Ogni anno migliaia di migranti centroamericani cercano di attraversare il Messico per raggiungere la frontiera Nord e passare illegalmente negli Stati Uniti. È un viaggio estenuante e molto pericoloso a causa dei narcos e delle autorità locali. Pochissimi raggiungono la meta. La maggioranza torna indietro o si ferma lungo il cammino sopportando violenze e angherie e mettendo a rischio la vita stessa. In questo quadro di disperazione, si inserisce l’opera di padre Alejandro Solalinde e dei suoi rifugi per migranti. Questo è il suo racconto.
Sono 4.301 i chilometri della frontiera terrestre del Messico. Per la precisione, 3.152 quelli della frontiera Nord con gli?Stati Uniti e 1.149 quelli della frontiera Sud con Guatemala e Belize. Confini che contribuiscono a fare del Messico un «paese di partenza, transito e arrivo di migranti»1.
Per inquadrarne i problemi sono sufficienti tre dati: la povertà interessa 57 milioni di messicani su 127 totali; le persone assassinate nel 2016 hanno raggiunto il livello record di 22.9672, senza conteggiare le migliaia di persone scomparse; la corruzione costa ogni anno il 9 per cento del Prodotto interno lordo3.
Dal Messico si scappa (è il secondo paese al mondo con più emigranti4) e nel Messico si arriva, ma quasi sempre soltanto per tentare il salto verso gli Stati Uniti, l’American dream. Un progetto questo di difficile realizzazione e soprattutto molto rischioso a causa dei pericoli in cui i migranti possono imbattersi. Se va bene, furti ed estorsioni.?Se va male, sequestri di persona, violenze sessuali, mutilazioni, commercio di esseri umani, sparizioni ed assassinii.
A confermare la gravità della situazione è padre Alejandro Solalinde, sacerdote messicano di 72 anni (molto ben portati), fondatore dell’«Albergue de migrantes “Hermanos en el Camino”», un centro per l’accoglienza dei migranti illegali a Ixtepec, nello stato messicano di Oaxaca.
Padre Solalinde, candidato al premio Nobel per la pace 2017, vive da anni sotto scorta a causa della sua condanna a morte decretata dai narcos, che sulla pelle dei migranti fanno grossi affari.
Chi parte, chi si ferma, chi torna indietro, chi arriva
Padre Alejandro, ci racconti in poche parole chi è lei.
«Prima di tutto, direi che sono un missionario cattolico. Lavoro a Ixtepec, stato di Oaxaca, nell’albergo-rifugio dei migranti. Iniziai nel 2005, quando chiesi al mio vescovo di occuparmi di loro. Non fu facile perché pareva uno spreco che un sacerdote si dedicasse alla gente di strada, ai migranti. Però, alla fine, ottenni il permesso».
Il rifugio quante persone riceve?
«In questo momento, l’Albergue de migrantes accoglie un centinaio di persone al giorno. I migranti si fermano un paio di giorni o al massimo tre, per poi riprendere il cammino».
Da dove provengono?
«Soprattutto dall’Honduras, dal Salvador, dal Guatemala, dal Nicaragua. Però anche dal Brasile, dal Venezuela, dal Costa Rica, dal Perù, dall’Ecuador, da Panamà e anche dal Belize. Secondo le statistiche, il 50% di costoro si ferma in Messico, mentre il 25% rinuncia e torna indietro. Si arrende».
E quanti di loro arriveranno fino alla meta finale, nel «paradiso» statunitense?
«Stando ai numeri, un 25% dei migranti raggiunge la meta e riesce a entrare, anche con Donald Trump. Chi controlla la frontiera non è il Messico o gli Stati Uniti, ma continua ad essere il crimine organizzato. Se tu paghi o se porti la droga, loro riescono a farti passare. Non c’è muro che tenga. Per sofisticato che esso possa essere».
In Europa la maggioranza dei migranti sono giovani e maschi. E da voi?
«Anche qui la maggioranza sono giovani. Io calcolo siano circa l’80 per cento del totale. Però ci sono anche bambini e donne. Persone anziane ne ho viste poche, probabilmente rassegnate a rimanere nel loro luogo d’origine. Ed anche i malati rimangono a casa. Sono le persone più giovani e sane quelle che viaggiano».
L’accoglienza
Come si svolge una sua giornata tipica all’Albergue di Ixtepec?
«Non ce n’è una eguale all’altra, ma una cosa è identica: ogni giorno è sempre molto intenso. Al mattino presto – verso le cinque e mezza – prego e leggo il vangelo del giorno. Faccio esercizi. Lavo e stiro i miei vestiti: se voglio essere pulito, nessuno lo deve fare per me. Poi scendo al piano dove ci sono i migranti. A volte faccio colazione con loro, dopo che questi hanno fatto le pulizie del luogo. Poi visito i diversi reparti dell’Albergue per vedere come procedono: la falegnameria, la panetteria, la fattoria, la cucina (un settore questo che sempre necessita di molto lavoro). Abbiamo anche una biblioteca e una sala computer dove le persone possono comunicare con i loro cari. C’è un’area medica con due medici e due infermiere. Ed anche un’area psicologica con cinque addetti. Insomma, siamo come una piccola città».
Quando al centro arrivano i migranti, lei che fa? Come li accoglie?
«Io non posso parlare con ognuno. Allora li riunisco. Di solito, nella cappella. Quando hanno mangiato, si sono lavati e cambiati i vestiti, allora li chiamo. La prima cosa che dico loro è: “Com’è andato il viaggio fino a qui?”. E poi: “Alzi la mano chi viene dall’Honduras. Chi dal Guatemala. Chi dal Salvador”. E così via. In questo modo mi rendo conto che gruppo è. E ancora: “Alzi la mano chi è cristiano evangelico”. A chi l’ha alzata dico di presentare la sua chiesa con il nome. Ad ogni chiesa diamo un applauso. Sì, è un modo per riconoscere che il loro cammino è corretto. E che siamo fratelli nella fede. Poi faccio lo stesso con i cattolici. Infine, dico: “Alzi la mano chi non ha nessuna chiesa o religione”. E anche qui molti alzano la mano. Poi chiedo cosa è accaduto durante il viaggio. Mi faccio dire se già hanno presentato la propria denuncia o ancora no».
A che denuncia si riferisce?
«La legge dice che se un migrante è stato vittima di un delitto, deve avere un visto umanitario. Identicamente se nel suo paese è perseguitato o se il suo paese è luogo di violenza. Il nostro ufficio di registrazione valuta la condizione giuridica di ogni persona che arriva. E prima ancora la sua condizione psicofisica: se una persona ha bisogno di cure, viene mandata in infermeria. Se presenta problemi emozionali per ciò che ha passato, viene mandata dal gruppo degli psicologi».
A parte lei, quante sono le persone che fanno funzionare l’Albergue?
«Abbiamo uno staff di otto persone stabili. Però siamo aiutati da numerosi volontari che provengono da tutto il mondo. Addirittura dalla Cina e dall’Australia. E?moltissime persone che arrivano dall’Europa».
Narcos e migranti
Quando e perché i cartelli della droga – i cosiddetti narcos – hanno iniziato a interessarsi ai migranti?
«Tutto è cominciato con Felipe Calderón, il precedente presidente, che fece una guerra insensata (e perdente) al narcotraffico (121 mila morti e 26 mila scomparsi tra il 2006 e il 2012, ndr). Questa guerra provocò la decapitazione di alcuni cartelli e una spoliazione di altri, tra cui los Zetas.
Questi ultimi rimasero senza liquidi per pagare la droga. La droga non si può pagare a credito: va pagata immediatamente. Dunque, los Zetas pensarono di ricavare denaro dai migranti. Sapevano che essi non posseggono nulla, ma hanno amici e familiari negli Stati Uniti. Cominciarono dunque a sequestrarli e a chiedere un riscatto. In pochi mesi riuscirono a estorcere milioni di dollari.
Oltre al riscatto, capirono presto che dai migranti si poteva ottenere di più: con la prostituzione, lo sfruttamento del lavoro, il traffico di organi».
Quanti cartelli sono coinvolti?
«Principalmente los Zetas e in misura minore il cartello del Golfo. Gli altri non si sa, ma certamente non trafficano con i migranti in maniera sistematica».
Autorità criminali
E le autorità messicane che fanno?
«Sono parte del business. Chiaro! Gli agenti di migrazione, i poliziotti, i politici di qualsiasi livello sono complici, soprattutto nel caso dei migranti. Sanno che è una fonte di denaro facile e molto grande. Io sono solito definire il mio governo come una “narcocleptocrazia”. I narcos hanno infiltrato tutte le istituzioni messicane. È raro – io non ne ho mai conosciuti – trovare un politico o un funzionario che non rubi».
Anche Enrique Peña Nieto, il presidente del suo paese?
«Quel signore è il più corrotto. In questo momento ha un grado d’accettazione da parte della popolazione messicana del 9 per cento! È un ripudiato».
Che pensa di Donald Trump, presidente del paese che è nei sogni dei migranti?
«Trump è un pover’uomo. L’unica cosa che ha è il denaro. Ha vissuto per accumulare denaro ma non potrà portarlo con sé».
Viaggiare sulla «Bestia»
Da noi ci sono le carrette del mare o i gommoni, da voi c’è La Bestia.
«Hanno cominciato a chiamarla La Bestia perché è un treno merci (de carga), non deputato a trasportare persone. Per questo i migranti viaggiano sul tetto o negli angusti spazi tra i vagoni. Per 12-13-14 ore.
Possono capitare molti incidenti, soprattutto se le persone si addormentano. O quando salgono gli uomini del crimine organizzato che li buttano giù se non pagano.
Il treno parte dal Sud, dal Chiapas, circa un’ora dal Guatemala. Ha differenti ramificazioni (cartina a pagina 54, ndr) e può arrivare fino a Mexicali o Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti».
I messicani negli Usa
Anche lei frequenta il (presunto) paradiso statunitense?
«Sì, viaggio negli Stati Uniti 4-5 volte all’anno. Per incontrare gruppi di emigrati, per capire come sta andando o cosa possiamo fare per i loro diritti. Sono oltre 34 milioni i messicani che vivono là legalmente. E 6 milioni che non hanno documenti. Tutti costoro inviano denaro in Messico. L’ultima cifra parla di 27.000 milioni di dollari in un anno. Per questo dico che, dopo il narcotraffico, le rimesse sono l’entrata maggiore per il paese».
Il diritto a emigrare e il modello capitalistico
Padre, in Italia e in Europa si litiga sui migranti che dovrebbero essere accolti e quelli che andrebbero respinti. Secondo lei, esiste un «diritto a emigrare»?
«Io credo che ci sia un diritto a non emigrare quando ci siano tutte le giuste condizioni di vita nei luoghi d’origine. Tuttavia il sistema capitalista ha fatto a pezzi le condizioni di vita nei paesi d’origine dei migranti: per la violenza, per la mancanza di lavoro, per l’assenza di una possibilità di sviluppo per i giovani.
I movimenti migratori sono sempre esistiti. Però è la prima volta nella storia dell’umanità che le migrazioni sono dal Sud al Nord. Storicamente sono sempre state all’opposto: dal Nord al Sud».
In tutto il mondo le migrazioni e i migranti sono il problema del secolo. Cosa si può fare, padre?
«Se siamo d’accordo che il problema è strutturale, cioè che nasce dal sistema liberal-capitalista, allora l’unica soluzione è cambiare il modello. Di sicuro non si può continuare così.
Non è possibile avere il 99 per cento della popolazione mondiale che vive con le briciole lasciate cadere dall’1 per cento della popolazione».
Da chi vengono le minacce
Lei usa sempre parole molto forti, senza edulcorare le situazioni.
«Uso parole molto forti perché la realtà è molto forte. Occorre dire le cose chiaramente».
Ha paura per la sua vita?
«Io ho paura per il Messico. In questo momento abbiamo vari governatori nelle carceri, altri espatriati. Non uno. Tanti. (Erano 16 ad aprile 2017 su un totale di 32, ndr)».
Però ha subito minacce ed aggressioni fisiche.
«Preso a botte, certo. Ma anche incarcerato due volte. Il 24 giugno del 2008 tentarono di bruciare me e il rifugio. In un’altra occasione il sindaco e la giunta municipale mi chiusero dentro per 7 ore dicendo: “Tu da qui non esci fintantoché non firmi che chiuderai il rifugio”. Risposi: “Puoi amazzarmi se vuoi, ma io non firmerò nulla. Questa è una proprietà della chiesa cattolica”.
La sera di quello stesso giorno arrivarono gruppi di migranti. Dissi al sindaco: “Se succede qualcosa ai migranti o a membri della mia équipe, io la denuncerò”. “Lei mi sta minacciando”, disse costui. “La pensi come vuole”, risposi io».
Tuttavia, quella volta non furono i narcos. Furono le autorità!
«Perché c’è forse differenza?».
Non c’è differenza?
«Certo che no! Sono la stessa cosa! Non puoi dire qui sta il crimine organizzato e qui l’autorità. Noooo».
Questo è molto triste.
«Tristissimo. Il Messico sta vivendo una situazione molto difficile. Di decadenza totale».
«Io non sono solo»
Nonostante da anni sia costretto a vivere sotto scorta, lei appare molto sereno.
«Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del regno di Dio. Io non sono solo».
Si definisce «migrante» la persona nata in un paese diverso da quello di residenza e che ha lasciato volontariamente il proprio paese d’origine. Sotto questa definizione, sarebbero 244 milioni i migranti nel mondo5.
A questa cifra ne va affiancata un’altra: quella che riguarda le persone che sono state obbligate a lasciare le proprie case. Questa condizione riguarderebbe 65,6 milioni di persone, così distinte: 22,5 milioni di rifugiati, 2,8 milioni di richiedenti asilo e 40,3 milioni di sfollati interni6.
Migranti, rifugiati, richiedenti asilo, sfollati interni: in qualsiasi parte del mondo il fenomeno si presenti, sorgono problemi.
Personaggi come padre Alejandro Solalinde sono encomiabili per l’opera che svolgono e veramente meriterebbero il Nobel, ma la questione di fondo è epocale e al momento all’orizzonte non s’intravvedono soluzioni indolori.
Il diritto a non emigrare – ovvero il diritto a restare a casa propria – sarebbe l’unica, vera soluzione. Ma rimane un obiettivo difficile e molto lontano. Significherebbe assicurare a ogni persona cibo, lavoro, casa, educazione, sanità, pace. Un sogno che l’attuale sistema economico e politico non pare intenzionato a considerare.
Paolo Moiola
Note
(1) Rapporto paese dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim, agenzia dell’Onu).
(2) Dato riferito agli «omicidi volontari». Nel 2015 in Italia gli omicidi volontari sono stati 469.
(3) Questi dati sono confermati da varie fonti tra cui: istituto Imco, istituto pubblico Coneval, Sistema Nacional de Seguridad Pública (rapporto del 20 giugno 2017).
(4-5) Fonte: «International Migration Report 2015», Nazioni Unite.
(6) Fonte: rapporto «Global Trends. Forces Displacement in 2016», Unhcr.
* Mauro Pagnano è nato a Napoli. Laureato in giurisprudenza, vive a Caivano nel cuore di quel territorio tristemente noto come Terra dei Fuochi. È proprio con un progetto sulla Terra dei Fuochi che comincia a fotografare e a pubblicare su testate nazionali e straniere. I suoi lavori sono realizzati in collaborazione con l’agenzia di comunicazione sociale di cui è socio, «La Etiket Comunicazione», che opera in un bene confiscato alla camorra a Casal di Principe. In Messico ha seguito la rotta dei migranti dal confine con il Guatemala fino al Centro Nord. Il progetto è ancora in itinere.
Archivio MC
Tra gli articoli sui migranti centroamericani e messicani verso gli Stati Uniti segnaliamo:
Paolo Moiola, Chiudo gli occhi di fronte alla legge?, febbraio 1989;
Paolo Moiola, La cortina di Tortillas, maggio 1992;
SOLIDARIETÀ AI MISSIONARI E AL POPOLO DEL VENEZUELA
MESSAGGIO DELLA DIREZIONE GENERALE DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA
“Consolate, consolate il mio popolo!” Isaia 40,1
“Un Paese alla fame e sull’orlo della guerra civile” quello raccontato dai nostri missionari dal Venezuela, ascoltando le storie di giovani, professionisti, anziani, studenti e di famiglie povere: “la tessera per il razionamento alimentare, la mancanza di medicine, l’iperinflazione, i supermercati vuoti, il clima di insicurezza, la rabbia per le libertà civili violate”. E ancora “Con le strade trasformate in terreno di una battaglia campale infinita, il regime di Maduro si afferra al potere con un colpo di mano per cambiare la Costituzione. Mentre l’opposizione politica grida al golpe”.
Queste sono alcune considerazioni fatte a Padre Stefano, Superiore Generale, che è in costante contatto telefonico con loro, per manifestare la vicinanza di tutto l’Istituto, la preoccupazione per l’aggravarsi della situazione degli scontri e, attraverso di loro, la nostra solidarietà al popolo venezuelano di fronte ai gravi problemi che lo affliggono.
I missionari sono sereni e stanno bene, ringraziano per il ricordo e le preghiere, loro unica preoccupazione è il futuro incerto di un paese allo stremo, e per il quale chiedono di pregare costantemente.
In questi giorni il Venezuela è tornato sotto i riflettori delle maggiori agenzie di informazione internazionali, apparso nei titoli di apertura dei telegiornali e sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e rispettivi siti web a causa dell’escalation della violenza, con i numerosi morti, feriti e i detenuti, ennesimo tragico epilogo di una situazione che si trascina oramai da 5 anni, dove non sembra esserci via d’uscita.
Mentre la gente soffre e vive nel terrore, i protagonisti del conflitto venezuelano, governo e opposizione, si trovano nel punto più distante tra loro, intenti solo a lanciare l’uno all’altro minacce e accuse.
I MISSIONARI A FIANCO DELLA GENTE
A Caracas i missionari della Consolata, insieme ad altri missionari e missionarie di altre Congregazioni hanno aperto una casa di accoglienza per barboni, senza casa, gente della strada che possono qui trovare riparo e sostegno, e se sono disponibili anche cura per rilanciarsi nella vita. Sempre a Caracas, capitale del Venezuela, abbiamo una Parrocchia situata nella periferia composta da almeno 150/200.000 persone che vivono incollate sulle casette di fortuna sulle colline attorno alla capitale. È un agglomerato di problemi, violenza, droga e malavita, ma anche di gente per bene che si guadagna la vita con un duro lavoro quotidiano e che poi, alla sera, si mette ancora in coda per arrivare alla sua casetta e vivere un momento di serenità con la propria famiglia. In questa situazione e contesto in nostri missionari cercano di costruire speranza ed essere segno di consolazione per un gruppo di cristiani che, certamente non sono maggioranza, ma sono presenza e fraternità e questo già basta per poter sognare almeno un poco.
Inoltre a Caracas, oltre alla parrocchia di Carapita, abbiamo la Casa Regionale con un centro per l’Animazione Missionaria vocazionale collegato anche al Centro della città di Barquisimento. La casa regionale è un pochino originale giacché non rappresenta lo stile delle solite case regionali, luogo di uffici e di organizzazione, ma è proprio la casa di tutti e dove tutti possono trovare un letto da dormire, un pasto da condividere e qualcuno che ascolta i tuoi problemi. E quando dico tutti, voglio dire tutti, non soltanto i missionari.
L’AMV è in mano ad un’equipe che lavora anche con i Laici della Consolata e con gli Amici della Consolata, un’esperienza importante e condivisa che vale la pena di essere studiata ed approfondita.
Tra tutte queste nostre presenze merita un ricordo particolare quella con gli indigeni. Abbiamo un’equipe di cinque missionari di diverse nazionalità che lavorano in due comunità distinte: una alla città di Tucupita dove gli indigeni si trasferiscono in tempi difficili o cercando espedienti lavorativi e sul Delta Amucuro dove gli indigeni Warau vivono a loro stile sulle palafitte sospese sull’acqua. I missionari, senza pretese, ma con l’unica forza della presenza condividono la vita di questo popolo assumendone le sorti, con l’unica pretesa dell’amore.
Insieme a tanti altri sacerdoti, consacrati e consacrate e ai fedeli laici i nostri missionari hanno scelto di rimanere nel paese, per stare accanto alla gente, condividerne la situazione, attenti ai loro bisogni concreti, nel cammino sofferto di una comunità ecclesiale schiacciata tra due blocchi che tra loro hanno rotto ogni ponte e contatto.
La loro testimonianza di umile presenza tra i poveri e gli indifesi delle periferie di Caracas, realizza molto bene l’esortazione rivolta a tutti noi da Papa Francesco:
“Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori (cfr. Rm 5,5). … Mentre con gioia ringrazio il Signore per il bene che voi andate compiendo nel mondo, vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice…” (Papa Francesco, ai partecipanti ai Capitoli Generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, Sala Clementina, 5 giugno 2017)
UNA SITUAZIONE COMPLESSA
Ci sarebbe bisogno di un’analisi sistematica ed approfondita per decifrare la complessità delle cause, nazionali ed internazionali, che hanno contribuito a gettare il Venezuela nel caos.
Qui ci limitiamo ad alcune considerazioni che, pur non essendo esaustive, danno però l’idea della gravità del momento.
“ […] A seguito della caduta internazionale dei prezzi dell’oro nero, il Paese è sprofondato nel caos economico. Solo nel 2016 le entrate per prodotti derivati dalla vendita del petrolio erano scese del 5000% annuo. Di conseguenza, la necessità strategica di cercare risorse provenienti da fonti alternative all’industria petrolifera.”
«[…] Nella zona amazzonica sono state date delle concessioni a società di origine russa, canadese, britannica, sudafricana, cinese, iraniana e australiana, per lo sfruttamento di territori pieni di riserve aurifere, argento, petrolio, ferro, diamanti, coltan, uranio e ogni tipo di risorsa strategica… Si assiste alla dislocazione degli abitanti originari che per secoli hanno popolato queste zone; e ciò avviene solo per l’avidità che induce allo sfruttamento sconsiderato delle risorse del sottosuolo» (in Dossier Caritas Italiana, “Inascoltati. Un popolo allo stremo chiede i suoi diritti fondamentali”, www.caritas.it )
La rivoluzione bolivariana, avviata da Hugo Chàvez quasi vent’anni fa, si sta spegnendo in un sanguinoso caos. Perfino il procuratore generale dello Stato, Luisa Ortega Diaz, alto funzionario nominato dal potere chavista, ha condannato la violenza della repressione della Guardia Nazionale bolivariana contro le manifestazioni di protesta, che ha causato decine di vittime.
La proposta fatta dal Presidente Maduro per l’elezione di una nuova Assemblea Costituente, è stata respinta dall’opposizione che la considera soltanto un “nuovo tentativo di golpe”. L’avvilupparsi della crisi politica, la carestia, e l’iperinflazione (che potrebbe arrivare al 1600% secondo l’Fmi nel 2017) hanno fatto fare crac anche a tutto il progetto del socialismo bolivariano sostenuto, almeno fino alle ultime presidenziali, aprile 2013, da una maggioranza, seppur limitata, della popolazione.
Oggi il blocco sociale, che seguì il caudillo rivoluzionario morto nel 2013 e le sue promesse di riscatto sociale, è in minoranza. Per questo Maduro – che secondo i sondaggi ha ormai contro il 70% del Paese – ha rinviato le elezioni, amministrative e regionali. E per questo, insieme alla miseria sempre più drammatica nel Paese, l’opposizione si è lanciata in piazza.
LA NOTTE DEL VENEZUELA NON È ANCORA FINITA!
Infatti la situazione attuale si mostra qualitativamente diversa dal recente passato, perché le libertà sociali sono sempre più sotto assedio, la repressione inusitata, la crescente insicurezza personale e la sfiducia nel sistema giudiziario: la mancanza di tutela dei diritti lascia i cittadini indifesi davanti a una violenza mai vista. Il popolo venezuelano continua a protestare, inascoltato!
La crisi umanitaria avvolge il Venezuela in una spirale drammatica. L’82% della popolazione è in povertà, di cui il 52% in povertà estrema. La vita stessa delle persone è minacciata da quando sono venuti a mancare gli alimenti necessari per la sopravvivenza e la disponibilità di medicine per le cure fondamentali.
Questo favorisce l’aumento di morti premature, in particolare delle fasce più deboli della popolazione, specialmente bambini, anziani e malati. La mortalità dovuta a queste cause non risulta nelle cifre ufficiali di cui dispongono i mezzi di informazione, perché l’interesse è incentrato soltanto sul numero dei morti e dei feriti delle manifestazioni che si verificano ogni giorno, sin dal mese di aprile di quest’anno. In realtà, le cifre reali sono altre. Sono oltre 11.000 i bambini morti nel 2016 per mancanza di medicinali e la mortalità materna è aumentata quasi del 70%. (questi sono alcuni dati dell’Osservatorio di Caritas Venezuela, che emergono da una ricerca sullo stato nutrizionale dei bambini, riportati nel Dossier di Caritas www.caritas.it).
GLI APPELLI DELLA CHIESA
Anche se il Vaticano, che nei mesi scorsi guidò una trattativa per un compromesso fra governo e opposizione, ha dovuto gettare la spugna, giudicando “quasi impossibile” una nuova mediazione.
Anche se fuori e dentro del Venezuela, di fronte all’ostinazione e chiusura delle parti, governo di Maduro e partiti dell’opposizione, sembrano rassegnati al peggio, la Chiesa continua a lanciare appelli al dialogo, alla fine della violenza e alla ripresa dei negoziati.
La Conferenza episcopale del Venezuela in una lettera recentemente inviata al Presidente Maduro 8 luglio 2017, ha chiesto al Governo “di ritirare la proposta di un’Assemblea Costituente, di rendere possibile lo svolgimento delle elezioni stabilite dalla Costituzione”; e di “riconoscere l’autonomia dei poteri pubblici, abbandonando la repressione inumana di coloro che manifestano un dissenso, di smantellare i gruppi armati” e di liberare “le persone che sono state private della libertà per ragioni politiche”.
Ancora, i vescovi chiedono di impegnarsi “a risolvere i gravissimi problemi della gente e di permettere l’apertura di un canale umanitario perché possano arrivare medicine e alimenti ai più bisognosi”. Alle Forze Armate nazionali chiedono di “adempiere il proprio dovere di servizio al popolo nel rispetto e a garanzia dell’ordine costituzionale”. Dalla dirigenza politica i presuli esigono l’impegno nell’esclusivo bene “del popolo e mai per i propri interessi”, rispettando “la volontà democratica del popolo venezuelano”. Alle istituzioni educative e culturali chiedono di collaborare a “far crollare i muri che dividono il Paese”, incoraggiando “ogni sforzo in favore della pace e della convivenza, fondati sulla legge dell’amore fraterno”. (le lettera si trova in: www.caritas.it)
Papa Francesco stesso in più di un’occasione ha lanciato accorati appelli al Governo e a tutte le componenti della società venezuelana:
“affinché venga evitata ogni ulteriore forma di violenza, siano rispettati i diritti umani e si cerchino soluzioni negoziate alla grave crisi umanitaria, sociale, politica ed economica che sta stremando la popolazione.” (Regina Coeli, 30 aprile 2017)
E in vista della festa dell’indipendenza del Venezuela del 5 luglio ha assicurato:
“la preghiera per questa cara Nazione e la mia vicinanza alle famiglie che hanno perso i loro figli nelle manifestazioni di piazza. Faccio appello affinché si ponga fine alla violenza e si trovi una soluzione pacifica e democratica alla crisi. Nostra Signora di Coromoto interceda per il Venezuela!” (Angelus, 2 luglio 2017)
E in una lettera indirizzata all’episcopato venezuelano venerdì 5 maggio il Pontefice esprimeva la sua solidarietà ai Vescovi del Venezuela e la chiara convinzione:
“che i gravi problemi del Venezuela possono essere risolti se c’è volontà per costruire ponti, se si desidera dialogare seriamente e rispettare gli accordi raggiunti. Desidero incoraggiarvi a non permettere che i figli amati del Venezuela si lascino vincere dalla sfiducia e dalla disperazione, perché questi sono mali che penetrano nel cuore delle persone quando non si vedono prospettive future”.
I nostri missionari in Venezuela, nei dialoghi telefonici avuti, e nello scambio via posta elettronica, sono concordi nel sostenere la via del dialogo e dei negoziati come l’unica percorribile, perché:
“Nelle persone è sempre più diffusa la volontà di un forte cambiamento, bisogna seguire, però, la via della pace e della democrazia. La maggioranza del popolo chiede una soluzione pacifica. Ma i costi umani di questo processo sono troppo alti. Il governo deve ascoltare la gente che grida. È necessario trovare un accordo. Non sappiamo di quanto tempo avremo bisogno in Venezuela per riconciliare la popolazione e risanare le ferite che ci stiamo infliggendo”.
Noi come missionari della Consolata, facciamo nostro e rilanciamo l’appello di Papa Francesco, convinti che, quando ogni speranza tace, l’unica via di uscita stia proprio nella ricerca di soluzioni consensuali.
SOLIDARIETÀ’ CON IL POPOLO VENEZUELANO
Cari missionari, amici e uomini e donne di buona volontà, con questo messaggio vogliamo esprimere la nostra solidarietà a tutto il popolo venezuelano e la vicinanza e l’affetto ai nostri missionari, attraverso il ricordo e la preghiera.
La situazione d’insicurezza ed incertezza del Venezuela alla stremo, richiama quella vissuta dal profeta Isaia in uno dei periodi più difficili della storia del popolo di Israele: la città santa ridotta ad un cumulo di macerie, le persone più capaci e preparate deportate, distruzione e disperazione tutt’intorno, regna il silenzio e la morte: non un canto, non un grido di gioia, solo tristezza e tante lacrime.
Il profeta è invitato a contemplare i germogli di speranza che spuntano tra le rovine e, soprattutto a fidarsi del Signore per “saper irrobustire le mani fiacche e rendere salde le ginocchia vacillanti e dire agli smarriti di cuore: coraggio non temete! Ecco il vostro Dio giunge” (Isaia 35, 3-4)
Caro popolo venezuelano questa profezia del profeta Isaia, nella situazione in cui vi trovate, sembrerebbe “un sogno impossibile”, eppure chi crede, non si rassegna di fronte al male, non lo considera ineluttabile, perché sa che Dio è fedele ed è personalmente coinvolto nella storia del suo popolo.
E a voi missionari auguriamo che la testimonianza della vita fraterna, il vostro impegno a fianco dei poveri, possano realizzare lo specifico del nostro stile missionario:
“Consolate, consolate il mio popolo, gridate a Gerusalemme che è finita la sua schiavitù…” (Isaia 40,1-2).
Attraverso di voi la consolazione di Dio possa diventare una tenera carezza che rincuora e asciuga le lacrime; soccorso a chi si trova in condizioni disperate, riscatto per il misero sollevandolo dalla polvere (1Sam 2,8), mutando il lamento di tanti in danza e il loro grido in canto di gioia (Salmo 30,12).
In questo modo, in voi, la gente potrà toccare con mano, un Dio che veramente consola perché libera da tutte le schiavitù.
Rinnovando il nostro impegno di sostenervi e ricordarvi nella preghiera insieme a tutto il popolo venezuelano, vi salutiamo con l’esortazione del nostro Beato Fondatore:
«Coraggio dunque, sostenuti dalle nostre preghiere; coraggio in Domino, giorno per giorno, ora per ora. Ai piedi della nostra Ss. Consolata vi benedico di gran cuore» (Lett., IX/1,150).
La Direzione Generale dei Missionari della Consolata
p. Stefano Camerlengo
P. Bhola James Lengarin
P. Godfrey Portphal Alois Msumange
P. Jaime Carlos Patias
P. Antonio Rovelli
Roma, 15 agosto 2017, Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria
Marocco. Argento e ambiente
Assetati d’argento
Negli ultimi tre decenni si sono intensificate le «resistenze» delle popolazioni locali che difendono i loro territori. Un caso emblematico è quello della più grande miniera del continente africano gestita, tramite una catena di società finanziarie, dalla famiglia del Re Mohammed VI. L’estrazione dell’argento avviene senza badare all’impatto ambientale e sociale. È necessario cambiare modello di sviluppo realizzando una sostenibilità che sia effettiva.
Nel 2004, la sociologa e femminista marocchina Fatima Mernissi (Fès, 1940 – Rabat, 2015), docente all’Università Mohammed V di Rabat, scriveva che, se si vuole vedere dove davvero le cose cambiano nel suo paese, ci si deve allontanare dai centri urbani di Casablanca o Rabat ed esplorare le montagne dell’Alto Atlante o i deserti di Zagora e Figuig. È lì che si possono trovare storie affascinanti di comunità che generano cambiamento tramite la loro resistenza nel Marocco contemporaneo.
Alcuni collaboratori dell’Ejatlas hanno tenuto bene a mente questo consiglio quando, lo scorso novembre, sono andati in Marocco per assistere alla Cop22, l’ultima grande conferenza internazionale sul cambio climatico, che aveva lo scopo di trovare le modalità per attuare gli accordi siglati durante la Cop21 di Parigi dell’anno prima (si veda MC maggio 2016, ndr).
Accaparramento e resistenza
Lasciando le grandi città sistemate per l’evento, le campagne e le zone semiurbane e costiere rivelano una realtà materiale segnata da grandi accaparramenti di terre, inquinamento da attività minerarie, violazione di diritti sociali ed espropriazioni. Spesso nel nome dello «sviluppo sostenibile», per far spazio a progetti infrastrutturali di produzione di energie rinnovabili.
In questi luoghi, grandi cartelli pubblicitari di colossi della costruzione e di grandi marche fanno pensare a fondi d’investimento che, in sordina ma dettando una legge spietata, stanno penetrando nel mercato marocchino con il beneplacito della monarchia. Allo stesso tempo però questi sono anche i luoghi in cui si incontrano storie di resistenza e ricostruzione di comunità.
L’argento del re
Nella provincia del Tinghir, nella regione amministrativa Drâa-tafilalte, Imider è una municipalità che si trova in un’oasi nel mezzo di terre desertiche. Essa raggruppa sette piccoli villaggi a 300 km da Marrakesh, per un totale di circa 4mila abitanti. Oggi è il sito della più grande miniera del continente africano, e la settima più grande produttrice di argento al mondo, presso il Monte Alebban.
La miniera è gestita dalla SociétéMetallurgique d’Imider (Smi), parte del gruppo Managem (managemgroup.com) che conta attività in diverse zone del Marocco, in Guinea, Niger, Sudan, Gabon, Congo RD. La Managem è controllata per l’81% dalla società finanziaria Société nationale d’investissement (Sni), la quale a sua volta è controllata dalla Siger, la holding della famiglia del re Mohammed VI.
La Smi estrae il prezioso metallo dal 1978. Fin da allora, le comunità che vivono nei dintorni della miniera si sono organizzate per fare pressioni sulle autorità perché preoccupate per i potenziali impatti ambientali, in particolare sulle falde acquifere.
Con il tempo, le loro perplessità si sono dimostrate fondate.
Danni ambientali e repressione
Lo scontro è stato particolarmente aspro nel 1986, durante la perforazione di un pozzo da parte dell’impresa. I leader della protesta in quell’occasione sono stati incarcerati e le richieste delle comunità ignorate. L’anno 1996 è stato segnato dalla privatizzazione dell’impresa e dalla violenta repressione di un sit-in che era durato 45 giorni lungo la strada nazionale bloccando la via d’accesso alla miniera.
Nel 2004 l’impresa ha scavato un nuovo pozzo, stavolta senza i permessi necessari, portando presto le riserve idriche a seccarsi e provocando così un grave pericolo per la popolazione locale Amazigh (berbera). Piccoli agricoltori e pastori, gli abitanti locali hanno dovuto affrontare una severa marginalizzazione economica e un livello preoccupante di contaminazione delle terre da pascolo e della poca acqua disponibile.
Secondo un report del Congresso di Amazigh (ong che mira a rappresentare le associazioni berbere di tutto il mondo), la miniera consumava 1.555 metri cubi d’acqua al giorno, dodici volte il consumo degli abitanti della zona. Il rapporto denunciava anche lo scarico illegale di liquidi tossici della miniera sulle terre da pascolo (inquinanti come mercurio, zinco, cianuro), nuove malattie tumorali e una diminuzione drastica della produzione agricola.
Un altro rapporto, pubblicato da Inovar, un gruppo di idrogeologi indipendenti di Temara, città costiera del Marocco, vicina a Rabat, parlava dell’impatto gravissimo subito dal sistema khettara di Imider, la rete di canali sotterranei che tradizionalmente distribuiva le risorse idriche ai campi coltivati fin dal 14° secolo.
Movement on the Road ’96
Nell’agosto del 2011, lo stesso anno delle proteste della cosiddetta Primavera araba, le comunità hanno deciso di trasferirsi in cima al monte e prendere il controllo della fonte d’acqua, tagliando il trasferimento alla miniera. È nato così quello che ancora oggi può essere considerato il più lungo accampamento permanente della storia moderna del Marocco. Gli abitanti hanno dato alla loro mobilitazione il nome di «Movimento sulla strada ‘96» (si può visitare la pagina Facebook del movimento cercando Amussu.96Imider), in ricordo dei 45 giorni di sit-in e della violenza subita quindici anni prima. Il movimento ha inaugurato un’assemblea generale secondo un tradizionale modello di governance conosciuto come Agraw, nel quale le decisioni vengono prese per consenso. Esso ha incorporato principi di democrazia radicale in cui le decisioni vengono prese in modo decentralizzato e con equità di genere. Alcuni suoi membri sono riusciti a entrare in contatto con media internazionali e a lanciare messaggi di solidarietà ad altre comunità resistenti nel mondo, tra cui quella dei Sioux della riserva Standing Rock in South Dakota, negli Usa, che protestano per un progetto di oleodotto che vorrebbe passare nel loro territorio.
Proteste socioambientali in aumento
Il caso di Imider dimostra come comunità in resistenza esistano da molti anni, e forse sono state importanti motori di propulsione per le contestazioni del 2011.
E non è un caso isolato. Si registra infatti un aumento delle proteste socioambientali in Marocco in questi ultimi due decenni: dalla recente mobilitazione di Bni Oukil, un comune nella regione di Tadla-Azilal situata nel centro del paese, contro l’estrazione di materiali da costruzione, alla resistenza della tribù Guicheloudaya contro progetti infrastrutturali a Rabat che hanno portato alla confisca delle loro terre, al Movimento delle Donne Soulaliyate che rivendicano pari diritti nella compensazione elargita per l’acquisizione forzata di terre.
Molte altre sono le piccole realtà, lontane dai centri urbani rimessi a lustro per l’arrivo dei delegati internazionali della Cop22, che finiscono purtroppo fuori dal radar dell’attenzione pubblica, rendendo difficile studiare e capire il fenomeno.
Molti di questi conflitti sono durati molto tempo, come gli scioperi contro la compagnia statale (Office chérifien des phosphates) che monopolizza la produzione di fosfati a Khouribga, città a 120 Km a Sud Est di Casablanca che conta quasi 200mila abitanti, il blocco del porto a Sidi Ifni, cittadina di 20mila abitanti sull’Oceano Atlantico e, appunto, l’accampamento sul Monte Alebban contro la miniera d’argento.
Povertà e problemi ambientali non sono inevitabili
L’aumento della protesta non si puó capire se non si mette sotto la lente d’ingrandimento il rapporto iniquo tra centri urbani e campagne nell’economia neoliberista del Marocco.
Il governo ha spinto negli ultimi tre decenni sull’industrializzazione delle aree costiere, su progetti speculativi infrastrutturali nelle grandi città, grandi complessi turistici, estrazione intensiva di risorse naturali, mentre i centri più piccoli soffrono per la mancanza di servizi basilari e opportunità di lavoro dignitoso, e, anzi, subiscono le conseguenze negative dell’inquinamento e della violenza repressiva.
Ciò che sta al centro delle contestazioni in Marocco oggi, dunque, è il fatto che povertà, marginalizzazione, problemi ambientali siano la precisa conseguenza dell’odierno capitalismo globale, delle politiche di classe e delle relazioni di potere nel paese.
Allo stesso tempo, Imider mostra come la società civile marocchina si è articolata fin dagli anni ’90 in tanti collettivi e organizzazioni per i diritti umani e la giustizia sociale che oggi pongono in questione il modello economico e di «sviluppo». Essi uniscono rivendicazioni che riguardano diritti umani, indigeni, ambientali, di genere, e li vincolano alla necessità di cambiamento del sistema produttivo capitalista e autoritario.
Non basta dire «sostenibilità»
In uno dei materiali di divulgazione diffusi durante la Cop22 da una di queste organizzazioni, si trova scritto che «parlare di sviluppo sostenibile non è più sufficiente. È una parola distorta e abusata da parte delle grandi imprese transnazionali e anche dalle fabbriche più piccole. È usata come un alibi. Oggi è necessario chiarire i limiti di ciò che viene chiamata sostenibilità. Non può essere imposta secondo criteri estranei al contesto culturale, sociale e ambientale. Oggi è necessario lavorare in una direzione congiunta e mantenere una comunicazione costante tra le risorse del territorio e i bisogni della sua gente».
Daniela Del Bene Coeditrice di Ejatlas
Altri tre casi emblematici
1. L’impatto ambientale dell’energia solare
Ouarzazate è il sito del più nuovo e grande progetto di energia solare del mondo (500 ettari). Tuttavia, il livello di accaparramento di terre, l’elevato costo di produzione, e i grandi interessi economici che lo sostengono non ci possono far rimanere indifferenti e acritici sul processo di transizione verso le rinnovabili. Chi decide, a quale scala e costo, per quali fini produrre energia?
2. Le donne Soulaliyate
Il Movimento delle Donne Soulaliyate è diventato popolare in Marocco nel 2007, quando in un contesto di massiva privatizzazione della terra, gruppi tribali di donne cominciarono a rivendicare i loro diritti al pari degli uomini. Seppur minore al principio, il movimento ora ha raggiunto scala nazionale e continua a sfidare le leggi di proprietà della terra che favoriscono gli uomini e le regole della societá patriarcale nell’accesso alla terra.
3. Land grabbing a Rabat
La comunità dei Guicheloudaya vede la propria terra minacciata dall’espansione della frontiera urbana di Rabat. Il processo di privatizzazione ha avuto un’accelerazione dal 2004 e le tribù hanno subito la confisca di terreni e case. Le proteste hanno incontrato una dura repressione da parte della polizia che ha portato all’autornimmolazione di un abitante nel 2015. A oggi non sono stati indicati chiari piani di compensazione e reinsediamento.
Parchi e Diritti Umani:
Conservazionismo vs Popoli Indigeni
La Conservazione della Natura versus i Diritti dei popoli
Quasi tutte le aree protette del mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel nome della «conservazione». Con questo termine si intende un’ideologia che auspica il mantenimento della qualità di un determinato ambiente e delle risorse naturali, degli ecosistemi e della biodiversità a esso relazionati, tramite la creazione di aree protette e parchi naturali. Gli sfratti possono distruggere sia la vita dei popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per generazioni.
Spesso le terre indigene sono erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree di cosiddetta wilderness, governi, società, associazioni e altre componenti dell’«industria della conservazione» (nel senso che in molti paesi la conservazione è diventata un settore economico significativo) si adoperano per farne «zone inviolate», libere dalla presenza umana.
Per i popoli indigeni, lo sfratto può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono l’autosufficienza. E se prima prosperavano, dopo spesso si ritrovano a vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di reinsediamento.
Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani indigeni, anche l’ambiente può finire per soffrire perché bracconaggio, sfruttamento eccessivo delle risorse e grandi incendi aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.
L’80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terre indigene. Non è un caso.
Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che abitano e amano, i popoli tribali (o nativi) hanno contribuito direttamente all’altissima diversità di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni.
Come disse Martin Saning’o Kariongi, un anziano Masai della Tanzania, al World Conservation Congress del 2004, «le nostre tecniche di coltivazione impollinano numerose specie di semi e mantengono canali di comunicazione tra gli ecosistemi. Noi eravamo i conservazionisti originari».
In Amazzonia, ad esempio, studi scientifici* basati su immagini satellitari dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto dell’Amazzonia brasiliana, sono di vitale importanza per fermare disboscamento e incendi, e costituiscono la barriera più importante alla deforestazione. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie, e in Guatemala (venti volte minore). Il futuro successo della conservazione dipende quindi dai popoli indigeni.
Survival International
Quando i parchi «sfrattano» i popoli
Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»
Le aree protette sono pensate per conservare flora e fauna, ma spesso dimenticano gli uomini. Popoli, abituati da sempre a vivere in simbiosi con l’ecosistema, sono obbligati a lasciare le loro terre. Diventano così dei rifugiati, costretti a vivere di donazioni. E dietro a tutto questo ci sono una ideologia e una storia precisa.
Le aree protette, siano esse nella forma di parchi nazionali, aree di conservazione, riserve naturali o altro, sono create per tutelare flora e fauna, non gli uomini. Nel mondo esistono oggi oltre 120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa.
Le aree protette si differenziano per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli indigeni devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.
Oltre il 70% dei parchi tropicali sono abitati*. Una fetta ancor più grande dipende dalle comunità che li circondano. Eppure, quando questi popoli vengono cacciati dai loro territori, convertiti in parchi, è perché improvvisamente vengono considerati «nemici della conservazione», per usare le parole dell’anziano Masai Kariongi.
Il lato oscuro della conservazione
L’idea di preservare le aree di «wilderness» attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX secolo. Si fondava su una lettura arrogante del diritto alla terra che mancava completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmare e alimentare la stessa. La convinzione era che a sapere cosa fare per il bene dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano.
A promuovere questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Theodore Roosevelt. Si adattava perfettamente alla sua visione: «La più giusta fra tutte le guerre è quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti. È d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale».
Il primo parco nazionale della storia fu Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel 1872, ai nativi, che vi vivevano da secoli, fu inizialmente permesso di restare, ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In una sola battaglia si dice morirono 300 persone*.
Dettagli storici come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del parco. Tuttavia tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non solo per i popoli indigeni ma anche per la natura.
Chi c’è dietro gli sfratti
Riportiamo una citazione del 2003 di Mike Fay, influente ecologista della Ong Wildlife Conservation Society (Wcs), pubblicata dal giornalista Mark Dowie: «Teddy Roosevelt aveva ragione. Nel 1907, quando gli Stati Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di aree protette facendone un pilastro della sua [politica interna]… In pratica, il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il modello statunitense in Africa».
Il presidente Roosevelt aveva torto. Ciò nonostante, oggi, la sua teoria continua a influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti devastanti. Sfrattare intere popolazioni dalle zone protette comporta costi ingenti, sia in termini di denaro sia di reputazione. Quindi perché i governi lo fanno? Le principali ragioni sono le seguenti.
Paternalismo e razzismo: alcuni governi hanno sfrattato i popoli nativi dai parchi nel tentativo, paternalista e razzista, di costringerli ad assimilarsi al resto della società. La rimozione dei Boscimani dalla Central Kalahari Game Reserve del Botswana, ad esempio, è stata in parte dovuta a questo atteggiamento e all’accusa infondata rivolta ai Boscimani che cacciassero troppi animali.
Turismo: gli sfratti vengono giustificati anche nell’interesse del turismo – altamente lucrativo – e nella convinzione che i turisti vogliano vedere solo flora e fauna selvatica, non persone.
Controllo: molti governi aspirano al controllo supremo sia dei territori sia della popolazione; separando gli indigeni diventa più facile raggiungere l’obiettivo.
Le organizzazioni internazionali per la conservazione alimentano gli sfratti incoraggiando i governi a intensificare le operazioni di polizia e protezione. A volte i governi trasferiscono questi poteri alle organizzazioni stesse, che in tal modo acquisiscono il diritto di arrestare e sfrattare. Storicamente, la maggioranza di queste organizzazioni conservazioniste è stata gestita da biologi la cui preoccupazione per habitat e singole specie prevale sulla capacità di apprezzare il modo in cui interi ecosistemi sono stati alimentati e custoditi dai popoli indigeni, che dovrebbero quindi essere i partner principali nella loro conservazione.
Un esempio. Nel 1995, l’Ong World wildlife fund (Wwf) India presentò una mozione al governo indiano per rinforzare la legge Wildlife protection Act, allo scopo di proibire tutte le attività umane nei parchi. La Corte suprema acconsentì e ordinò alle autorità statali di rimuovere tutti i residenti dai parchi entro un anno. Una richiesta totalmente irrealistica. Non fu fatto alcun accenno ai diritti e ai bisogni dei circa quattro milioni di persone che abitavano la vasta rete di aree protette dell’India, per la maggior parte Adivasi (indigeni). Oggi queste comunità convivono con la minaccia costante di sfratto, sottoposti senza sosta a persecuzioni, minacce e pressioni affinché abbandonino i parchi.
Un problema mondiale
«L’istituzione di aree protette nei territori indigeni, fatta senza il nostro consenso né il nostro coinvolgimento, ha provocato la spoliazione e il reinsediamento dei nostri popoli, la violazione dei nostri diritti, lo sfratto delle nostre comunità, la perdita dei nostri luoghi sacri e il lento ma continuo sgretolarsi delle nostre culture, nonché l’impoverimento…», dalla «Dichiarazione dei delegati indigeni» al Congresso mondiale dei parchi del 2003. È estremamente difficile quantificare l’entità degli sfratti dai parchi perché in molte aree non esistono dati, mentre in altre non sono attendibili. Alcuni esempi danno un’idea dell’ordine di grandezza del problema.
Africa: uno studio* sui parchi centroafricani stima che le persone sfrattate siano più di 50.000, molte delle quali sono popoli tribali. Altri studi parlano di milioni*.
India: nel 2009 vengono stimate* in 100.000 le persone sfrattate dai parchi, oltre a numerosi milioni privati in toto o in parte dei loro mezzi di sostentamento e sopravvivenza. Nei parchi nazionali dell’India, che negli ultimi anni si sono espansi considerevolmente, vivono tra i tre e i quattro milioni di persone, su cui pende costantemente la minaccia di sfratto.
Thailandia (situazione simile nel resto del Sud Est asiatico): le persone minacciate di sfratto nel nome della protezione di foreste e bacini idrografici sono mezzo milione*.
Anche se è impossibile dare numeri precisi, le persone sfrattate dalle loro case nel nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto, sono molti milioni nel mondo. La maggior parte sono indigeni.
Alla base ci sono presupposti non scientifici secondo cui i popoli tribali non sarebbero in grado di gestire le loro terre in modo sostenibile, perché cacciano, pascolano e utilizzano le risorse dei territori in modo eccessivo. Ma c’è anche la volontà, sostanzialmente razzista, dei governi di integrare, «modernizzare» e soprattutto controllare i popoli tribali dei loro paesi.
Vengono quindi varate politiche nazionali che implicano lo sfratto degli indigeni e forzano i popoli dipendenti dalle foreste a imparare modi diversi di vivere. Gli orticoltori a passare all’agricoltura intensiva, i nomadi a sedentarizzarsi e popoli che hanno sempre agito collettivamente ad accettare titoli personali di proprietà su piccoli appezzamenti di terra o «pacchetti di risarcimento». Tutto ciò equivale a trasformare popoli indipendenti e autosufficienti in «beneficiari» dipendenti che, si presume, si inseriranno nella società dominante.
Anziché celebrare e valorizzare il fatto che i popoli indigeni sono «gli occhi e le orecchie» della foresta, la loro diversità viene usata per giustificare sfratti e molestie. Quando gli habitat vengono degradati o alcune specie si estinguono, il dito viene spesso puntato contro i popoli indigeni invece che contro i veri colpevoli, politicamente più impegnativi: bracconieri, contrabbandieri di legname, minatori illegali, imprenditori turistici – tutti dotati di potenti alleati – o grandi infrastrutture come silvicolture, miniere e dighe.
Sfratti eccellenti
Tra i molti esempi possibili, significativo è quello della riserva delle tigri di Kanha, Madhya Pradesh, India.
Nel nome della conservazione della tigre, migliaia di Baiga e Gond sono stati sfrattati illegalmente e con la forza dalla riserva indiana di Kanha* (luogo in cui è ambientato il famoso «Libro della giungla» di Kipling). Le famiglie sono state perseguitate per anni affinché lasciassero la riserva. Nel 2014 centinaia di persone sono state sfrattate. Hanno ricevuto denaro, ma né terra né aiuto per ristabilire le loro vite all’esterno. Intere comunità sono state distrutte.
Altro caso è quello dei Boscimani della Central Kalahari Game Reserve, Botswana*. Nel 2002 ai Boscimani fu detto che sarebbero stati rimossi dalla riserva ai fini della «conservazione», ma prima ancora che gli sfratti avessero luogo furono attuati test di prospezione mineraria, e dopo il loro sfratto fu inaugurata una miniera di diamanti.
I Masai di Loliondo, Tanzania settentrionale erano stati minacciati di sfratto con il pretesto della necessità di creare un corridoio di collegamento tra i due parchi nazionali Serengeti e Maasai Mara. Poi, però, la terra fu data in locazione a una compagnia di safari di caccia.
Rifugiati a casa loro
Che si tratti di miniere, dighe o progetti di conservazione, sfrattare gli indigeni dalle loro terre ha sempre gli stessi devastanti effetti: da un giorno all’altro popoli prima autosufficienti si trasformano in rifugiati. Strappati dalle loro terre e dalle risorse che le sostentavano, si ritrovano all’improvviso a dover dipendere da sussidi ed elemosina. Le comunità sprofondano nella povertà: cattive condizioni di salute, malnutrizione, alcolismo e malattie mentali. Relegati ai margini della società dominante, spesso la loro presenza è mal tollerata dai nuovi vicini, con cui emergono conflitti e tensioni sociali.
I popoli indigeni non sono gli unici a essere sfrattati dalle aree protette, ma sono quelli che ne soffrono immensamente di più. La ragione è che per sopravvivere dipendono completamente dalla terra in cui vivono e dalle sue risorse, e non hanno fonti di reddito. Per loro, la terra è tutto e non può essere rimpiazzata anche in virtù del profondo legame storico e spirituale che li unisce a essa.
Nelle parole dell’antropologo Jerome Lewis: «Ai contadini che, da quando (fu ufficializzato il Mgahinga National Park, in Uganda) negli anni ’30, avevano distrutto parte della foresta per costruire le loro fattorie, furono riconosciuti i diritti territoriali e ricevettero gran parte dei risarcimenti disponibili. I Batwa, invece, che avevano posseduto quella foresta per generazioni senza danneggiarne flora e fauna, avrebbero potuto ottenere qualche indennizzo solo se avessero agito come quegli agricoltori, distruggendo appezzamenti di foresta per trasformarli in campi. Un classico caso di mancato riconoscimento dei diritti alla terra dei popoli cacciatori-raccoglitori».
Le famiglie tribali raramente ricevono compensi adeguati – se mai ne ricevono – per tre principali ragioni:
In quanto società non statali, spesso i popoli indigeni non compaiono nei censimenti ufficiali. Quando esistono dati demografici, nel migliore dei casi sono inattendibili. I governi spesso ignorano i diritti consuetudinari e informali dei popoli indigeni che fanno quindi molta fatica a difendersi ricorrendo ad azioni legali.
Nei confronti della caccia, della raccolta e della pastorizia nomade, spesso praticate dai popoli tribali, vige una diffusa forma di razzismo, che li dipinge come arretrati rispetto ai contadini stanziali. Dei coltivatori si dice che abbiano migliorato la terra e per questo viene riconosciuto loro un risarcimento se la perdono a causa di sfratti o trasferimenti. Al contrario, alle tribù che non hanno costruito strutture permanenti né coltivato cereali e ortaggi, non viene riconosciuta alcuna proprietà fisica da risarcire. Ironicamente, è proprio il fatto che non siano state «migliorate» a rendere le loro terre tanto appetibili agli occhi dei conservazionisti.
Non esiste risarcimento che possa compensare il legame che unisce i popoli indigeni alle loro terre. «Prima ci impoveriscono togliendoci la nostra terra, la caccia e il nostro stile di vita. Poi ci dicono che non contiamo niente perché siamo poveri», Jumanda Gakelebone, Boscimane, Botswana.
Survival International
Se i parchi violano la legge
Leggi nazionali versus trattati internazionali
Le leggi che istituiscono i parchi sono spesso in grave violazione di trattati e convenzioni internazionali sui diritti dei popoli nativi. Questi spesso non hanno i titoli formali delle loro terre. Sono così facilmente espulsi e perdono ogni possibilità di sussistenza. Gli schemi alternativi proposti finiscono per creare un circolo di dipendenza.
Alcune leggi nazionali fanno riferimento alla creazione di aree protette «inviolabili». Tuttavia, la legge internazionale vieta esplicitamente a governi e altre organizzazioni di violare i diritti dei popoli, per qualsiasi motivo, anche la conservazione.
La maggior parte delle aree protette si trova in terre su cui i popoli indigeni hanno diritti consuetudinari o informali anziché titoli cartacei di proprietà registrati ufficialmente. Nonostante ciò, il loro rapporto con quelle terre è antico risalendo indietro nel tempo a un numero incalcolabile di generazioni e i legami economici, culturali e spirituali che hanno con esse sono molto profondi. Affinché i popoli indigeni possano sopravvivere è di cruciale importanza che i loro diritti territoriali siano rispettati, perché tutti i loro diritti umani derivano da questo. Se i loro diritti alla terra vengono violati, i popoli indigeni non possono godere nemmeno dei diritti umani fondamentali.
Convenzioni violate
Tra i diritti più spesso violati con la creazione dei parchi se ne conta una serie riconosciuta ai popoli indigeni dalla «Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», in particolare:
all’autodeterminazione (articolo 1.1);
a non essere privati dei mezzi di sussistenza (articolo 1.2);
a non essere sottoposti a interferenze arbitrarie o illegittime nella propria casa (articolo 17.1);
alla libertà di religione (articolo 18.1);
a vivere la propria cultura in comune con gli altri membri del proprio gruppo (articolo 27).
In quanto popoli indigeni, essi hanno poi un’altra serie di diritti, individuali e collettivi, sanciti dal diritto internazionale: la «Convenzione 169» dell’Organizzazione internazionale del lavoro e la «Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni» delle Nazioni Unite. Tra questi ci sono il diritto alla proprietà collettiva della terra e il diritto a dare o negare il consenso a progetti che hanno un impatto sulle loro terre.
Recinzioni, multe e intimidazioni
Una volta tracciati i confini di un parco, le comunità si vedono improvvisamente negare l’accesso ai luoghi di culto e sepoltura, alle piante medicinali necessarie e, in generale, ai mezzi di prima necessità, come cibo e combustibile per cuocere o prodotti della foresta da scambiare con altri gruppi.
Nel giro di qualche ora, perdono tutte le risorse che sostenevano la tribù da tempo immemorabile. Se cacciano, sono accusati di bracconaggio; se vengono sorpresi a raccogliere prodotti della foresta, rischiano multe o addirittura il carcere. La comunità si ritrova assoggettata ai capricci di guardaparco incuranti delle politiche ufficiali che magari le garantiscono il diritto a un «uso sostenibile» delle risorse.
In alcuni casi, vengono messe in atto iniziative speciali per cercare di compensare queste perdite attraverso «schemi alternativi di sussistenza» o «attività generanti reddito»*. Benché talvolta venga lasciata una possibilità di scelta, l’opzione di mantenere e potenziare ulteriormente la strategia tradizionale di sussistenza non viene praticamente mai presa in considerazione. Al contrario, questi progetti, molto spesso, non si curano di quali siano le vere necessità della tribù e impongono cambiamenti e integrazione. Spesso non offrono soluzioni a lungo termine in grado di compensare davvero la dipendenza sostenibile che la tribù aveva prima con la sua terra; al contrario, spingono le comunità verso un nuovo e insostenibile circolo di dipendenza dai meccanismi esterni.
Survival International
Contro il bracconaggio
(ma per i diritti umani)
Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana
I Pigmei Baka in Camerun
Nella guerra contro il bracconaggio, i Pigmei1 Baka del Camerun si trovano spesso nel mezzo di fuochi incrociati. E come loro i Pigmei Bayaka e decine di altri popoli della foresta, vengono trattati come bracconieri perché cacciano per nutrire le loro famiglie, come hanno fatto per generazioni, o semplicemente perché osano entrare nelle aree protette create nelle loro terre ancestrali. Subiscono arresti, pestaggi, torture e morte per mano dei guardaparco. Questi sono finanziati ed equipaggiati allo scopo di proteggere i parchi da organizzazioni come il World Wildlife Fund (Wwf) e la Wildlife Conservation Society (Wcs) che sono a conoscenza degli abusi da più di un decennio ma non li hanno fermati2.
Survival International ha ricevuto l’appello di molti indigeni da Camerun, Repubblica Centrafricana e Repubblica democratica del Congo che hanno denunciato gli abusi subiti. Un uomo Baka, ad esempio, ha raccontato a un ricercatore di Survival che i guardaparco lo hanno picchiato e poi hanno ribaltato il letto dove stava dormendo il figlio neonato, gettandolo violentemente a terra. Il bambino è morto poco dopo; i suoi genitori non avevano nemmeno avuto il tempo di dargli un nome.
Ma la violenza fisica è solo una parte degli abusi che i Pigmei e i loro vicini subiscono nel nome della conservazione. I guardaparco bruciano regolarmente gli accampamenti di caccia e raccolta, annientando in questo modo la forza vitale dei Baka, rubano la frutta e la verdura raccolte, il pesce pescato, le loro stoviglie e i loro attrezzi. I Baka vengono così sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali in cui non possono più vivere come prima, e molti denunciano che la loro salute sta peggiorando visibilmente a causa della malnutrizione, delle nuove malattie e della perdita di accesso alle medicine della foresta.
Nel febbraio 2016 Survival ha presentato un’istanza formale al Punto di contatto nazionale svizzero dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in merito alle attività del Wwf in Camerun. Secondo Survival, il Wwf ha collaborato alla creazione di aree protette, anche se il governo aveva mancato di ottenere il consenso libero, previo e informato delle comunità sui progetti di conservazione avviati nelle loro terre ancestrali. A dicembre, con una decisione senza precedenti, il Punto di contatto ha ritenuto l’istanza meritevole di approfondimento. È la prima volta che un’organizzazione no profit come il Wwf viene esaminata in questo modo.
I cacciatori Boscimani del Botswana
«Mi siedo e mi guardo attorno. Dovunque ci siano i Boscimani, c’è selvaggina. Perché? Perché noi sappiamo come prenderci cura degli animali. Sappiamo come cacciare, non ogni giorno ma secondo le stagioni», Dauqoo Xukuri, Boscimane, Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette ad abbandonare questo stile di vita, ma la Central Kalahari Game Reserve del Botswana (Ckgr) è ancora la casa dove gli ultimi Boscimani possono vivere in gran parte di caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta corte ha confermato il loro diritto a vivere e cacciare nella riserva.
Nonostante la sentenza, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della tribù nemmeno una licenza. La caccia di sussistenza praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro famiglie.
Survival riceve molte segnalazioni di Boscimani torturati fino dagli anni ‘90. Nel 2012, due Boscimani sopravvissero alle torture inflitte loro dalle guardie del parco perché avevano ucciso un’antilope.
Survival chiede al governo del Botswana di fermare i violenti abusi commessi contro i Boscimani e riconoscere il loro diritto di cacciare nella terra ancestrale.
Survival International
Note
1- «Pigmei» è un termine collettivo usato per indicare diversi popoli cacciatori-raccoglitori del bacino del Congo e di altre regioni dell’Africa centrale. Il termine è considerato dispregiativo e quindi evitato da alcuni indigeni, ma viene utilizzato da altri come il nome più facile per riferirsi a se stessi.
2- Prove e testimonianze sono contenute nell’Istanza formale che Survival ha presentato al Punto di contatto nazionale (Pcn) svizzero dell’Ocse.
I parchi hanno bisogno di loro
I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»
È verificato che i popoli indigeni sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni. Le loro pratiche ancestrali mantengono la biodiversità, controllano gli incendi e fermano la deforestazione. Ma nei parchi quasi sempre quello che fanno è proibito. Per questo sono arrestati. E le condizioni della biosfera dell’area peggiorano.
I popoli indigeni dipendono dall’ecosistema in cui vivono sia a livello pratico che spirituale e sono quindi fortemente motivati ed efficaci nel proteggerlo. Il tema dell’utilizzo delle risorse naturali è centrale nella gestione indigena della terra: nei secoli, i popoli tribali hanno sviluppato complessi sistemi sociali per amministrare la raccolta dell’ampia varietà di specie da cui dipendono in modo da assicurarsi abbondanza e sostenibilità nel tempo. Al contrario, una visione più ristretta della protezione della natura giudica questa modalità di utilizzo della terra e delle sue risorse inconciliabile con la conservazione.
Coloro che dipendono dalle loro terre per sopravvivere sono certamente più motivati a proteggere l’ambiente in cui vivono rispetto a guardie forestali malpagate, trasferite lontano dalle famiglie, spesso incapaci o riluttanti a perseguire i veri criminali e quindi inclini a concentrare le loro energie su obiettivi più facili: le popolazioni locali.
«Noi, i popoli indigeni, siamo stati parte integrante della biosfera dell’Amazzonia per millenni. Abbiamo usato e protetto le sue risorse con grande attenzione e rispetto, perché è la nostra casa e perché sappiamo che la nostra sopravvivenza e quella delle generazioni future dipendono da questo. La nostra profonda conoscenza dell’ecologia della nostra casa, il nostro modo di convivere con le peculiarità della biosfera, la riverenza e il rispetto che abbiamo per la foresta tropicale e i suoi abitanti, piante o animali che siano, sono la chiave per garantire il futuro del bacino amazzonico, non solo per il nostro popolo, ma per l’intera umanità», Coica, Confederazione delle Organizzazioni Indigene del Bacino dell’Amazzonia, 1989.
Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, sfrattare i popoli indigeni dalle loro case trasformate in aree protette, raramente contribuisce alla conservazione della natura. Anzi, è spesso controproducente perché circonda il territorio di persone risentite, che spesso continuano a dipendere dalle risorse del parco. Inoltre, nega un’evidenza sempre più palese: quando coloro che se ne sono sempre occupati in maniera sostenibile sono costretti ad andarsene, gli ecosistemi soffrono. Alcune recenti ricerche* stanno sconvolgendo la logica conservazionista. In seguito allo sfratto delle comunità indigene, gli incendi incontrollabili, il bracconaggio e le specie invasive spesso aumentano. Uno studio condotto all’interno del Chitwan National Park del Nepal* ha addirittura mostrato una minore densità di tigri nel cuore dell’area liberata dalla presenza umana. Sembra che il modo in cui le comunità gestivano le aree circostanti creasse un habitat migliore per le tigri stesse.
Incrementano la biodiversità
La coltivazione a rotazione, chiamata anche debbio, si riferisce a una tecnica di coltivazione a cicli, che prevede prima la pulizia del terreno da coltivare (di solito utilizzando il fuoco) e poi il suo abbandono per alcuni anni, per permettergli di rigenerarsi. In tutto il mondo, governi e gruppi ambientalisti hanno cercato a lungo di eliminare la coltivazione a rotazione, spesso definendola in termini peggiorativi «taglia e brucia».
Oggi gli scienziati hanno compreso che questa tecnica può «dare spazio a sorprendenti livelli di biodiversità»*. Le comunità che la utilizzano, come i Kayapò del Brasile, riescono a tenere sotto controllo le varie specie di piante che compongono la foresta. Ciò influisce positivamente sulla biodiversità e crea habitat di grande importanza. Contribuisce inoltre a incrementare la biodiversità disegnando un mosaico di habitat differenti.
Ricerche condotte sulle attività di sostentamento dei cacciatori-raccoglitori nel bacino del fiume Congo* dimostrano che le loro tecniche portano a un significativo miglioramento dell’ambiente come habitat di fauna selvatica, inclusi gli elefanti.
Eppure, nonostante i benefici ecologici del debbio siano sempre più riconosciuti, in molti altri casi questa pratica è bandita o le comunità che dipendono da essa vengono sfrattate. L’impatto sulle comunità indigene coinvolte è serio, anche dal punto di vista della salute.
Nelle riserve delle tigri dell’India, i villaggi che si trovano all’interno creano pascoli per animali che spesso si rivelano prede importanti per le tigri. Quando vengono rimossi, il Dipartimento Forestale deve trovare altri modi per mantenere floridi questi pascoli, pena una diminuzione della biodiversità.
Controllano gli incendi
«I danni che abbiamo oggi (a causa degli incendi devastanti), potrebbero essere limitati permettendo agli Aborigeni di fare quello che hanno perfezionato nel corso di migliaia di anni». Professor Bill Gammage, Australian National University.
Sia in Australia che in Nord America, i primi colonizzatori notarono l’aspetto insolito del territorio, più simile a un parco che a delle foreste: alberi distribuiti su pianure sterminate ma nessuna traccia di sottobosco. Un intrinseco pregiudizio impedì loro di capire che quei paesaggi erano il risultato di una cura del territorio molto sofisticata ed estesa. Bill Gammage, esperto di tecniche aborigene di gestione del territorio, ha dimostrato che quelle popolazioni avevano sviluppato un sistema di utilizzo del fuoco che permetteva loro di ricavare dalla terra tutto ciò di cui avevano bisogno.
In Australia ci si sta sempre più rendendo conto che i sistemi aborigeni limitavano il rischio di grandi e devastanti incendi. Negli ultimi novant’anni gli incendi boschivi sono costati al governo australiano quasi sette miliardi di dollari Usa. Allo stesso modo, in Amazzonia, l’incidenza di incendi è molto più bassa nei territori abitati dagli indigeni.
Ma, così come è accaduto per la coltivazione a rotazione, anche gli incendi controllati sono stati dichiarati illegali, e vengono persino criminalizzati.
Fermano la deforestazione
Le immagini satellitari* forniscono una prova evidente del ruolo che i territori indigeni giocano nel prevenire la deforestazione. Quando i popoli tribali vivono nelle loro terre con diritti pieni e riconosciuti, e la certezza che quelle terre rimarranno sempre nelle loro mani, usano le foreste in modo di gran lunga più sostenibile dei nuovi venuti: allevatori, taglialegna e contadini che abbattono gruppi di alberi in un colpo solo.
Un’analisi su vasta scala* condotta sia sulle aree protette sia nelle foreste gestite dalle comunità indigene ha dimostrato che queste ultime resistono meglio alla deforestazione rispetto alle prime. E non sorprende se si pensa che le comunità hanno molti buoni motivi per proteggere e gestire efficacemente le foreste da cui dipendono per sopravvivere, mentre molte aree protette esistono solo sulla carta e vengono gestite miseramente da staff spesso sottopagato, immotivato e a volte corrotto.
«Abbiamo protetto le foreste per migliaia di anni, ora ci cacciano come animali. Ma ogni giorno, alberi immensi vengono tagliati di nascosto e venduti di contrabbando. I funzionari della foresta hanno deciso di mandarci via, così che queste attività possano continuare indisturbate», portavoce degli Adivasi Iruliga, Bangalore, India.
Fermano lo sfruttamento eccessivo
Prove storiche inconfutabili* dimostrano che ai popoli indigeni bastava cacciare un numero limitato di animali da branco per controllarne la popolazione e prevenire lo sfruttamento eccessivo dei pascoli. Studi condotti a Yellowstone*, ad esempio, mostrano che i loro metodi erano molto efficaci nel controllare la popolazione dei cervi e dei bisonti. Dopo lo sfratto delle tribù dal parco, invece, i guardaparco hanno dovuto sparare a 13.000 cervi nel tentativo di controllarne il numero. L’eliminazione selettiva dei bisonti a Yellowstone continua ancora oggi.
Controllano il bracconaggio
I popoli indigeni conoscono la loro terra intimamente. Nel corso di generazioni hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna autoctone e delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i più efficienti ed efficaci manager delle loro terre.
Sistemi complessi di controllo della caccia e della raccolta aiutano a mantenere l’ordine sociale della tribù, e allo stesso tempo proteggono le risorse da cui la comunità stessa dipende. In molte etnie è vietato uccidere animali giovani, gravidi o considerati totem; mentre eccedere nello sfruttamento delle specie, e caccia e pesca sono consentiti solo in alcuni periodi. Il risultato di questi tabù e pratiche è l’efficace razionamento delle risorse nel territorio, che arricchisce la biodiversità e dà a piante e animali il tempo e lo spazio necessari a prosperare.
Caccia di sussistenza e sostenibilità
I Boscimani del Kalahari vengono picchiati, torturati e arrestati se cacciano per sfamare le loro famiglie. Sebbene il governo li etichetti come bracconieri, non esistono prove che la loro caccia di sussistenza sia insostenibile. Al contrario, è perfettamente compatibile con la conservazione: i Boscimani sono motivati a proteggere la fauna selvatica dalla quale dipendono più di chiunque altro. Ma quando le iniziative di conservazione strappano ai popoli tribali il controllo di terre e risorse, la loro capacità di auto-sostentarsi viene compromessa. E quando questo accade, essi rischiano di diventare complici dei bracconieri piuttosto che dei conservazionisti verso i quali hanno imparato a nutrire risentimento.
In quanto «occhi e orecchie» della foresta, i popoli indigeni si trovano nella posizione migliore per prevenire, individuare e denunciare le attività di bracconaggio. Ma una volta rimossi dalle loro terre, perdono la possibilità e, forse, anche la motivazione a farlo. Per controllare il bracconaggio devono quindi essere investiti fondi ingenti in armi e guardie. Spesso queste misure sono inefficaci e portano a una crescente corsa agli armamenti tra bracconieri e guardiani. E perdono tutti, natura inclusa.
Un rapporto sullo sfratto dei Masai dalle terre di Ngorongoro (Tanzania) dello United Nations Environment Program (2009)* si chiude con questa constatazione: «L’allontanamento di questi guardiani naturali – e a basso costo – dalle loro terre, ha portato a un incremento dell’attività di bracconaggio e alla susseguente quasi totale estinzione dei rinoceronti».
Survival International
Natura: né vergine né selvaggia
La Campagna di Survival International
Per i popoli indigeni la terra non è un’entità da sfruttare bensì un universo da sostenere e mantenere in equilibrio a cui l’uomo appartiene al pari di qualsiasi altro essere vivente. Difenderla è semplicemente il loro modo di vivere, e non un dovere, perché dal suo stato di salute dipende la loro stessa sopravvivenza e quella delle future generazioni.
Alla base del concetto di «conservazione» c’è invece una concezione dualistica del rapporto uomo-natura che considera la natura come un dominio autonomo distinto dalla sfera delle azioni umane. Un luogo incontaminato in cui l’uomo si pone solo come una mera forza distruttiva finché non interviene a esercitare la sua giurisdizione per assicurarne la preservazione.
Ma secondo i popoli indigeni la natura non è «vergine» né «selvaggia», se non nell’immaginario occidentale. E a conferma della loro visione, oggi esistono prove scientifiche che dimostrano che la fisionomia della maggior parte delle regioni ecologicamente più importanti del pianeta, così come le conosciamo oggi, sono il prodotto culturale di una manipolazione molto antica della flora e della fauna, operata da società umane a loro volta condizionate e plasmate da secoli di convivenza con esse.
L’approccio non potrebbe essere più distante. Da un lato un rapporto dell’uomo con la natura fondato su valori di uguaglianza, reciprocità ed equilibrio: la visione ecocentrica dei popoli indigeni, capaci di sfruttare le risorse dei loro ambienti senza mai alterarne i principi di funzionamento e i cicli di riproduzione. Dall’altra un movimento conservazionista radicale e razzista che a partire dagli Usa del XIX secolo si è espanso soprattutto in Africa e Asia sfrattando illegalmente milioni di indigeni dalle loro floride terre ancestrali per farne santuari inviolabili, liberi da qualsiasi presenza umana, con conseguenze drammatiche.
È tempo di fermare brutali violazioni dei diritti umani che danneggiano anche l’ambiente. Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni e ha lanciato una campagna per promuovere un nuovo modello di conservazione che rispetti i diritti dei popoli indigeni e riconosca il loro ruolo di migliori custodi del mondo naturale.
Survival lotta per una svolta radicale nelle politiche della conservazione: per lo smascheramento del suo “lato oscuro” e l’esplorazione di soluzioni innovative fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo il diritto alla proprietà collettiva della terra e a proteggere e alimentare le terre natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti come i migliori custodi delle loro terre e, di conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo.
Survival International– È il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro. Le società industrializzate sottopongono i popoli indigeni a violenza genocida, a schiavitù e razzismo per poterli derubare di terre, risorse e forza lavoro nel nome del «progresso» e della «civilizzazione». La missione di Survival è prevenire il loro sterminio, e ottenere un mondo in cui questi popoli siano rispettati come società contemporanee e i loro diritti umani tutelati. A finanziare il lavoro di Survival, che è rigorosamente apartitica e aconfessionale, sono quasi esclusivamente le donazioni dei singoli, insieme ai proventi di piccole iniziative di raccolta fondi. Tra le campagne più urgenti del momento c’è quella per un nuovo modello di conservazione della natura, tema di questo dossier.
A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
foto: Le immagini di questo dossier sono state fornite da Survival International, www.survival.it.
India: Water grabbing sul tetto del mondo
Gli stati himalayani sono determinati a sfruttare tutto il loro enorme potenziale idrico. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private. E le dighe, con il loro devastante impatto ambientale e sociale, si moltiplicano.
Enormi riserve idriche, ghiacciai, fiumi d’acqua abbondante e limpida, scarsa popolazione e poca industria: una ricetta perfetta per alimentare il nuovo grande gioco dell’Asia sulle risorse idriche. Cina e India si contendono uno dei beni più preziosi su quello che viene chiamato il «tetto del mondo», le montagne himalayane. Qui si concentrano le riserve di acqua dolce più vaste del globo terrestre e vi sgorgano i fiumi più importanti dell’Asia, il Brahmaputra, il Mekong, l’Indo e il Gange. Fiumi le cui acque, flora e fauna sono minacciate da inquinamento industriale, pesca sregolata, deforestazione e dalla costruzione di grandi infrastrutture, soprattutto dighe per la produzione di energia.
Il governo indiano e cinese si sfidano nello sfruttamento non solo delle acque del proprio territorio, ma anche di quelle dei paesi confinanti come il Nepal e il Bhutan. Un vero water grabbing (accaparramento idrico) fatto a colpi di trattati internazionali.
Da un lato ci sono i rappresentanti dei governi, dall’altro grandi imprese private o pubbliche costruttrici di infrastrutture idriche. Il tutto con la supervisione e il beneplacito delle istituzioni finanziarie nazionali e internazionali per lo «sviluppo», tra queste ultime la Banca Mondiale e la Banca Asiatica per lo Sviluppo.
Il ritorno di Banca Mondiale
Le priorità della finanza internazionale sembrano cambiate, dunque, dagli anni ’90, quando la Banca Mondiale aveva dimostrato interesse per le istanze dei diritti ambientali. Nel 1991, infatti, era stata la stessa Banca Mondiale a commissionare una valutazione sulla diga Sardar Sarovar sul fiume Narmada, ascoltando le proteste locali e la solidarietà internazionale.
L’ex membro del congresso Usa e alto funzionario dell’Onu, Bradford Morse, insieme all’avvocato canadese per i diritti umani Thomas Berger, viaggiarono nell’area per valutare l’impatto della diga sugli abitanti locali.
Il rapporto scritto dai due, noto come Morse Report, pubblicato nel 19921, rivolse pesanti critiche alla diga, promossa nel nome dello sviluppo e della riduzione della povertà. Puntò il dito sui maltrattamenti delle comunità indigene e sul fatto che i benefici economici attesi erano stati solo momentanei e non avevano favorito le comunità locali, mentre gli impatti ambientali e la frammentazione sociale cadevano sulle spalle dei soggetti più vulnerabili. Anche gli aiuti stanziati per «compensare» le famiglie danneggiate dalla diga erano risultati essere solo palliativi e avevano creato dipendenza economica tra coloro che prima potevano contare sulla propria terra e beni comuni gestiti dalla collettività.
In nome della sostenibilità
Il Rapporto Morse era stato il risultato di una lunga lotta da parte di movimenti sociali, in primis il Narmada Bachao Andolan (Movimento per la Salvezza della Narmada), e aveva portato la Banca Mondiale a ritirarsi dagli investimenti sulle grandi dighe.
Ora però il colosso finanziario fa finta di aver dimenticato e torna sui suoi passi. Nel 2013 ha rilanciato il water grab delle grandi dighe durante il «Fragility Forum» tenutosi a Washington, dichiarando che «l’idroelettrico a grande scala rappresenta una soluzione [al cambio climatico e alla povertà] per l’Africa, l’Asia Meridionale e il Sudest Asiatico». Nelle parole di Rachel Kyte, la vicepresidente della Banca per lo sviluppo sostenibile e influente voce dell’istituzione, «la scelta degli anni ’90 fu un errore»2.
I paesi «fragili» da soccorrere, in cui consolidare le economie garantendo generose infrastrutture, questa volta in nome della sostenibilità, sono tanti. Fra questi l’India, che gode di fondi diretti della Banca Mondiale e della sua branca asiatica, la Banca Asiatica per lo Sviluppo (Adb).
Il governo indiano appoggia pienamente il piano e non vede di buon occhio obiezioni in merito.
Per lo studioso indiano Ramachanda Guha, la lobby pro-idroelettrico ha avuto successo nell’eliminare le voci contrarie, inclusi gli studi ambientali scientifici esistenti, pur di non mettere a rischio lucrosi progetti3.
Sfruttare il più possibile
Gli stati himalayani, soprattutto Himachal Pradesh, Uttarakhand, Sikkim e Arunachal, sono determinati a sfruttare tutto il potenziale individuato. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa idrica, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private grosse e piccole.
Per la geomorfologia delle strette valli himalayane, sono pochi i progetti che prevedono grandi laghi artificiali. Tuttavia, i cosiddetti progetti Run-of-River, cioè impianti a pompaggio o ad accumulazione, comportano lo scavo di numerose gallerie per le derivazioni d’acqua. Per scavarle, si ricorre, soprattutto nelle ore notturne, alla dinamite, e si sono registrati smottamenti sismici, innumerevoli crepe nelle case, prosciugamento di fonti d’acqua e importanti perdite nell’agricolura (soprattutto alberi da frutta) dovute alle polveri che si accumulano sulla terra e sulle foglie.
I nuovi progetti spesso non hanno un solido studio di fattibilità alle spalle. Secondo una fonte governativa, mentre una volta in Himachal Pradesh l’individuazione di un sito per un progetto idroelettrico prevedeva una visita in loco per considerare diverse variabili, ora si avvale della tecnologia remote sensing, attraverso satelliti e applicazioni cartografiche, per individuare i salti d’acqua. Molto spesso poi i permessi vengono concessi senza una visita sul luogo, che può essere ad esempio una vallata lontana e dalle strade non facilmente percorribili.
Il caso delle inondazioni dell’Uttarakhand
Per la fatalità della storia, nello stesso anno in cui la Banca Mondiale annunciava il suo ritorno nel grande giro d’affari delle dighe, una pesante pioggia di più giorni cadde sulla regione occidentale dell’Himalaya. Nello stato dell’Uttarakhand causò violente inondazioni e smottamenti del terreno. Fu il disastro «ambientale» più grave nel paese dopo lo tsunami del 2004. Era giugno, piena stagione turistica per i numerosi siti di pellegrinaggio hindu presenti nella zona. Ci volle molto tempo al governo per fare una stima delle vittime, che si aggira poco sotto le 6.000 e di cui si sono trovati pochissimi corpi.
Gli esperti climatologi ammisero che l’entità delle piogge era fuori dalla media stagionale, ma affermarono che il colpevole non si poteva cercare nel meterno. «Avete sentito alcuni arrivare a dire che è stato un omicidio. Ma io lo chiamo ecocidio», affermò Devinder Sharma del Forum for Biotechnology and Food Security alla Cnn. «La copertura forestale è stata ridotta terribilmente [per fare spazio a strade, linee di trasmissione e altre infrastrutture per le dighe], c’è una considerevole attività mineraria nella regione [soprattutto di estrazione di sabbie per cemento], e le strade sono costruite senza un piano ragionato. In più, i grandi progetti idroelettrici in varie fasi di costruzione sono nell’ordine delle centinaia, con i loro tunnel che sfregiano le montagne».
Vimal Bhai dell’organizzazione Matu Jan Sanghatan denunciò la situazione intorno alla diga di Tehri, la più alta di tutta la regione. Mentre ai tempi il governo e l’impresa pubblica che la gestisce, la Thdc, ne difendeva l’utilità per controllare inondazioni improvvise, ora si trovano con una infrastruttura danneggiata che rappresenta un rischio per la popolazione. In più, nei mesi immediatamente successivi al disastro, Thdc non volle diminuire l’altezza dell’acqua del lago e anzi chiese il permesso per aumentarne il livello e generare così maggiore elettricità.
L’urgenza di rivedere l’intera politica energetica
Dopo il disastro, la Corte Suprema dette immediatamente l’indicazione al Ministero dell’Ambiente di istituire una commissione d’inchiesta. Il documento finale dell’Expert Body (Eb) diretto dal Dr. Ravi Chopra e pubblicato nell’aprile successivo riconobbe la relazione diretta tra l’instabilità del terreno, le alluvioni e i progetti idroelettrici, e dichiarò chiaramente l’urgenza assoluta di fermare almeno 23 progetti e di rivedere profondamente l’intera politica energetica nella regione.
Il collettivo India Climate Justice ribadì che le cause erano state molteplici: eccessiva deforestazione che aveva creato instabilità del terreno e non permetteva l’assorbimento dell’acqua, turismo di montagna e traffico su strada sregolati, estrazione di sabbie dai letti dei fiumi, costruzioni inadatte senza regolari permessi e studi di hotel e altri edifici4.
Un concetto non condiviso e selvaggio di «sviluppo» per questa regione porta dunque inevitabilmente a politiche irresponsabili e complici. Il collettivo riaffermò che «questa tragedia è un crimine, perché i nostri legislatori e amministratori sono parte della grande ingiustizia climatica su scala globale, che minaccia, sfolla e uccide coloro che si trovano più impoveriti e marginalizzati».
La sconcertante perseveranza
Dopo la grande commozione e dolore provocati dalla tragedia, ciò che sconcerta è la perseveranza nelle stesse politiche energetiche e di gestione del territorio. E che non si limitano all’Uttarakhand.
Il vicino stato dell’Himachal Pradesh ha fatto dell’idroelettrico il fiore all’occhiello della sua promozione come green state, con una economia verde e con esclusiva produzione di energia rinnovabile. Tuttavia, anche qui si parla di centinaia di progetti in fase di pianificazione o costruzione, tra cui la più grande diga privata del paese, la Karchham Wangtoo5 dalla capacità installata di 1.200 Mw e di proprietà del colosso indiano Jindal Group.
Il vice chancellor dell’Università dell’Himachal Pradesh, prof. A. D. N. Bajpai ha messo in allerta per il rischio enorme a cui è esposto l’intero distretto del Kinnaur nel malaugurato caso di un terremoto nella regione, che è per altro dichiarata ad alto rischio sismico6.
Energia che non serve
Questo scenario risulta ancora più difficile da comprendere se si consultano i dati ufficiali, come ricordano organizzazioni quali Sandrp e il Manthan Centre. L’elettricità prodotta da queste grandi dighe non trova facilmente un acquirente, per il prezzo troppo alto o per l’eccessiva offerta, a seconda della stagione7.
Gli abitanti locali, soprattutto in Kinnaur, hanno lanciato lo slogan di una «no-go zone» per l’idroelettrico e difendono orgogliosamente la loro economia basata sull’agricoltura e sulla produzione di frutta. Si organizzano in comitati di supporto e in più occasioni le loro domande si sono unite a quelle dei lavoratori del cantiere, quando hanno incrociato le braccia per le condizioni di lavoro e l’insicurezza nell’escavazione dei tunnel, già costata la vita a un numero non registrato di lavoratori.
Nonostante in molti casi gli sforzi della resistenza non siano stati sufficienti, hanno alimentato una sempre maggiore coscienza della necessità di un cambio non solo nella tecnologia dei progetti. Poco a poco si diffonde una domanda più di fondo: per cosa viene usata questa energia e chi ne risulta beneficiato? Quali sono le altre tecnologie che si potrebbero utilizzare? Su quale scala? Quali sono le infrastrutture di cui davvero la gente locale ha bisogno, in un’ottica di decentralizzazione?
Anche se le risposte e le proposte alternative sembrano ancora lontane, spesso è proprio all’interno della resistenza che si schiudono le prime sementi di qualcosa di diverso, e la presa di coscienza ne è il primo fertilizzante.
Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas
Note
1- Bradford Morse & Thomas R. Berger, Sardar Sarovar – Report of the Independent Review, reperibile in formato pdf nel sito ielrc.org.
2- Howard Schneider, World Bank turns to hydropower to square development with climate change, «The Washington Post», 08-05-2013.
3-Ramachandra Guha: Expediency trumps expertise, «The Gulf Today», 13-07-13.
4- La dichiarazione si può leggere in Climate justice statement on the Uttarakhand catastrophe, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 25-06-2013.
5- Il progetto Karchham-Wangtoo è la più grande infrastruttura idroelettrica dell’India in mano privata, del Jindal Group. Il gruppo austriaco Andritz ha partecipato con alcune componenti. Al momento 800 abitanti della zona hanno avviato un’azione legale per ottenere le compensazioni pattuite che non vengono rispettate.
6- Rakhee Thakur, Mega projects endangering Himachal Pradesh, «The Times of India», 07-11-2015.
7- Per informazioni più dettagliate: Ankur Paliwal, Drowned in power, «Down To Earth», downtoearth.org.in, 15-04-2014; e Hydropower in Himachal: Do we even know the costs?, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 04-10-2014.
Perù. La verità difficile
Dal 1980 al 2000 il conflitto interno peruviano ha fatto quasi 70mila vittime tra morti e desaparecidos, soprattutto tra poveri e indigeni delle zone rurali presi tra i due fuochi di Sendero Luminoso e delle forze statali. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita nel 2001 ha affrontato il problema della memoria e della giustizia. Ma molto rimane ancora da fare.
Domenica, 10 del mattino. Ho appuntamento con i miei studenti dell’Università cattolica per visitare il «Lugar de la Memoria». Il grande edificio non è visibile dalla strada e si raggiunge con difficoltà scendendo scale piuttosto scomode. Quando arrivo trovo il posto pieno di visitatori, quasi tutti studenti, ma anche famiglie, suore e turisti stranieri.
Mentre spiego ai giovani la strage di Putis1 del 1984, l’assassinio di otto giornalisti a Uchuraccay2 del 1983 e il lavoro svolto dalle organizzazioni per i diritti umani, penso che senza il lavoro della Commissione Verità tutto ciò che stiamo visitando non esisterebbe.
Il contesto peruviano
Ci sono molte differenze fra la realtà peruviana e quelle di altri paesi dell’America Latina come il Cile, l’Argentina, il Brasile o l’Uruguay in cui furono istituite Commissioni per la verità.
Un primo fattore particolare è la proporzione della violenza: quanto accadde in Perù tra il 1980 e il 1993 non può essere ridotto alla categoria di incidenti di terrorismo o guerriglia urbana e repressione. In molte zone si raggiunse il livello di una guerra, con attacchi alle caserme, battaglie, stragi. Sendero Luminoso riuscì a operare su un territorio grande quasi come l’Italia (il Perù ha una superficie di circa quattro volte il nostro paese, ndr).
È vero che molti peruviani preferiscono parlare di terrorismo e di eccessi delle forze di sicurezza, ma questo succede perché è difficile accettare che sia stata una vera e propria guerra.
Una seconda particolarità del conflitto peruviano riguarda i due gruppi insorgenti, Sendero Luminoso e il Movimiento Rivoluzionario Túpac Amaru (Mrta), i quali furono molto violenti contro la popolazione civile, specialmente i contadini più poveri. I senderistas ammazzavano villaggi interi, compresi i bambini. Disprezzavano le comunità più fedeli alle proprie tradizioni come se fossero state composte da primitivi. Per questo motivo anche tra gli indigeni asháninka dell’Amazzonia soffrirono in tantissimi. Il Mrta assassinava omosessuali e tossicodipendenti in diverse città dell’Amazzonia.
Un terzo elemento specifico del caso peruviano è il fatto che, sul versante delle istituzioni, il maggior responsabile delle desapariciones, degli stupri di massa, delle esecuzioni extragiudiziali e delle torture non fu una dittatura militare ma un governo democratico, quello di Fernando Belaúnde (1980-1985). Belaúnde lasciò ai militari la responsabilità di lottare contro i sovversivi e, quando essi compirono le atrocità poi documentate dalla Commissione Verità, ne diventò complice proteggendoli tramite leggi ad hoc.
Infine, un’altra differenza sta nel fatto che negli altri paesi del Sud America molte delle vittime dei militari furono persone residenti in città, normalmente gente di sinistra appartenente alla classe media, in Perù, invece, le principali vittime furono indigeni poveri che abitavano in campagna e non parlavano spagnolo. I senderisti li uccidevano per rappresaglia e i militari seguivano la politica della tierra arrasada, «terra bruciata» (la repressione indiscriminata contro la popolazione sospetta di appartenere o fiancheggiare la guerriglia, ndr), uccidendo contadini innocenti.
I crimini commessi contro le comunità indigene avvennero in un contesto di forte odio razziale: i militari erano convinti dell’inferiorità degli indigeni ed erano sicuri di rimanere impuniti. Un razzismo, comunque, presente non solo tra i militari, ma diffuso tra la popolazione ancora oggi: un’eredità coloniale che continua a essere forte e viva due secoli dopo l’indipendenza (in un paese nel quale si stima che la popolazione indigena raggiunga il 45% dei quasi 31 milioni di abitanti; un altro 31% sarebbe composto da meticci, ndr). Molti peruviani di ascendenza europea, ad esempio, considerano gli indigeni i responsabili dell’arretratezza del paese. L’indifferenza è l’attitudine più comune nei confronti dei loro problemi: la povertà, lo sfruttamento e l’inquinamento dei loro territori.
Sconfitta e memoria
La violenza del governo di Belaúnde contro i contadini contribuì a fare crescere Sendero Luminoso. Il successore di Belaúnde, Alan García (presidente del Perù dal 1985 al 1990, e poi nuovamente dal 2006 al 2011, ndr) fermò la politica della «terra bruciata», ma le sparizioni e le violenze continuarono. Le stragi nei villaggi di Accomarca3 e Cayara4, o nelle carceri di Lima5, in cui ci furono più di duecento morti tra i detenuti, avvennero durante il suo governo. I seguenti governi di Alberto Fujimori (dal 1990 al 2000) furono caratterizzati da uno stile autoritario di cui è un esempio l’auto-golpe del 1992 tramite il quale il presidente fece sciogliere il parlamento e proclamò la legge marziale. Poco dopo, quando il leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán, fu arrestato e imprigionato Fujimori, fu considerato il grande pacificatore. Il movimento terrorista andò in crisi e il governo riuscì a sbaragliarlo. Oggi resiste in alcuni luoghi isolati ed è molto vicino ai narcotrafficanti.
La sconfitta di Sendero Luminoso permise ai peruviani di recuperare la fiducia nella possibilità di continuare a vivere nel loro paese e di progettare il loro futuro: farsi una famiglia, studiare, costruire una casa. La gente cercò di dimenticare gli anni della violenza.
Il Perù incominciò a ricevere grandi investimenti. Aprirono nuovi negozi, grandi shopping center, ditte straniere. Si potrebbe dire che il lusso e il consumismo accecarono chi voleva essere abbagliato per dimenticare la violenza e le sue cause. I più poveri non potevano permettersi di acquistare nuove macchine o vestiti ma ricevevano dal governo fujimorista cibo e altre donazioni. E loro, cioè la parte di popolazione che maggiormente aveva sofferto nel conflitto, ringraziavano Fujimori per la pace.
Convocando la Commissione nel mezzo di una crisi
Otto anni dopo la cattura di Guzmán, nel 2000, pochi ricordavano il tempo della violenza e Fujimori, al suo terzo, contestato, mandato, era stato travolto da molti scandali di corruzione che lo avevano costretto a scappare in Giappone. Quando nel governo provvisorio di Valentín Paniagua si volle fare un’inchiesta sulla corruzione al tempo di Fujimori, gli organismi per i diritti umani ne approfittarono per proporre l’istituzione di una commissione sulle violazioni dei diritti umani.
Non solo convinsero Paniagua, ma riuscirono a fare in modo che l’inchiesta riguardasse un lasso di tempo che andava indietro fino al governo di Belaúnde durante il quale Paniagua era stato presidente della Camera di Deputati.
Ufficialmente Paniagua e poi il suo successore Alejandro Toledo*, volevano una commissione il più possibile plurale, e scelsero i commissari per il loro valore morale: un vescovo, un pastore evangelico, un militare, una imprenditrice. Fra i dodici membri c’erano anche Sofía Macher che era stata Segretaria esecutiva della Coordinadora Nacional de Derechos Humanos, il sacerdote Gastón Garatea*, il sociologo Rolando Ames che nel primo governo di García aveva partecipato come senatore di sinistra all’inchiesta sul massacro delle carceri, e Carlos Iván Degregori, antropologo che aveva lavorato ad Ayacucho ed era uno dei più grandi ricercatori su Sendero Luminoso. Come osservatore per la Chiesa Cattolica c’era il vescovo Luis Bambarén*. Questi cinque personaggi avevano lavorato molto per i diritti umani al tempo del conflitto, denunziando i crimini dei senderisti e dei militari.
Mi causò una certa sorpresa il fatto che, all’interno di questa pluralità, non si fosse nominato nessun rappresentante delle vittime. E la situazione più curiosa fu che, pur essendo il razzismo il fattore che causò strage tra molti innocenti, non si pensò di includere persone dai tratti indigeni fra i commissari: quasi tutti erano uomini bianchi che abitavano a Lima, nessuno parlava quechua, la lingua indigena predominante in Perù. La stessa Commissione avrebbe poi scoperto che il 75% delle vittime della violenza parlava quechua. In una società con tante divisioni etniche e sociali non fu la partenza migliore.
Un altro punto problematico fu il fatto che la Commissione, inizialmente, non capì che il suo lavoro non era nato da una domanda della società: per i crimini commessi da Sendero Luminoso e Mrta, i responsabili erano già in prigione e la gente non sentiva il bisogno di fare nuove ricerche. Nel caso dei crimini delle forze di sicurezza statali, era molto diffusa l’idea che fossero stati il prezzo da pagare per la pace.
Anche i contadini sentivano molto lontana la Commissione. Quando essa organizzò udienze pubbliche – ad esempio ad Ayacucho, uno dei posti in cui più aveva sofferto la popolazione indigena – nelle quali le vittime raccontavano le violenze subite, la gente pensò che i commissari volessero ascoltare i testimoni per semplice sadismo, perché ai bianchi piaceva vedere soffrire gli indigeni.
In più, alcune decisioni importanti della Commissione erano state prese senza valutarne le conseguenze sociali.
Informe final e conseguenze politiche
Nonostante i problemi menzionati, dopo mesi di lavoro intenso in tutto il Perù, sistemando e ordinando centinaia di testimonianze, la Cvr produsse un documento molto corposo e completo: l’«Informe Final», in nove volumi, un lavoro di ricerca che approfondiva molti aspetti della violenza e del suo contesto.
La difficoltà maggiore per la Commissione durante il suo lavoro non era stata tanto quella di scoprire i crimini del tempo de Belaúnde, quanto piuttosto quella di mostrare come la gente avesse accettato la situazione. Più difficile che mostrare l’orrore commesso da terroristi e militari, era stato mostrare la sua accettazione nell’opinione pubblica.
L’Informe Final ricevette quasi unanime rifiuto da parte della classe politica: i partiti di Belaúnde, García e Fujimori e i loro alleati non volevano nessuna responsabilità: dicevano che nel lavoro della commissione aveva pesato un preconcetto antimilitarista. Soltanto la sinistra riconobbe il valore del documento.
Anche il capo della Chiesa peruviana del tempo, il cardinale Cipriani*, fu contro l’Informe, specialmente perché si era sentito chiamato in causa nei passaggi in cui esso parlava di un ruolo negativo della Chiesa nella zona del conflitto. Va notato che nel periodo più cruento, Cipriani non era ancora vescovo ad Ayacucho.
Data la resistenza nell’accoglienza del documento, alcuni settori numericamente piccoli della società civile (i cattolici legati alla teologia della liberazione e le Ong che si occupavano dei diritti umani) lavorarono per promuoverne la diffusione e la conoscenza. Al loro impegno si devono i risultati positivi di questi anni.
Giustizia. L’Informe final continua a essere uno strumento per tutti quelli che cercano giustizia. Le Ong per i diritti umani hanno avviato processi giudiziari per molti casi. Il più conosciuto è quello contro Fujimori, il quale, arrestato in Cile dopo gli anni di autoesilio in Giappone, ed estradato in Perù, è stato condannato al carcere per violazioni dei diritti umani, soprattutto per le vicende legate al Gruppo Colina6 che rapì e ammazzò gli studenti dell’università La Cantuta7 e fece stragi come quella di Barrios Altos8. Altra condanna importante è stata quella relativa alla strage di Accomarca9 accaduta nel 1985.
Purtroppo i processi sono molto lenti e diverse vittime muoiono senza ottenere giustizia. Migliaia di desaparecidos non sono ancora stati rintracciati e le famiglie probabilmente moriranno senza sapere dove si trovano.
Riparazioni. Molte vittime hanno ricevuto riparazioni individuali e collettive sotto forma di opere di sviluppo delle comunità più povere. C’è un Registro Central de Víctimas che ha funzionato con molta attenzione per consegnare la riparazione a chi veramente aveva sofferto nel conflitto.
Memoria. In questo ambito le difficoltà continuano a essere grandi. I militari e i fujimoristi sono stati molto abili nel manipolare il ricordo di quegli anni allo scopo di minare la credibilità della Commissione presentando ogni denuncia a carico loro come un attentato dei terroristi e dei loro alleati. Il presidente Belaúnde, ad esempio, continua a essere ricordato come un uomo gentile e innocuo: in pochi sanno che durante quegli anni migliaia di contadini furono assassinati.
Per coltivare la memoria, in un primo momento si è formato il gruppo «Para que no se repita», il quale però non legava la violenza dei decenni passati a problemi permanenti del paese come il razzismo, o ai crimini contro i diritti umani più recenti, come quelli contro molti contadini uccisi negli ultimi anni.
Nel 2005 è stato aperto il memoriale «El ojo que llora» (l’occhio che piange), opera di una scultrice olandese, Lika Mutal, fatta secondo la logica di uno spazio buddista di meditazione. Sarebbe stato meglio in Perù un memoriale più vicino alla tradizione cristiana, alla quale apparteneva la maggioranza delle vittime, o laica. Comunque, l’assenza di altri spazi ha motivato i famigliari delle vittime a andare lì.
Alla fine del 2015 è stato aperto il Lum «Lugar de la Memoria, la Tolerancia y la Inclusión Social», grazie al finanziamento del governo tedesco. Si trova in un quartiere benestante ed è difficile da raggiungere, come «El ojo que llora», ma è sempre pieno di gente. Sembra che molti abbiano capito che questo spazio è fondamentale per ricordare ciò che ha vissuto il Perù nel conflitto.
Ultimamente, pare che alcuni cambiamenti possano avvenire con il nuovo governo di Pedro Pablo Kuczynski. La ministra della Giustizia Marisol Pérez Tello pare intenzionata a fare in modo che lo stato accetti le sue responsabilità: è andata al «Ojo que llora» a chiedere perdono alle vittime della violenza. In più il governo sta per iniziare un programma per cercare i desaparecidos.
La via peruviana ha le sue caratteristiche e difficoltà, ma lo sforzo della Commissione e della gente impegnata nella costruzione di una società più giusta può lentamente ottenere risultati.
Wilfredo Ardito Vega
L’autore
Avvocato, insegnante universitario e scrittore. Ha conseguito il master in Diritto Internazionale dei diritti umani all’Università di Essex, in Inghilterra, il dottorato in Legge alla Pontificia Università Cattolica del Perù (Pucp). È docente alla Facoltà di Legge della Pucp, all’Università del Pacifico e all’Università Nazionale San Marco. Eletto a difensore universitario della Pucp. Ha pubblicato diversi volumi sui diritti umani, la discriminazione e i popoli indigeni, e tre romanzi di cui il primo tradotto in italiano nel 2011 per Emi con il titolo Cercando Almuneda.
Archivio MC
Sul Perù MC ha pubblicato numerosi articoli, ne segnaliamo solo alcuni:
Paolo Moiola, Le sbarre dell’ingiustizia, dossier MC, marzo 1999.
Gabriella Guarino, Le carceri-tomba del presidente, MC ott-nov 1999.
Paolo Moiola, La Chiesa tra potere e gente comune, dossier MC, maggio 2000.
Lorenzo De Ambrosis, I «terroristi» di San Tommaso, MC, giugno 2000.
1- Nel dicembre del 1984, 123 persone, tra cui 19 bambini e ragazzi, furono assassinate dai militari della base di Putis, provincia di Huanta, Ayacucho, zona con forte presenza di Sendero Luminoso. I militari, dopo aver violentato alcune donne, uccisero i contadini buttandone i corpi nelle fosse che le vittime stesse avevano scavato (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 14).
2- Nella località quechua di Uchuraccay, Ayacucho, il 26 gennaio 1983 furono assassinati otto giornalisti, la loro guida e un membro della comunità per mano dei membri della comunità di Uchuraccay stessa costituiti in un gruppo di autodifesa contro i Sendero Luminoso. Essi credevano che i giornalisti fossero parte della guerriglia. Uchuraccay si spopolò completamente nel giro di pochi mesi in seguito alle 135 morti provocate da Sendero Luminoso e dalla repressione dell’esercito (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo V, cap 2, 14).
3 e 9- Il 14 agosto 1985 una pattuglia dell’esercito uccise 62 persone, tra cui donne, anziani e bambini, di Accomarca, provincia di Vilcashuamán, Ayacucho (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 15).
4- In seguito a un attacco di Sendero Luminoso contro l’esercito il 13 maggio 1988, ci fu una violenta risposta delle forze armate che nei giorni seguenti, nelle comunità di Cayara, Erusco e Mayopampa, dipartimento di Ayacucho, provocò la morte o la sparizione di 39 persone accusate di far parte della guerriglia (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 27).
5- Il 19 giugno 1986 più di 200 detenuti nel carcere di San Pedro (Lurigancho) e nell’ex carcere di San Juan Bautista sull’isola El Fronton, accusati di terrorismo o già condannati, furono assassinati da agenti dello stato nel contesto di alcuni disordini scoppiati nei penitenziari (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 67).
6- Il Grupo Colina era lo squadrone della morte, costola dei servizi segreti, che operò durante il periodo di governo di Fujimori, catturando, arrestando e assassinando chi fosse sospettato di sovversione (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo III, cap 2, 3).
7- Per Sendero Luminoso, l’università La Cantuta fu la principale fonte di reclutamento e base per la trasmissione della sua ideologia. Nel luglio del 1992 furono sequestrati e uccisi 9 suoi studenti e il professore Hugo Muñoz (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 22).
8- Il 3 novembre 1991 il Grupo Colina assassinò 15 persone (compreso un bimbo di 8 anni) nella zona centrale di Lima, Barrios Altos (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 47).
[*] I personaggi segnati con l’asterisco sono stati tutti, in diversi momenti, intervistati da MC.
Guatemala: La pace è una chimera
In un paese di solida tradizione machista, confermata anche dal nuovo presidente Jimmy Morales, le donne che riescono a emergere sono una forza della natura. Come Claudia Samayoa, cornordinatrice di Udefegua, un’organizzazione che protegge i difensori dei diritti umani. Perché in Guatemala la guerra è finita da tempo, ma la pace non è mai arrivata. Lo sperimentano sulla propria pelle non soltanto le donne, ma anche gli indigeni che pure costituiscono la metà della popolazione totale.
Sono trascorsi venti anni. La guerra civile è infatti ufficialmente terminata nel dicembre del 1996. Eppure, in Guatemala la pace rimane una chimera. La violenza, la povertà, le ingiustizie sono la quotidianità. Il paese conta 16,5 milioni di abitanti (stime 2016). Circa il 45 per cento di essi sono indigeni (Xinka, Garifuna e soprattutto Maya, questi ultimi divisi in una ventina di gruppi). Secondo i dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica (Ine), il 59,3 per cento della popolazione vive in povertà. In particolare, ogni 5 indigeni 4 sono poveri, in maggioranza nelle aree rurali (2014).
Esasperati da una classe politica corrotta e malavitosa, nell’ottobre del 2015 i cittadini guatemaltechi hanno ritenuto di individuare una soluzione eleggendo presidente un personaggio sui generis, Jimmy Morales, noto attore comico e membro di una chiesa evangelica. Come quasi sempre accade, il nuovo è però diventato vecchio in brevissimo tempo.
In un contesto tanto complicato chiedere il rispetto dei diritti umani è un’impresa difficile e spesso molto pericolosa. Un dato per capire meglio: tra gennaio e novembre 2016 in Guatemala ci sono state 223 aggressioni contro difensori dei diritti umani, 14 dei quali sono stati assassinati. Si trattava di persone che difendevano l’ambiente, il diritto alla verità e alla giustizia, il diritto alla terra e quello al lavoro.
Per proteggere e aiutare i difensori dei diritti umani o – come recita lo slogan – «per il diritto a difendere i diritti» (por el derecho a defender derechos), dal 2000 nel paese centroamericano opera l’organizzazione «Unità di protezione per le difensore e i difensori dei diritti umani in Guatemala» (Unidad de Protección a Defensoras y Defensores de Derechos Humanos Guatemala), in sigla Udefegua.
Di tutto questo abbiamo parlato con la fondatrice e responsabile dell’organizzazione, Claudia Samayoa, che lo scorso novembre per la sua attività è stata premiata dal Procuratore nazionale per i diritti umani (Pdh), Jorge Eduardo De León Duque.
Dopo la guerra, nessuna pace
Claudia, due parole per auto presentarti.
«Sono guatemalteca. Ho il privilegio di avere 3 figli e un compagno di vita che mi ha accompagnato in questa mia esistenza tutta dedicata ai diritti umani. Sono laureata in filosofia ma il mio paese mi ha costretto, fin dagli anni Ottanta, a occuparmi di diritti. Diritti alla verità e alla giustizia, all’educazione, diritti degli indigeni».
Chiusi 36 anni di sanguinosa guerra civile, per il Guatemala la strada pareva in discesa. Invece, a 20 anni dagli accordi di pace, il paese pare pacificato soltanto formalmente. Come mai?
«Dopo la firma della pace, ingenuamente credevamo di essere finalmente liberi. Invece, tra il 1998 e il 2000 – all’epoca io ero direttrice della Fondazione Rigoberta Menchú – il controllo del paese è stato ripreso da quella che io chiamo la mafia militare. Si tratta di un’organizzazione che include militari della contro-insurrezione guatemalteca e uomini del crimine organizzato (quello che si occupa di narcotraffico, contrabbando, traffico di esseri umani). Assunto il potere, costoro hanno iniziato a combattere tutti coloro che lavoravano per la pace e i diritti. Giovani e donne, in primo luogo».
La nascita di Udefegua
Davanti a questo potere intollerante avete deciso di reagire. In che modo, esattamente?
«Assieme a varie entità abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso: non lasciare solo chi lotta per i diritti. È così nata l’“Unità di protezione dei difensori dei diritti umani”, Udefegua, con un solo obiettivo: tutti – indipendentemente dalla propria ideologia, non importa se sono giovani o anziani, indigeni o non indigeni – hanno il diritto di lavorare per la difesa dei diritti umani. Perché non occorre essere un avvocato o appartenere a un’organizzazione per farlo».
In concreto, cosa fa Udefegua per coloro che lottano per i diritti umani?
«Noi li affianchiamo. Ci prendiamo carico di loro e delle loro investigazioni affinché possano svolgere il loro lavoro in sicurezza. Facciamo opera di informazione producendo bollettini (El Acompañante) con analisi, grafici e statistiche. In Guatemala abbiamo seguito più di 5.200 casi. Oggi lavoriamo non soltanto qui da noi, ma anche in molti altri paesi, dal Messico a Panama».
Sul corpo delle donne
Voi lavorate per la protezione dei difensori dei diritti umani, ma la violenza si manifesta già tra le mura domestiche. Si ritiene che nel paese 8 donne su 10 subiscano violenza fisica, psicologica, sessuale e patrimoniale da parte del proprio marito o compagno.
«Sì, c’è tanta violenza. La violenza sessuale ha raggiunto livelli mai visti prima. In soli due mesi ci sono state quasi 1.000 violenze sessuali denunciate. Questo significa che nella realtà sono state molte ma molte di più. In tutta la regione stiamo vivendo una guerra sul corpo delle donne. Come dimostra l’assassinio di Berta Caceres».
Di presidente in presidente: da un corrotto a un comico
Nel settembre 2015 i guatemaltechi hanno cacciato il presidente Otto Fernando Pérez Molina, eletto nel 2012 e coinvolto in un grave scandalo. Due mesi dopo hanno eletto presidente, a grande maggioranza, Jimmy Morales, di professione attore comico. Com’è accaduto?
«Non aveva nessuna possibilità, poi – a partire da giugno 2015 – i pastori evangelici hanno iniziato a dire di votare per lui, perché Jimmy era la soluzione. Ad essi si sono presto uniti i militari e gli ex paramilitari (appartenenti alle Pac, le Patrullas de autodefensa civil, nate nel 1981 e formalmente sciolte nel 1996, ndr). Morales non aveva alcuna proposta, però ha vinto con una grande partecipazione popolare».
In campagna elettorale il suo slogan è stato: «Ni corrupto, ni ladrón». Che presidente è Jimmy Morales?
«È machista, razzista, autoritario. Per Jimmy Morales i popoli indigeni sono soltanto dei guatemaltechi e non capisce perché debbano essere trattati diversamente. Lui sta promuovendo visioni vecchie di stampo nazionalista: tutti siamo Guatemala, dice. Però il suo Guatemala è il Guatemala che parla soltanto spagnolo e che non riconosce modi diversi di fare politica. La sua concezione è molto machista: le donne non possono fare politica se non dopo aver chiesto il permesso ai loro mariti. Sono posizioni molto antiche che hanno a che vedere con la sua appartenenza a una chiesa evangelica fondamentalista di matrice statunitense».
Nonostante i disastri perpetrati dalla destra, i partiti di sinistra – da Urng-Maiz a Winaq, dal Frente Amplio a Encuentro por Guatemala – non hanno mai ottenuto un consenso significativo. Come si spiega?
«Il Guatemala è un paese molto conservatore e di destra. La sinistra è sempre stata assolutamente minoritaria: in parlamento oggi ci sono pochissimi deputati di sinistra e centrosinistra. Per la gente è difficile votare diversamente, considerando valido il detto “meglio il vecchio conosciuto, che il nuovo sconosciuto”».
La condizione indigena
Circa metà della popolazione del Guatemala è indigena. La sua condizione continua a essere drammatica.
«Negli ultimi anni la popolazione indigena si è impoverita. Nelle comunità indigene la miseria è aumentata del 12 per cento. Nel paese c’è denutrizione cronica: uno ogni due bambini è denutrito e questa percentuale sale tra i bambini indigeni. Sono cifre ufficiali. In Guatemala tutto si manipola, ma in questo caso neppure il governo può nascondere la realtà. Purtroppo, non abbiamo ottenuto quanto sognavamo negli anni Ottanta, eppure c’è stata una mobilitazione importante dei popoli indigeni».
Intende dire che, nonostante le oggettive difficoltà, c’è stato un cambio in positivo?
«Quando io lavoravo per la Fondazione Menchú, l’enfasi era sull’educazione bilingue. Oggi questo è stato superato. Oggi i popoli indigeni lottano come comunità e non più come singoli soggetti. Lottano per i loro diritti (incluso il diritto allo sviluppo e quello a essere consultati). Hanno anche iniziato a costruire ponti con la popolazione non-indigena. In questo modo si riducono le barriere del razzismo e quelle nate durante la guerra armata. È un modo per arrivare a una conciliazione».
L’avanzata evangelica
Anche in Guatemala le chiese evangeliche sono in continua crescita a scapito della chiesa cattolica. Come vede la situazione?
«Gli evangelici sono ormai il 35 per cento della popolazione. Quanto alla chiesa cattolica, è divisa in due correnti, come accade in molti paesi. Una è quella della gente, quella che lotta per l’ambiente e contro il crimine organizzato. Una chiesa che fa molto arrabbiare la destra, che l’accusa di promuovere la guerra, di essere marxista e comunista (come si diceva un tempo). Con l’arrivo di Francesco questa chiesa è stata rafforzata. Poi c’è la chiesa tradizionale che non appoggia i poveri, che dice di voler mantenere una posizione distaccata. Questa è rappresentata dalla Nunziatura, per esempio. Come cattolica io spero che, presto o tardi, il messaggio di Francesco arrivi a tutta la struttura. Già oggi abbiamo vescovi molto compromessi con la realtà. Mons. Ramazzini e mons. Cabrera sono i più rappresentativi, ma non sono più soli».
Il Guatemala cambierà
Claudia, passano i decenni ma sembra che il Guatemala abbia sempre gli stessi problemi e qualsiasi soluzione, alla fine, sia destinata al fallimento. C’è troppo pessimismo in questa visione?
«Secondo me, il nostro presente e il nostro futuro stanno nel diritto a difendere i diritti umani. In questi anni mi ha mantenuta viva la visione di tanta gente. Se riusciremo a liberarci delle forze intolleranti, il Guatemala cambierà e non soltanto esso, ma l’intera regione. Assieme abbiamo un grande potere e questa è la mia speranza».
Paolo Moiola
Congo Brazzaville lo spettro della guerra
Per la gente del Congo Brazzaville l’ultimo anno è stato particolarmente difficile. Ha visto una modifica costituzionale e un’elezione, entrambe fortemente contestate. La coscienza civica e democratica è elevata, ma la risposta del potere è la repressione. E il sistema tende a fagocitare lo stato di diritto.
È il 30 settembre scorso, quando un gruppo di armati assalta il treno che corre tra la capitale, Brazzaville, e Pointe Noire, città costiera, ritenuta la capitale economica della Repubblica del Congo. Quattordici sono i morti. Nello stesso periodo si verificano altri attacchi con vittime, tutti nel dipartimento del Pool, regione da sempre «calda» nel Sud del paese. I media parlano della rinascita di una guerriglia, e il ministro della Giustizia si affretta a dire che si tratta di ex miliziani ninja-nsiloulou, noti dalla guerra civile (1999-2003). Ma la questione resta controversa e i dubbi sono molti.
Intanto i vescovi del Congo Brazzaville, nel loro messaggio conclusivo della 45esima assemblea plenaria (10-16 ottobre) chiedono, tra l’altro: « […] ai nostri responsabili politici di operare nel senso del dialogo, allo scopo di un ritorno definitivo della pace in Congo in generale e nel Pool in particolare. Lo stato prenda le sue responsabilità di garante della pace e dell’unità nazionale».
Ma cosa è successo negli ultimi mesi nella Repubblica del Congo? Si è davvero preparata una nuova guerra? E quali le cause? Occorre fare un passo indietro.
Il paese del presidente
Denis Sassou Nguesso è presidente della Repubblica del Congo dal 1979. Fa eccezione il periodo di presidenza di Pascal Lissouba dal 1992 (tramite elezione) al 1997 anno in cui Nguesso riprende il potere con la forza. È la fine della prima guerra civile. Sarà poi eletto nel 2002 e 2009.
La Costituzione del Congo, nella sua revisione del 2002, prevede due soli mandati presidenziali di sette anni per la stessa persona, e un limite di età di 70 anni. Nguesso, 71 anni, alle elezioni del 2016 ha due impedimenti per succedere a se stesso. Ma è una vecchia volpe, e, come ci dice un giornalista congolese, «un seguace di Machiavelli. È bravo a creare situazioni strane per controllare tutto e tutti».
Fin dal 2013 il presidente trama per organizzare un referendum di modifica costituzionale, che è annunciato nel 2014 e si realizza il 25 ottobre 2015. Le manifestazioni organizzate contro il referendum dai movimenti della società civile e dall’opposizione sono represse nel sangue: almeno quattro i morti e numerosi gli arresti tra i leader dei militanti anti Nguesso.
Diritti umani cercasi
«La situazione dei diritti umani in Congo è da sempre preoccupante ma dal 2013 a oggi assistiamo a un peggioramento totale», ci dice Trèsor Nzila, direttore esecutivo dell’Observatornire Congolais pour les Droits de l’Homme (Ocdh), autorevole organizzazione di difesa dei diritti umani con base a Brazzaville, raggiunto telefonicamente. «Assistiamo a un’intensificazione della repressione delle libertà politiche. Sono finiti in carcere una cinquantina di prigionieri d’opinione, come diversi membri dell’opposizione. I giornalisti che hanno linea editoriale critica rispetto al deficit di democrazia sono sanzionati a più riprese dal Consiglio superiore per la libertà di comunicazione. I difensori dei diritti umani sono minacciati; i movimenti sindacali sono attaccati. La giustizia è strumentalizzata. Le forze di polizia torturano, uccidono e reprimono le manifestazioni pubbliche in totale impunità. Non c’è un settore dei diritti umani in cui si può dire che ci sia un miglioramento».
Il referendum fa il suo corso e il risultato, contestato da opposizione e società civile, introduce una modifica della Costituzione, rendendo il presidente Sassou rieleggibile.
«In Congo la nuova Costituzione è stata imposta con la violenza alla popolazione», ci racconta un altro attivista dei diritti umani, di Pointe Noire. «Questo referendum aveva carattere politico, ma quello di cui il popolo aveva bisogno non era il cambiamento costituzionale affinché il presidente rimanesse lo stesso, quanto piuttosto l’avere dei dirigenti scelti dagli elettori, che governano in modo responsabile, rendendo conto del loro operato. Un governo che risponda alle aspirazioni della popolazione in termini di rispetto delle libertà e in particolare dei diritti economici e sociali», continua la nostra fonte, che chiede l’anonimato. «La Costituzione com’è oggi non è stata votata dalla maggioranza della popolazione. La prova è che i congolesi che si sono opposti a questo processo sono stati repressi nella violenza. È stato un vero colpo di stato istituzionale».
Le elezioni precotte
Il 20 marzo 2016 è il giorno delle elezioni. Denis Sassou Nguesso – chiamato monsieur huit pour cent (signor otto per cento), perché si diceva che non avrebbe avuto più dell’8% – capisce di essere in svantaggio. Come sua abitudine «ha comprato parte dell’opposizione e parte della società civile. Chi resiste riceve intimidazioni. Oggi a Brazza se sei nell’opposizione che il potere chiama “radicale”, vieni arrestato arbitrariamente e imprigionato, o muori in condizioni strane, avvelenato, nella tua casa incendiata. Diversi attivisti sono morti così», ci racconta una giornalista che ora vive in esilio e chiede l’anonimato.
«La gente è andata a votare in massa, sperava nel cambiamento, perché c’era stato un lavoro per sensibilizzare la popolazione alla partecipazione. Era pure addestrata a sorvegliare il proprio voto», ci spiega Christian Mounzeo, presidente del Rencontre pour la paix et les droits de l’homme (Rpdh). Ma il governo impone il black out delle comunicazioni interrompendo collegamenti telefonici, messaggistica e internet per 48 ore per pretese misure di ordine pubblico, in realtà per impedire l’organizzazione di possibili rivolte. Un gruppo di 200 militanti viene disperso dalla polizia a seggi chiusi, perché vuole seguire lo spoglio.
Continua Mounzeo: «Sono rimasti fino a tardi nei pressi dei seggi per tentare di verificare il conteggio. Dalla somma dei risultati delle zone a maggiore densità di popolazione ci si accorge che il presidente non ha vinto. Ad esempio a Point Noire, la seconda città del paese (circa un milione di abitanti, ndr), Nguesso ha avuto una percentuale piuttosto bassa. Come anche a Brazzaville, dove la maggioranza della popolazione ha votato per Guy-Brice Parfait Kolelas (arrivato poi secondo con 15,05% di voti, ndr). Se si fa la somma anche con altre città del Sud, il presidente non può aver vinto a livello nazionale». Ma i risultati ufficiali, proclamati dalla Corte Costituzionale alle 3,30 di notte, il 4 aprile, confermano la vittoria di Nguesso al primo tuo con il 60,39% dei voti. Il terzo arrivato secondo i risultati ufficiali è l’ex generale Jean-Marie Michel Mokoko con quasi il 14% degli scrutini.
L’ex generale e il presidente
Mokoko, nel ‘92, quando era Capo di stato maggiore, si era opposto all’idea di golpe di Nguesso contro Lissuba per difendere la democrazia. Era poi rimasto agli alti livelli dell’esercito, ma la gente lo ricorda per la sua integrità e perché lo considera estraneo ai circuiti di corruzione.
Ricorda la giornalista: «A un certo punto la gente ha cominciato a sollecitare Mokoko, perché voleva un cambio nella gestione del paese, allora lui ha deciso di presentarsi, ma Sassou, non ha apprezzato. Durante la campagna elettorale c’è stato un sentimento di rinnovamento e di speranza per questa candidatura. Pur essendo un uomo del Nord (come il presidente, ndr), la gente lo voleva anche a Point Noire, e lo ha accompagnato ai comizi con molto calore. Quando ha depositato la sua candidatura, il numero di iscrizioni sulle liste elettorali è triplicato».
All’indomani della votazione, mentre a Brazzaville scoppiano disordini, Mokoko e altri esponenti dell’opposizione vengono arrestati. Per Mokoko le accuse sono gravi: attentato alla sicurezza dello stato, detenzione di armi e creazione di disordini. In pratica, secondo il regime, avrebbe tentato un colpo di stato. «Ma il dossier d’accusa è vuoto», sostiene la giornalista.
Toano i ninja?
L’opposizione ritiene che i risultati siano «rubati» e chiama la popolazione alla mobilitazione pacifica subito dopo la votazione.
Il 3 e il 4 aprile nei quartieri Sud di Brazzaville, uomini armati attaccano posizioni governative e si scatena uno scontro armato con le forze dell’ordine. I quartieri Sud, abitati da popolazioni del Sud del paese, sono sempre stati in opposizione al presidente Nguesso. Il governo denuncia subito un ritorno delle milizie ninja, all’epoca della guerriglia comandate da Frédéric Bintsamou, detto pasteur Ntumi.
Ma un altro militante dei diritti umani ci confida: «Non c’erano i ninja. Le ultime elezioni presidenziali dal punto di vista dell’opposizione sono state organizzate in modo civile. Anche alle manifestazioni, la gente era cosciente che qualsiasi sbavatura avrebbe dato adito al potere per dargli addosso. Inoltre, le manifestazioni si svolgevano sotto il controllo dell’esercito, della polizia. Ma ci sono delle milizie (filo governative, ndr) che hanno realizzato la repressione».
La giornalista ci spiega: «Il governo ha detto che erano stati i ninja ad attaccare, ma quando si incrociano le testimonianze, ci si rende conto che non è vero. L’attacco è cominciato la sera stessa della proclamazione ufficiale dei risultati. Delle informazioni dicono che erano milizie vicine al potere che hanno sparato per creare una diversione e poi proclamare la vittoria di Nguesso».
Si chiede Trèsor Nizila: «È una strategia per bloccare la mobilitazione che sarebbe seguita la proclamazione dei risultati?». In effetti oltre ad esercito e polizia, sono presenti diverse milizie che «suppliscono» a certi lavori che i corpi ufficiali non possono fare.
«Il potere compra tutti, a colpi di milioni. È facile comprare dei giovani. Ad esempio c’è un gruppo di ex ninja che aveva fatto alleanza con un deputato vicino al potere. Vengono chiamati il gruppo dei Douze apotres (dodici apostoli, ndr) e sono loro alla base degli attacchi del 4 aprile. Questo gruppo non è sotto Ntumi. E la gente non si riconosce con loro. Ho l’impressione che la popolazione sia presa in ostaggio, non ci sono vere rivendicazioni».
Repressione «scientifica»
È da sottolineare che una repressione selettiva nei quartieri Sud della capitale è iniziata fin dall’indomani del referendum dell’ottobre 2015. Una testimone ci racconta: «Nei quartieri Sud tutte le sere la polizia prelevava dei giovani, e della gente sospettata di militare nell’opposizione. Li bastonava e chiudeva nel commissariato quelli che resistevano, gli altri morivano per le botte e la polizia ha iniziato a gettare corpi nei quartieri o nel fiume. Ma tutti avevano paura e non dicevano niente».
In seguito agli scontri a Brazzaville, il 5 aprile scorso il governo manda gli elicotteri a bombardare la regione del Pool, storicamente contestataria. L’effetto è che almeno 5.000 persone lasciano le proprie case per rifugiarsi nella foresta.
Racconta la giornalista: «Hanno lanciato le operazioni ad aprile, con il pretesto di andare a prendere Ntumi e ucciderlo, ma da allora hanno isolato il Pool e bombardano tutti i giorni. Mons. Portella Mbuyu, vescovo di Kinkala, capoluogo del Pool, ha denunciato queste violenze. Anche se si cercano i ribelli, quando si bombarda è la popolazione che subisce. Hanno poi proibito alle Ong di andare sul posto, in modo da sigillare il dipartimento».
Inoltre, in questa zona passa la via di comunicazione più importante tra le due maggiori città del Congo: Brazzaville e il porto di Pointe Noire. Oggi la strada si può percorrere solo in convogli, mentre la ferrovia è bloccata dall’assalto al treno del 30 settembre. Così rifornire di merce Brazzaville è diventato difficile.
«Il potere dice che ex ninja di Pasteur Ntumi hanno attaccato posizioni dell’esercito. A nostro avviso non è una tesi credibile», sostiene il direttore dell’Ocdh. «Non ci convince perché Ntumi è stato integrato nel potere, come consigliere speciale del capo di stato fino alla vigilia di questi attacchi, dal 2007, quando ha lavorato con il presidente. E Nguesso non era al corrente che il suo collaboratore stava addestrando una milizia e si rifoiva di armi? Inoltre il dipartimento di Pool è un dipartimento sotto controllo totale ed effettivo dello stato. Non si capisce come le forze di sicurezza e i servizi segreti non sapessero cosa si stesse muovendo.
Hanno deciso di bombardare i villaggi per cercare un individuo, costringendo così cittadini poveri e traumatizzati a vivere nella foresta in condizioni difficili. Non sembra credibile per un governo che si rispetti e che si prenda cura della popolazione».
In effetti i ninja sono stati smobilitati dopo il 2007, mentre anche la città di Brazzaville è blindata dalle forze dell’ordine, per cui è difficile spiegare pure gli attacchi del 3 e 4 aprile.
Gli «amici» alla finestra
La Francia, gli Stati Uniti e l’Unione europea non hanno riconosciuto le elezioni. Ma, sempre secondo Nzila, «ho l’impressione che la comunità internazionale non voglia interessarsi alla situazione politica e dei diritti umani in Congo, nonostante sia molto preoccupante. Questo silenzio mi sciocca. È inammissibile che istituzioni come l’Ue e le Nazioni unite che promuovono i diritti umani, i valori democratici, lo stato di diritto, non siano in grado di assistere la popolazione congolese in questo momento difficile, quando i suoi governanti la reprimono».
Parlando di futuro, secondo la giornalista: «Questo è un potere che non scende a patti. Crea le condizioni per rendere precaria la vita della gente. Mette il paese sotto pressione, uccide le contestazioni. Crea la paura, fa tornare la psicosi della guerra nella gente che ha già vissuto le sue atrocità, per poterla quindi controllare».
Uno scenario possibile che Trèsor Nzila vede è: «Il malcontento sociale aumenterà e porterà la gente a esprimersi, a fare scioperi per paralizzare le istituzioni. La prima risposta del potere sarà la repressione. Fino a dove andrà la contestazione e fin dove la repressione, non si sa».
Marco Bello
Sudafrica nello spirito dell’ubuntu
Dopo decenni di apartheid, segregazione razziale e violenze, negli anni ‘90 il Sudafrica si è trovato a gestire la transizione verso un nuovo modello di convivenza. Cosa fare con il fardello del passato? E con i carnefici? Come aiutare le vittime a ricucire la loro dignità? In un contesto in cui la responsabilità dei crimini commessi era condivisa da un’ampia parte della popolazione, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione è stata uno strumento utile, ancorché imperfetto, per progettare un nuovo paese.
Dagli anni Settanta, decine di paesi – dall’Argentina al Sudafrica, dal Perù allo Sri Lanka, da El Salvador a Timor Est – hanno fatto ricorso allo strumento delle «commissioni per la verità» per agevolare la transizione da un’epoca di violazioni dei diritti umani a una di maggiore democrazia. Si tratta di esperienze molto eterogenee che presentano alcuni tratti comuni quali l’esigenza di fare luce sulle violenze perpetrate, di mettere al centro le testimonianze delle vittime. L’obiettivo è quello di promuovere la giustizia e favorire la riconciliazione. La commissione più nota a livello internazionale è, senza dubbio, quella sudafricana, di cui nel 2016 è ricorso il ventennale.
Risanare le ferite
«Noi sosteniamo che esiste un altro tipo di giustizia, la giustizia restitutiva (nell’originale inglese, restorative justice, nda), a cui era improntata la giurisprudenza africana tradizionale. Il nucleo di quella concezione non è la punizione o il castigo. Nello spirito dell’ubuntu (cfr. box qui a destra), fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare tanto le vittime quanto i criminali, ai quali va data l’opportunità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso»1.
Con queste parole Desmond Tutu, arcivescovo anglicano, insignito del premio Nobel per la pace nel 1984, esprime, in maniera magistrale e con l’autorevolezza di chi ha subito in prima persona l’oltraggio dell’apartheid, il cuore della concezione di giustizia propria della Truth and Reconciliation Commission (Trc) sudafricana, lo strumento di cui è stato presidente ideato da alcune eminenti personalità di quella che sarebbe stata definita la «Nazione arcobaleno» allo scopo di fare i conti con la storia d’ingiustizia vissuta dal paese e di gestie la pesante eredità per il futuro.
Un difficile compromesso
La Trc è stata il frutto del difficile compromesso tra due posizioni antitetiche: quella del governo e del National party (Np) che volevano l’amnistia incondizionata per i crimini dell’apartheid, considerati un «errore» da superare, e quella dei movimenti di liberazione nazionale, capeggiati dall’Anc (African national congress, partito di cui Nelson Mandela è stato presidente), che chiedevano l’istituzione di tribunali speciali per l’incriminazione e la condanna dei responsabili del regime di segregazione razziale e delle gravissime offese ai diritti umani che avevano segnato il paese. Ciascuna delle due opzioni (l’amnistia incondizionata o l’istituzione di un tribunale penale internazionale, sul modello di Norimberga) avrebbe, con tutta probabilità, ulteriormente esacerbato il clima d’odio e allontanato la possibilità di cooperazione tra le diverse componenti etniche del Sudafrica.
La Trc è nata da una concezione «rivoluzionaria» del rapporto tra verità e giustizia. L’accertamento della verità, infatti, non doveva essere finalizzato all’attribuzione di una condanna, ma alla concessione del perdono e alla «riparazione» delle persone offese. L’idea era quella che per voltare la pagina del passato, prima si dovesse scriverla e proclamare.
I tre comitati
La Commissione per la verità e la riconciliazione era articolata in tre sottocommissioni.
Il Committee on human rights violations (Comitato sulle violazioni dei diritti umani) aveva il compito di ricevere, analizzare e inserire in un database nazionale le denunce delle violenze subite dalle vittime, e di svolgere le inchieste necessarie ad accertarle. Le persone offese erano invitate a testimoniare nella propria lingua, nel corso delle udienze pubbliche che venivano organizzate in prossimità dei loro luoghi di vita.
Davanti all’Amnesty Committee (il comitato per l’amnistia) i perpetratori – esponenti del regime o suoi avversari, bianchi, neri, meticci – erano chiamati alla «full disclosure of facts» (cioè la rivelazione dettagliata delle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate), indispensabile per l’eventuale concessione dell’amnistia. A questo comitato spettava il compito di verificare che sussistessero le condizioni per la concessione del provvedimento di clemenza, cioè che i crimini «confessati» rientrassero tra quelli previsti dalla Trc (uccisioni e gravi maltrattamenti, torture e rapimenti), che fossero stati effettivamente commessi con finalità politiche tra il 1960 e il 1994 e che la rivelazione di fatti e responsabilità fosse completa. La maggior parte delle domande di amnistia sono state respinte per la mancanza di una di queste condizioni. Sia le udienze dei perpetratori che quelle delle vittime hanno ricevuto grande copertura mediatica.
Infine, il Reparation and rehabilitation committee (il Comitato per la riabilitazione e la riparazione) doveva occuparsi di determinare l’ammontare, la forma e il tipo di riparazione e di risarcimento spettanti a coloro che venivano riconosciuti vittime. Aveva inoltre il compito di indicare al governo le misure necessarie a ottemperare il diritto alla riabilitazione sociale delle vittime.
I numeri di una scelta libera e volontaria
Le vittime che si sono presentate spontaneamente per raccontare le gravi violazioni dei diritti umani subite sono state 22.500. Sono state tra le 1.700 e le 2.500 le persone, appartenenti sia all’Np che all’Anc e agli altri gruppi di liberazione, che hanno chiesto l’amnistia, molte delle quali per più di un reato2. Hanno beneficiato di un provvedimento d’amnistia totale 1.167 richiedenti, d’amnistia parziale 1453.
La scelta di assumersi pubblicamente la responsabilità dei crimini commessi era libera e volontaria, ma coloro che non chiedevano l’amnistia o i cui atti non rientravano nell’ambito di competenza della Commissione (ad esempio non erano stati commessi con una chiara motivazione politica) o la cui «confessione» non era ritenuta completa, sapevano di poter incorrere, in futuro, in un’incriminazione da parte del sistema penale ordinario.
Far emergere la verità
Le amnistie concesse dalla Trc, individualizzate e condizionate, non hanno nulla a che vedere con le amnistie generali adottate da molti paesi latinoamericani al termine dei periodi di dittatura che hanno ostacolato l’accertamento della verità (si veda, ad esempio, il dossier su El Salvador, MC luglio 2014, ndr). In Sudafrica, l’amnistia è stata utilizzata come strumento per favorire l’emersione della verità sul passato.
La concessione dell’amnistia per crimini gravissimi è stata una delle questioni che hanno sollecitato il maggior numero di critiche e su cui gli esperti di diritto internazionale ancora dibattono.
Desmond Tutu, presidente della Commissione, ha risposto così alle critiche di quanti sostenevano che i provvedimenti di clemenza adottati dalla Trc sacrificavano la giustizia e incoraggiavano l’impunità: «Chi chiede l’amnistia deve ammettere di essere responsabile degli atti per i quali chiede di essere amnistiato, e in questo modo viene affrontata la questione dell’impunità. Inoltre, salvo circostanze eccezionali, l’esame della richiesta di amnistia avviene in udienze pubbliche. Chi chiede l’amnistia deve perciò fare le proprie ammissioni alla luce del sole. Proviamo a immaginare cosa significa tutto ciò. Spesso questa è la prima volta che la famiglia di chi presenta la domanda di amnistia, o la comunità a cui appartiene, scopre che quella che in apparenza era una brava persona, era, per esempio, un torturatore incallito, o un membro degli squadroni della morte che assassinarono numerosi oppositori del passato regime. Insomma, c’è un prezzo da pagare, per l’amnistia…»4.
I risultati del lavoro della Trc sono confluiti in un documento finale, i cui primi cinque volumi sono stati pubblicati nel 1998. Il lavoro del comitato per l’amnistia si è protratto per ulteriori due anni, a causa della complessità e della lunghezza dei procedimenti. I due volumi conclusivi del report sono stati pubblicati nel 20033.
La verità collettiva fonda la «Nazione arcobaleno»
Nella visione di Mandela, Tutu, Boraine e delle altre anime della Trc, il truth telling, il racconto della verità, la centralità della narrazione delle vittime e dei rei, costituiva non solo lo strumento per concedere gli indennizzi alle prime e le amnistie ai secondi, ma anche la via per costruire uno shared sense of the past (un comune senso del passato) che avrebbe contribuito alla nascita della nuova nazione sudafricana.
La verità personale (che, provenendo dalla memoria del singolo individuo – vittima o reo -, è costitutivamente condizionata dall’elaborazione emozionale e razionale condotta negli anni e dalla prospetticità e selettività dei meccanismi del ricordo), dopo essere stata a lungo «incarcerata» nell’intimo sofferente delle vittime e nella coscienza dei perpetrators (dei responsabili), poteva finalmente trovare sfogo e ascolto davanti alla Commissione. La narrazione comunitaria delle esperienze dei singoli, unita alle indagini svolte e alle prove raccolte per una ricostruzione il più possibile fedele di quanto accaduto, avrebbe permesso la genesi di una verità collettiva, sociale, ampia, da approfondire ulteriormente e da tramandare alle successive generazioni.
I leader politici sudafricani hanno intuito che solo «facendo i conti» con la storia e con la sua eredità – attraverso la ricostruzione pubblica del contesto storico-politico in cui l’apartheid era stato concepito e applicato, l’accertamento della verità fattuale dei singoli episodi criminosi che rientravano nel mandato della Trc, la fiducia nella «verità narrativa» della popolazione e l’audacia del perdono – sarebbe stato possibile gettare le fondamenta di una nuova entità collettiva, la Raimbow Nation, la quale, auspicavano, avrebbe contenuto in sé le garanzie di non ripetizione del passato.
Giustizia dell’incontro
La dimensione collettiva della risposta alla domanda di giustizia per il sanguinoso passato si è giocata anche nella scelta di dare la priorità all’incontro faccia a faccia tra le vittime e i perpetrators, piuttosto che alla celebrazione dei processi penali, durante i quali le persone offese notoriamente rivestono un ruolo di minima importanza. La celebrazione di udienze pubbliche, infatti, non solo favoriva il coinvolgimento attivo dell’intera comunità ma, fatto altrettanto, se non più importante, permetteva l’incontro (sempre libero e volontario) tra le vittime e i responsabili, diretti o indiretti, dei crimini. Trovarsi di fronte al carnefice, ascoltare le sue spiegazioni, interrogarlo, accusarlo, essere finalmente liberi di dirgli (o urlargli) il proprio dolore ha potuto, almeno in alcuni casi, aiutare le vittime a ridurre la rabbia, «ri-umanizzare» il nemico, incamminarsi sulla via della «guarigione» e, a volte, a intraprendere la via del perdono.
Per il reo, l’incontro con la vittima ha costituito un’occasione unica per entrare in contatto con il dolore causato, prendee coscienza (cosa che la giustizia retributiva del sistema penale non favorisce) e per aprirsi alla richiesta del perdono e alla riparazione.
A vent’anni dalla sua istituzione
A vent’anni di distanza dalla sua istituzione, le opinioni sulla Trc sono discordi. Essa è stata oggetto di numerose critiche, che ne hanno messo in luce difficoltà, problematicità e obiettivi mancati. Ad esempio, è stata giustamente stigmatizzata l’insufficienza delle riparazioni di cui le vittime hanno potuto effettivamente beneficiare.
A nostro avviso, le innegabili e inevitabili criticità nulla tolgono al coraggio di una nazione che, guidata da vittime esemplari quali Mandela e Tutu, ma non solo loro, ha saputo prediligere il dialogo e il perdono rispetto alla vendetta, l’unità rispetto alla separazione, la verità rispetto all’oblio.
Annalisa Zamburlini
Note
D. Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano 2001, p. 46 e p. 32.
A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione, Il Mulino, Bologna 2005, p. 190.
P. B. Hayner, Unspeakable truths: transitional justice and the challenge of truth commissions, Routledge, New York-London 2011, p. 30.
D. Tutu, Prefazione, in M. Flores (a cura di), Verità senza vendetta: l’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, Manifestolibri, Roma 1999, p. 72.
Archivio MC
Sulla giustizia riparativa si vedano i dossier Giustizia riparativa. Rispondere ai delitti senza commettee altri, MC dicembre 2013, a cura di Luca Lorusso, e Un grido stanco ma tenace. El Salvador: dai massacri alla domanda di giustizia, MC luglio 2014 a firma di Annalisa Zamburlini.
Riferimenti bibliografici
A. Ceretti, Riparazione, riconciliazione, Ubuntu, amnistia, perdono. Alcune brevi riflessioni intorno alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana, in «Ars Interpretandi», 9 (2004), pp. 47-68.
A. Ceretti, Per una convergenza di sguardi, in Bertagna G., Ceretti A., Mazzucato C. (a cura di), Il libro dell’incontro, Il Saggiatore, Milano 2015, pp. 219 -250.
M. Flores, Verità senza vendetta, op. cit.
B. Hayner, Unspeakable truths, op. cit.
É. Jaudel, Giustizia senza punizione. Le commissioni Verità e Riconciliazione, trad. it. di G. Prucca, ObarraO Edizioni, Milano 2010.
A. Lollini, Costituzionalismo e giustizia di transizione, op. cit.
C. Villa-Vicencio, Vivere sulla scia della Commissione per la verità e la riconciliazione del Sud Africa. Una riflessione retroattiva, in Flores M. (a cura di), Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp. 278-292.
La serie
Dagli anni Settanta, l’esperienza delle Commissioni per le verità si è diffusa in tutto il mondo con lo scopo di offrire ai singoli paesi interessati da un conflitto (spesso molto violento) un percorso di giustizia non solo punitiva, ma che tenga conto delle esigenze di verità delle vittime e che aiuti la transizione verso la pace sociale. Le esperienze sono molte, ciascuna con le sue specificità. Con questa serie di articoli a esse dedicati vogliamo conoscee alcune.
La prossima puntata, firmata da Wilfredo Ardito, professore di diritto ed esperto di diritti umani, riguarderà la Commissione del Perù.
Cenni alla storia del regime di apartheid
Le radici del conflitto che ha insanguinato il Sudafrica risalgono alla fine del XV secolo, quando un piccolo gruppo di portoghesi si insediò sul Capo. Seguì, nei secoli successivi, il colonialismo olandese e inglese, che portò all’affermazione dello strapotere dei bianchi sulla popolazione nera.
Nel 1910, l’allentamento delle tensioni tra inglesi e boeri (o afrikaner, contadini discendenti dai coloni olandesi), permise la costituzione dell’Unione Sudafricana, dotata di autonomia governativa, in cui il potere economico e politico risiedeva nelle mani dei bianchi (un milione e 250mila circa), in maggioranza afrikaner. La popolazione nera (quattro milioni e 500mila persone circa) fu gradualmente privata dei pochi diritti di cui ancora godeva. Per difendere le prerogative della popolazione nativa fu costituito nel 1912 l’African national congress (Anc), che non poté però impedire l’anno seguente l’approvazione di una legge che vietava ai neri l’acquisto di terre al di fuori delle riserve nelle quali essi erano stati confinati. Appena migliori erano infine le condizioni riservate ai circa 500mila coloureds (meticci) e ai quasi 200mila asiatici, in maggioranza indiani, immigrati nel corso del XIX secolo.
Nel secondo dopoguerra, il razzismo fu istituzionalizzato nell’apartheid, un feroce regime di segregazione razziale e di spoliazione dei diritti civili e politici, adottato dal governo – era in carica il National party (Np) – ai danni dei cittadini neri del Sudafrica e della Namibia, fino al 1990 amministrata dal Sudafrica.
A partire dagli anni ’60, non solo vi erano luoghi pubblici, autobus e professioni differenziati per i neri e per i bianchi, ma fu avviata la costruzione di ghetti per le singole etnie africane (i cosiddetti bantustans), dotati di autogoverno e destinati a diventare indipendenti (i loro abitanti quindi privati della cittadinanza sudafricana).
Nel 1960 l’African national congress (Anc) e il Pan africanist congress (Pac), partiti a difesa dei diritti della maggioranza nera della popolazione, furono messi al bando. Come risposta, essi abbandonarono la lotta nonviolenta che avevano appreso dall’esperienza gandhiana e utilizzato fino ad allora, e intrapresero una lotta armata che condusse all’arresto, tra gli altri, del leader dell’Anc, Nelson Mandela, nel 1962.
L’apartheid fu ripetutamente condannato e sanzionato dall’Organizzazione dell’Unità Africana, dall’Onu e dai membri afroasiatici del Commonwealth, dal quale il Sudafrica uscì nel 1961, proclamando la repubblica.
Dopo trent’anni di violenze, a fronte di una situazione economica sempre più precaria a causa degli elevati costi della politica di repressione e per gli effetti delle sanzioni economiche inteazionali, il presidente della Repubblica Frederik Willem de Klerk, eletto nel 1989, avviò i negoziati.
L’11 febbraio 1990 Nelson Mandela, leader dell’Anc, fu scarcerato dopo 27 anni di detenzione.
Il Goveo decretò la fine del bando nei confronti dei partiti d’opposizione e l’Anc e il Pac poterono partecipare ai lavori per la stesura di una nuova Costituzione. Il sistema giuridico-normativo dell’apartheid fu abolito e furono indette tre assemblee multipartitiche, durante l’ultima delle quali – nonostante le resistenze opposte dalle formazioni più estremiste di entrambi gli schieramenti – fu adottata la Costituzione Transitoria (1993).
Nella stessa sede fu affrontata la questione riguardante la domanda di giustizia che emergeva dal periodo storico e politico che si stava chiudendo. Le decisioni riguardanti il modo di affrontare l’eredità del passato, e in particolare la creazione della Truth and Reconciliation Commission (Trc), furono formalmente incorporate sia nel testo della Costituzione Transitoria che nella Costituzione definitiva, che fu adottata dall’Assemblea Costituente nel 1996.
Pietra miliare del cammino del nuovo Sudafrica furono le prime elezioni democratiche multirazziali, svoltesi nel 1994, che portarono alla nomina del primo presidente nero, Nelson Mandela, insignito l’anno precedente del Premio Nobel per la pace insieme all’ultimo presidente bianco, De Klerk, per aver evitato che il paese precipitasse nella guerra civile.
Mandela guidò un governo di coalizione formato dall’Anc, dal Np di de Klerk e dal Partito della libertà, espressione dell’etnia zulu. Dopo l’entrata in vigore della nuova costituzione, il National party si ritirò dal governo, per assumere il suo ruolo democratico di partito d’opposizione.
A.Z.
Io sono perché noi siamo
«Ubuntu […] è una parola che riguarda l’intima essenza dell’uomo. Quando vogliamo lodare grandemente qualcuno, diciamo: “Yu, u nobuntu”, “il tale ha ubuntu”. Ciò significa che la persona in questione è generosa, accogliente, benevola, sollecita, compassionevole; che condivide quello che ha. È come dire: “La mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua”. Facciamo parte dello stesso fascio di vita. Noi diciamo: “Una persona è tale attraverso altre persone”. Non ci concepiamo nei termini “penso dunque sono”, bensì: “Io sono umano perché appartengo, partecipo, condivido”. Una persona che ha ubuntu è aperta e disponibile verso gli altri, riconosce agli altri il loro valore, non si sente minacciata dal fatto che gli altri siano buoni o bravi, perché ha una giusta stima di sé che le deriva dalla coscienza di appartenere a un insieme più vasto, e quindi si sente sminuita quando gli altri vengono sminuiti o umiliati, quando gli altri vengono torturati e oppressi, o trattati come se fossero inferiori a ciò che sono»1.
(Desmond Tutu)
Il mio Dio sovversivo
Il libro di Desmond Tutu pubblicato nel 2015 dall’Emi è un piccolo e intenso viaggio nel cuore della concezione di giustizia dell’arcivescovo anglicano di Città del Capo. Il premio Nobel per la pace del 1984, presidente della Trc, con uno stile sobrio e lineare parla del fondamento della sua idea di società, della sua battaglia per un paese e un mondo più giusto: il Creatore che ha fatto l’uomo a sua immagine, un Dio che si comunica con una forza speciale, «sovversiva», tramite la Parola e tramite coloro che nella storia sono stati e sono tutt’ora capaci di propoe la disarmata e irresistibile forza di capovolgimento.
«Bisogna che vi racconti questa vecchia storiella, anche se forse la sapete già – esordisce Tutu nell’incipit del volume -. Veniva narrata, a volte, dai neri quando discutevano sulla loro dolorosa situazione di vittime dell’ingiustizia e dell’iniquità del razzismo. “Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro avevano la Bibbia. Dissero: ‘preghiamo!’. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: ‘Amen’. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia”. […] Davvero i missionari avrebbero ingannato i neri così creduloni? Io voglio affermare nella maniera più netta e inequivoca possibile che non è così. In realtà noi neri non abbiamo fatto un cattivo affare. I missionari hanno messo nelle mani dei neri una cosa che sovvertiva profondamente l’ingiustizia e l’oppressione. […] Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. […] Noi non possiamo restare indifferenti di fronte alle ingiustizie patite da tanti nostri fratelli e sorelle, figli dello stesso Dio e Padre. Tutti gli altri, portatori di Dio, sono creati a immagine di Dio proprio come noi. Non abbiamo scelta […] non possiamo restare in silenzio o indifferenti quando altri sono trattati come se fossero una razza diversa e inferiore».
«Il mio Dio sovversivo» è un testo capace di andare, in poche pagine e con semplicità, al centro delle questioni fondamentali della vita individuale e sociale. Tutu ci parla di un Dio sovversivo che si manifesta all’umanità per dire a ciascuno che ogni uomo è uomo in quanto legato ad altri uomini; che ama ogni uomo come se ciascuno fosse l’unico ad essere stato creato; che Lui è un Dio di parte, schierato con l’umanità; che tutto ciò che ci offre non lo possiamo in alcun modo guadagnare, perché tutto è grazia, a prescindere da qualsiasi merito o demerito; e che, come tutto all’inizio è originato da Dio, tutto alla fine convergerà a Dio, «anche Satana […] perché neppure lui potrà resistere all’attrazione dell’amore divino; e allora Dio sarà davvero tutto in tutti».
Luca Lorusso
Congo Brazzaville: non solo petrolio
Un paese semisconosciuto. Spesso confuso con il suo vicino, il più noto Congo RD. Ma è uno dei principali produttori africani di petrolio. E i rapporti con l’Italia sono molto stretti, da mezzo secolo. Non tra i popoli, ma tra i vertici e i tecnici delle imprese petrolifere. Cerchiamo di sapee di più.
Tra Italia e Repubblica del Congo c’è un’amicizia di lunga data. Il mastice che tiene uniti i due paesi è il petrolio. Dal 1968, l’Eni, la società italiana di idrocarburi, estrae greggio e continua a fare prospezioni nei fondali marini e sulla terra ferma della nazione africana. Non è un caso che il premier italiano Matteo Renzi nella sua prima visita in Africa, nel luglio 2014, abbia incluso una tappa proprio a Brazzaville, la capitale del Congo. E in quella visita si premurò di incontrare il presidente Denis Sassou Nguesso. Esiste quindi un solido sodalizio d’affari. Per noi italiani Brazza è un partner strategico, come lo sono Angola, Mozambico, Algeria, Nigeria e, un tempo, Libia.
Un mare di greggio
L’economia della Repubblica del Congo – anche chiamata Congo Brazza – dipende in gran parte dal petrolio. Il paese è uno dei cinque grandi produttori dell’Africa subsahariana (insieme ad Angola, Nigeria, Gabon e Mozambico). Secondo i dati foiti dal Fondo monetario internazionale, l’«oro nero» assicura l’80% delle entrate del bilancio statale. Il greggio viene estratto soprattutto da giacimenti offshore (cioè al largo delle coste), ma esistono riserve anche sulla terraferma, così come notevole è la presenza di sabbie bituminose dalle quali è possibile ricavare petrolio (sebbene con procedimenti molto inquinanti e costosi). Il Congo Brazza ha pure importanti giacimenti di gas che però non riesce a sfruttare appieno perché manca una rete di distribuzione (nonostante rappresentino un’ulteriore potenziale fonte di ricchezza).
«Il Congo – spiega Antonio Tricarico, analista dell’associazione Re:Common, che a più riprese si è occupato della situazione congolese – punta anzitutto allo sfruttamento dei giacimenti marini. E questo per due motivi: in primo luogo perché nei fondali congolesi il petrolio è abbondante e le riserve promettono bene, in secondo luogo perché i giacimenti petroliferi congolesi sono relativamente vicini alla costa e quindi più facilmente sfruttabili. Alcuni anni fa, quando il prezzo del greggio era abbastanza elevato, il Congo ha investito nello sfruttamento delle sabbie bituminose e dei biocombustibili. Il progetto però è rimasto limitato alla fase esplorativa, probabilmente perché non era più conveniente rispetto alla produzione offshore e sulla costa. Oggi il governo punta soprattutto sulla concessione delle tradizionali licenze di sfruttamento». Secondo l’Energy Information Administration (ente statistico sull’energia del governo Usa), il paese ha riserve di petrolio che ammontano a 1,6 miliardi di barili. Un patrimonio che potrebbe portare sollievo a quella ampia fascia (46,5%) di popolazione che vive ancora sotto la soglia di povertà e potrebbe garantire energia al 65% di congolesi che ancora vivono senza elettricità.
Sventola il tricolore
Questa ricchezza però fa gola a molti. E infatti sul territorio di Brazza operano compagnie statunitensi, francesi, portoghesi, angolane. E, come già detto, anche l’italiana Eni. La società di San Donato opera nella nazione africana da 48 anni. È impegnata sul fronte dell’estrazione di petrolio, del gas naturale e delle sabbie bituminose. Secondo quanto riporta il sito Eni (www.eni.it), nel 2015 in Congo sono stati estratti un totale di 103mila barili al giorno tra gas e petrolio, cioè poco meno di quanto si estrae in Nigeria (137mila barili) e più di quanto viene ottenuto dai pozzi in Angola (101mila). La produzione è concentrata nei giacimenti di Zatchi, Loango, Ikalou, Djambala, Foukanda e Mwafi, Kitina, Awa Paloukou, M’Boundi, Kouakouala, Zingali e Loufika. Proprio quest’anno, 2016, l’Eni ha aumentato la produzione e prevede di toccare i 14mila barili al giorno. L’attività degli italiani si è concentrata soprattutto sull’estrazione marina.
Il blocco Marine XII sembra quello più promettente: si stima che i vari giacimenti di quest’area abbiano riserve di gas e petrolio per circa 6 miliardi di barili. Ma le esplorazioni continuano e gli ingegneri del «Cane a sei zampe» pensano che altre risorse siano ancora disponibili. L’Eni inoltre è attiva anche nella produzione di corrente elettrica. Nel 2007 ha infatti siglato un accordo con Brazzaville per la realizzazione di centrali elettriche che utilizzano il gas flaring, cioè il gas associato all’estrazione di petrolio. Questo gas, invece di essere rilasciato nell’atmosfera (è molto inquinante), viene portato, attraverso un gas-dotto di 55 km, nell’area di Djeno dove sono state realizzate due centrali che producono energia.
«I rapporti tra Congo ed Eni sono ottimi – osserva Tricarico -. Una piccola curiosità: Claudio Descalzi, l’attuale amministratore delegato dell’azienda del “Cane a sei zampe”, ha fatto una parte importante della sua carriera proprio in Congo e si è sposato con una donna congolese. Al di là dei pettegolezzi, la società italiana, in questi ultimi anni, ha rafforzato la sua presenza nel paese africano che è diventato sempre più strategico per i piani alti di San Donato. Nei prossimi anni, se non nei prossimi mesi, l’Eni dovrebbe addirittura acquisire alcune delle licenze ora in mano a Total. Quest’ultima pare invece volersi progressivamente sganciare da Brazzaville. L’Eni è quindi un attore chiave nel paese ed è destinato a diventarlo sempre di più in futuro».
Petrolio opaco
Il settore petrolifero congolese però alimenta un sistema opaco, in cui è difficile definire con esattezza i confini tra la legalità e la complicità con un sistema politico non trasparente, e poco rispettoso delle procedure democratiche. La questione che ha destato maggiore perplessità negli osservatori è il decreto presidenziale (non ancora trasformato in legge) approvato nel 2014. Esso prevede l’obbligo di rinnovo delle concessioni petrolifere e, in tale contesto, la cessione di una percentuale che va dall’8 al 10% (in alcuni casi fino al 25%) delle concessioni a società congolesi. Ciò non esclude lo sfruttamento dei giacimenti da parte delle compagnie straniere, ma impone una presenza sempre più importante di società congolesi nel settore degli idrocarburi.
Nel 2014 l’Eni ha venduto proprie partecipazioni in quattro campi petroliferi a una società che si chiama Aogc (Africa oil & gas corporation). La notizia della cessione a Aogc è emersa durante l’assemblea degli azionisti dell’Eni il 13 maggio 2015. «La Aogc è stata proposta come partner da Eni o dal governo congolese?», ha chiesto Elena Gerebizza, azionista e rappresentante delle due Ong Global Witness e Re:Common. «Non siamo stati noi a sceglierla», ha risposto Claudio Descalzi. L’Aogc non è una società qualsiasi. Nel consiglio di amministrazione siedono Denis Gokana, consigliere del presidente Sassou Nguesso, e alcuni funzionari pubblici. Nel 2005 l’azienda è finita nel mirino dell’Alta corte di giustizia inglese che l’ha inserita in una lista di società offshore create per distrarre i ricavi petroliferi congolesi. Secondo una ricerca di Global Witness, la Aogc sarebbe anche servita per pagare i salati conti dello shopping parigino di Denis Christel, figlio del presidente Sassou Nguesso (spesso i dirigenti africani amano fare compere nelle capitali europee, ndr).
Ma quello dell’Aogc non è l’unico caso che desta perplessità. «Nel periodo 2003-2005 – continua Tricarico – esistevano in Congo varie società petrolifere che io definirei di facciata, perché prendevano appalti dalla società nazionale degli idrocarburi e poi utilizzavano i soldi a beneficio della famiglia presidenziale. In questi mesi, nella Repubblica di San Marino, l’intermediario francese Philippe Maurice Chironi sta subendo un processo per presunto riciclaggio di 70 milioni di euro – di cui circa 20 effettivamente sequestrati – riconducibili a persone legate al presidente del Congo Brazzaville, Denis Sassou Nguesso».
Il settimanale «l’Espresso» ha sollevato un altro caso delicato, quello del blocco Marine XII. Il regime di Nguesso ha posto una condizione per il rilascio della concessione – ha scritto il periodico -: l’Eni avrebbe dovuto cedere il 25% del blocco a un’azienda selezionata dal governo. La scelta è caduta sulla New Age, una società nata due anni prima su iniziativa dell’Och-Ziff Capital Management Group, il più grande hedge fund statunitense. «Per quello scambio con Eni – si legge su l’Espresso -, New Age ha detto di aver versato all’azienda guidata oggi da Descalzi 53 milioni di dollari. Il problema è che quel prezzo era equivalente a un terzo del valore reale della quota, secondo i calcoli della McDaniel Associates Consultants, società di consulenza citata dalla stessa New Age. Ovvero la quota azionaria è stata largamente sottopagata. La differenza, spiega l’Eni, dipende dal fatto che “non si è trattato di una vendita su base commerciale; New Age entrò rimborsando proporzionalmente le spese sostenute fino al momento dell’ingresso nella joint venture”. Sulle attività africane di Och-Ziff stanno indagando le autorità statunitensi. Né l’hedge fund né gli inquirenti hanno specificato su quali investimenti sono in corso gli accertamenti».
Dulcis in fundo, sempre «l’Espresso», ha denunciato l’esistenza nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands di una società, la Elengui Limited, la cui direttrice e socia unica era Marie Madeleine Ingoba, moglie congolese di Claudio Descalzi. La società è stata chiusa proprio nei giorni in cui Matteo Renzi ha nominato Descalzi al posto di Paolo Scaroni (2014).
Perché la moglie dell’allora numero due dell’Eni ha creato questa società? Marie Madeleine Ingoba ha sostenuto che «la società era stata costituita al solo scopo di essere utilizzata per sviluppare un progetto immobiliare a Brazzaville, la ristrutturazione e l’ammodeamento di un hotel nella capitale congolese, che però non si è mai materializzato». La scelta di crearla in un paradiso fiscale è stata dettata dalla praticità – ha detto la signora Descalzi -, la registrazione alle British Virgin lslands era la soluzione più rapida e meno costosa. Ma, sempre secondo la signora Descalzi, la sua società non ha mai avuto alcun rapporto con Eni.
L’amicizia è una bella cosa, ma il rischio è che l’Italia sia diventata troppo amica del Congo.