Se l’arte salverà il Burkina


Silvia è una ragazza tranquilla. Un’intuizione le dice che vivrà lontana dalla sua città di provincia. Studia, poi lavora nel sociale. Ha un’innata propensione all’aiuto agli altri, e una importante vena artistica. Invece di aspettare l’occasione, se la costruisce. E la sua vita sboccia.

Silvia Ferraris è nata nel 1977 ad Asti, e da oltre dieci anni vive a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. «Fino da ragazzina – ci confida al telefono – qualcosa mi diceva che avrei vissuto molto lontano dalla mia città. E questa intuizione ha attraversato tutta la mia vita».

Silvia si trasferisce a Torino per studiare Scienze della comunicazione nel 2000. «In quel periodo feci un viaggio con amici in India, e questo mi fece venire l’idea di lavorare nella cooperazione internazionale». Ma le opportunità sono altre e Silvia fa un anno di servizio civile presso l’ufficio minori stranieri: «Lavoravo in comunità con i cosiddetti baby pusher e le ragazze rumene sfruttate. Nel cuore avevo sempre il desiderio di scoprire i luoghi da dove venivano questi ragazzi».

Nel frattempo, continua a formarsi e consegue una seconda laurea triennale in Scienze dell’educazione. Silvia ha una sua «parte artistica» che non trascura: «Facevo i ritratti ai ragazzi delle comunità. Ho poi deciso di iscrivermi alla scuola di arte terapia, a Milano, della durata di tre anni. Questo percorso mi ha dato la possibilità di coniugare due desideri: spendere le mie competenze in una attività di aiuto, e lavorare nel settore dell’arte».

Il grande salto

In quegli anni conosce anche l’associazione Wai Brasil di Torino (oggi Relamondo), e realizza con alcuni soci un viaggio in Brasile.

Ma tutto questo non basta. Silvia segue anche un master in cooperazione «nei week end, così potevo continuare a lavorare». Capisce che deve fare un’esperienza di lungo periodo: «Ho cominciato a preparare questa idea nel 2010 e due anni dopo sono riuscita a partire. Avevo 33 anni».

Silvia ha pensato a un progetto di arte terapia, da attuare in un Paese africano: sarà il tirocinio della sua formazione. Bussa a diverse porte di Ong, ma non trova un appoggio. Poi, una mattina, durante una sua ricerca su internet, appare il nome di una piccola Ong francese: Hamap humanitaire. «Ho scritto loro. Hanno valutato la mia idea e si sono detti interessati a fare un crowd funding per finanziarla. E così parto, con la metà del finanziamento coperto da una raccolta popolare francese».

Silvia vive un anno in Burkina Faso, dove applica quanto ha appreso nella scuola di arte terapia. «In quell’anno ho capito che il popolo del Burkina Faso è permeato dall’arte. La mia proposta di arte terapia era molto simile a tante pratiche locali, ma si trattava di cambiare prospettiva. Ho anche capito che un anno non sarebbe bastato: volevo continuare a scoprire delle cose».

La vita professionale s’intreccia con quella sentimentale: nel Paese conosce il burkinabè che sarebbe diventato suo marito. Dopo un breve rientro in Italia, decidono di stabilirsi a Ouagadougou nel 2014. Intanto nasce la prima figlia. Qualche anno dopo sarebbe arrivato anche il fratellino.

Una nuova famiglia

«La mia vita è diventata la routine dell’organizzazione famigliare, sebbene in Burkina. Le priorità sono cambiate. Ho iniziato a fare diverse collaborazioni nell’ambito educativo. Intanto mio marito si occupava di una fattoria biologica. Ma anche l’arte terapia era un lavoro che volevo fare crescere».

In Burkina Silvia conosce altre persone impegnate nel sociale e nell’arte. Sono Alice Ouedraogo che lavora con un’associazione per i diritti delle donne e dei bambini, e suo marito, l’italiano Stefano Dotti. Poi c’è Véronique, sorella di Alice, impegnata nell’arte dei tessuti burkinabè. Successivamente incontra l’attore di teatro e regista Sie Palinfo, che subito si trova in sintonia con le sue idee. Anche Elisa Chiara, italiana che lavora nella cooperazione, integra il gruppo, che diventa di tre italiani e tre burkinabè, quattro donne e due uomini.

Insieme, danno vita a un’associazione, «Waga studio», dove Waga suona come Ouaga, il diminutivo famigliare con cui è chiamata la capitale del Paese.

«Le prime attività risalgono al 2015, mentre a livello giuridico è registrata dal 2021. L’obiettivo è promuovere il savoir faire locale nell’ambito della cultura, delle arti e del benessere. Ma un’altra finalità è valorizzare l’aspetto “terapeutico” delle arti. Ovvero usare le varie forme d’arte come strumento di sviluppo personale, soprattutto con persone bisognose. Ad esempio, i ragazzi e le donne in situazioni difficili. Questo aspetto è anche frutto della mia esperienza personale, in quanto arte terapeuta».

Il Paese in crisi

Intanto la situazione sociopolitica del Burkina peggiora. Dal 2016 gruppi armati islamisti imperversano nell’interno del Paese, costringendo molte scuole a chiudere e i centri sanitari a evacuare. La popolazione di molte aree fugge e si riversa in capitale, in improvvisati campi di sfollati che vanno a gonfiare i quartieri periferici. Il governo del presidente Roch Marc Christian Kaboré non riesce a mettere un freno. Tale situazione di instabilità porta a un primo colpo di stato militare, il 24 gennaio del 2022 (cfr MC maggio 2022) e a quello successivo del settembre dello stesso anno. La giunta militare è oggi guidata dal capitano Ibrahim Traoré, giovane ufficiale dell’esercito, e demagogo. Di fatto la situazione della sicurezza è peggiorata mentre si sono intensificati gli arresti arbitrari e le sparizioni politiche, perpetrati da emissari del governo militare.

Il Burkina Faso, insieme a Mali e Niger, anch’essi guidati da giunte militari, ha costituito la coalizione «Alleanza dei paesi del Sahel», che ha voltato le spalle agli alleati storici, come la Francia, e si è avvicinata alla Russia di Vladimir Putin.

«Oggi in molti incroci di Ouagadougou hanno messo quattro bandiere: oltre a quella nazionale, quelle di Niger, Mali e Russia», ci dice Silvia, aggiungendo: «è quasi grottesco». Il Paese vive una situazione molto difficile di instabilità, insicurezza e aumento della povertà, acuita dall’incremento dei prezzi dei generi alimentari, oltre che a una grave regressione del processo democratico e del rispetto dei diritti umani.

In tutto questo Silvia non si scoraggia: «Io credo sempre nella saggezza dei burkinabè».

Arti per la vita

Il gruppo di Waga studio scrive un progetto, «Le arti per la vita, appoggio alla gioventù vulnerabile», che viene presentato alla Tavola valdese nel 2022 ed è finanziato nel 2023. Silvia ci descrive le attività: «Il cuore del progetto è una delle finalità di Waga studio, realizzare dei percorsi artistici dedicati ai ragazzi per fare loro conoscere le proprie potenzialità e aiutarli nello sviluppo personale». L’équipe di Waga studio ha lavorato con venti giovani, alcuni dei quali studenti universitari, che erano fermi per una delle tante sospensioni della didattica.

«Abbiamo proposto loro momenti bisettimanali, atelier di alcune ore, di diverse discipline artistiche, secondo un tema. Si trattava, in una prima fase, di un momento di espressione corporea: danza libera con ritmi particolari, ascolto del proprio corpo, esercizi vicini al teatro e alla danza terapia. Seguiva una parte di arte visiva: dopo che ci si è espressi con il corpo, si mette il vissuto sul foglio, oppure sull’argilla. Parliamo di sviluppo personale, perché questo metodo, attraverso l’arte, fa venire fuori qualcosa, un vissuto, da dove vengo, il presente qui e ora, un’idea di futuro.

Una ragazza ha disegnato il suo villaggio, e poi ha pianto. Dovrebbe servire anche per dare risposte, ad esempio a un’idea da realizzare, oppure a un passato che fa male, a un trauma che continua a riemergere».

A questo progetto hanno partecipato anche l’associazione italiana Relamondo e la belga Nyangazam. Poi il finanziamento è finito e così anche il progetto.

Oggi l’équipe di Waga studio segue diverse attività, da atelier di arte terapia con bambini affetti da noma (malattia che colpisce i più piccoli e ne deturpa il volto), al lavoro con un gruppo di donne sfollate, per il recupero della plastica nel quartiere dove sono accampate. In questo caso il fine è il riciclo per realizzare oggetti di utilità o piccole opere artistiche.

Il sogno

Ma il grande sogno di Silvia, che condivide con gli altri membri dell’associazione è la creazione di un centro culturale permanente a Ouagadougou.

«L’idea è quella di valorizzare il potenziale artistico presente in Burkina – ci spiega -, prendendo spunto dal progetto “Le arti per la vita”, utilizzando le competenze artistiche per formare gruppi di giovani all’arte della performance nei vari settori, con l’obiettivo di permettere loro di scoprire il proprio potenziale e di coltivarlo. È come un coaching, attraverso esperienze artistiche». E continua: «Alla fine della scuola ci sono le restituzioni in performance, ciascuno avrà la sua reazione, ma l’importante è il processo di presa di fiducia in se stessi, di consapevolezza del proprio potenziale».

Il centro vuole essere uno spazio la cui «finalità principale è quella di agire da volano di cambiamento sociale attraverso le arti, per promuovere la cultura della pace e del rispetto reciproco in un processo di costruzione di valori comuni», recita il testo che descrive il progetto. E si tratterà di un centro italo-burkinabè, non solo perché realizzato da un gruppo misto, ma perché vedrà una commistione delle arti dei due paesi.

Tante attività

Avrà un ristorante con cucina delle due culture, italiana e burkinabè, e la fusion tra esse, inoltre ci sarà un coworking. Queste due attività dovranno servire anche all’auto sostentamento economico.

Il centro sarà basato su una scuola di performance: «Questo perché la performance racchiude tutte le arti e permette di comprendere al meglio qual è il campo d’azione privilegiato degli allievi. Inoltre ha potenti ricadute arte terapeutiche: il miglioramento dell’autostima, della fiducia in sé stessi, della capacità di ascolto ed espressione davanti a un pubblico».

Nel centro si realizzeranno anche tutte le attività già svolte nel progetto «Le arti per la vita», con atelier di sviluppo personale in coaching e arte terapia, e formazioni professionali di tipo artistico nei diversi ambiti. Si potranno fare anche dei coach a distanza con professionisti in Italia e Belgio.

E poi sarà uno spazio per corsi di fotografia per ragazzi svantaggiati, esposizioni fotografiche e artistiche, atelier di lettura, spettacoli di vario tipo e festival e molto altro.

La questione resta sempre il finanziamento per partire. Silvia e gli altri stanno presentando il loro progetto a diversi enti, ma sono rari quelli disposti a promuovere la cultura. Anche se, in questo contesto, può voler dire occupare giovani, riempire loro un vuoto e toglierli dalle grinfie dei gruppi armati che li stanno reclutando in gran numero.

Silvia, inoltre, sta portando avanti diversi progetti personali, legati alla danza e all’arte visiva.

La scuola di performance è proprio frutto di questo percorso di formazione artistica.

«A volte, l’idea del centro culturale mi sembra un sogno irraggiungibile. Nel periodo storico che sta vivendo il Burkina è ancora più difficile. Però è stato il frutto di una riflessione profonda, e più immagino cosa vorrei realizzare, più vedo quello. Sia per la mia storia personale, sia perché ci sono tanti artisti bravi in questo Paese».

Marco Bello




Eswatini: il vescovo chiama alla calma e al dialogo in mezzo a proteste e violenze

testo dii Inés San Martín, capo dell’ufficio romani di Crux
Originale inglese – nostra traduzione da:
Crux, taking the Catholic pulse


L’unico vescovo (cattolico) dello Swaziland implora la calma tra l’aumento delle proteste e della violenza

ROMA, 4 luglio 2021 – Mentre i disordini continuano a crescere nell’unica monarchia assoluta dell’Africa, l’unico vescovo cattolico di Eswatini chiede calma e dialogo. Almeno 21 manifestanti sono stati uccisi dalle forze di sicurezza dello Stato nei giorni scorsi nella nazione sudafricana precedentemente nota in inglese come Swaziland.

“Come ho affermato in passato, combattere il fuoco con il fuoco porterà il nostro paese in cenere”, ha detto il vescovo argentino José Luis Ponce de León di Manzini in una dichiarazione rilasciata il 2 luglio. “Il ripristino della calma non deve farci pensare che le ragioni dei disordini siano state affrontate. Un dialogo aperto e all-inclusive, senza escludere alcun stakeholder, è l’unica via possibile per andare avanti.

Il prelato ha anche chiesto il ripristino dei servizi Internet nel Paese “senza i quali dipendiamo dalle informazioni offerte dai media stranieri, e non dalla nostra stessa gente”. Questo – ha detto – permetterebbe alla Chiesa, alle Ong e organizzazioni politica di pubblicare i loro appelli alla pace e al dialogo,

Le proteste a favore della democrazia sono state scatenate il 24 giugno, ma fonti locali hanno detto a Crux che i disordini possono essere collegati alla morte di uno studente universitario all’inizio di maggio, con agenti di polizia sospettati del crimine. Questi si sono trasformati in appelli per riforme politiche, che hanno portato re Mswati III, che è il monarca assoluto dal 1986, a rilasciare alla fine della scorsa settimana un decreto che vieta le petizioni al governo che chiedono riforme democratiche.

La situazione si è ulteriormente aggravata a Eswatini a partire da lunedì sera, quando uno dei supermercati fuori Manzini, il più grande centro urbano del paese, è stato bruciato e un camion saccheggiato.

Mentre i figli di Mswati ostentano le loro opulente feste di compleanno sui social media, 6 cittadini su 10 di questa piccola nazione senza sbocco sul mare, incuneata tra Sudafrica e Mozambico, vivono in povertà, e gli osservatori ritengono che la disparità della situazione in cui vivono gli 1,1 milioni di persone del paese rispetto a quella del loro sovrano abbia portato ai disordini civili più esplosivi dall’indipendenza dello Swaziland 53 anni fa.

I manifestanti sono scesi in strada nella capitale esecutiva, Mbabane, a Manzini e altrove e il governo ha reagito in modo aggressivo. Ci sono testimoni, attivisti e personale ospedaliero che hanno riferito che l’esercito e la polizia hanno sparato contro i manifestanti e i saccheggiatori.

Martedì, (monsignor) Ponce de León, nell’ambito di una delegazione del Consiglio delle Chiese, ha incontrato il Primo Ministro del paese, perché temeva che i violenti disordini potessero presto intensificarsi, nonostante un apparente stato di quiete che più il risultato della forte risposta del governo alla protesta che una soluzione ai problemi più profondi.

Nella sua dichiarazione, il prelato ha citato l’enciclica di Papa Francesco sulla fraternità umana, Fratelli Tutti, per dire che “un autentico dialogo sociale implica la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro e di ammettere che può includere legittime convinzioni e preoccupazioni”.

Martedì scorso è stato imposto anche un coprifuoco dal tramonto all’alba e il primo ministro ad interim Themba Masuku ha dovuto negare notizie dei media secondo cui Mswati era fuggito dalla violenza nel vicino Sudafrica.

“Sua Maestà… è nel paese e continua a far avanzare gli obiettivi del Regno”, ha detto Masuku in una dichiarazione. “Facciamo appello alla calma, alla moderazione e alla pace.”

Ponce de León ha anche condiviso su twitter un messaggio pubblicato il 2 luglio dal Consiglio delle Chiese dello Swaziland, di cui è membro come vescovo dei cattolici del paese, dicendo che la domanda da farsi, nel vedere la violenza in atto e il danno alle proprietà della gente, è “cosa sta causando questo e quale potrebbe essere la soluzione?”

“Ciò è dovuto al fatto che ogni persona vuole progredire nella vita e quindi la distruzione cui si sta assistendo ora non sta portando il paese verso i suoi obiettivi”, afferma la dichiarazione, prima di segnalare diversi possibili motivi per la violenza, dalla pandemia di COVID-19 alla mancanza di opportunità di lavoro, che a sua volta ha “reso i giovani vulnerabili e frustrati”.

L’economia del paese, già in crisi prima della pandemia, ed è stata peggiorata da essa, con il lockdown che non ha reso la situazione migliore “poiché abbiamo visto altri problemi sociali, come la violenza di genere, aggravarsi”.

Il disagio causato da questi problemi è stato esacerbato, si legge nella dichiarazione, dalle “priorità sbagliate” del governo quando si tratta di stanziare fondi e “dall’aumento della brutalità delle forze dell’ordine contro la gente”, che ha portato alla perdita di vite umane, e non ha certo migliorato la situazione.

“Attualmente stiamo vivendo alti livelli di violenza sia da parte delle forze di sicurezza che dei manifestanti”, ha detto il Consiglio delle Chiese. “I manifestanti hanno lasciato dietro di sé una scia di distruzione con proprietà vandalizzate o bruciate, negozi saccheggiati e alcune persone ferite. D’altra parte, le forze di sicurezza hanno la loro parte nella violenza, visto che ci viene detto di persone che sono state picchiate, ferite con armi da fuoco o addirittura uccise dalle forze di sicurezza.

Ci sono state anche diverse segnalazioni di persone prese dalle loro case dagli agenti di sicurezza mentre le loro famigli sono tenute all’oscuro di dove sono stati portati.

“Tale violenza non è mai stata vita nel Paese e siamo preoccupati per gli effetti a lungo termine sulla popolazione di Eswatini”, si legge nella dichiarazione, prima di suggerire il dialogo come la migliore soluzione alle impasse, implorando le persone di “seppellire l’ascia di guerra e venire al tavolo per una soluzione negoziata dei problemi”.

Inés San Martín


Vedi anche:

appello di papa Francesco, Violenze in Africa meridionale, servono dialogo e riconciliazione.

 




Cambogia: Sei amici e una dose

testo e foto di Luca Salvatore Pistone


Nei sobborghi di Phnom Penh, tra baracche e immondizia, è venduta e comprata la droga sintetica. Molti ne fanno uso anche per non sentire le fatiche di una vita al limite. Le metanfetamine lasciano strascichi pesanti a livello psichiatrico. Il governo reprime sia spacciatori che consumatori.

Crystal meth, ice e yaba sono i nomi più comuni con cui è conosciuto un particolare tipo di metanfetamina in Cambogia. Come negli altri paesi della regione, anche qui quello della dipendenza da metanfetamina è un fenomeno che interessa un numero sempre maggiore di giovani. Negli ultimi anni la polizia cambogiana si è prepotentemente lanciata in massicce campagne anti droga che hanno portato all’arresto di migliaia di tossicodipendenti e spacciatori trattati alla stessa stregua davanti alla legge. Numerose organizzazioni umanitarie denunciano le ripetute violazioni dei loro diritti fondamentali, e intanto le carceri cambogiane continuano a registrare cifre record di detenuti.

Arun, Phirun, Bourey, Jack, Soumy e Munny sono amici di lunghissima data. Sono tutti nati e cresciuti a Mean Chey, un quartiere periferico di Phnom Penh, uno slum, un susseguirsi di baracche e palafitte che si ergono su una palude e un fiumiciattolo che confluisce nel Tonlé Sap, l’imponente fiume che
bagna la capitale. Nel fitto intreccio di viuzze che costituiscono Mean Chey, il sole difficilmente penetra, mentre la pioggia ad ogni temporale allaga le abitazioni dai tetti di plastica e lamiera.

Questi giovani, che hanno tutti un’età compresa tra i 23 e i 27 anni, si trovano di primo pomeriggio per farsi una fumatina di crystal meth. Lo fanno a casa di Arun, un’unica stanza con un lettone dove il giovane dorme con la madre e le due sorelle. «Dai – esclama l’ospite rivolgendosi a Phirun -, fa presto a cacciare la bottiglia e le cannucce, io ho già pronti stagnola e accendino. Dobbiamo sbrigarci prima che torni mia madre da lavoro, altrimenti dà di matto e per me sono guai». È al padrone di casa che spetta la preparazione della pipa ad acqua fatta di materiali facilmente reperibili. Al gruppetto di compari non rimane altro da fare che aspirare dalla cannuccia e attendere che il crystal meth faccia effetto.

Chi usa le droghe

Nel Sud Est asiatico, sono soprattutto i ceti più bassi a fare sistematicamente uso di metanfetamine. Ma anche la borghesia medio alta non ne è estranea. Droghe di questa famiglia, che si presentano sotto forma di piccoli cristalli, vengono assunte durante le serate in discoteca; dalle prostitute prima di iniziare ad accogliere i clienti; dagli operai e dai tassisti per lavorare il maggiore numero di ore possibile. Si tratta di potenti eccitanti che, se assunti per lungo tempo, possono portare a serie malattie psichiatriche spesso irreversibili.

In Cambogia il prezzo di una dose può variare dai 5 ai 10 dollari statunitensi, una cifra considerevole se si tiene presente che una buona fetta della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno.

Terminato il rituale, dopo aver bevuto qualche lattina di birra e Coca-Cola calda, i sei ragazzi si alzano ed escono per accomodarsi nell’atrio della catapecchia di Arun. Qui rimangono per qualche minuto in silenzio mentre osservano dei bambini, loro fratellini e cuginetti, che giocano a piedi nudi in una pozza d’acqua da un intenso colore blue cobalto. Attorno a loro, ovunque, ci sono rifiuti ed escrementi tra i quali galline e pulcini vengono lasciati liberi di girare. «Mean Chey – sentenziano unanimi i vecchi amici – è una pattumiera a cielo aperto, non c’è altro da aggiungere. E di posti come questo la Cambogia è piena».

Bourey, di professione conducente di moto taxi, è il primo dei sei ragazzi a sbottonarsi un po’: «Quando mi faccio di crystal meth, difficilmente mi accontento di una sola dose, e così ogni volta spendo fino a 20 dollari. Lo so, sono tanti soldi, ma lo faccio anche perché una volta che sono fatto ho più energie per lavorare tutta la notte. Questa roba mi piace perché mi fa sentire invincibile e quindi mi fa guadagnare di più. Il problema è quando finisce l’effetto. La testa non va più a mille e mi ritrovo qui, in mezzo a questo schifo. Non posso smettere, ci ho provato ma non ci riesco in alcun modo».

Reprimere anziché curare

Negli ultimi anni la polizia, assistendo a un netto aumento del fenomeno, ha lanciato delle energiche campagne antidroga che sulla carta prevedono l’arresto di trafficanti e consumatori e l’inserimento, per questi ultimi, in centri di riabilitazione. In realtà ci sono stati solo una miriade di arresti arbitrari e odiosi abusi. Ogni anno si contano circa 10mila arresti.

L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) ha espresso la propria preoccupazione in merito alla parità di trattamento riservata a spacciatori e tossicodipendenti, indipendentemente dalla quantità di droga con cui si viene colti in flagrante, e alla scarsa assistenza medica dopo l’incarcerazione dovuta alla mancanza di fondi. In un suo recente rapporto, l’Organo internazionale per il controllo degli stupefacenti (Incb) del Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite, descrive la Cambogia come un hub regionale per il traffico di eroina, cocaina e metanfetamine, e avverte che la produzione casalinga di crystal meth per il mercato interno è in aumento. Da parte sua, il Centro cambogiano per i diritti umani (Cchr) parla di sovraffollamento delle carceri e di tempi biblici in attesa anche solo della prima udienza davanti a un giudice.

«Col tempo – illustra Ouk Tha della Rete cambogiana per le persone che fanno uso di droghe (Cnpud), che conosce molto bene i ragazzi di Mean Chey – abbiamo raccolto un gran numero di prove a favore dell’innocenza dei tossicomani da noi assistiti e contro i metodi brutali di cui la polizia si serve, ma raramente ci viene data occasione di depositarle in tribunale. Ciò che più ci preoccupa è la difficoltà che i tossicodipendenti hanno ad accedere alle cure sanitarie, e questo anche perché le autorità giudiziarie si prendono lunghissimi tempi prima di fare la cernita tra spacciatori e soggetti con problemi di dipendenza da droga».

La storia di Jack

Jack è assorto tra i suoi pensieri. «Non è più lo stesso – racconta Arun, con il volto triste – da quando sua moglie è stata arrestata». Da alcuni mesi la donna, anch’essa tossicodipendente, si trova in carcere perché sorpresa dalla polizia mentre acquistava una dose di crystal meth.

Jack torna in sé e prende la parola: «In quella retata hanno portato via sia lei che lo spacciatore. Di solito acquistavo io la roba per entrambi. Ma quella volta ha voluto fare tutto lei perché era in astinenza, aveva avuto una crisi. Da quando me l’hanno portata via sono sconvolto e faccio sempre più uso di questa schifezza. Ho iniziato pure con la ketamina con la speranza di alleviare il dolore, di distrarmi, ma continuo a stare malissimo. Un giorno mi fermerò. E devo farlo al più presto. Se continuo così, non avrò più denaro per comprare il latte a nostro figlio che ora è in carcere con mia moglie».

Le recenti crociate della polizia contro le metanfetamine hanno portato all’abbattimento di numerose abitazioni dentro le quali avvenivano reati legati al consumo di queste sostanze. Case ubicate nelle numerose baraccopoli di Phnom Penh dove le forze dell’ordine sono determinate più che mai a mostrare i muscoli per arginare la diffusione del crystal meth tra i giovani.

Palafitte

Trapaing Chhouk, nel distretto periferico di Sen Sok, è uno slum come tanti nella capitale cambogiana. Un labirinto di passerelle di legno traballanti che collegano circa duecento fetide palafitte che, chissà come, rimangono in piedi su un putrido laghetto. Qui vivono circa mille persone. A meno che non ci si voglia arrischiare ad attraversare distese di rifiuti di dubbia natura, per addentrarsi nel ghetto di Trapaing Chhouk, l’unico modo è percorrere una delle due strettissime passerelle presenti. «Grazie a queste passerelle – spiega Sek, cinquantenne del posto -, quei delinquenti tenevano facilmente sotto controllo tutti i movimenti. Quando sospettavano stesse per verificarsi una retata dei poliziotti, era sufficiente un fischio e in pochi secondi la droga veniva nascosta».

La prima cosa che balza agli occhi dei visitatori di Trapaing Chhouk è l’imponente mole di cannucce di plastica che si trovano sparse ovunque per terra. «Dove ci sono degli spazi vuoti – continua Sek -, fino a poche settimane fa c’erano delle case. Sono state tutte rase al suolo dai poliziotti perché lì ci vivevano i drogati o ci facevano i loro loschi affari gli spacciatori. A dimostrazione di ciò, sul terreno, rimangono tutte queste cannucce con cui si fuma la metanfetamina nelle bottigliette piene d’acqua. Saranno migliaia e migliaia. Capito quanta droga è passata e continua a passare da queste parti? E se si presta attenzione, si noterà che tra le cannucce ci sono anche delle siringhe. I drogati si iniettano quella roba anche in vena».

Preoccupa l’aumento dei soggetti che assumono metanfetamine tramite iniezione e che contraggono l’Hiv. Il governo nazionale, sostenuto dalle Nazioni unite, ha da tempo avviato l’iniziativa «90-90-90». Questa prevede che entro la fine del 2020, il 90 per cento delle persone con l’Hiv dovrà conoscere la propria diagnosi; il 90 per cento delle persone con l’Hiv dovrà ricevere un valido trattamento; il 90 per cento delle persone con l’Hiv che riceve una terapia antiretrovirale dovrà raggiungere e mantenere la soppressione virale. Secondo le autorità sanitarie cambogiane, nel paese il 25 per cento di tossicomani che si inietta droghe è malato di Aids.

Metodi drastici

«Senza droga – confida Pol, una donna sulla sessantina, mentre vende cibo fatto in casa sull’uscio della sua baracca – viviamo più tranquilli. Prima dell’intervento della polizia, qui a Trapaing Chhouk regnava il caos. Schiamazzi, liti e baccano sia di giorno che di notte. Non si riusciva a dormire. A parte questo, noi gente per bene non abbiamo mai avuto problemi con quei drogati, non hanno mai rubato a casa nostra o dato particolari noie. Piazzavano come vedette dei ragazzini esterni al ghetto, nel caso in cui arrivasse la polizia. La nostra paura più grande era che potessero coinvolgere i nostri figli o che questi potessero essere scambiati per spacciatori dai poliziotti e quindi arrestati».

«Tremo – è il turno di Chea, coetanea e vicina di casa di Pol – se penso a quando avvengono le demolizioni. Utilizzare qui le ruspe è impensabile e così fanno tutto a mano con picconi e pale. Un rumore infernale che ti entra nel cervello. Hanno arrestato almeno una settantina di giovani, quasi tutti sotto i trent’anni. Vivevano qui da diverso tempo perché ritenevano Trapaing Chhouk un luogo sicuro. E in effetti così era: da tanti anni eravamo finiti nel dimenticatoio delle autorità, nessuno si sognava di mettere piede qui. Poi all’improvviso il problema della droga è diventato una priorità per la polizia e così, suo malgrado, Trapaing Chhouk ha attirato l’attenzione di molti».

Una delle polemiche sorte attorno alle demolizioni che avvengono a Trapaing Chhouk è che le case abbattute non erano di proprietà di tossicodipendenti e spacciatori, bensì di persone che abitano al di fuori del ghetto. Sono pochi i casi in cui i locatori sono stati segnalati alla polizia per essere stati a conoscenza di ciò che avveniva dentro le baracche. Numerosi invece i proprietari che hanno chiesto dei risarcimenti alla municipalità. «Non credo – dice Chea – che sia stato giusto abbattere case di proprietà di persone che non hanno commesso quei crimini. Non erano presenti, secondo me non potevano sapere che cosa accadeva al loro interno. So che hanno esposto le loro rimostranze alla municipalità ma non hanno ancora ricevuto risposta».

«L’intervento della polizia – dice infine Sek – è stato positivo. La polizia antidroga ora controlla tutto, ha eseguito delle indagini nelle case dove si faceva uso di droghe e dove la gente veniva ad acquistarne. Seguivano i clienti, li fermavano, li arrestavano, li interrogavano e raccoglievano informazioni. Così in breve tempo hanno potuto individuare le case incriminate e demolirle. In generale ci riteniamo soddisfatti perché qui non circola quasi più droga, i nostri giovani sono più al sicuro e non subiamo più alcun tipo di molestia. Ora possiamo cominciare a tirare un bel sospiro di sollievo».

Luca Salvatore Pistone*

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*Sul tema delle droghe l’autore ha già pubblicato: Filippine: la (sporca) guerra della droga, MC marzo 2019;
Come il fisico, così lo spirito, MC maggio 2020.
Sulle droghe si veda anche Chiara Giovetti alle pp. 64-67 di questo numero.

 




Brasile. Vita di favela (con o senza virus)

testo e foto di Gianluca Uda |


Nella favela chiamata Che Guevara vivono circa 30mila persone. In condizioni abitative, igieniche e sociali difficili. Oggi peggiorate a causa dell’arrivo del nuovo coronavirus.

Belém. Il cielo nuvoloso oggi è il campo dove aquiloni colorati lottano tra di loro. Trapezi che sfrecciano con i loro stemmi di Batman, Superman o altri personaggi legati alla fantasia dei più piccoli. Questa è la guerra aerea dei bambini della favela che, con i loro fili di nylon tesi, si scontrano nel cielo con gli aquiloni rivali.

In realtà è un gioco considerato illegale: i fili di nylon che tengono legati gli aquiloni colorati vengono infatti cosparsi di minuscoli frammenti di vetro (in genere si usano quelli delle lampadine). Quando due aquiloni arrivano allo scontro, succede che uno venga tagliato dal filo rivale ed eliminato.

È un gioco illegale perché potenzialmente pericoloso. Il filo trasparente, soprattutto per chi passa in moto o in bicicletta, può provocare ferite. Inoltre, molto spesso cavi della luce o linee internet vengono recisi. Tuttavia, quando entra in favela, la polizia ha cose ben più gravi da risolvere.

Nel complesso urbano di Belém, capitale dello stato del Parà nel Nord Est brasiliano, questo gioco costa al municipio ogni anno diverse riparazioni di fili elettrici troncati. Oggi però non è tanto il problema del gioco degli aquiloni a preoccupare il municipio, quanto l’assembramento di bambini lungo le strade periferiche.

La pandemia legata al Covid-19 è entrata nelle vite del popolo brasiliano. E tristemente le zone più colpite sono le aree suburbane delle grandi città come Belém, divenuta questa l’epicentro della diffusione del virus nella zona Nord Est della nazione.

Una mamma con i suoi quattro figli; il marito della donna lavora come taglialegna in Amazonia un lavoro considerato illegale; l’uomo rientra a casa ogni sei mesi circa. Foto di Gianluca Uda.

Favela Che Guevara

Il complesso suburbano di Belém è composto da piccole città, luoghi poveri dove gli abitanti difficilmente riescono ad arrivare a fine mese, soprattutto ora che, a causa della pandemia, molte attività sono state chiuse.

Che Guevara è una favela di circa trentamila abitanti. Oggi è registrata come barrio Almir Gabriel e si trova nella periferia della città di Marituba che dista circa dieci chilometri da Belém, ma per tutti rimane favela Che Guevara.

La favela è nata nel 1997 a seguito della più grande occupazione di massa di tutto il Sud America, quando un centinaio di persone, che non aveva né casa né un’impiego fisso, hanno occupato i terreni dell’attuale favela. Spinti da un ideale socialista di riscatto, hanno preso possesso di quegli spazi e da allora non se ne sono più andati. Oggi la storia dell’invasione è raccontata come una vera e propria leggenda anche perché sono ancora in vita pochi degli autori di quella piccola grande impresa.

La favela ha un’unica strada asfaltata, vero e proprio cuore pulsante della piccola comunità.

È la via commerciale, dove barbieri, piccoli mercati, pescivendoli e farmacie cercano a fatica di sopravvivere. Una linea retta, con l’asfalto che sembra sbriciolarsi nelle giornate di sole. Qui, oltre ai mercati, si trovano le scuole e le varie chiese, pentecostali, evangeliche e, in fondo, quasi nascosta, anche quella cattolica.

Tutte le altre stradine o traverse sono in terra battuta e le fogne corrono a cielo aperto lungo i lati di tutte le strade, anche di quella asfaltata, rendendo l’aria pesante e l’igiene della comunità incerta.

Ruth è una giovane ragazza mamma di due bambini; il marito è in carcere per violenza e aggressioni e la donna cerca di sopravvivere come può. Foto di Gianluca Uda.

In questo luogo le stagioni sono due e gli abitanti del posto scherzano su questo: «Qui nel Parà o tutti i giorni piove o tutto il giorno piove». Queste sono le stagioni.

Già da marzo il nuovo coronavirus è entrato nel complesso suburbano, ma gli ultimi mesi sono stati quelli più complicati. Il sindaco di Belém, Zenaldo Coutinho, ha ordinato un lockdown preventivo, ma quasi nessuno della comunità di Che Guevara vi ha prestato molta attenzione. Il 25 maggio hanno iniziato a riaprire quasi tutte le attività commerciali, anche se, in realtà, la diffusione del virus non era in calo. I timori della classe politica locale si sono però rivolti verso l’economia: sembrerebbe che, per molti, la paura maggiore sia la crisi economica che, in verità, già ha manifestato i suoi effetti.

Molte persone, soprattutto quelle che vivono ai margini, hanno perso il lavoro; i beni di prima necessità, come il riso e i fagioli, stanno drasticamente aumentando di prezzo.

Per tutto questo, le fasce più vulnerabili hanno iniziato ad avere timore per il loro futuro.

Gli ospedali e i posti di salute vicino alla favela Che Guevara sono tutti al collasso. Molti medici non operano più perché sostengono di aver contratto il virus. Secondo gli abitanti della zona, invece, non vogliono rischiare di ammalarsi, soprattutto se devono salvare le vite di qualche favelado.

Durante le prime settimane di quarantena preventiva, era quasi impossibile trovare mascherine o alcol gel, la nostra Amuchina. In favela, molte donne cucivano le mascherine a mano, per poi rivenderle a buon prezzo, ma oggi le esigenze sono cambiate dato che il virus ha stravolto la vita quotidiana.

Con la chiusura delle scuole, molte donne si sono trovate costrette a rinunciare ai loro piccoli lavori per dedicarsi ai figli.

Un’anziana signora piange ripensando alla sua vita sempre molto difficile; la donna vive in una sola stanza. Foto di Gianluca Uda.

Storia di Luiziana

Molte famiglie della comunità sono state contagiate dal virus. Come nel caso della famiglia di Luiziana. Il marito della donna lavora per una ditta che distribuisce carne di bovino nei mercati e negozi del centro di Belém. L’uomo, quarantenne, ha iniziato a sentirsi male durante le prime settimane di maggio e poco dopo ha contagiato tutta la famiglia.

I figli adolescenti non hanno avuto grandi ripercussioni, mentre Luiziana e il marito non riuscivano nemmeno a respirare. La donna aveva tutti i sintomi del Covid-19, ma non le hanno fatto alcun tampone. Dopo aver eseguito una radiografia ai polmoni, e vedendo che le condizioni si stavano aggravando, il medico le ha prescritto una serie di antibiotici che fortunatamente hanno scongiurato il peggio.

Luiziane è stata una delle prime persone ad ammalarsi di Covid-19 nella favela Che Guevara, fortunatamente si è salvata; le sue radiografia ancora mostrano problemi a livello polmonare. Foto di Gianluca Uda.

Lei, come il marito, hanno contratto il coronavirus, ma non sono stati inseriti nei conteggi nazionali. Questo avviene molto spesso anche per le morti legate al Covid-19, perché, non venendo fatti gli esami di accertamento, esse vengono classificate come morti comuni o morti per insufficienza respiratoria. Attualmente (13 luglio) il Brasile ha superato i 72mila decessi, ma la realtà potrebbe essere molto più tragica.

Il marito di Luiziana, una volta attenuatisi i sintomi della malattia, non ha fatto nemmeno i quattordici giorni d’isolamento preventivo ed è rientrato subito a lavorare per non perdere l’unica entrata sicura di cui la famiglia può disporre. Il suo datore di lavoro gli ha detto di non preoccuparsi. Sicuramente anche tutti i suoi colleghi avevano contratto il virus e quindi era meglio per lui rientrare se non voleva perdere il posto. L’uomo, padre di due ragazzi, non ha avuto altra scelta.

Luiziana lavorava part time come donna delle pulizie in una scuola vicino alla favela, ma con la chiusura di quest’ultima è stata licenziata. Lavorando senza contratto purtroppo non ha nessun tipo di garanzia.

Lo stato brasiliano ha stabilito di elargire 600 reais emergenziali per famiglie o persone in difficoltà. Una somma certo insufficiente ma fortunatamente Luiziana è riuscita almeno a farsi assegnare questo sussidio.

Non avendo un’assicurazione sanitaria buona, lei e il marito hanno dovuto pagare quasi tutto di tasca propria: le medicine per lei, il marito e i figli e poi le radiografie. Il tutto è venuto a costare come la somma di due mesi di lavoro suoi e del marito. Ora sono fuori pericolo, ma Luiziana sente ancora nel suo corpo i postumi del virus e ha qualche problema a fare sforzi.

George è un ragazzo con una grave patologia neurologica, i genitori sono stati costretti a creare un sorta di gabbia intorno al letto del ragazzo per evitare che si faccia male durante la notte. Foto di Gianluca Uda.

Chiese e famiglie

Nella comunità di Che Guevara, le chiese evangeliche e pentecostali non hanno mai chiuso. Solo alcune di esse hanno rispettato il distanziamento sociale. La chiesa cattolica invece ha riaperto a inizio giugno, ma può ospitare solo il dieci per cento della capienza totale e ogni fedele deve presentarsi alle funzioni con la mascherina.

La favela non poteva fermarsi, le persone più vulnerabili come gli anziani o quelle con problemi fisici hanno rispettato l’isolamento, mentre tutti gli altri dovevano in qualche modo portare a casa il pane o il riso.

Oltretutto la maggior parte delle abitazioni sono dei veri e propri tuguri, dove le famiglie vivono ammassate in una o due stanze. Case fatiscenti fatte con foratini e cemento, sprovviste di intonaco. Nella comunità ogni abitazione ha le grate in ferro ancorate a porte e finestre. Se non prendono delle precauzioni, quel poco che uno ha, potrebbe sparire.

La vita nella favela è poi resa più complicata, violenta e pericolosa a causa della presenza di un gruppo di narcotrafficanti appartenenti al Commando Vermejo (organizzazione criminale nata nel 1979, ndr). Sono loro che gestiscono ogni cosa.

In queste situazioni estreme molti bambini si ritrovano a passare gran parte del loro tempo in strada, giocando con gli aquiloni o pescando nelle fogne che costeggiano le strade.

Molti bambini della comunità vivono con i nonni che, tuttavia,  spesso non riescono a stare dietro ai loro nipoti.

La maggioranza dei nuclei familiari è disgregata e questo si deve a varie cause, ad esempio l’uso o lo spaccio di droga. Tante volte gli uomini della comunità non si prendono le loro responsabilità e le donne sono costrette a caricare su di sé tutto il peso della propria famiglia.

Accade però che anche loro, le donne, a volte decidano di vivere con altri uomini che ripudiano i figli delle loro vecchie relazioni, e questo costringe i nonni a farsene carico. Vite che camminano al limite, sempre in bilico, ostaggi di una società che non ha uno spazio adeguato per loro. Musica e miseria s’intrecciano nel dedalo delle viuzze in terra battuta, dove ogni bambino cerca un suo modo personale per poter sopravvivere in un luogo così difficile come la favela.

Tre fratelli sono costretti a dormire nello stesso letto; la madre dei ragazzi è da sola ad occuparsi dei figli; le loro condizioni sono peggiorate con l’avvento del Covid-19. Foto di Gianluca Uda.

Storia di George

Forse però il disagio più grande lo vivono le persone con problemi di disabilità. Come nel caso di George, un ragazzo di diciassette anni con una patologia neurologica. Il giovane ha anche una forma di asma molto grave e i genitori hanno dovuto costringerlo a casa durante la quarantena per evitare ogni rischio di contagio.

George è uscito con i genitori una sola volta, per farsi il vaccino dell’influenza comune. Gli assistenti sanitari non lo hanno nemmeno fatto scendere dalla macchina, ma gli hanno somministrato il siero direttamente nella vettura.

Le circa trentamila vite che popolano la comunità Che Guevara, ogni giorno debbono affrontare una loro piccola lotta personale. Oggi, con l’emergenza legata al coronavirus, ogni minima situazione di disagio sembra essersi amplificata a dismisura.

Fortunatamente quella grande anima latina che occupa il cuore delle persone sembra non cedere allo sconforto. La forza della vita è un suono dolce e profumato che ancora resiste.

Gianluca Uda*

(*) Nato a Roma nel 1982, Gianluca Uda ha lavorato come cooperante in paesi in via di sviluppo tra cui la Bolivia, il Bangladesh, il Kenya, l’Ecuador. Attualmente lavora in Brasile. Ha appreso la fotografia grazie al padre Francesco. Usa il mezzo fotografico come strumento di denuncia sociale.

Due bambini davanti all’entrata della loro casa, il frigorifero alle loro spalle e stato trovato per strada e il padre dei ragazzi lo usa come un’armadio per i suoi attrezzi da lavoro. Foto di Gianluca Uda.