Mozambico. Caos dopo le presidenziali

 

Dopo la ribellione islamista nel Nord, il Mozambico si trova alle prese con un altro grave motivo di instabilità. Le elezioni del 9 ottobre hanno portato tensione, scontri, morti, dissidio tra il partito al potere (Frelimo) e quelli di opposizione (Podemos e Renamo).

Un fardello pesante per un Paese che sembrava avere imboccato la via dello sviluppo grazie alla stabilità macroeconomica raggiunta, nel 2023, con una crescita del Pil intorno al 5%, sostenuta dai progetti di estrazione di gas naturale liquefatto, dal settore dei servizi e dalla caduta (dal 10,3% al 3,9%) dell’inflazione.

La tornata elettorale pareva giocarsi sul filo della novità. Il Frelimo, partito al potere dall’indipendenza (raggiunta nel 1975), ha presentato Daniel Chapo, 47 anni, primo candidato a non aver partecipato alla guerra di indipendenza. Chapo, sostenuto dal presidente uscente Filipe Nyusi, nella sua campagna ha sottolineato la continuità politica e lo sviluppo economico, con promesse di riforme e di contrasto alla povertà. A sfidarlo un altro candidato giovane: Venancio Mondlane, 50 anni. Ex membro della Renamo, storica formazione di opposizione e del Movimento Democrático de Moçambique, ha fondato un proprio partito, Podemos, con un’agenda di giustizia sociale e gestione equa delle risorse naturali. I dati ufficiali del voto hanno sancito la vittoria di Chapo che avrebbe ottenuto il 70,6% dei voti contro il 20% del rivale Mondlane.

I risultati sono subito stati contestati. Podemos ha dichiarato, in base a un conteggio parallelo condotto dai suoi osservatori, che il vero vincitore (con il 53%) sarebbe stato Mondlane. Le accuse di frodi elettorali, l’assenza di trasparenza e le irregolarità nel voto sono state evidenziate anche a livello internazionale. Gli osservatori dell’Unione europea e della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc) hanno segnalato mancanza di trasparenza e una gestione inadeguata delle operazioni elettorali, nonché difficoltà per gli osservatori nell’accedere ai seggi elettorali. Anche se la posizione della Sadc è stata ambigua. Il presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, ha espresso le sue congratulazioni al Frelimo e al candidato Daniel Chapo per quella che ha definito «una vittoria schiacciante», nonostante i risultati ufficiali non fossero ancora stati dichiarati. Questo gesto di Mnangagwa, che è anche presidente della Sadc, ha sollevato critiche.

Diverse manifestazioni pacifiche, organizzate dall’opposizione, sono state represse dalle autorità con l’uso della forza. Almeno cinquanta manifestanti hanno perso la vita durante gli scontri, come riferito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Il caso più eclatante è avvenuto il 19 ottobre 2024 quando l’avvocato Elvino Dias, consulente legale di Mondlane, e Paulo Guambe, leader del partito Podemos, sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco mentre viaggiavano in auto a Maputo. La polizia ha dichiarato di non avere ancora identificato i responsabili, e vari gruppi per i diritti civili hanno chiesto indagini urgenti su questi omicidi, interpretandoli come un segnale di pericolo per lo stato di diritto e la sicurezza politica nel Paese.

Dopo il voto, anche Amnesty International ha denunciato l’uso di proiettili da parte della polizia contro i sostenitori di Mondlane durante le proteste, richiamando il governo a rispettare i diritti di riunione pacifica. Mondlane stesso ha dichiarato di essere stato vittima di un tentativo di omicidio in Sudafrica, dove si è rifugiato per motivi di sicurezza.

Di fronte a questa situazione, i vescovi della Conferenza dei vescovi cattolici dell’Africa Meridionale (Sacbc) hanno inviato una lettera alla Conferenza episcopale del Mozambico nella quale chiedono «la creazione di spazi di collaborazione nella governance», suggerendo un possibile governo di unità nazionale «per dare al Mozambico un futuro di speranza». E hanno concluso: «Il Mozambico merita verità, pace, tranquillità e tolleranza».

Enrico Casale




Haiti, a un passo dalla fine


«La situazione non è mai stata così grave. Siamo molto colpiti sul piano personale, famigliare e professionale», ci dice una nostra fonte giornalistica locale, contattata a Port-au-Prince.

Haiti vive una crisi senza precedenti, peggiore, sembra alle tante vissute nella sua storia.

Dal 7 luglio 2021, quando il presidente Jovenel Moise è stato assassinato, e un governo de facto, ovvero non leggitimo, presieduto da Ariel Henry, è stato insediato con l’avvallo di Usa, Canada e altri stati «amici», nel paese non ci sono più istituzioni repubblicane elette. Fanno eccezione dieci senatori non scaduti (la camera alta viene eletta nella misura di un terzo ogni due anni), mentre il presidente del senato, Joseph Lambért, è l’unica figura eletta attualmente in carica. Moise infatti, si era premurato di ritardare le elezioni amministrative locali e quelle parlamentari, portando a scadenza tutte le istituzioni nazionali.

Il paese è, di fatto, controllato da bande criminali (gang), che si dividono il territorio, sia in capitale Port-au-Prince, sia nelle altre città e nelle vie di comunicazione principali. Sono legate a ricche personalità politiche ed economiche e si finanziano anche con l’uso massiccio del rapimento a scopo di estorsione (abbiamo approfondito questa situazione su MC nei mesi di gennaio e marzo 2022, articoli reperibili sul sito).

Ultimo atto

Dal 12 settembre scorso, una potente gang, G9 an fanmi ak alye, controlla e blocca il terminale petrolifero di Varreux, nel porto della capitale, dove sono presenti gli stock di carburante (già successo nell’ottobre 2021). Benzina e gasolio sono diventati introvabili, e la super reperibile sul mercato nero ha raggiunto i 5.000 gourd al gallone (circa 9 dollari al litro). In questo modo il paese è bloccato. I mezzi di trasposto sono paralizzati, le scuole non hanno potuto riaprire, gli ospedali hanno iniziato a chiudere i reparti, gli uffici non funzionano (l’energia elettrica è prodotta con generatori a gasolio).

Il governo de facto, non ha fatto nulla per riportare la sicurezza nel paese, mentre ha annunciato il raddoppiato il costo dei carburanti a metà del mese scorso (sarebbe il secondo raddoppio dopo quello del dicembre 2021). Da allora, forti movimenti di protesta di strada sono cominciati, molto spesso degenerati in saccheggi e violenze.

In ultimo, dall’inizio del mese di ottobre, ha fatto la sua ricomparsa sull’isola il vibrione del colera, e i casi di malati e decessi si stanno moltiplicando, anche a causa della difficoltà, talvolta l’impossibilità, di fornire cure, a causa del blocco del paese.

Una nuova occupazione?

Così, in un consiglio dei ministri, il 6 ottobre scorso, il governo de facto ha autorizzato il primo ministro a «sollecitare e ottenere dai partner internazionali un supporto effettivo per il dispiegamento di una forza armata specializzata, per fermare su tutto il territorio la crisi umanitaria causata, tra l’altro, dall’insicurezza, risultato dell’azione delle bande armate […]».

Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha girato la richiesta di aiuto al Consiglio di sicurezza.

Una richiesta illegittima da parte di un governo de facto, per chiedere una nuova occupazione militare del paese. Un atto anticostituzionale, questo hanno denunciato i diversi settori della società civile e dell’opposizione politica.

Il gruppo nato da società civile e alcuni partiti di opposizione, il 30 agosto 2021, noto come l’accordo del Montana (firmato appunto in quella data), aveva tentato una negoziazione con il potere de facto, per una gestione più concordata e aderente alla Costituzione della crisi degenerata con l’assassinio del presidente Moise. A inizio 2022, però, ha gettato la spugna, vista la reticenza di Henry ad ascoltare altri settori della società, per raggiungere un consenso più ampio su un governo di transizione.

Si ricorda che le occupazioni militari di Haiti, Usa 1915-1934, Usa 1994 poi sostitutita da Nazioni Unite (fino al 1997), e ancora caschi blu dell’Onu dal 2004 al 2017, hanno portato enormi problemi, non hanno risolto quelli presenti e, di fatto, hanno contribuito a portare il paese alla situazione attuale aumentandone, nei decenni, la dipendenza dall’estero.

Tra il 12 e il 13 ottobre, una delegazione statunitense, guidata dal vice segretario di stato per gli affari dell’emisfero occidentale Brian A. Nichols, è stata ad Haiti dove ha incontrato separatamente il governo de facto, il gruppo di Montana, e alcuni settori imprenditoriali e sociali. Intanto, una delle maggiori navi guardacosta Usa, ha iniziato a incrociare al largo di Port-au-Prince.
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Sebbene gli haitiani abbiano mostrato nella storia una grande resilienza, la popolazione è oggi davvero allo stremo. La fame, la violenza, l’insicurezza, le malattie, stanno colpendo tutti. Il rischio, ben visibile, è quello di un’insurrezione popolare generalizzata. A breve.

Marco Bello