I dolori di Pristina


Dallo scorso febbraio il presidente della piccola repubblica è Hashim Thaçi, già leader del (controverso) Esercito di liberazione (Uçk). Sopito (ma tutt’altro che superato) il conflitto etnico con la minoranza serba, oggi il Kosovo rimane un paese in gravi difficoltà e con vari leader accusati di crimini di guerra e contro l’umanità.

26 febbraio 2016. Il parlamento di Pristina, capitale del Kosovo, elegge il nuovo presidente della giovane repubblica. Al terzo scrutinio, con 71 voti su 120,  viene nominato Hashim Thaçi, leader del «Partito democratico del Kosovo» (Pdk).

L’elezione di Thaçi, frutto di accordi politici tra il Pdk e il partner di governo, la «Lega democratica del Kosovo» (Ldk), non arriva a sorpresa: il segretario del Partito democratico è da tempo uno degli uomini politici kosovari più in vista. Nel 1999, durante la guerra combattuta – col supporto decisivo dell’aviazione Nato – per ottenere l’indipendenza dalla Serbia di Slobodan Miloševi?, Thaçi ha vestito i panni di leader politico e militare della guerriglia albanese-kosovara, «eroe» dell’«Esercito di Liberazione del Kosovo» (Uçk).

Il 17 febbraio 2008, stavolta come primo ministro, Thaçi era stato l’uomo che aveva pronunciato la sospirata dichiarazione di indipendenza del Kosovo, accolta con giubilo dalla folla festante nelle strade e piazze di Pristina.

A prima vista, l’investitura di Thaçi avrebbe dovuto quindi segnare non solo il coronamento della sua carriera politica, ma anche un momento di unione e celebrazione dell’intera società kosovara. Le cose, però, non sono filate così lisce.

Il dibattito che ha preceduto il voto è stato interrotto più volte dall’opposizione che – come già successo a più riprese nei mesi precedenti – ha tentato di bloccare la procedura lanciando fumogeni nell’aula parlamentare: protesta che ha portato all’espulsione di numerosi deputati.

Nelle strade del centro di Pristina, intanto, sono andate in scena pesanti scontri tra polizia e manifestanti, soprattutto sostenitori del movimento radicale Vetevendosje («Autodeterminazione») scesi in piazza al grido «Thaçi corrotto!», e terminati con un pesante bilancio di arresti e feriti.

Le parole solenni di Thaçi dopo la sua investitura – «Mi impegno a costruire un nuovo Kosovo, un Kosovo europeo» – non sono bastate a calmare gli animi: l’opposizione ha infatti annunciato ricorsi sulla regolarità del voto alla Corte costituzionale.

E come se non bastasse, il nuovo presidente rischia ora un’incriminazione da parte della nuova Corte speciale, che dal 2016 indagherà sui presunti crimini di guerra dell’Uçk durante e dopo il conflitto armato.

Dal parlamento alle piazze

Lo scontro cruento sull’elezione di Thaçi è la fotografia più efficace delle divisioni e fratture che oggi spaccano «il paese più giovane d’Europa», figlio della dissoluzione della Jugoslavia, del conflitto inter-etnico tra la comunità albanese e quella serba, di una guerra sanguinosa e della contestatissima dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia (oggi riconosciuta da più di 100 paesi, ma non dalla stessa Serbia, né da Russia, Cina e cinque paesi dell’Ue) del 2008.

La prima faglia si trova nelle difficoltà del sistema politico di dare vita a una democrazia sostanziale. Le ultime elezioni (giugno 2014), hanno disegnato un parlamento diviso, con il Pdk di Thaçi da una parte e una coalizione di partiti d’opposizione decisi a detronizzarlo dall’altra. Incapaci di trovare una soluzione mediata, i leader kosovari hanno dato vita a un autistico muro contro muro, che ha lasciato il paese senza governo per quasi sei mesi.

La crisi è stata risolta solo con il pesante intervento della comunità internazionale, che ha portato a un «patto innaturale» tra il Pdk e il principale partito d’opposizione, la Ldk, che ha voltato le spalle al patto anti Thaçi.

L’esito di quello scontro ha sciolto il nodo del governo, ma ha esacerbato la vita politica kosovara, portandola ad un livello parossistico di costante tensione, con l’opposizione ormai convinta di non avere alcuna possibilità di arrivare al potere tramite le ue.

Il confronto si è spostato quindi sempre di più nelle piazze, e qui ha incontrato una seconda faglia, quella che ancora divide il Kosovo lungo linee etniche.

La protesta si concentra infatti su alcuni aspetti dello storico accordo sulla normalizzazione dei rapporti tra Kosovo e Serbia raggiunto nell’aprile 2013. L’intesa, primo accordo formale firmato dai due avversari, prevede un faticoso scambio: Belgrado si impegna a non interferire negli «affari interni» del Kosovo, smantellando le sue strutture di sicurezza ancora presenti sul territorio dell’ex provincia, Pristina acconsente alla creazione di una «Associazione delle municipalità serbe in Kosovo», che dovrebbe garantire ai serbi rimasti di godere di un’ampia autonomia locale.

Il vero obiettivo dell’intesa è «normalizzare» la situazione nel Nord del Kosovo, area a grande maggioranza serba che, dalla guerra del ‘99, rifiuta ogni tipo di integrazione nelle istituzioni di Pristina (leggere riquadro).

Quella che per il governo kosovaro è una concessione dolorosa, ma necessaria, per l’opposizione è un patto scellerato che rischia di creare un’ingestibile «entità serba» in Kosovo, sul modello della «Republika Srpska» (Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina) in Bosnia.

Una prospettiva da contrastare a tutti i costi, sia nell’aula parlamentare, trasformata in una curva di stadio, che nelle strade e piazze del Kosovo.

Fuga dalla povertà

Se la politica arranca, ampie fasce della società attraversano acque estremamente agitate. Il Kosovo resta una delle aree più povere del continente europeo, con un’economia basata soprattutto sulle rimesse della diaspora e sul consumo privato, mentre la produzione resta quasi assente.

Dopo anni relativamente positivi, il 2014 ha segnato lo stallo dei principali indicatori, con una debole crescita del Pil (0,9%), l’aumento del deficit nella bilancia dei pagamenti (-8%) e un calo negli investimenti diretti dall’estero (-2,3% del Pil).

Il dato più preoccupante riguarda però la mancanza di lavoro. Se il tasso di disoccupazione generale è al 35,3% (oltre il 38% tra le donne) quello giovanile registra il 61%.

Secondo i report della Commissione europea, il Kosovo è oggi in Europa il paese con i più bassi tassi di occupazione e partecipazione attiva alla vita economica.

Una situazione ormai incancrenita, che negli ultimi anni ha spinto decine di migliaia di persone a cercare opportunità di vita migliore nei paesi ricchi dell’Europa centro-settentrionale, utilizzando lo strumento della richiesta di asilo politico.

Un escamotage reso necessario dal fatto che il Kosovo – unico tra i paesi della regione – rimane ancora escluso dalla politica di liberalizzazione dei visti con l’area Schengen. Dalle 20mila richieste depositate da cittadini kosovari in stati Ue nel 2013, si è passati alle 37mila dell’anno successivo, fino ad arrivare a una vera esplosione nel corso del primo semestre 2015: ben 62.860 richieste.

Un vero e proprio esodo (la popolazione totale del paese è circa due milioni di abitanti), che è stato tamponato con una forte stretta sui controlli alle frontiere e con migliaia di rimpatri, volontari o forzati. Le cause profonde alla base della fuga non sono però state risolte. Accanto a difficoltà economiche e disoccupazione, ad affossare le speranze nate con la dichiarazione d’indipendenza del 2008 sono anche la corruzione diffusa, l’emarginazione di gruppi sociali ed etnici (come ad esempio i rom), la scarsa qualità dei servizi foiti dallo stato.

Tutti fattori che contribuiscono all’infiammabilità della situazione sociale e politica e, secondo molti osservatori, costituiscono terreno fertile per la tentazione jihadista. Secondo varie stime, circa 300 giovani kosovari si sono arruolati negli ultimi anni nelle fazioni più radicali impegnate nei conflitti in Siria e Iraq, come il fronte al-Nusra e il sedicente Stato islamico.

Numeri preoccupanti, che oggi fanno del Kosovo il paese europeo col maggior numero di foreign fighters pro capite, nonostante le frequenti operazioni di polizia e forze di sicurezza contro il fenomeno.

Accuse di crimini

Nonostante la prossima entrata in vigore dell’«Accordo di stabilità e associazione» con l’Ue, primo ed importante passo sulla strada dell’integrazione, il Kosovo resta oggi il paese balcanico più lontano da una futura membership europea.

Al tempo stesso, però, dal febbraio 2008 il paese ospita Eulex (European Union Rule of Law Mission) – la più grande missione Ue all’estero – schierata da Bruxelles per aiutare Pristina a consolidare le proprie istituzioni, soprattutto nel campo giudiziario e nella lotta a criminalità organizzata e corruzione.

Forte di 1.600 membri e di un budget annuale intorno ai 110 milioni di euro, Eulex – attualmente guidata dal diplomatico italiano Gabriele Meucci – è partita con grandi aspettative, ma si è scontrata sul terreno con la resistenza di parte della società kosovara e con una capacità limitata di incidere nel cambiamento, soprattutto sull’obiettivo centrale delle sue attività: la lotta a corruzione e criminalità organizzata. Già nel 2012 un report della Corte dei conti europea metteva in risalto che l’attività di supporto di Eulex era stata generalmente inefficace, mentre la corruzione rimaneva «endemica» in Kosovo.

A intaccare ulteriormente la credibilità della missione, nel 2014 è poi arrivato un grave scandalo: Maria Bamieh, procuratore britannico, ha accusato pubblicamente Eulex di aver coperto un caso di corruzione giudiziaria al proprio interno. Le accuse hanno spinto Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue per gli affari esteri, a chiedere un rapporto sullo stato della missione, affidato a Jean-Paul Jacqué, professore di diritto francese.

Il rapporto, pur smentendo le accuse di corruzione, ha gettato però una certa luce sulle gravi carenze strutturali della missione, che è parsa incapace, o disinteressata, a combattere fino in fondo l’élite criminale che, in Kosovo, si sovrappone significativamente all’élite politica.

Nel frattempo, una nuova iniziativa europea ha fatto irruzione sullo scenario kosovaro, in risposta al rapporto prodotto nel 2010 per il Consiglio d’Europa dal senatore svizzero Dick Marty. In quel rapporto venivano accusati vari leader di spicco dell’Uçk, oggi leader politici, di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, soprattutto nei confronti delle comunità serba e rom. Secondo Marty, tra i crimini commessi c’è anche quello – infamante – dell’espianto di organi a prigionieri a fini di lucro.

Per indagare su accuse così pesanti, l’Ue ha creato una Special Investigative Task Force (Sitf), che nel 2014 ha confermato la fondatezza del «rapporto Marty». Ora le prove e le imputazioni raccolte dalla Sift aspettano di essere presentate di fronte a una «Corte speciale», che dovrebbe aprire i battenti entro il 2016.

Ufficialmente la Corte fa parte del sistema giudiziario kosovaro, ma avrà sede all’Aja, per proteggere i testimoni da pressioni e minacce, problema che ha minato molti dei processi a ex leader Uçk già tenuti dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, terminati in gran parte in contestate assoluzioni.

Tra i nomi dei possibili imputati, il più discusso è proprio quello del neo presidente Hashim Thaçi, citato più volte nel rapporto Marty come «esponente di spicco del mondo criminale kosovaro», ma anche numerosi leader, sia della compagine governativa che dell’opposizione.

Difficile prevedere l’impatto della Corte sulla vita politica del Kosovo: potenzialmente, il nuovo tribunale potrebbe però causare un vero terremoto a Pristina e dintorni.

Giovani con voglia di futuro

Nonostante la situazione socio-economica e politica, segnata più da ombre che da luci, tanti kosovari, soprattutto tra i giovani, non si rassegnano al presente e cercano con determinazione di costruire la propria strada verso il futuro. Un esempio importante è quello del gruppo di lavoro – cornordinato dal fondatore e amministratore delegato Mergim Cahani – di «Gijrafa.com», piattaforma e motore di ricerca tutto dedicato alle informazioni online in lingua albanese. Un progetto coltivato per anni e che, recentemente, ha attirato investimenti per oltre due milioni di dollari, cifra ragguardevole per il Kosovo.

Anche nel cinema le idee e le proposte non mancano. Nato nel 2002 per iniziativa di un gruppo di amici, il DokuFest di Prizren, città nel Kosovo Sud occidentale, è diventato negli anni uno dei punti di riferimento per il cinema documentario a livello sia europeo che internazionale e, nel 2014, ha registrato non meno di 18mila presenze. Più recentemente, nel 2015, è stata invece una produzione anglo kosovara a far parlare di sé: il cortometraggio Shok («Amico»), diretto dalla regista inglese Jamie Donoughue, ma con un cast tutto kosovaro che, dopo aver vinto numerosi riconoscimenti, è stato nominato agli Oscar 2015 nella categoria «film brevi».

Se c’è una storia che più di ogni altra rappresenta la voglia di farcela nonostante tutto, è però quella di Majlinda Kelmendi. Nata nel 1991 a Peja/Pe?, Majlinda si è imposta negli ultimi anni come uno dei talenti più puri del judo internazionale vincendo quasi tutto quello che si può vincere – campionato del mondo incluso – nonostante tutte le difficoltà dovute allo status incerto della federazione kosovara.

Ai giochi olimpici di Londra 2012 Majlinda ha dovuto partecipare con la squadra dell’Albania, visto che all’epoca il Kosovo non era stato ancora ammesso al Comitato olimpico internazionale. Oggi, però, dopo l’ingresso a pieno titolo del paese (2014), Majlinda può realizzare il suo sogno ed entrare nella storia: portabandiera designato, durante la cerimonia di apertura dei giochi di Rio de Janeiro di questa estate sarà la prima a far sventolare alle Olimpiadi i colori del Kosovo.

Francesco Martino

 




Guatemala misericordia e new media


Dopo gli anni dell’orrore e dei massacri, padre Rigoberto si impegna nel recupero della memoria storica. Per una pace effettiva. Aperto sul fronte della comunicazione, utilizza la radio e i social media. Fino a essere chiamato a capo del dipartimento di comunicazione delle conferenze episcopali latinoamericane.

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Ordinato 22 anni fa, padre Rigoberto Pérez Garrido, guatemalteco, ha lavorato a lungo nella diocesi del Quiché, nel Nord Ovest del suo paese. Una delle regioni più martoriate dal conflitto armato durato 36 anni (1960-’96). La guerra civile guatemalteca ha visto il confronto tra diversi governi militari e la guerriglia. È stata particolarmente sanguinosa per la popolazione civile, causando 200.000 morti e almeno 450.000 rifugiati in Messico.

Parroco di piccole comunità, come quella di Nebaj, padre Rigoberto si è integrato nella pastorale dei diritti umani, partecipando al progetto di Recupero della memoria storica cornordinato da monsignor Juan Gerardi.

«La diocesi del Quiché fu militarizzata, e soffrì tutti i problemi tipici di una guerra. Restò senza guida, perché il vescovo, monsignor Juan Gerardi dovette andare in esilio in Costarica, e pure diversi missionari dovettero partire a causa della repressione crudele che la Chiesa stava vivendo negli anni ’80. Le chiese parrocchiali e le cappelle furono chiuse o distrutte da squadristi e militari.

Nel 1987 fu nominato vescovo monsignor Julio Cabrera Valle. Questi iniziò un lavoro di recupero della Chiesa e lo fece a partire dalla ricostruzione umana e sociale delle comunità. Invitò esperti di pastorale, sacerdoti, religiose e religiosi da diversi paesi del mondo, che si integrarono nella missione. In questo modo fu possibile essere presenti, nei diversi luoghi della diocesi.

Durante il periodo più duro, era rimasto solo un sacerdote guatemalteco, originario del Quiché, che sopravvisse perché protetto dalle comunità. La guerra si intensificò, con costi sociali molto alti e pesanti limitazioni ai diritti umani della gente.

Il processo di costruzione della pace iniziò nel 1986 con il primo “governo civile”, e la creazione della Costituzione della Repubblica, che voleva superare la dittatura iniziata negli anni ’40».

E qui la Chiesa assunse un ruolo molto importante.

«La Chiesa fece mediazione tra le parti, per assistenza, appoggio al processo di pace, che stava nascendo. Monsignor Juan Gerardi toò nel paese. Era partito perché aveva subito tre attentati e le squadre della morte dello stato lo avevano sequestrato. Si inserì nella diocesi di Città del Guatemala e creò l’ufficio dei Diritti umani dell’arcivescovato. Lavorò con mons. Pròspero Penado del Barrio e fu parte della commissione di vescovi, con il cardinal Rodolfo Quezada Toruño, come delegati della Conferenza episcopale al processo di pace».

E arrivò la pace

Monsignor
Padre Rigoberto Pérez Garrido durante l’intervista con Paolo Moiola.

Quindi nello specifico si trattava di aiutare le vittime della guerra. Ma non solo.

«Fin dal 1994 si intensificò una pastorale di difesa dei diritti umani – prosegue padre Rigoberto -. Nel 1996 furono firmati gli accordi di pace. Monsignor Gerardi guidava questo settore in quanto era un conoscitore speciale, diretto, delle preoccupazioni di tutta la gente che aveva vissuto la repressione.

Il lavoro consisteva nell’accompagnamento di rifugiati, sfollati interni, ritornati, nel contatto con rifugiati all’estero, soprattutto in Centro America. Facendo tutto questo dal punto di vista dell’impegno della Chiesa per il Vangelo, come attività pastorale.

Alla fine del 1994 si propose che la Chiesa creasse la Commissione per il chiarimento storico, con mons. Gerardi alla testa, iniziò così il Progetto del recupero della memoria storica (Remhi, Recuperaciòn de la memoria històrica). Voleva essere uno studio, un’analisi, sulla situazione reale che il paese aveva vissuto per valutare quale potesse essere la via per la pace, e per aprire il cammino al processo di riconciliazione, che era necessario.

Dal ‘95 al ‘98, si aggiunse anche il lavoro della commissione ufficiale di chiarimento storico delle Nazioni unite che riprendeva il lavoro di quella di Gerardi. Il 24 aprile 1998 fu pubblicato il risultato della ricerca Guatemala nuca mas (Guatemala mai più). Cinque tomi su impatto, meccanismo dell’orrore, storia, nomi delle vittime. Furono il prodotto del lavoro realizzato da 700 animatori della riconciliazione, che raccolsero testimonianze e interviste. Monsignor Gerardi fu assassinato il 26 aprile, appena due giorni dopo».

Un sacrificio importante, che fa di questo vescovo un martire.

«Mons. Gerardi, alla presentazione del lavoro aveva detto: “Conoscere la verità fa male ma senza dubbio è un’azione salutare e liberatrice”. Lui conosceva i pericoli e i rischi, ma tutti ne vedevamo la necessità. I vescovi impegnati in questo lavoro continuarono a essere convinti che non era stato un cammino sbagliato, e neanche un sacrificio senza senso. Quel lavoro apriva un percorso per le nuove generazioni in Guatemala. Fu un lavoro profondamente evangelico.

Da lì continuammo con altri impegni, come il processo di recupero di resti dei morti durante la guerra. E ancora si incrociavano testimonianze arrivate da diversi luoghi del paese e dall’estero. Potemmo accedere agli archivi Usa. Si fecero anche altri studi, sulla militarizzazione, sui cimiteri clandestini. Fu una cosa che realizzai io con una squadra. I risultati furono impressionanti. Monsignor Cabrera disse che il Guatemala, e il Quiché in particolare, sono un unico enorme cimitero clandestino. Vivevamo su un territorio pieno di fosse comuni e resti di vittime del conflitto armato».

Nebaj, chiesa (© Francesca Rosa)
Nebaj, chiesa (© Francesca Rosa)

Un lavoro difficile ma necessario

«Creammo squadre tecniche di esumazione, per restituire i resti alle famiglie e favorire una riconciliazione che portasse a una pace reale. Era la richiesta della popolazione ed era l’aspetto centrale della nostra azione pastorale. Difficile da soddisfare, perché richiedeva strumenti tecnici e legali.

Le squadre erano composte da membri della società civile. Le prime esumazioni furono paradigmatiche perché mostrarono la dimensione delle violazioni dei diritti umani. Volontari giunti da Europa, Usa, Messico e Centro America, furono parte di queste équipe, insieme a gente indigena delle comunità. Io stesso andavo con loro scavando nelle fosse, recuperando i resti, le ossa. Ma avevamo molta paura di fare questo lavoro, perché si lavorava su braci ancora accese.

Infatti, nel 2002, a Nebaj, mi incendiarono la casa parrocchiale e, nello stesso periodo, monsignor Cabrera fu trasferito. Lui era quello che aveva sposato maggiormente la teologia indigena. Tutto questo ci indebolì. Ma cercammo di reagire in modo positivo. Realizzammo una marcia e una consultazione a livello delle comunità, per valutare se avevamo fatto male qualcosa e cambiare. La popolazione ci confermò il cammino che stavamo facendo».

Cotzal - memoriale (© JuanjoSagiPhoto)
Cotzal – memoriale (© JuanjoSagiPhoto)

La potenza della comunicazione

E da lì nacque in padre Rigoberto l’idea di utilizzare i mezzi di comunicazione per promuovere la pacificazione.

«Con l’appoggio di un gesuita esperto nei media realizzammo una prima radio comunitaria, allo scopo di parlare di riconciliazione, costruzione della pace, evangelizzazione e accompagnamento.

Iniziammo la ricostruzione della casa parrocchiale, che fu molto più grande, con uffici di servizio, e una biblioteca. E pure la costruzione di cappelle, che erano state bruciate durante la guerra per castigare le comunità cristiane e mettere in crisi la loro fede. Costruimmo circa 70 cappelle.

Nel 2008 il nuovo vescovo mi chiese di tornare a Santa Cruz (capoluogo del Quiché), in una piccola parrocchia, e mi incaricò della radio diocesana.

In seguito abbiamo creato la rete di radio cattoliche del Quiché, con l’idea dell’unificazione per avere più forza. Iniziai a dare un appoggio alla comunicazione a livello nazionale. Poi mi incaricarono dell’ufficio comunicazione sociale della Conferenza episcopale guatemalteca. Ero parroco a San Antonio Ilotenango. Cominciai a partecipare agli incontri centro americani sui media, dove insistevo sulla questione dell’integrazione o “comunione” delle piattaforme delle diverse conferenze episcopali, per avere direttrici chiare di comunicazione che aiutassero alla costruzione della vita, come aveva fatto monsignor Romero».

Così nell’estate del 2015 lo hanno chiamato come segretario esecutivo del dipartimento di comunicazione e stampa del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano), e si è trasferito a Bogotá.

«Il Celam è un organismo di comunione delle Chiese latinoamericane attraverso le conferenze episcopali. Ci occupiamo di comunicazione intea, divulgazione di quello che il Celam fa. Comunicazione istituzionale, ma anche su quello che la Chiesa vive in ogni paese, al servizio del popolo».

Nebaj-Acul (© Francesca Rosa)
Nebaj-Acul (© Francesca Rosa)

L’importanza dei new media

A livello di America Latina c’è una grande diffusione dei nuovi media. Le nuove tecnologie, gli smarthphone, i social network, sono entrati nell’uso comune della gente. Il loro ruolo si affianca a quello dei media tradizionali, come la radio, molto seguita in queste latitudini.

«Le nuove tecnologie facilitano molto, rendono un poco “pazza” la vita perché fanno aumentare il numero di cose da fare, però permettono di lavorare superando gli spazi.

Questi sono strumenti di comunicazione, ma l’importante è cosa e come le persone comunicano. Non si può dimenticare che è tutto un processo di sviluppo.

È importante che i media “tradizionali” abbiano uno spazio in quelli nuovi, come radio, tv e giornali sono presenti in internet.

Ci dobbiamo chiedere: come i media possono servire al mondo, alle società, ai paesi? Quale efficacia hanno nella costruzione o distruzione della vita? Per scatenare guerre o costruire la pace, per promuovere uno sviluppo degno o per rafforzare il sistema di disuguaglianza che produce sofferenza?

Quelli della comunicazione sono gli strumenti privilegiati con i quali possiamo costruire un mondo migliore, la società sognata da tutti noi che abbiamo un cuore umanitario.

Sulle nuove tecnologie, che rendono possibile la comunicazione immediata, dobbiamo contare e dobbiamo imparare a utilizzarle al meglio, nel tentativo di costruire i migliori contenuti, necessari per ogni ambito umano.

Per l’America Latina, questi media sono importanti. Producono un risveglio enorme. C’è una riflessione profonda che sta accompagnando lo sviluppo dei new media. Perché essi possono prendere direzioni che invece di aiutare, attaccano la vita. Per questo è importante analizzare il loro sviluppo e prendere coscienza che stiamo comunicando, ma anche come questi media devono intervenire in politica, società, economia. È una realtà da valutare costantemente.

Facebook e Twitter e altri social network sono potenti in America Latina. Si può dire che la rivoluzione tecnologica sta generando una democratizzazione dei media. Arrivano a un numero sempre maggiore di persone e inoltre generano una comunicazione a doppia via. Le reti sociali, danno spazio a ogni persona, che può uscire dall’anonimato. È evidente che i media non devono considerare la popolazione solo come consumatori, per questo parliamo di umanizzazione dei media».

Nebaj, cofradia (© Francesca Rosa)
Nebaj, cofradia (© Francesca Rosa)

L’attenzione del Papa

«I media possono creare comunione. La Chiesa cerca di andare al loro ritmo, affinché il Vangelo sia annunciato anche attraverso di essi.

Il messaggio per la giornata mondiale della comunicazione, intitolato quest’anno “Comunicazione e misericordia”, affronta un tema centrale e attuale rispetto alla situazione mondiale.

Il Papa parla dell’importanza dei media digitali, che si stanno sviluppando sempre di più, e ha invitato ad abitare la strada digitale, il mondo digitale, che è ormai un nuovo mondo di interrelazioni e comunicazione, anche molto complesso. Sono già milioni i bambini, giovani e adulti che sono costantemente connessi tra loro senza conoscersi, magari solo attraverso un’immagine. Sono nuove realtà, che ci sfidano. Dobbiamo entrare nelle questioni, tenendo conto del fatto che possono trasformarsi in incontri pericolosi, ma anche in spazi in cui il Vangelo può essere la notizia che ci umanizza, ci permette di relazionarci con i valori di comunione, frateità, solidarietà e dignità umana».

Anche in Guatemala, il mondo digitale è «abitato».

«Sì, sempre di più. Abbiamo molti vescovi che usano Facebook. Per ora in modo spontaneo e per fare esperienza. Inizialmente abbiamo paura di tutto quanto è nuovo, che ci costringe a relazionarci in una maniera distinta rispetto a prima. Pian piano però impariamo questo nuovo modo di vita.

In Guatemala i bambini e i giovani comunicano con questi mezzi.

A Nebaj, fino a pochi anni fa, non c’erano neppure i telefoni fissi: solo poche case lo avevano. Poi iniziarono i telefoni pubblici. I bambini che scendevano dai villaggi della montagna, non avevano mai vito un apparecchio, e quando scorgevano qualcuno parlare in un telefono pubblico ridevano, perché sembrava che parlasse con un pezzo di ferro. Poi apparirono i cellulari e le comunicazioni si moltiplicarono.

In seguito abbiamo aperto uno spazio internet, e da quel momento la comunicazione è diventata sorprendente. Per la gente questo spazio è stato importante. Ad esempio pensando alla questione delle migrazioni, esso ha ravvicinato coloro che sono andati a lavorare negli Usa con chi è rimasto. La gente piangeva quando, tramite Skype, facevamo vedere loro i parenti lontani. Tenendo conto che queste persone stanno via anni senza poter ritornare. Ecco come questi sistemi hanno una valenza umana».

Guatemalan new President Jimmy Morales (L) waves next to his wife Hilda Marroquin during his inauguration ceremony in Guatemala City, on January 14, 2016. Morales, a former TV comic elected Guatemala's new president on a wave of public revulsion against widespread graft, took office in a ceremony attended by leaders from the Americas. AFP PHOTO / Luis ECHEVERRIA / AFP / LUIS ECHEVERRIA
Guatemalan il nuovo presidente Jimmy Morales (L) con sua moglia Hilda Marroquin durante la cerimonia di inaugurazione in Guatemala City, il 14/01/2016. / AFP PHOTO / Luis ECHEVERRIA

Guatemala il presidente attore

Il Guatemala vive un periodo politico particolare. Il presidente Otto Perez Molina è stato arrestato con gravi accuse di frodi. E questo anche in seguito a grandi manifestazioni pacifiche dei movimenti sociali guatemaltechi.

Si sono poi tenute le elezioni a settembre 2015 e, a sorpresa, è stato eletto l’attore comico Jimmy Morales, che si è insediato il 14 gennaio scorso.

«A inizio 2015 ci si rese conto che il presidente e la sua vice erano a capo di una struttura, chiamata “la linea”, che frodava tra il 50 e il 60% delle entrate tributarie della nazione e lo ripartivano tra di loro, creando un forte impatto negativo sul paese. Grazie al valore del direttore della Commissione internazionale contro l’impunità (Cicig) dell’Onu e di un pubblico ministero colombiano si sono potuti smascherare.

Il processo fu appoggiato dalla cittadinanza, che iniziò a scendere in piazza, ad aprile, in modo pacifico e costante. Fino a ottenere un fatto unico nella storia del Guatemala, ovvero il cambio di queste figure e il processo giudiziario. Le manifestazioni sono state convocate dai giovani, attraverso le reti sociali e appoggiate dalle università, diversi settori civili e dalla Chiesa.

La cittadinanza che manifestava stabilì criteri chiari, e si applicarono meccanismi per assicurare manifestazioni pacifiche e attive, nel senso gandhiano, per non dare pretesti alla violenza e quindi alla repressione. C’era un servizio d’ordine di persone che giravano in bicicletta per vedere se tutto era a posto.

All’inizio la partecipazione fu timida, ma poi fu crescente. Fu utilizzata musica, arte, poesia, creatività.

Furono convocate le elezioni e la cittadinanza, cercava un cittadino retto, corretto e onesto, che occupasse temporaneamente la carica di presidente, affinché ci fosse tempo per costruire strutture politiche. Ma il rischio era rompere lo stato di diritto. La gente non sapeva chi eleggere e Jimmy Morales, attore senza alcuna esperienza nel settore, è il risultato di un contesto di delusione profonda della gente per la politica.

C’è una coscienza della popolazione, che è cresciuta, ha superato la paura e sta cercando nuovi percorsi per la ricostruzione del sistema nazionale. Ma c’è ancora molto da camminare».

Marco Bello

 

MC e il Guatemala:

gennaio 2013, Simona Rovelli;
maggio 2011, Paolo Moiola;
luglio 2009, Ermina Martini;
– marzo 2004, Paolo Moiola (un precedente incontro con padre Rigoberto).




Scivolando nel baratro

 

Neppure il tempo di riprendersi da una guerra civile durata 15 anni. Un presidente vuole ricandidarsi, a dispetto della Costituzione. Un popolo che non ci sta e chiede vera democrazia. La repressione è violenta. Intanto c’è chi si arma nella foresta.

«Aspetta, senti questi colpi?», stiamo parlando via computer con un giornalista di Bujumbura, capitale del Burundi, quando sento in cuffia diversi spari singoli, seguiti da almeno tre raffiche di mitra. «Stanno sparando vicino a casa mia», continua un po’ turbato, ma non troppo. Poi torna il silenzio e la conversazione riprende normalmente. «Ieri ho rischiato di cadere in un’imboscata. Ero in auto con mia moglie, di passaggio su una grossa arteria di Bujumbura. Alcuni poliziotti inseguivano dei motociclisti e volevano ucciderli. Altri poliziotti sono sopraggiunti e stavano per sparare verso i fuggiaschi, ma noi eravamo in mezzo. Poi si sono fermati perché i loro colleghi sarebbero stati sulla traiettoria. Sono scene che si vedono nei film!».

Il piccolo paese dell’Africa centrale, da nove mesi a questa parte, sta vivendo una crisi politica sempre più acuta e sta, di fatto, precipitando in una nuova guerra civile.

Le premesse

Dopo una guerra fratricida durata dal 1993 al 2003, con strascichi fino al 2008, gli accordi di Arusha (2000) e Pretoria (2003) misero le basi per una nuova Costituzione che ha portato alla coabitazione delle diverse forze in campo. Il paese ha vissuto quindi un decennio di relativa pace.

Con le prime elezioni del nuovo corso (2005) sale al potere Pierre Nkurunziza, ex comandante guerrigliero, ora capo politico del partito Cndd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della democrazia – Forze per la difesa della democrazia). Ma è alle elezioni successive, nel 2010, che il partito di Nkurunziza viene accusato di brogli elettorali (cfr. MC maggio 2011 e giugno 2013). Lui tira dritto e, mentre l’opposizione boicotta il secondo tuo, il suo partito prende la quasi totalità dei seggi in parlamento. Nkurunziza diventa presidente-padrone del paese, iniziando a imporre metodi da «partito unico». Restrizioni alla libertà di stampa, violenze verso i leader di opposizione e i giornalisti, uso della tortura tornano a essere all’ordine del giorno, così come le fughe all’estero dei perseguitati.

La nuova Costituzione prevede un limite di due mandati di cinque anni per il presidente della Repubblica. L’uomo forte di Bujumbura non vuole lasciare il potere e si inventa un cavillo per potersi ripresentare. Così il 25 aprile dello scorso anno presenta ufficialmente la sua candidatura. Immediata è la reazione della società civile e della gente comune che scende in piazza per manifestare il proprio dissenso.

Ma le manifestazioni erano state proibite, e subito si registrano scontri tra polizia e popolazione indifesa.

Nei giorni seguenti il governo impone il silenzio alle radio private, prima fra tutte la scomoda Radio pubblica africana (Rpa). Sono una decina le vittime dei primi giorni. La comunità internazionale si schiera all’unanimità contro la terza candidatura, ma non riesce a far desistere il presidente.

Tentato golpe ed elezioni farsa

Il 13 maggio, forti della pressione popolare che continua nelle strade e di una visita all’estero del presidente, un gruppo di generali tenta di rovesciarlo. Ma i fedelissimi di Nkurunziza riescono ad arginarli e ad arrestare diversi golpissti, mentre alcuni riescono a scappare.

Nel frattempo oltre 100.000 burundesi fuggono nei paesi confinanti: Tanzania, Repubblica Democratica del Congo e, soprattutto, Rwanda. Qui, appoggiati dal presidente rwandese Paul Kagame, alcuni esuli si organizzano e si armano.

Anche questa volta Nkurunziza va avanti, gestisce le elezioni di luglio, alle quali non partecipano gli osservatori inteazionali, e si conferma al potere. Ormai la stretta sugli oppositori politici e sui media indipendenti è totale. Inizia una vera e propria caccia all’uomo: chiunque si opponga, o si sia opposto, alla terza candidatura, diventa un potenziale «nemico della patria», a cominciare dagli stessi compagni di partito del presidente non allineati.

Verso la guerra civile

Il conflitto sale di livello l’11 dicembre scorso. I gruppi dell’opposizione armata, ormai presenti nel paese, escono allo scoperto, attaccando tre campi militari, due a Bujumbura e uno nell’interno. Il bilancio si salda con 12 morti tra gli assalitori, che riescono a recuperare armi dell’esercito regolare. Questa data sancisce la presenza della ribellione sulle colline intorno alla capitale Bujumbura. Si fanno chiamare Forze repubblicane del Burundi (Forebu) e Resistenza per uno stato di diritto in Burundi. A capo del Forebu sarebbe il generale Godefroid Niyombare, leader del tentato golpe di maggio.

Anche la repressione fa un salto di qualità. Nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 dicembre la polizia rastrella i quartieri cosiddetti «contestatari» dove si annidano gli oppositori. La mattina sono oltre 150 i cadaveri di giovani trovati lungo le strade della città, che ben presto le autorità fanno scomparire.

«L’opposizione armata si è ormai dichiarata. Sono ben equipaggiati, hanno preso anche materiale radio dai depositi dell’esercito, e sono sulle colline intorno a Bujumbura», ci racconta un cornoperante straniero che chiede l’anonimato. «Ogni tanto fanno delle incursioni in città. L’altro giorno hanno assaltato la casa del presidente del Parlamento, nel quartiere Mutanga Nord». E continua: «L’esercito è diviso. Non tutti sono d’accordo con il potere. Ci sono disertori che raggiungono la ribellione. Chi resta non si esprime contro, altrimenti lo fanno secco».

Il lavoro di rastrellamento nei quartieri lo fa la polizia. Avviene ormai ogni notte. «Ai posti di blocco o a fare le perquisizioni sono sempre gli stessi poliziotti, perché molti si rifiutano. Inoltre ci sono diversi rwandesi tra loro, mercenari. Hanno le stesse divise, ma si capisce la loro provenienza perché parlano kinyarwanda e non kirundi (due lingue molto simili, parlate nei due paesi, ma con evidenti differenze, ndr)». Si tratta dei famigerati interamwe, gli hutu rwandesi che vivono nel confinante Congo Rd dai tempi del genocidio in Rwanda (1994), in costante guerra con il regime di Kagame.

«Questo spiega perché i quartieri a maggioranza tutsi, come Nyakabiga, sono maggiormente presi di mira», ci dice il nostro interlocutore. Intanto, a fine gennaio Amnesty Inteational mostra le prove di fosse comuni.

Conflitto etnico?

La questione etnica, che sembrava risolta grazie agli accordi di Arusha, rischia di riaffiorare.

Il giornalista burundese, raggiunto via computer, ci spiega: «C’è una piccola dose di etnicismo, ma in realtà è piuttosto un problema politico. Ovvero tutti quelli che sono contro il terzo mandato sono messi nello stesso gruppo e sono da eliminare, che siano essi hutu o tutsi. Però se vivi in un quartiere come Musaga, Nyakabiga, Jabe, a maggioranza tutsi, è più facile che, una volta arrestato, tu sia ucciso».

E continua: «La polizia cerca oppositori nei quartieri, tutti i giorni e le notti. E se sei un giovane tra i 15 e i 20 anni vieni subito arrestato». I giovani fermati sono picchiati e drogati, alcuni finiscono in carcere, altri vengono rilasciati.

«Un giovane che conosco, di 15 anni, si trovava in centro per caso, e durante un rastrellamento lo hanno preso. Dopo averlo picchiato e imbottito di pasticche lo hanno liberato. Ora è a casa in stato di choc», ci racconta il cornoperante. «Qualche giorno fa hanno arrestato 104 ragazzi nel quartiere di Mutakura. Alcuni li rilasceranno, altri li terranno in prigione. Ci sono 26.000 prigionieri nelle carceri».

Continua il giornalista: «Oltre alla polizia, i miliziani imbonerakure sono molto attivi. Si tratta della lega dei giovani del partito al potere. Sono potenti e pattugliano i quartieri soprattutto la notte. In un grosso quartiere, Ciarama, a Nord della capitale, ogni famiglia deve pagare loro 1.000 franchi (60 centesimi, nda) per assicurare la sicurezza dell’area. È un quartiere nuovo, ci sono molti militari e dignitari e vogliono mantenere questa milizia». Gli imbonerakure sono una vera e propria milizia al servizio del potere, utilizzata per i lavori più sporchi e agiscono nella totale impunità.

Verso il collasso

Il presidente vive ormai nascosto: «Nkurunziza non risiede quasi mai in capitale, ma resta nella sua città natale, Ngozi, nel Nord del paese», conferma il giornalista.

Rincara il cornoperante: «Non può neanche fidarsi dei propri compagni di partito. I soldi sono finiti e avrà difficoltà a pagare la polizia, i funzionari, i ministri e il loro entourage. Per ora cerca di recuperare soldi dalle Organizzazioni inteazionali, obbligandole ad aprire conti in valuta alla Banca della Repubblica del Burundi. Il resto lo farà la corruzione. Inoltre, alle Ong inteazionali arrivano insolite ingiunzioni di pagamento di tasse non giustificate».

I finanziatori, per prima l’Unione europea, hanno congelato i fondi, mentre gli investitori hanno rallentato. L’economia è bloccata: «I prezzi degli alimenti sono raddoppiati in città, perché i contadini non si arrischiano a venirli a vendere. Nelle campagne si sopravvive con l’agricoltura di sussistenza, ma in capitale diventa difficile e comunque dispendioso, procurarsi da mangiare», continua il cornoperante.

Dialogo, tra sordi

Dei tentativi di «dialogo» si svolgono il 28 dicembre 2015 a Kampala, in Uganda. Qui si incontrano governo burundese, opposizione e società civile. Questo incontro fa seguito a quello tenuto poco prima delle elezioni e fallito perché abbandonato dai rappresentanti dell’esecutivo.

Il governo burundese rifiuta di riconoscere, e quindi dialogare, con il Consiglio nazionale per il rispetto dell’accordo di Arusha e il ritorno dello stato di diritti in Burundi (Cnared). Si tratta di una piattaforma composta da ex compagni di partito del presidente, oppositori e società civile che chiede al presidente di farsi da parte. Ci racconta il giornalista burundese: «Nel dialogo a Kampala, il governo ha detto che non può sedersi con il Cnared. Alla testa della piattaforma, nella quale si incontrano tutti gli oppositori in esilio, c’è Léonard Nyangoma, anche lui ex ribelle. Tutti i vecchi del Cndd che si sono opposti al terzo mandato. Il governo non vuole parlare con loro. La situazione si complica. La mediazione del presidente ugandese Museveni non è abbastanza forte». Il governo accusa i membri del Cnared di aver partecipato al tentato golpe del maggio 2015. Così la data successiva prevista dalla mediazione per il dialogo, il 6 gennaio, salta.

Intanto il Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione africana (Ua) vorrebbe mandare una missione multinazionale di interposizione per bloccare l’escalation di violenze, ma il governo di Nkurunziza non ne vuole sapere e la vede come una «forza d’invasione straniera».

«Sì, l’Ua vuole inviare delle truppe, ma il governo le ha rifiutate. L’ultima parola è all’Ua, ma per intervenire in un paese membro sono necessari i due terzi dei voti favorevoli dell’assemblea. Io non penso che si potranno avere, perché la maggior parte dei presidenti sono dei dittatori, e sono al potere da decine di anni. C’è Kagame che ha ufficializzato il suo terzo mandato (potrà governare fino al 2034, nda), Museveni ha più di 20 anni al potere, Mugabe è il più vecchio».

Così pure l’iniziativa dell’Ua, decisa il 18 dicembre, rimane senza seguito.

Tre scenari per il futuro

Anche l’Onu vuole evitare il peggio e potrebbe finanziare la missione dell’Ua. L’operazione più veloce sarebbe spostare in Burundi parte dei caschi blu della Minusco, presenti nel vicino Congo.

Un rapporto confidenziale per il Consiglio di sicurezza dell’Onu, realizzato da Hervé Ladsous, capo delle operazioni per il mantenimento della pace in Burundi, diventato pubblico a inizio gennaio, ha ipotizzato tre possibili scenari futuri. Primo: la situazione resta stabile, con gravi ripetute violazioni dei diritti umani. In questo caso occorre favorire una missione dell’Ua. Secondo: la violenza sale di livello, in seguito a una scissione nell’esercito o a un assassinio politico. La guerra diventa aperta tra fazioni e si diffonde in tutto il paese. Non ci sono negoziati politici. Il rischio umanitario interessa due milioni di persone. Terzo: le violenze divampano e assumono una connotazione etnica, con incitazione a crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio.

Il memorandum ipotizza l’invio di una missione di caschi blu, possibile solo con risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Fatto più allarmante, secondo l’autore del testo: «L’Onu non sarebbe attualmente in grado di proteggere la popolazione burundese senza un aiuto degli stati membri». Un primo effetto del rapporto è la missione del consiglio di sicurezza nel paese il 20 gennaio.

Il consigliere per la comunicazione della presidenza del Burundi, Willy Nyamitwe, reagisce immediatamente con un tweet: «Il rapporto mente». Anche il cornoperante ci confida la sua visione: «Può essere un periodo che durerà. Può instaurarsi una guerra civile. Sono andati troppo oltre. A livello internazionale gli interventi economici per mettere in difficoltà il governo sono stati fatti. Ma questi sono ex guerriglieri, abituati a stare in foresta, a vivere con poco, ad ammazzare. Quindi resisteranno fino alla fine».

Marco Bello

 




Boom economico, diritti in crisi


Il secondo paese d’Africa per abitanti vive una crescita economica tra le più alte al mondo. Ma il livello di vita nelle campagne resta molto basso. Le elezioni di maggio hanno confermato il partito al potere. E sui diritti la strada da percorrere resta lunga.

Arba Minch. Sono le quattro e trenta del mattino. Improvvisamente una voce irrompe nel silenzio totale. È un suono amplificato, un uomo canta una nenia, forse una preghiera. Difficile stabilire se si tratta di una lingua o di un semplice suono vocale.

È ancora buio quando il sacerdote ortodosso della chiesa St. Gabriel porta il microfono alla bocca e inizia la sua cantilena. Non smetterà, se non per piccole pause, fino alle tre del pomeriggio. Sono preghiere nell’antica lingua geez, che per l’amharico, lingua nazionale, corrisponde a quello che è il latino per l’italiano. È la festa di Yefilseta Tsom (il digiuno di Maria), dedicata alla Madonna. Dura sedici giorni ad agosto, durante i quali i fedeli sono chiamati a pregare al mattino presto e a digiunare fino al pomeriggio.

Siamo ad Arba Minch, a 450 km a Sud di Addis Abeba. Città di circa 110.000 abitanti e un elevato tasso di crescita di 4,5% annuo, che, a prima vista, sembra non avere nulla di speciale. Si divide in città bassa Sikela e città alta Shecha. Qui i quartieri si inerpicano sulla montagna. All’improvviso però la salita finisce e ci si ritrova su una rara balconata naturale che offre uno spettacolo splendido. La foresta tropicale ai propri piedi, di fronte la montagna chiamata Ponte di Dio che divide il lago Chamo dal lago Abaya, distesa d’acqua di 1162 km quadrati (oltre tre volte il lago di Garda), dalla quale spuntano isolette coperte di vegetazione. La città si adagia su questa falesia, ai piedi della quale l’acqua filtrata dalla montagna origina decine di sorgenti. Da qui il nome, Arba Minch, che in amharico significa «quaranta sorgenti».

Siamo nel bel mezzo della famosa  Rift Valley, la larga «vallata» che si estende dalla Siria al Mozambico, e segna la separazione naturale tra la placca africana e quella araba. In particolare, in Etiopia, separa l’altopiano etiopico da quello somalo.

Un paese «emergente»

In Etiopia vivono circa 96,5 milioni di persone di 80 etnie (cfr. MC aprile 2011), il che lo rende il secondo stato più popoloso dell’Africa, dopo la Nigeria. È anche una delle economie di punta del continente (e del mondo) con un Pil in crescita media del 10% negli ultimi 10 anni. Ha però la contraddizione di avere uno dei Pil pro capite più bassi (tra gli ultimi nove, poco superiore a Congo Rd e Niger)1. È in atto un vero boom economico, legato in gran parte a uno sviluppo di tipo infrastrutturale: costruzione di case, palazzi, strade e ferrovie (la prima metropolitana leggera in Africa sub sahariana è quasi pronta ad Addis Abeba). Mentre nelle campagne, così come nelle remote zone di montagna, e nelle aree desertiche la povertà è ancora da sconfiggere e l’accesso ai servizi (sanità, educazione, acqua) è tutt’altro che garantito.

L’Etiopia vive ancora una dipendenza strutturale dagli aiuti estei. Si valuta che siano in media tre i miliardi di dollari che entrano ogni anno nel paese come aiuto allo sviluppo2.

Ad Arba Minch il panorama urbanistico è in rapida evoluzione. Vediamo diversi cantieri, alcuni molto appariscenti: un grosso ospedale, un impressionante centro congressi, diverse infrastrutture dell’università (la Arba Minch University è nota in tutto il paese e conta oltre 20.000 studenti universitari) e perfino una chiesa ortodossa. Tutti edifici che spiccano per le loro imponenti dimensioni.

Anche la capitale Addis Abeba vive un’esplosione urbanistica senza precedenti. Oltre ai grossi edifici pubblici, orribili condomini prendono il posto delle baracche dei quartieri poveri.

Notevoli sono anche le dighe in costruzione: da quelle sul fiume Omo (la Gilgel Gibe III e pianificate le IV e V), molto criticate a livello internazionale per il loro impatto ambientale, alla Grande diga etiopica della Rinascita. Questa è un colosso sul Nilo Azzurro che, con la centrale idroelettrica collegata, è previsto produrrà 6.000 Mw di elettricità, la maggiore di tutta l’Africa. Il costo è di oltre 4 miliardi di dollari e la realizzazione è affidata all’italiana Salini-Impregilo Spa.

In Etiopia anche il turismo è in espansione. Grazie alla sua storia millenaria, il paese offre importanti siti storici, culturali e religiosi ma anche naturalistici ed etnografici: città antichissime come Lalibela e Axum (Aksum), parchi naturali e popoli speciali. I visitatori sono passati da 460mila nel 2010 a 681mila nel 2013. Non a caso, anche grazie alla diplomazia, il Consiglio europeo per il turismo e il commercio3 ha scelto proprio l’Etiopia come «migliore destinazione turistica mondiale 2015».

Alteanza senza alternativa

La coalizione di partiti al potere, il Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico (Eprdf, sigla inglese), si è confermato egemone alle elezioni del 24 maggio scorso. Costituita intorno dal Fronte di liberazione del popolo del Tigray, i guerriglieri che nel 1991 rovesciarono il regime militare di Meghistu Hailé Mariam (1974-91), è al potere da allora. Importante è stata la figura del carismatico primo ministro Meles Zenawi, morto di malattia nel 2012, e intorno al quale il regime ha sviluppato un vero culto della personalità. Tanto che a tre anni di distanza è ancora celebrata la data della sua scomparsa, gli sono consacrati passaggi televisivi foto che lo ritraggono restano appese in negozi e uffici.

Per sostituirlo, il partito (ma era stato lui a sceglierlo) ha designato Hailemariam Desalegn. Di etnia wolayta del Sud, si distingue dai tigrini, gruppo di Meles, che controllano il potere, e per questo, figura più defilata, ma anche di equilibrio tra i diversi popoli.

Se nel precedente parlamento, solo uno dei 546 seggi era andato all’opposizione, l’assemblea uscita dalle ue quest’anno è monocolore. Anche i parlamenti regionali vedono solo 21 membri dell’opposizione su un totale di 1987 eletti.

Gli osservatori dell’Unione Africana (Ua, che ha sede ad Addis Abeba) hanno qualificato le consultazioni come «calme, pacifiche e credibili», che «hanno dato la possibilità al popolo di esprimersi». Da notare che gli osservatori dell’Unione europea e del Carter Centre non sono stati invitati, mentre quelli della Ua erano 59 su una popolazione di elettori di oltre 30 milioni.

Taye Negussie, professore di sociologia all’Università di Addis Abeba ha commentato: «Questo risultato era totalmente atteso, non c’è multipartitismo in Etiopia».

«L’Eprdf vede le elezioni come un’opportunità per coinvolgere la popolazione in un atto di partecipazione politica, sebbene non competitiva» scrive Jason Mosley, analista dell’istituto indipendente di studi strategici Chataham House di Londra4.

L’opposizione è frammentata e molti leader sono in esilio volontario perché temono ritorsioni.

I principali partiti sono il Forum etiopico unito federale democratico, che non è riuscito a creare una piattaforma, Il partito blu (Semawayi) a maggioranza islamica e Unità per democrazia e giustizia. In effetti molti oppositori politici sono stati perseguitati e arbitrariamente arrestati, mentre la tortura è ancora molto utilizzata, come denunciano Human Rights Watch e Amnesty Inteational5.

Media sotto controllo

La situazione della stampa è anche peggiore. Il regime controlla tutto l’apparato mediatico, internet e l’unica compagnia telefonica ed è diventato particolarmente repressivo da inizio 2014, molto probabilmente in vista delle elezioni di maggio. Pochi sono i giornali indipendenti e hanno vita dura. Solo nel 2014 sono state sei le testate indipendenti fatte chiudere e 30 i giornalisti che hanno lasciato il paese per paura. Nell’aprile 2014 sono stati arrestati nove blogger del collettivo Free Zone 9 e altri tre giornalisti. Il potere utilizza la dura legge anti terrorismo varata nel 2009, accusando media privati e operatori dell’informazione di essere in connivenza con i terroristi.

Una settimana prima dell’arrivo di Barak Obama il 27 luglio (prima visita di sempre di un presidente Usa in carica nel paese) per la Conferenza internazionale finanza e sviluppo, due blogger e quattro giornalisti tra i quali il noto Reeyot Alemu sono stati liberati. Come per dare un contentino agli Usa, che avevano criticato ufficialmente la detenzione degli operatori dell’informazione.

Alemu critica Obama per aver detto, nel suo discorso, che il governo etiopico è stato democraticamente eletto: «Non è eletto democraticamente, perché c’erano solo media governativi e la gente non ha potuto avere abbastanza informazione. […] Hanno anche arrestato molti leader dell’opposizione e giornalisti. Hanno vinto le elezioni usando violazioni dei diritti umani».

Quello che osserviamo è una presenza forte dello stato in tutti i settori della società. I funzionari pubblici e gli eletti ai vari livelli, sono tenuti d’occhio e al minimo problema vengono trasferiti. L’effetto positivo è sicuramente una riduzione della corruzione, molto al di sotto di quanto si trova in altri paesi del continente. Anche la criminalità è mantenuta a livelli bassi, e si circola tranquillamente nelle grandi città dove la sicurezza personale non sembra in pericolo.

«La società civile è debole e comunque ha poco margine di manovra», ci confida un operatore umanitario.

Più che associazioni, qui ci sono le cornoperative create dallo stato allo scopo di migliorare la produzione, ad esempio le cornoperative agricole.

«Le organizzazioni internazionali – ci confida – non possono dire che si occupano di diritti umani. Qui è un argomento tabù».

Guardiano per il Corno

L’Etiopia è il paese chiave per la geopolitica del Corno d’Africa, perché funge da stabilizzatore, tra la Somalia degli al Shabaab (che intervengono anche in Kenya) e l’Eritrea del dittatore Isaias Afewerki, da cui la popolazione cerca di fuggire con ogni mezzo. È inoltre un paese a prevalenza cristiana (seppur ortodossa) che si contrappone alle islamiche Somalia e Gibuti e, in parte anche Eritrea, influenzate dalla vicina penisola arabica. Gli Usa e l’Europa vogliono quindi mantenere buone relazioni con il governo etiope e scommettono sulla sua stabilità.

Proprio ad Arba Minch la prima cosa che si vede appena atterrati al piccolo aeroporto è un hangar protetto e con doppia recinzione di filo spinato e blocchi di cemento. Talvolta, da una porta esce un militare bianco, in divisa mimetica. Nel recinto alcune grosse antenne paraboliche in colore sabbia. È la base Usa dei droni, velivoli telecomandati da combattimento. Partono da qui, pilotati dall’altro capo del mondo, per andare a bombardare gli al Shabaab in tutta l’area del Coo. Il contingente Usa, alcune decine di persone, è alloggiato al Paradise Lodge, uno dei migliori alberghi della città, sulla falesia. Hanno una zona tutta per loro, lontana da occhi indiscreti e protetta da guardie locali.

L’Etiopia è anche terreno di concorrenza tra gli occidentali e la Cina. Questa, oltre a essere il modello economico del governo etiopico, sta attuando da oltre un decennio cospicui investimenti nel paese.

Ad Addis Abeba si vedono numerosi cantieri finanziati da banche cinesi e realizzati da imprese cinesi. Come l’estensione dell’aeroporto della capitale o la nuova sede dell’Unione Africana, dono del governo cinese a quello etiope. Molte strade del paese sono state rifatte dai cinesi, altre sono in corso d’opera.

Le chiese

La chiesa cattolica di rito latino è un’esigua minoranza. Lo 0,7% secondo un censimento del 2008, mentre gli ortodossi sono il 45% e i protestanti il 17%. C’è poi circa il 35% di musulmani.

«Le relazioni tra le chiese ortodossa e cattolica a livello ufficiale sono buone» ci racconta fratel Domenico Brusa, missionario della Consolata, in Etiopia da 30 anni, che raggiungiamo telefonicamente. «A livello di sacerdoti pure, anche se una parte del clero è più conservatore. E anche tra la popolazione».

«La diversità di rito talvolta è problematica. Nel rito ortodosso ci sono oltre 100 giorni di digiuno all’anno. E lo deve fare tutto il popolo. In una società sempre più veloce diventa difficile da rispettare. Il rito orientale è bello, dialogato, partecipato, ma più adatto a una società senza orari». Fratel Domenico ha potuto assistere a grandi cambiamenti sociali: «Il paese sta cambiando rapidamente, anche perché prima era fermo. Oltre alle costruzioni, anche in campagna si diffondono le macchine e la coltivazione in serra. Grandi terreni vengono venduti (si riferisce al land grabbing, si veda MC maggio 2015, ndr). Anche la popolazione cambia». Per cui, ricorda fratel Domenico: «Il consumismo si espande e i giovani si orientano diversamente».

E suggerisce: «Occorre dare più contenuto, altrimenti c’è il rischio che il rito resti un contenitore vuoto». Fratel Domenico, dopo aver girato tutte le missioni della Consolata del paese, lavora attualmente in quella di Gambo, dove è responsabile della fattoria che alimenta l’ospedale gestito dai missionari.

Lasciamo la città delle quaranta sorgenti. Prendiamo l’aereo, un turbo elica Bombardier Q400 che ci riporterà ad Addis Abeba. Godiamo ancora del caldo e della gentilezza degli etiopi di questa regione. In capitale è stagione delle piogge e, complice l’altitudine (2.400 metri) le temperature sono più rigide. Una militare donna, statunitense, uscita dalla base dei droni Usa, controlla scrupolosamente, a vista, le valigie dei viaggiatori.

Marco Bello

Note:

(1) Banca Mondiale, www.worldbank.org.
(2) Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo www.oecd.org.
(3) L’Éthiopie élue «meilleure destination au monde» par les professionnels du tourisme, Sabrina Myre, Jeune Afrique, 9 luglio 2015.
(4) Ethiopia’s elections are just an exercise in controlled political participation, Jason Mosley, The Guardian, 22 maggio 2015.
(5) Rapporti di Human Rights Watch e Amnesty Inteational, 2015.

Nell’archivio MC: Chiara Giovetti, La missione nell’Etiopia di ieri e di oggi, agosto-setembre 2013 e Etiopia, Gambo: agricoltura e sanità, novembre 2011. A. Vascon e N. Di Paolo, Caleidoscopio africano, aprile 2011.

Marco Bello




El Salvador: L’avvocata deve morire


Il 14 marzo del 1983, tre anni dopo l’uccisione di monsignor Romero, viene
assassinata Marianella García Villas, avvocata e presidente della Commissione per i diritti umani. Aveva 34 anni. Un’associazione italiana si è recata in Salvador in cerca della sua tomba.

Tra le migliaia di martiri e vittime della repressione, in El Salvador la figura di Marianella García Villas, assassinata il 14 marzo 1983, è ben nota tra coloro che hanno partecipato alla lotta contro la dittatura militare tra il 1980 e il 1992. Marianella venne diverse volte in Italia a chiedere solidarietà per il proprio popolo. E un mese dopo la sua morte fu ricordata a Roma in Campidoglio alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini e della presidente della Camera Nilde Jotti.

Tuttavia su di lei non vi è, nel piccolo paese centroamericano, alcuna pubblicazione significativa, se non qualche testo in libri o riviste. Marianella non era una leader politica o una esponente sindacale o religiosa. Era una giovane donna che già da studentessa universitaria aveva capito da che parte stare: accanto al proprio popolo oppresso da una feroce dittatura militare.

E poi nessuno sapeva dove fosse la sua tomba. Solamente nello scorso mese di agosto, grazie all’interessamento e alla cocciutaggine di Enza D’Agosto, presidente dell’associazione «Marianella García Villas» di Sommariva del Bosco (Cuneo), una realtà da dieci anni impegnata in progetti di solidarietà con El Salvador, la tomba è stata ritrovata: si trova nel Cementerio de los illustres a San Salvador. Questo è il diario del viaggio verso la sua tomba.

Al cimitero di San Salvador

Venerdì 14 agosto assieme a Enza mi avvio verso il Cementerio de los illustres a San Salvador. Siamo accompagnati da Mia Perla, già magistrato della Corte suprema di Giustizia e vedova di Herbert Sanabria, cornordinatore della Commissione diritti umani (la stessa di cui fu presidente Marianella), assassinato dai militari il 26 ottobre 1987; da Guadalupe Mejía, responsabile del Codefam «Marianella García Villas», una realtà che si interessa di memoria storica (in particolare di vittime della violenza), e vedova di Justo Mejía, torturato e assassinato dai militari; da Miriam Medrano, autrice di un volume su Lil Milagro, una cara amica di Marianella che però, a differenza sua, scelse la strada della lotta armata contro la dittatura, pagando con la vita; e da un avvocato che conobbe Marianella. La tomba è nel settore delle vittime illustri, in una cappella che sopra l’ingresso riporta la scritta «Beneficencia Spagnola». La cappella era chiusa a chiave ed è stato necessario rivolgersi, i giorni precedenti, all’Ambasciata spagnola e al Centro spagnolo perché ci venissero ad aprire. Il custode del cimitero, incaricato dal 1990, ci conferma che in tutti questi anni mai nessuno ha chiesto di vedere la tomba di Marianella. Si scende nella cappella e a destra, in fondo, quella di Marianella è la tomba più in alto. Sulla lapide è scritto:

Marianella García Villas / 14 marzo 1983 / Recuerdo de su familia / En Dios cuya promesa ensalzo./ En Dios confio no temere. ¿Que puede hacerme el hombre? (Salmo 55, 11-12).

Marianella fu sepolta lì perché il padre era spagnolo. Si tratta di una cappella chiusa da una porta in ferro e anche da una più ampia cancellata con l’ingresso sempre chiuso a chiave. Per tutti, in particolare per gli amici salvadoregni che ci accompagnano e che hanno conosciuto Marianella, è una grandissima emozione.

La tomba dimenticata

Al funerale di Marianella, nel marzo 1983, parteciparono solamente tre familiari e alcuni giornalisti, tra cui una giovane Lucia Annunziata (nota giornalista italiana, ndr): il clima di terrore instaurato dai militari impedì la partecipazione degli altri familiari e di quanti condividevano con Marianella la lotta per i diritti umani e la pace. Poi i familiari più stretti ripararono all’estero e non fecero più ritorno nel paese poiché nel mirino dei militari. Oggi fuori dal Salvador vi sono probabilmente ancora fratelli o sorelle di Marianella, ma ogni ricerca è stata finora vana. Con il passare del tempo ci si dimenticò di Marianella e nel clima di terrore creato dal regime nessuno si mise a fare domande in merito al luogo in cui era stata seppellita.

Dopo l’omaggio alla tomba di Marianella, su cui abbiamo posto un fiore, Mia Perla ci porta a visitare la tomba di suo marito, Herbert Sanabria, in un altro settore dello stesso cimitero. Sulla tomba sono scritte queste parole:

La agonia de non trabajar por la justicia / es mas fuerte que la posibilidad cierta de mi muerte, esta ultima no es mas que un istante, / lo otro constituye la totalidad de mi vida.

Poco distante troviamo anche la tomba monumentale del maggiore Roberto D’Aubuisson, il mandante dell’assassinio di mons. Romero, uno dei capi degli squadroni della morte, poi tra i fondatori del partito politico di estrema destra «Arena», ancora oggi secondo partito in Salvador. Sulla tomba di D’Aubuisson è scritto: Roberto D’Aubuisson Arrieta / Presente por la patria.

Mai nessun processo venne fatto a D’Aubuisson, che morì nel proprio letto ed ebbe funerali cattolici, dopo essere stato anche presidente de l’Asamblea legislativa (il Parlamento).

A Bermuda, il villaggio del massacro

Con un taxi de confianza (di fiducia) raggiungiamo la parrocchia di Asunción, a Paleca, poco distante da San Salvador. Da qui con suor Ave, e con Nelson, un parrocchiano gentilissimo che ci fa da autista, partiamo in direzione Aguilares, il paese di cui fu parroco il gesuita padre Rutilio Grande, assassinato il 12 marzo 1977 assieme a un ragazzo e a un contadino che lo stavano accompagnando in un paese vicino per celebrare la messa. L’assassinio di Rutilio fu l’elemento che spinse mons. Romero a interrogarsi a fondo su ciò che stava avvenendo nel suo paese. Da quel momento in poi mons. Romero divenne la voce del suo popolo.

Da San Salvador a Aguilares sono quasi 50 km, su strada comoda a tre corsie, senza il traffico incredibile della capitale. Superato Aguilares, dove la piazza centrale davanti all’alcaldía (municipio) è dedicata a padre Rutilio e dove si vedono diversi murales con le figure del gesuita e di mons. Romero, ci dirigiamo verso Al Paisnal, paese di nascita di padre Rutilio. Sulla strada ci fermiamo nel punto in cui una cappella ricorda il luogo dove fu assassinato padre Rutilio con i suoi due accompagnatori: il sedicenne Nelson Lesmus e il campesino Manuel Solorzano. È un momento di grande commozione per tutti. Ad Al Paisnal, un piccolo ma ordinato paese, un grande murales raffigura Rutilio e mons. Romero e davanti al murale anche due statue che li rappresentano. Per le strade del paese e davanti all’alcaldía numerosi manifesti ricordano il 98° anniversario della nascita di mons. Romero e quello di padre Rutilio. Nella piccola chiesa, immagini dei due martiri. E, soprattutto, ai piedi dell’altare le tre tombe, di Rutilio Grande, Manuel Solorzano, Nelson Lesmus. Un animatore della parrocchia, nel presentarci il tutto, ci esprime il grande desiderio che, se padre Rutilio verrà beatificato (è ufficialmente iniziato il processo), la cerimonia avvenga qui, a Al Paisnal.

Non siamo lontani dal luogo in cui Marianella è stata arrestata il 13 marzo 1983, per cui ci siamo diretti verso il paese di Suchitoto (Dipartimento di Cuscatlán), ricco di esempi di architettura coloniale, una meta turistica in El Salvador. Qui chiediamo della località La Bermuda e, con non poche difficoltà, troviamo la strada: non più a tre corsie, la strada a un certo punto si addentra nella boscaglia diventando sterrata. Chiedendo indicazioni a quanti incontriamo, arriviamo a una semplice casa (per noi sarebbe una baracca), con un cartello davanti su cui a stento si legge «Hacienda Bermuda». La signora che vi abita, con nostra grande sorpresa, ci racconta tutto del massacro. Poi ci accompagna in visita al lugar de mártires (luogo di martiri). Solo un pannello ricorda che lì avvenne un massacro: Antiqua hacienda La Bermuda./ Tierra de lucha y de esperanza.

Il testo racconta che, a La Bermuda, il 13 marzo 1983 fu catturata Marianella García Villas. Fu trasportata in una scuola militare a San Salvador, brutalmente torturata e infine assassinata il giorno successivo, 14 marzo. Nell’operazione militare che portò alla cattura di Marianella furono uccisi una ventina di campesinos. La signora che abita lì vicino e ci fa da guida, ci indica nella boscaglia il luogo in cui avvenne l’assalto dei militari e dove sono ancora sepolti, in una sorta di fossa comune, i campesinos assassinati. Nessun segno a ricordare il fatto. La signora ci dice che lei e altri da tempo stanno chiedendo che i corpi siano riesumati e sepolti con dignità e che sia posto qualcosa di più significativo a memoria del massacro. Tutti gli anni, il 14 marzo, varie persone si riuniscono in questo luogo a commemorare Marianella e gli altri caduti.

La Comunità «Marianella García Villas»

Proseguiamo sulla strada sterrata nel bosco, ricco di cafetales (piante di caffè), alla ricerca di una comunità che ci dicono essere poco più avanti. Dopo poche centinaia di metri troviamo uno spiazzo e una semplice chiesetta. Siamo arrivati nella comunità che porta il nome di Marianella García Villas. Su un muro che dà sulla piazzetta un grande murale raffigura Marianella e una targa ricorda il suo sacrificio.

Nella chiesetta si sta preparando una cerimonia religiosa: è la festa del maís, una festa di ringraziamento. Non c’è il sacerdote, poiché viene solo per la messa la domenica mattina. Fanno tutto i laici: una donna spiega il significato della festa, un uomo legge e commenta le letture, alcuni intervengono poi a offrire la loro riflessione. Al termine della celebrazione ai presenti vengono offerti atol, una bevanda a base di maís, e pannocchie di maís cotte. Veramente una cerimonia segno di una chiesa viva e piena di dignità.

Un membro del direttivo della comunità ci spiega che complessivamente sono una sessantina le famiglie che ne fanno parte e che lì vivono, per lo più in modeste baracche, o semplici casupole, sparse nella boscaglia. C’è anche una radio parrocchiale, «Radio Positiva», che così è presentata in uno striscione appeso davanti alla sede: La voz del más humilde / de los salvadoreños y salvadoreñas / tiene derecho de informar, /de opinar y de ser escuchada.

Il ritorno a San Salvador è pieno di gioia per tutto quanto visto e incontrato. Tuttavia, il giorno dopo suor Ave ci telefona per ringraziarci della giornata e, con grande tristezza, ci fa sapere che davanti alla chiesa della sua parrocchia di Asunción, dove siamo stati due volte, la sera era stato ucciso un ragazzo mentre stava giocando a pallone in strada. È la violenza comune il grande problema del Salvador di oggi.

Anselmo Palini

L’autore – Anselmo Palini, docente di materie letterarie, con l’Editrice Ave ha pubblicato, tra l’altro, Oscar Romero. Ho udito il grido del mio popolo (Roma 2010) e Marianella García Villas. Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi (Roma 2014). La cronaca dettagliata del suo recente viaggio in Salvador è reperibile sul suo sito web:

www.anselmopalini.it.

In archivio: Anselmo Palini, San Romero de las Americas, Missioni Consolata, maggio 2015, pag. 32-34.

Anselmo Palini