock scoprire del sangue straniero nel re perfetto. E non solo sangue straniero, ma addirittura moabita, appartenuto a una donna generosa e pronta a rischiare e pagare di persona per amore di chi, solitamente, non ci si aspetta di dover amare.

Sarà forse questo il motivo per cui Matteo, nella sua genealogia di Gesù, inserisce anche Rut (Mt 1,5): anche se attraverso modalità che possono sembrare discutibili o indecenti, infatti, lei, straniera, ha mostrato il suo affetto per la propria suocera e ha portato a termine un dovere religioso nei confronti del proprio marito morto, senza curarsi del proprio interesse o addirittura della propria formale rispettabilità.

Modello di fede?

Perché Rut compie queste scelte?

Può darsi che abbia intuito, nella spiritualità di suo marito o della suocera, un Dio che ama le persone, che si prende cura di chi non è tutelato da nessuno, che vede il fondo del cuore e non le forme esteriori?

Non lo sappiamo. Possiamo però allietarci intanto di un racconto in cui tutti i personaggi principali sembrano buoni.

Noemi vorrebbe salvare la vita delle sue nuore, pur non avendo nulla da offrire; Rut non la vuole abbandonare, emigra in esilio con lei e inizia ad andare a spigolare per garantire a entrambe qualcosa da mangiare; mette a rischio la propria incolumità e dignità, esponendosi e lavorando sodo nella spigolatura; Booz la nota e la protegge; Noemi organizza un inganno ai danni di Booz per garantire alla nuora una nuova vita; Booz, messo di fronte a un inganno, non solo non si offende ma si adopera per portare a compimento il progetto delle due donne. C’è un’umanità delicatissima, che si muove con attenzione e inventiva senza tenere conto delle leggi formali ma guardando le persone che ha davanti.

Tutti costoro si muovono senza quasi mai tirare in ballo la legge divina, ma mostrando in tutti i loro gesti di scommettere sulle persone e sul futuro. Non si preoccupano di giustificare le loro azioni con un richiamo formale a Dio, ma iniziano a muoversi agendo come Dio, mettendo al centro le relazioni e gli esseri umani più fragili.

Rut forse non conosce la legge del Dio d’Israele. Sicuramente non si affida alle sue regole da tutti accettate, che la rimprovererebbero. Si fida, invece, di una presenza viva, che sa cogliere oltre le leggi, oltre la forma, il cuore delle persone.

Se la fede fosse sapere una serie di verità, la nostra vita spirituale non sarebbe diversa dal buon rendimento di uno studente interrogato in storia.

Non si tratta però di conoscere e ricordare delle cose, ma di fidarsi, di affidarsi a Dio, e quindi, quasi senza accorgercene, all’umanità, al futuro, alla bontà delle persone. Questo è ciò che fanno Noemi, Rut e Booz, anche se tra tutte spicca Rut, giovane donna senza esperienza, che ha avuto un marito per poco tempo, senza figli, disposta ad andare in esilio per non abbandonare la propria suocera. E premiata con un marito, dei figli e un nipote re.

Angelo Fracchia
(Camminatori 06-continua)




Raab: una donna sorprendente


Anche se le donne citate nella Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, non sono moltissime, spesso però ricoprono un ruolo molto significativo o sono destinatarie di una particolare attenzione da parte dell’autore. Quattro di loro, come abbiamo già scritto nella puntata di aprile, vengono anche inserite dall’evangelista Matteo, a sorpresa, nella genealogia di Gesù (Mt 1,1-16).

Nel mese di aprile ci eravamo lasciati affascinare in particolare, tra quelle quattro donne, da Tamar. Almeno un’altra, tuttavia, merita di essere approfondita meglio, anche perché è normalmente poco conosciuta.

Il suo nome è Raab (o Racab, a seconda di come si decide di traslitterare una consonante ebraica che nella nostra lingua non esiste), e la sua presenza in una genealogia così importante non può non stupirci. Raab, infatti, è una prostituta e abita a Gerico al tempo della conquista dell’antica città da parte degli israeliti guidati da Giosuè, e non è, quindi, ebrea.

Un’invenzione letteraria?

Gerico è una città importante fin da tempi antichissimi. Posta nella valle del Giordano, vicino alla sua foce nel Mar Morto, gode della presenza di una sorgente di acqua che ne fa un’oasi in uno dei contesti più afosi e profondi del mondo. Per questo è stata abitata dai tempi più antichi, sia pure in modo non continuo, fortificata numerose volte e altrettante distrutta.

Nel libro di Giosuè, al capitolo 6, si racconta il crollo delle mura ciclopiche della città, che avviene per opera divina, senza che gli ebrei debbano combattere.

Questo racconto dell’Antico Testamento, già da decenni, è stato messo in dubbio, sia pure con qualche dibattito, dagli studi archeologici che avrebbero dimostrato che al tempo in cui verosimilmente gli ebrei potrebbero essere entrati nella terra di Canaan, XIII-XII secolo a.C., Gerico non era abitata. Il grande racconto della sua distruzione sembrerebbe essere stato inventato.

D’altronde, negli stessi capitoli (Gs 7-8), si racconta anche la distruzione della vicina città di Ai, che era però stata abbandonata intorno al XVIII secolo a.C. e mai più ricostruita.

Proprio su questi testi, in effetti, si era scatenata nel XVIII secolo d.C.  una accesa polemica tra alcuni biblisti e alcuni ricercatori. Gli archeologi, infatti, dicevano che la datazione degli scavi testimoniava che Gerico non poteva essere stata distrutta al tempo in cui si sarebbe dovuto datare l’episodio raccontato nel libro di Giosuè, e che quindi la Bibbia non poteva essere utilizzata come fonte storica affidabile.

Chi difendeva il testo sacro, invece, tentava di armonizzare i dati archeologici con quelli biblici, con esiti, però, poco riusciti.

Un testo religioso

Facendo questo discorso, non dobbiamo dimenticare che i libri della Bibbia sono molto diversi tra loro: alcuni hanno pretese e dignità di libri storici veri e propri (sia pure se scritti con le modalità dell’antichità, che non sono le nostre), altri sono racconti che tendono più verso il leggendario. Gli uni e gli altri, peraltro, di solito non hanno come primo interesse quello storico, ma il senso religioso.

È probabile che i racconti di Gs 2-8 siano nati come resoconti popolari leggendari che volevano spiegare il motivo della presenza di ruderi imponenti di città che un tempo dovevano essere ampie e poderose, difese da mura impressionanti. Chi e come aveva potuto abbatterle? Di certo non sarebbe stato possibile senza l’intervento divino.

Peraltro, il racconto della conquista di Gerico e di Ai è l’occasione per l’autore sacro per mostrare la differenza tra un’azione compiuta fidandosi di Dio (nella conquista di Gerico, Gs 2 e 5, le mura crollano senza che nessuno le tocchi) e una compiuta affidandosi ad amuleti magici e alla forza umana (la presa di Ai avviene solo dopo una sanguinosa sconfitta e dopo che gli israeliti si sono liberati dagli idoli che contestano la centralità di Dio: Gs 7-8).

All’interno di questi racconti, e in particolare di quello della presa di Gerico, si inserisce l’episodio di Raab, che di certo voleva edificare e incoraggiare e che, probabilmente, voleva suggerire uno stile di comportamento.

Ed è questo che ci interessa in particolare.

Un aiuto imprevisto

Nel capitolo 2 del libro di Giosuè, si narra che il condottiero, successore di Mosè, invia due esploratori a indagare sulle misure di fortificazione della città. Costoro si rifugiano in casa di Raab, di cui il testo ebraico dice che è una prostituta. Già alcune traduzioni antiche, forse per ridurre lo scandalo, la presentano come locandiera (professione che peraltro spesso si trovava a collaborare con la prostituzione). Di certo Raab non è una donna ricca né potente: la sua casa si trova a ridosso delle mura della città, ossia là dove più si risentiranno le conseguenze negative di un assedio. A quei tempi, accetta di vivere vicino alle mura chi non può permettersi un posto migliore. E la presenza in quelle aree di poveri o trafficanti allontana ancor più da esse le persone ricche di mezzi, conoscenze altolocate o ambizioni.

Insomma, la dimora di Raab non può di certo dirsi lussuosa o privilegiata. Non stupisce che i due esploratori di Giosuè decidano di fermarsi proprio lì: nei bassifondi della città è più facile passare inosservati.

Il re di Gerico, però, già preoccupato per l’avvicinarsi degli ebrei, apparentemente invincibili, viene informato che in città sono giunti due forestieri e sospetta (a ragione) che possano essere delle spie. Sguinzaglia quindi le sue guardie. Queste vengono a sapere dove alloggiano i due esploratori e si recano da Raab pretendendo che lei li consegni loro affinché vengano interrogati, torturati e magari uccisi. Lei, però, che ha nascosto gli israeliti dentro ceste di biancheria, svia le guardie del re sostenendo che i due sono già fuggiti quando stava per scendere la notte.

Salvatrice salvata

Quando le guardie si sono allontanate, Raab informa i due dello scampato pericolo e chiede loro che sia risparmiata la vita sua e dei suoi familiari quando gli ebrei conquisteranno Gerico. Lei, come altri abitanti della città, sa quali grandi imprese Dio ha compiuto con loro, e non vuole opporre resistenza, anzi vuole unirsi al popolo di quel Dio meraviglioso. Di più, si ricorda di salvare anche i suoi parenti, di cui sappiamo che non vivono con lei e, forse, immaginiamo, possono anche trovare la sua professione disdicevole.

Gli esploratori le promettono che saranno risparmiati tutti quelli che saranno radunati nella casa alla cui finestra, come segno di riconoscimento, porranno un filo di colore scarlatto.

Quindi Raab li fa scappare calandoli dalla finestra fuori dalle mura della città, le cui porte, nel frattempo, sono state chiuse, e li invita a nascondersi per tre giorni, prima di tornare nel loro accampamento.

Quando, pochi giorni dopo, le mura della città di Gerico cadranno davanti agli israeliti, che si limiteranno a suonare le trombe lungo una specie di processione, Giosuè vieterà che sia fatto del male a Raab e famiglia, che «è rimasta in mezzo ad Israele fino ad oggi» (Gs 6,25).

Ricordata nel Nuovo Testamento

Raab sarà citata anche in altri due libri del Nuovo Testamento. La lettera di Giacomo insiste sul fatto che la fede ha bisogno di farsi concreta, di tradursi in atti pratici, se non vuole essere astratta o morta, e riporta, pure la vicenda di Raab, come esempio di fiducia che si traduce in fatti (Gc 2,25).

La lettera agli Ebrei, quando dispone un elenco di persone capaci di scommettere e rischiare fidandosi della promessa affidabile di Dio, esempi di fede luminosa, raccoglie quasi tutti nomi maschili, ma vi inserisce anche quello di Raab (Eb 11,31).

Proprio il Nuovo Testamento è responsabile di una curiosità abbastanza strana. In entrambi i passi citati, infatti, viene precisato il fatto che Raab era «prostituta», con un termine specifico che altrove si può leggere solo nell’Apocalisse, dove è riferito alla Bestia malvagia che si contrappone all’opera di Dio (Ap 17,1.5.15.16; 19,2).

Sembrerebbe che questo voglia indurre a pensare male di Raab (prostituta, traditrice), ma si tratta in realtà di un giudizio esteriore, contraddetto dalla sua scelta e opera: proprio per ciò che ci si poteva aspettare da lei, il suo gesto acquista il senso di una fiducia piena e totale, anche contro ogni apparenza.

Il senso di un racconto

Se la storia della conquista di Gerico è stata inventata, dobbiamo pensare che quella di Raab sia vera?

Non lo sappiamo. Sappiamo però che, anche se fosse inventata, si tratterebbe di una vicenda autentica, utile, che parla di Dio e dell’uomo che entra in relazione con lui. Il suo senso, in origine, doveva allora essere molto chiaro a tutti. L’ingresso del popolo ebraico nella terra di Canaan, dicono gli storici, deve essere stata non tanto una conquista, ma una lenta infiltrazione. Il libro di Giosuè, però, preferisce presentarla come una lotta armata (benché l’area interessata agli scontri sia di fatto molto piccola). Questo perché il racconto di una conquista era più semplice da capire per gli israeliti contemporanei all’autore del libro, e poi perché favoriva la presa di posizione: con Dio o contro di lui.

La vicenda di Raab sta a dimostrare che chi si schiera dalla parte del Dio d’Israele, aiutandone i protetti, viene protetto a sua volta, perché l’adesione a Dio, persino in tempi antichi, non dipende dall’appartenenza a un popolo, dal sangue, dalla genealogia, ma dalla presa di posizione, dal decidersi per lui, dal fidarsi di lui.

Matteo (Mt 1,5), poi, inserisce Raab nella sua genealogia forse anche per un altro motivo: la vicenda di Gesù si iscrive in una storia davvero umana, fatta di impurità, di scelte apparentemente sconvenienti, di situazioni imbarazzanti. Dio non si vergogna di entrare in questa umanità. Solo, cerca persone che siano autentiche, che si mettano in gioco, che sappiano prendere una decisione anche quando è per loro rischiosa. Dio sogna non degli esecutori ubbidienti e meno ancora dai pedigree purissimi, ma persone ardenti che sappiano fare scelte e mettersi seriamente e personalmente in gioco.

Angelo Fracchia
(Camminatori 05-continua)




Tamar, una palma nel deserto


Il Vangelo di Matteo si apre offrendo la genealogia di Gesù a partire da Abramo (Mt 1,1-16). Anche Luca ce ne dona una, che però è diversa (Lc 3,23-28) e parte da Adamo: questo significa che probabilmente nessuno dei due, quando scrive, ha certezza sui dati oggettivi e, in ogni caso, che la decisione di inserire certi nomi piuttosto che altri segue gli obiettivi che ciascuno dei due ha.

A questo punto ci incuriosisce ancora di più il fatto che Matteo decida di inserire nell’elenco maschile della genealogia ben quattro donne prima di Maria. La curiosità cresce quando ci rendiamo conto che tutte e quattro sono, in qualche modo, irregolari e offrono motivo di imbarazzo e scandalo. La prima di loro, forse, è quella più sconosciuta per noi, Tamar.

Il contesto

«Tamar» significa «palma». La sua storia è narrata nel capitolo 38 del libro della Genesi, quasi una parentesi nel racconto che, fin qui e da qui in poi, è incentrato sulle vicende di Giuseppe, penultimo e amatissimo figlio di Giacobbe.

È possibile che chi ha composto il libro volesse inserire una specie di pausa dopo la pagina nella quale si narra di Giuseppe che viene venduto dai fratelli a una carovana di madianiti (e da questi a Potifar, comandante delle guardie del faraone: Gen 37,36) e prima che la sua vicenda si sviluppi tra sogni e carriera.

Come in un film moderno, nel quale tra una vicenda e l’altra deve passare un po’ di tempo, il «regista» ci propone una divagazione con una vicenda secondaria, ma che ci conquista con la sua originalità.

La storia di Tamar, per quanto marginale, si inserisce molto armoniosamente nel contesto del racconto.

A questo punto del libro, Giacobbe ha dodici figli (vedi Gen 35,21-26), alcuni dei quali, tutti figli di Lia, si mettono d’accordo per venderne uno, il primo nato da Rachele, e fingere che sia morto sbranato da una bestia selvatica (Gen 36,31-33).

Da un atto divisivo, verrebbe da dire, nasce ulteriore divisione, perché un altro dei fratelli, Giuda, decide di lasciare la sua famiglia e andare a vivere da solo, sposando una donna del posto, una cananea (Gen 38,1-2), scelta che fino ad allora la sua famiglia aveva evitato e che susciterà molta irritazione nel padre. Dalla moglie, di nome Sua, nascono tre figli, Er, Onan e Sela. Al primo viene data in moglie Tamar, che resta però presto vedova (Gen 38,6-7).

Il levirato

Per capire ciò che segue dobbiamo ricordarci di una consuetudine degli ebrei, che era diventata una legge (cfr. Dt 25,5-10). Questa prevedeva che qualora un uomo fosse morto senza figli, sua moglie sarebbe dovuta essere data in sposa a un fratello, di modo che il primo figlio della nuova unione fosse ritenuto figlio del morto. Il motivo che sta alle spalle di questa legge, per noi strana, è che per il popolo ebraico la terra non apparteneva a chi la coltivava o viveva, ma a Dio che la concedeva in utilizzo agli ebrei, i quali non potevano quindi venderla o comprarla (ecco la radice di vicende come quella di Nabot, che non vuole cedere la propria vigna al re: 1 Re 21). Si tratta di leggi antiche che servivano a ricordarsi come sulla terra si fosse ospiti, e come nei suoi confronti si avesse la responsabilità di chi non è proprietario, ma amministratore.

La terra poteva, quindi, essere solo ereditata in una trasmissione da padre in figlio che serviva in ultima analisi a dire che ogni bene degli ebrei derivava in origine da Dio.

È anche questo il motivo per cui, in situazioni eccezionali in cui non ci fossero eredi maschi, ma solo femmine, la legislazione ebraica consentiva alle donne di ereditare e possedere, cosa che nelle società antiche era decisamente molto rara (Nm 27,1-7).

Non si sa quanto e fino a quando gli ebrei abbiano davvero rispettato questa regola, ma sappiamo che era nota e che serviva a spiegare alcuni passaggi di storie antiche. Agli antichi lettori della Genesi non ci sarebbe stato bisogno di spiegarla.

La discendenza di Er

Er, quindi, il primogenito di Giuda, rientra esattamente nel caso che abbiamo spiegato. Muore senza aver generato un figlio, e sua moglie, Tamar, che finora per noi è soltanto un nome (non ne conosciamo neppure l’origine), viene data in sposa al fratello più giovane, Onan, che si rifiuta di generare un figlio che poi non sarà suo, e muore a sua volta.

Ci ricordiamo qui della questione che viene sottoposta a Gesù circa i sette fratelli che, proprio nel rispetto della legge del levirato, prendono in moglie uno dopo l’altro la stessa donna, salvo morire prima di avere generato dei figli (Mc 12,20-23; Mt 22,25-28; Lc 20,29-33).
Se succedesse oggi, ci sarebbero sicuramente delle malelingue che commenterebbero che quella donna porta davvero sfortuna, senza escludere che sia stata proprio lei a ucciderli, e che sarebbe meglio starne alla larga.

Questo è precisamente quello che pensa anche Giuda (Gen 38,11), il quale decide di violare la legge, che prescriverebbe di dare Tamar in sposa al suo terzogenito, rimandando la donna da suo padre (e di fatto disconoscendola come nuora) con la scusa che Sela è ancora troppo giovane.

Non dimentichiamoci che, in quella società arcaica, non erano presi in considerazione i diritti delle persone sole e delle donne. Si era tutelati e difesi finché si stava dentro al clan patriarcale, altrimenti ci si doveva fare giustizia e difendere da sé. Quando Giuda ha deciso di andare a vivere da solo, fuori dalla famiglia del padre, ha scelto di vivere come in un Far West.

Le donne, per parte loro, erano protette sì, ma anche asservite prima al padre e poi al marito. Fuori da quella protezione, non avevano garanzie. Il mancato rispetto della legge del levirato, quindi, significa anche lasciare Tamar senza protezione, senza assistenza, senza possibilità di un nuovo matrimonio e di concepire e partorire. Viene restituita al padre, come fosse un elettrodomestico guasto, fuori garanzia, rimandato al fornitore.

C’è la vaga promessa che poi, un giorno, quando Sela sarà cresciuto, Giuda andrà a richiamarla, ma il fatto stesso di rimandarla dal padre serve a disilluderla: quando, anni dopo, sarà il momento, Giuda probabilmente non si ricorderà del suo dovere, e anzi farà di tutto per dimenticarsene.

L’inganno benedetto

In effetti, gli anni passano, ma Sela resta senza moglie e soprattutto Tamar senza marito. Nel frattempo, diventa vedovo anche Giuda. Quando va lontano da casa per tosare le pecore, Tamar lo viene a sapere e decide di agire (Gen 38,12ss).

Confidando forse nella natura maschile, o conoscendo bene il suocero, dismette i vestiti da vedova, si agghinda in modo elegante e si va a sedere sulla strada all’ingresso di un paese che Giuda avrebbe dovuto attraversare. Il messaggio è chiaro, e Giuda non se lo perde: una donna sola, ferma sulla strada, vestita bene, è una prostituta. E Giuda ne approfitta subito. Anzi, preso dalla generosità o dall’astinenza, le promette addirittura in pagamento un capretto. Ovviamente, non ce l’ha con sé, quindi le lascia un pegno, da recuperare quando sarebbe giunto con quanto pattuito: questo pegno sono il proprio cordone e bastone, oggetti personali e riconoscibili.

Una volta tornato a casa, Giuda, che almeno sui debiti si mostra onesto, manda un servo a saldare i conti, ma a questi gli abitanti del posto dicono che lì non c’è mai stata nessuna prostituta. A questo punto Giuda, per non farsi ridere dietro da tutti, suggerisce allo schiavo di lasciare perdere: lui ha provato a pagarla, ma se lei non si fa trovare, pazienza.

Qualche tempo dopo vengono a dire a Giuda che sua nuora è rimasta incinta. E lui, che pareva averla dimenticata, forse pensa di avere l’occasione di liberarsene definitivamente: dal momento che non è sposata, quel figlio non può che essere frutto di un’unione illegittima, e quindi lei deve essere condannata a morte, a meno che il padre non riconosca il figlio e sani la situazione.

Mentre però viene portata al rogo, Tamar allestisce il colpo di scena: «Conosco il padre. È il proprietario di questo bastone e di questo cordone. O suocero, tu che sei legalmente responsabile di me, controlla se riesci a sapere di chi sono» (Gen 38,25). E qui Giuda si riscatta, ammettendo la propria colpa che, per quel mondo, non è tanto quella di essersi unito a una prostituta, quanto di non aver rispettato la legge del levirato: «Lei è più giusta di me», ammette nei confronti di una donna indifesa chi aveva deciso di vivere senza leggi.

Il racconto, per togliere ogni scandalo, aggiunge che Giuda, pur riconoscendo come suoi i figli gemelli che nasceranno, non tornerà a dormire con Tamar.

Una fede coraggiosa e creativa

Il racconto potrebbe a prima vista sembrarci uno dei tanti, un po’ scandalosi e vergognosi, che punteggiano l’Antico Testamento.

Il fatto che Matteo lo abbia ripreso, tuttavia, ce lo riporta alla memoria e può anche suscitarci qualche interrogativo.

Anche le altre donne citate dall’evangelista nella genealogia di Gesù presentano tutte dei comportamenti che, in sé, potremmo trovare decisamente discutibili:  Raab, prostituta di Gerico, Betsabea, moglie rubata da Davide a un suo soldato, e Rut, la più pura che organizza, però, un inganno ai danni del suo futuro marito. Tutte, con questi comportamenti non certo perfetti, compiono la volontà di Dio, spesso con creatività (è il minimo che si può dire dello stratagemma di Tamar). Parrebbe quasi che Matteo porti esempi per giustificare Maria: è vero, Gesù non è figlio di Giuseppe, ma questo non significa che l’intenzione divina non possa passare anche da questo aspetto apparentemente discutibile, così come spesso è accaduto nella storia della salvezza.

Dio guarda cuori e intenzioni, non i comportamenti esteriori, e spesso, se si guarda oltre le apparenze, sono soprattutto le donne a essere premiate.

Quanto a Tamar, si mostra fedele al marito defunto, al suo ricordo, al comando divino, senza fermarsi alla forma, alla lettera della legge. Lei era ben disponibile a offrire un figlio a Er, ma non le è stato concesso. In fondo, era solo una donna, non aveva autonomia legale. E invece si mette in attesa paziente, sfrutta l’occasione, sopporta il rischio della vergogna, dell’umiliazione, addirittura della morte, per non venire meno alla sua fedeltà.

Confida che il Dio di cui si fida non guardi innanzitutto all’applicazione rigorosa delle leggi, ma all’intenzione che le anima. Sa che il Padre nei cieli non la guarderà con riprovazione, ma con la tenerezza sorridente di chi vede i propri figli inventarsi soluzioni impensate. Confida che quel Dio non applica in modo disumano delle regole, ma vede e ama la vita.

Angelo Fracchia
(Camminatori 03-continua)