Chiamiamola tortura

testo di Patrizio Gonnella |


Ai tempi del G8 del 2001, in Italia non era ancora reato. Eppure, il nostro paese aveva firmato la convenzione Onu del 1984. Dopo troppa attesa, nel 2017 è finalmente entrata nel codice penale, ma c’è ancora molto lavoro da fare.

In questi giorni, ricorrono i vent’anni dai fatti del G8 di Genova, dalle brutalità e dalle torture nella scuola Diaz e nella caserma Bolzaneto.

Sono trascorsi, dunque, due decenni da quel caldo luglio del 2001, quando la tortura divenne notizia di prima serata. Tortura usata su un movimento variegato che manifestava e lottava contro le ingiustizie di una globalizzazione fortemente iniqua.

In quella circostanza, una buona parte delle istituzioni si sentì legittimata a ragionare e agire come se si fosse in uno stato di eccezione. La presenza di due ministri nella cabina di regia delle operazioni di polizia contro i manifestanti assunse il significato di autorizzare l’eccezionalità di quanto stava accadendo.

Ci furono le brutalità della Diaz, e poi le torture di Bolzaneto.

Uno dei torturatori di Bolzaneto, dopo essersi vantato di essere nazista e di provare piacere a picchiare un manifestante «omosessuale, comunista», dopo averlo offeso dicendogli «frocio ed ebreo», gli strizzò i testicoli, come nella tradizione tragica della tortura a Villa Triste a Firenze o a Villa Grimaldi in Cile.

Machismo e fascismo, come sempre, insieme.

Prima di Genova, e dopo

Le torture a Genova non furono episodi marginali ascrivibili alle solite mele marce. Fu qualcosa di sistemico e strutturale.

L’anno prima, nel 2000, vi erano state le violenze di Napoli in occasione del Global forum, e quelle denunciate nel carcere di San Sebastiano a Sassari.

Nel luglio del 1998 l’Italia aveva firmato solennemente, al Campidoglio, lo statuto della Corte penale internazionale che avrebbe dovuto giudicare su scala globale i gravi crimini contro l’umanità, tra cui, appunto, la tortura.

Tredici anni prima di Genova, nel 1988, l’Italia aveva firmato e ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 che, all’articolo 1, definiva il crimine e, agli articoli successivi, impegnava tutti i paesi firmatari a punirlo.

Finalmente è reato

In Italia la tortura divenne reato solo nel 2017, dopo le condanne del nostro paese da parte della Cedu (Corte europea dei diritti umani) nei casi Cestaro e Asti.

Era il 18 luglio del 2017 quando fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale la legge che finalmente introduceva nel codice penale, all’articolo 613-bis, il delitto di tortura. Era una legge scritta male perché definiva il crimine di tortura in modo non del tutto sovrapponibile con quanto previsto dall’articolo 1 della Convenzione Onu del 1984, ma sappiamo – grazie a Voltaire – che il meglio è nemico del bene. Fu perciò ragionevole giungere comunque alla sua approvazione contro l’opposizione della destra, da sempre preoccupata di non porre limiti all’azione delle forze di polizia, e anche contro coloro che, senza sguardo strategico, avrebbero preferito non avere nessun reato di tortura piuttosto che quello oggi codificato.

Oggi, in Italia, la tortura è reato, e ci sono le prime condanne per fatti avvenuti negli istituti penali di Ferrara e San Gimignano.

Altri procedimenti penali per tortura nelle carceri sono in corso.

Dunque, ora nei tribunali possiamo formulare un nome tragico che, fino al 2017, era impossibile e vietato pronunciare. Si poteva parlare di abusi, maltrattamenti, lesioni, ma non di tortura.

Una lotta culturale

È importante, ora, che tutti gli attori del sistema della sicurezza, compreso quello penitenziario, facciano convergere le loro forze intorno alla repressione e alla prevenzione della tortura. La criminalizzazione della tortura, infatti, va a beneficio anche degli operatori della sicurezza che si muovono nel solco della legalità.

Nessuno era così ingenuo da pensare che una volta ottenuta la legge, buona o brutta che fosse, la tortura sarebbe stata bandita di punto in bianco dalle nostre prigioni, caserme, centri per migranti, e dalle strade.

Il fatto che la tortura sia un reato è una condizione necessaria ma non sufficiente per la sua prevenzione e per la punizione di chi commette tali atti.

È fondamentale che vi sia una rivoluzione che metta al centro la persona e la sua dignità.

Speriamo che tutte le forze dell’ordine se ne rendano conto e diano un segnale culturale in questa direzione, ad esempio rendendosi disponibili a compiere un percorso di prevenzione concreta della tortura. Un tema rimasto irrisolto, ad esempio, è quello dell’identificazione del personale di polizia, dentro e fuori le carceri. Basterebbe una parola dei vertici affinché possa essere conseguito un risultato. Non ci sarebbe neanche bisogno di una legge, basterebbe un diverso modello organizzativo.

Un altro tema è la costituzione di un fondo per le vittime di tortura. È questa una richiesta che arriva direttamente dalle Nazioni Unite, ma non ve n’è traccia nel nostro ordinamento.

Sighetu Marmației – Maramureș

Formare gli operatori

Ai fini della prevenzione della tortura, un’attenzione più significativa dovrebbe essere rivolta alla formazione degli operatori di polizia e, guardando alle carceri, dello staff penitenziario. Per un personale che non di rado opera in condizioni difficili, infatti, la formazione dovrebbe prevedere, oltre alla teoria, anche la pratica utile per la gestione non violenta dei casi complessi.

È necessario che la formazione sia multidisciplinare e coinvolga operatori non solo di polizia: in carcere un caso difficile si affronta tutti insieme: direttore, poliziotti, educatori, mediatori, psicologi, medici. Fuori dal carcere ugualmente. Si pensi alla neutralizzazione di una crisi di una persona che presenta disturbi psichiatrici: essa non può essere affidata ai soli poliziotti, alle loro armi, alle loro pistole con scariche elettriche.

Dunque la formazione deve essere coordinata e integrata, deve riguardare insieme assistenti sociali, educatori, personale in divisa. E deve riguardare anche i medici. Nelle ultime inchieste per violenze, abusi e tortura nei confronti di detenuti, il ruolo dei medici, seppur gregario, è emerso drammaticamente. Qua e là ci sono incriminazioni per non avere certificato le lesioni viste, per non avere visitato la persona che ne aveva diritto; per negligenza, complicità, soggezione all’apparato securitario.

Il ruolo dei medici è emerso in tutta la sua tragicità nelle violenze avvenute nei confronti dei detenuti delle carceri italiane dopo le rivolte del marzo 2020, in piena pandemia.

Il medico è un avamposto contro le tentazioni di violenza, e deve rispondere al proprio codice deontologico prima che allo spirito di corpo dei custodi.

Lo spirito di corpo

Fortunatamente, diverse inchieste stanno andando avanti da quando è stato introdotto il delitto di tortura nel Codice penale.

Queste azioni giudiziarie ci rassicurano, perché mostrano uno stato che non si lascia plagiare dallo spirito di corpo, e non rinuncia a indagare dentro le proprie istituzioni.

È lo spirito di corpo, infatti, il nemico numero uno per chi vuole reprimere la tortura. Esso è come una cortina fumogena che annebbia la vista degli investigatori. Solo se viene rotto dall’interno, com’è accaduto nel processo Cucchi, c’è la possibilità di avvicinare la verità giudiziaria alla verità storica.

La lotta alla tortura richiede, oltre alla previsione di un reato, anche un’amministrazione dello stato disposta a sanzionare. Richiede anche forze di polizia il cui lavoro non si ispiri al machismo, ma alla prevenzione sociale.

Richiede anche la dismissione di squadre e corpi speciali.

La tortura non è mai una questione di mele marce: si insinua là dove trova spazio e terreno fertile, là dove il sistema consente che alberghi. La tortura è possibile se non trova resistenze istituzionali, contrasto, sanzioni, giudizio pubblico. Nel lavoro pubblico, al centro deve esservi sempre la protezione della dignità delle persone, libere o detenute che siano.

Colpa e vergogna

Per l’azione pubblica, l’uomo deve essere sempre un fine, mai un mezzo. La tortura è un crimine contro la dignità di una persona che viene ridotta a cosa, producendo in lei vergogna e finanche senso di colpa.

La vergogna nasce sempre all’interno di una relazione interpersonale, quando l’altro s’impossessa dell’io e lo degrada a oggetto. Il senso di colpa, a sua volta, può nascere nella vergogna. La colpa, infatti, non è solo quella criminale provocata dalla trasgressione, è anche quella politica, quella morale, metafisica o collettiva. Scrive Karl Jaspers che è una colpa anche il fatto di essere ancora vivi dopo Auschwitz. Anche i sopravvissuti, con il loro carico di dolore, hanno il senso di colpa di essersi salvati a differenza degli altri.

Vergogna e senso di colpa fanno parte della semantica della tortura: il torturato, per ottenere giustizia, deve essere capace di raccontare le violenze subite, spesso umilianti, a qualcuno che potrebbe non credergli. Per ridurre i danni sulla sua vita futura, avrà bisogno di anni di psicoterapia senza la quale potrebbe non uscirne salvo, sempre che disponga dei soldi per pagarsi un buon terapeuta. L’idea del suicidio resta sempre sullo sfondo come via di scampo alla vergogna e alla colpa.

Il torturato, per fare sapere agli altri cosa ha subito, potrebbe essere costretto a denudarsi e mostrare le ferite sul proprio corpo.

Crimine contro la dignità

A Bolzaneto, a una ragazza che chiedeva di andare in bagno e di avere un assorbente, venne gettata della carta appallottolata sul pavimento, attraverso le sbarre. La ragazza fu costretta a cambiarsi l’assorbente in cella usando pezzi di vestiti. Il tutto alla presenza anche di uomini.

Esiste un consolidato orientamento della giustizia internazionale secondo cui il rifiuto di dare gli assorbenti a una donna, di tenere conto dei suoi bisogni intimi, equivale a torturarla.

Quella ragazza probabilmente avrà provato vergogna di essere donna. La tortura spesso fa vergognare di essere se stessi.

A volte, la violenza che origina la tortura è una violenza sessuale. In alcuni casi la violenza sessuale è brandita come minaccia.

Sempre a Bolzaneto, una ragazza italiana, mentre veniva accompagnata dalla cella al bagno, fu costretta a camminare lungo il corridoio con le mani sulla testa abbassata. Fu colpita con calci. Venne derisa e minacciata. E venne, infine, insultata con i peggiori epiteti. Frasi offensive intrise di riferimenti sessuali.

Quella ragazza, una volta uscita dal tunnel di quella violenza, probabilmente avrà sviluppato un doppio senso di colpa: per essersi trovata in quel luogo, ma anche per avere avuto paura di quei miserevoli torturatori.

La persona torturata prova vergogna per la propria debolezza, per la propria scarsa resistenza alle pressioni psicologiche.

Se la persona torturata è un uomo, prova vergogna per non avere reagito. Se ha parlato, si vergogna per avere ceduto alle pressioni e avere confessato, il vero o il falso che sia. Non avrà più il coraggio di guardare in faccia i propri amici. Proverà vergogna di se stesso.

Vergogna e senso di colpa permangono anche durante il processo che dovrebbe restituire giustizia. Sono sentimenti conosciuti anche dai familiari delle vittime torturate e uccise.

Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha raccontato di come, nel processo, lei da vittima è stata ridotta a imputata.

Si parla, in quei processi, dello stile di vita dei loro congiunti, si indaga sulla famiglia, si cerca di infangare l’immagine del torturato, così da fare provare vergogna e colpa ai familiari, forse per farli desistere dall’andare avanti.

Papa Francesco e la tortura di tutti i giorni

La tortura è un reato che si consuma lentamente. Durante la tortura la persona prova paura, terrore. E terrore è quello che i migranti vivono nelle prigioni libiche, nelle quali gli organismi internazionali hanno provato esservi tortura sistematica, insieme a stupri e omicidi.

«Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena», così papa Francesco, in un discorso del 2014 all’Associazione internazionale dei penalisti.

Il papa, con poche parole intrise di forza argomentativa e chiarezza, rimuove la tortura dai libri della storia delle pratiche plausibili della giustizia, e la colloca dentro un presente tragico. Distingue tra la tortura giudiziaria, praticata per estorcere confessioni o indurre alla delazione, e la tortura quale esercizio ordinario del potere di punire.

La tortura su cui maggiormente si sofferma il papa non è quella che ha un fine investigativo, ma la tortura di tutti i giorni, quella che non fa notizia, invisibile, quella data per scontata, accettata come se fosse normale condimento della sanzione legale. Quella che i migranti respinti dalle nostre coste potrebbero raccontare facendo impallidire il mondo dei benpensanti.

La contemporaneità restituisce una casistica dolorosa delle torture possibili. Papa Francesco, con il motu proprio dell’11 luglio del 2013, introdusse il delitto di tortura nell’ordinamento giuridico interno allo stato del Vaticano, fino ad allora quasi del tutto sovrapposto a quello italiano. Fu utilizzata la definizione presente all’articolo 1 della Convenzione Onu contro la tortura.

La tortura è, dunque, quel plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. La detenzione produce sofferenza. È di per sé un male. La tortura è un’ulteriore inflizione di dolore, oltre a quello oggettivamente prodotto dalla perdita o dalla limitazione della libertà.

Nelle guerre, nelle deportazioni, nelle follie di regime, nei campi profughi, nei luoghi di confine, nelle carceri legali e illegali, viene azzerata la dignità umana e la persona viene degradata a cosa.

La tortura ordinaria

Papa Francesco non si scaglia solo contro la tortura «eccezionale», quella scenica, quella usata come strumento di repressione dalle dittature spietate o dai regimi militari o teocratici. Papa Francesco si preoccupa della tortura «ordinaria», quella delle democrazie contemporanee, degli stati liberali. Si preoccupa della tortura di tutti i giorni.

La tortura è una delle forme di management della sovranità. La sovranità è il nemico da sconfiggere. Fino a quando la sovranità sarà eretta a baluardo etico, filosofico e giuridico dello stato moderno, ci saranno sempre guerre. E ci sarà sempre la tortura. Perché la tortura si nutre dello stesso concime della guerra. Si nutre di sovranità. La sovranità è belligena, nonché intrinsecamente violenta.

Attraverso, dunque, la lente della tortura (e la lotta per la sua proibizione) è possibile comprendere il rilievo del processo di desovranizzazione dello stato quale antidoto alla violenza. Va rotto il circolo vizioso della violenza. Più nonviolenza uguale più dignità umana. Più dignità umana uguale meno sovranità. Meno sovranità uguale meno tortura.

Patrizio Gonnella*

 *Patrizio Gonnella è presidente dell’Associazione Antigone. Insegna sociologia e filosofia del diritto all’Università Roma Tre. Ha scritto numerosi saggi e articoli sui temi della pena e dei diritti umani. È editorialista del quotidiano «il Manifesto» e cura una
trasmissione radiofonica su Radio Popolare.


La tortura secondo l’Onu

Convenzione Onu del 1984 contro la tortura, ratificata dall’Italia con la legge n. 498/1988.

Articolo 1.

  1. Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate.



Un rifiuto che suona

testo e foto di Valentina Tamborra |


Una distesa di immondizie tristemente famosa. Donne e bambini che ci fanno il proprio luogo di lavoro. E poi la colla da sniffare, per superare fame e fatica, e il degrado ambientale e sociale. Ma in molti cercano di cambiare questa realtà.

Siamo a Dandora, una località a circa 10 chilometri da Nairobi, capitale del Kenya.

Qui sorge una discarica che «vanta» alcuni infelici primati. Non solo è la pattumiera più grande di tutta l’Africa orientale, ma è stata anche definita da molte organizzazioni il luogo più inquinato del pianeta.

L’immensa discarica a cielo aperto è il luogo dove ogni giorno confluiscono circa duemila tonnellate di rifiuti provenienti dalla capitale.

Uno scenario dantesco: cumuli di rifiuti che formano vere e proprie montagne, vapori dall’odore nauseabondo che sporcano l’aria azzurra che, improvvisamente, ad altezza occhi, diventa nebbiosa.

Sullo sfondo, la città di Nairobi si staglia con i suoi grattacieli e i luoghi del business, che sembrano quanto di più lontano possa esserci dall’inferno che caratterizza luoghi come la discarica e le baraccopoli attigue.

Attorno alla discarica di Dandora, infatti, sono sorti molti slum – baraccopoli appunto – fra cui la famosa Korogocho. Per entrare in questo luogo abbiamo bisogno di una guida e di protezione: quattro uomini ci scortano sicuri attraverso corridoi di rifiuti accatastati gli uni sopra gli altri.

All’interno di Dandora è purtroppo di casa la violenza. Sono luoghi, questi, dove persone disperate farebbero qualsiasi cosa pur di sopravvivere e non è saggio avventurarsi da soli da queste parti.

Persino il taxi che ci ha accompagnati vicino all’entrata della discarica non ha voluto procedere oltre.

La contesa dei rifiuti

Camminando fra i rifiuti non è raro assistere a scene di scontri fra esseri umani e animali. Gli uccelli infatti, enormi marabù simili ad avvoltoi, non di rado si avvicinano ai bambini strappando loro di mano quel poco di cibo trovato scavando nella spazzatura.

La discarica di Dandora, che era già stata dichiarata al limite della capienza nei primi anni 2000, è ormai fuori controllo: i rifiuti ricoprono un dislivello di circa 200 metri.

Nel 2006 era sembrato realizzabile un progetto di bonifica, che però poi è naufragato a causa dell’utilizzo poco chiaro dei fondi stanziati per l’operazione.

Ogni giorno qui a Dandora migliaia di persone lavorano fra i cumuli di immondizia, selezionando il materiale da rivendere, abiti o cibo ancora commestibile. Per molti abitanti degli slum, dunque, la discarica, seppur tossica e pericolosa, resta l’unica forma di guadagno e sostentamento. Per questo motivo, alcune organizzazioni che si battono per il trasferimento della discarica (come, ad esempio, i Missionari comboniani) pongono al governo il problema di garantire che questa fonte di risorse non venga del tutto preclusa alle popolazioni locali.

Queste persone, in larga parte, sono bambini. Poveri, senza cibo né scolarizzazione, si trovano ben presto legati a doppio filo a questo luogo terribile.

Nel loro sangue sono state rinvenute forti concentrazioni di mercurio, cadmio e piombo e i problemi respiratori sono all’ordine del giorno. Respirare i fumi tossici della putrefazione, infatti, causa danni polmonari irreversibili.

Chokora

C’è un nomignolo che definisce i bimbi di strada, coloro i quali nella spazzatura vivono, o meglio sopravvivono: chokora. Si legge «ciokorà» e in lingua kiswahili significa monello, bambino fastidioso, ma anche rifiuto. In qualche modo, dunque, il destino di questi bimbi viene cucito su di loro, finisce per identificarli.

I bambini vengono dalle vicine baraccopoli, Canaan, Shashamane, Korogocho, e qui passano la giornata cercando di sopravvivere. Si riuniscono in gruppi, spesso sono scappati di casa perché non avevano abbastanza cibo e la vita di strada sembrava un’alternativa allettante in confronto al morire di stenti in una capanna di lamiera.

Nairobi e i suoi slum sono tristemente noti per il fenomeno dei minorenni abbandonati a se stessi, anche se molto piccoli. Nonostante gli sforzi di centinaia di organizzazioni umanitarie il loro numero è aumentato negli ultimi 25 anni.

Una piaga che spesso colpisce questi minori è la tossicodipendenza: già a 6 o 7 anni, infatti, iniziano a sniffare colla. La comprano per pochi spiccioli, soldi guadagnati vendendo ciò che nella spazzatura è ancora utilizzabile. Sniffare aiuta a non sentire la fame, la sete, il freddo, la solitudine.

Se ne vedono ovunque di bimbi definiti «zombie»: l’andatura barcollante, gli occhi vitrei con lo sguardo perso nel vuoto. Spesso si riuniscono in gruppi e diventano purtroppo estremamente pericolosi. Rapinano, feriscono, attaccano, perché questa è l’unica modalità di vita che è stato concesso loro di imparare.

 

Musica di strada

L’Ong internazionale Amref health Africa opera nella discarica di Dandora per il recupero dell’infanzia. Qui, i suoi operatori umanitari, portano avanti l’iniziativa «Out of the streets».

Il progetto consiste nel recupero dei bambini di strada attraverso lo strumento della musica.

A scendere sul campo e impegnarsi nel lavoro di sostegno e recupero, spesso sono ex ragazzi di strada, proprio come Samuel che ci accompagna nei vicoli dello slum e della discarica.

La prima cosa da fare quando si giunge in luoghi come questi, è guadagnare la fiducia dei bambini che, abituati a ogni sorta di abuso e violenze, diffidano dall’essere avvicinati.

Una colazione insieme, un po’ di tè e chapati (una sorta di pane azzimo tradizionale), una chiacchiera, la promessa di una doccia calda e vestiti puliti. Qualcuno accetta, i più piccoli soprattutto, e decide di seguire Samuel al centro Amref. Qualcun altro, più diffidente, resta a osservare. Il mezzo migliore per far sì che i bimbi continuino ad accettare l’aiuto degli operatori sociali è il passaparola. Saranno infatti i bambini accolti nei centri Amref a essere in qualche modo portavoce della possibilità di riscatto.

Dal primo contatto, dunque, inizia il circolo virtuoso che potrà portare questi ragazzi al recupero di se stessi, alla disintossicazione e alla scoperta della bellezza e di un’alternativa di vita possibile attraverso la scuola, la cultura, la musica.

Musica e canto infatti sono dappertutto nel contesto sociale kenyano, gli stessi chokorà hanno imparato a comporre canzoni e filastrocche con questo loro nome, cercando di farne così una sorta di bandiera che determini un’appartenenza.

All’interno dei centri Amref, i bambini tornano a scoprire il proprio valore e quello di un pezzo di latta, un barattolo, un contenitore, che da immondizia diventa tamburo. Pezzi di plastica con cui costruire un organo e ancora maracas fatte con vecchie bombolette di spray per l’ambiente. Tramite workshop e lezioni dedicate, costruiscono strumenti e li suonano. In questo modo ritrovano – almeno in parte – quel mondo spensierato che era stato loro tolto.

Il riciclo, il riutilizzo, il dare valore a ciò che prima era destinato a scomparire fra le pieghe della società, diventa quindi iconico, è il riscatto per questi ragazzi privati di un diritto fondamentale: l’infanzia.

 

Una madre

In una baracca grande come uno sgabuzzino, vive la mamma di due dei bimbi aiutati da Amref. I bimbi vanno a scuola grazie al sostegno della Ong.

Un’unica stanza dove dormire, mangiare, studiare. Nessun materasso, solo qualche coperta fra il corpo e il pavimento e come sedie, dei vecchi fusti di vernice. Eppure, in mezzo a questo, notiamo proprio vicino alla finestra un quaderno aperto: la grafia è sottile e fitta. Chiediamo cosa sia: «Preghiere, inni al Signore», ci risponde la donna. Ci racconta che ogni giorno ringrazia Dio per la ricchezza che possiede: i suoi figli, la possibilità per loro di andare a scuola e avere forse un futuro migliore e un tetto sopra la testa. Per essere felice, ci dice, le basta sapere che oggi sta un po’ meglio di ieri e che esiste un futuro possibile.

In una baracca, in mezzo alla polvere, nel caldo soffocante delle baraccopoli di Nairobi, si cela la bellezza che nasce dalla speranza e dalla fede.

Valentina Tamborra


Il progetto

Dal 2001, il progetto «Out of the streets» di Amref healt Africa ha raggiunto circa 26mila minori in stato di vulnerabilità. Nel periodo 2016-2019, 300 minori sono stati sostenuti ogni anno. In questo triennio, infatti, ogni anno Amref ha accolto una media di cento tra ragazzi e ragazze all’interno del centro polifunzionale diurno di Mutuini. Duecento tra ragazzi e ragazze, all’anno, sono stati invece appoggiati nella formazione (istruzione primaria e secondaria e training vocazionali, per capire cosa vorrebbero fare).

Ma non solo di bimbi di strada ci si occupa a Mutuini, all’interno del centro che visitiamo, l’Amref child development centre Dagoretti.
Qui infatti sono presenti anche diverse realtà che hanno come focus la salute e l’emancipazione femminile.
Le donne imparano a leggere, a far di conto, a preservare la propria salute, ad esempio seguendo corsi di educazione sessuale. In Kenya, infatti, l’Hiv è una realtà tristemente estesa.
Attraverso corsi e workshop si parla di eguaglianza di genere, di autonomia.
Un’altra delle attività portate avanti è l’inserimento nel mondo lavorativo e la creazione di opportunità legate ad esso.
L’approccio di questa organizzazione umanitaria resta quello di rafforzare le reti comunitarie esistenti, siano esse previste da una direttiva del governo o siano strutture informali costruite dalle comunità che popolano una determinata zona.

Dalle discariche al palcoscenico di un teatro, dal raccogliere pezzi di vetro e latta per rivenderli, a imparare l’uso di uno strumento musicale e appassionarsi a qualcosa che, forse, li aiuterà ad avere un futuro.
Una seconda opportunità di vita, non più rifiuti dunque, ma esseri umani parte del tessuto sociale.

Valentina Tamborra

Servizio fotografico
Questo progetto è alla base del reportage di Valentina Tamborra e Mario De Santis «Chokorà – il barattolo che voleva suonare».

 




Uomini e terra sotto attacco


Prima criminalizzati, poi assassinati. I difensori dei territori sono nel mirino di chi, dallo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente, trae le sue ricchezze. Da Nord a Sud, da Est a Ovest. Dovunque nel mondo, ambiente e uomini sono in pericolo.

Paulina Gómez Palacio Escudero si definiva amica del popolo indigeno Wixárika e guardiana del territorio sacro di
Wirikuta, nello stato centro orientale di San Luis de Potosí in
Messico. Agricoltrice di 50 anni, aveva una relazione sacra con quel territorio dove, secondo la cosmogonia wixárika, «nasce il sole e si trova l’essenza della vita».

Amare quella terra l’aveva portata a difenderla da chi voleva squarciarla con bulldozer e contaminarne le acque per estrarre metalli e arricchire le tasche degli investitori delle compagnie minerarie.

Nel marzo 2020, fu dichiarata desaparecida e poi ritrovata sin vida (senza vita) dopo qualche giorno a Zacatecas.

Sin vida

Il mese successivo fu ritrovato sin vida nello stato di Oaxaca, nel Messico Sudoccidentale, anche il giovane studente di biologia e attivista per la biodiversità Eugui Roy Martínez Pérez, che aveva deciso di passare la quarantena sanitaria in un centro di ricerca rurale, classificando piccoli animali e preparando una pubblicazione sul suo ritrovamento di specie credute estinte.

Quello stesso territorio oaxaqueño è tornato a essere protagonista della cronaca lo scorso gennaio, quando si è registrato il primo assassinio del 2021 di un attivista ambientale in Messico.

Fidel Heras, agricoltore di mais e membro del Consejo de pueblos unidos por la defensa del Río Verde (Copudever), si era opposto al progetto di costruzione della centrale idroelettrica Paso de la Reina e al prelevamento di sabbia e ghiaia da costruzione dal letto del Río Verde. Era l’unico che aveva deciso di restare. Tutti i suoi fratelli avevano dovuto varcare la frontiera al Nord per trovare lavoro negli Usa.

iNov. 26, 2020) — Pictured from the International Space Station, the Aswan Dam in Egypt separates Lake Nasser from the Nile River. https://www.flickr.com/photos/nasa2explore/50675039058/ Cinquanta anni dopo il corso del fiume Nilo è stato deviato per la costruzione della diga di Assuan, la gente di Nuba nel sud dell’Egitto sono ancora chiedono il diritto al ritorno e il reinsediamento sulle rive del lago Nasser (https://ejatlas.org/conflict/aswan-high-dam-egypt?translate=it).

Crimini dalla Cambogia all’Honduras

Il Messico è tra i paesi nei quali si è registrato negli ultimi anni il maggior numero di attacchi e assassinii di attivisti e attiviste per cause ambientali in un clima di criminalizzazione.

In Colombia, Brasile, Filippine, Honduras, Repubblica democratica del Congo, la situazione non è migliore.

Nel 2012, l’assassinio dell’attivista cambogiano Chut Wutty aveva spinto l’organizzazione Global witness a documentare in maniera sistematica questo tipo di crimini legati allo sfruttamento sociale e ambientale.

Pochi anni dopo, il volto di Berta Caceres e la sua storia di resistenza a progetti di miniere e dighe idroelettriche nel territorio del popolo Lenka, in Honduras, sarebbe diventato un emblema degli effetti dell’avanzare dell’industria estrattiva, e dell’impunità che la caratterizza (cfr. Daniela Del Bene, Berta si è moltiplicata, MC aprile 2016).

Ma poche purtroppo sono le storie e i volti che riescono a ottenere attenzione dai media nazionali, e ancor meno internazionali.

In cerca di giustizia

Di fronte all’evidente crescita di omicidi e attacchi nei confronti degli attivisti ambientali, oggi diverse organizzazioni e gruppi di studio documentano i crimini e contribuiscono alla loro denuncia e alla ricerca di giustizia.

Global witness, Front line defenders, Amnesty international, sono le più conosciute. Le loro unità di ricerca raccolgono denunce e messaggi d’allerta provenienti dai territori invasi dall’industria estrattiva, lanciati da comitati, organizzazioni comunitarie e reti di supporto.

Anche in seno alle Nazioni Unite l’attenzione è cresciuta. Il Consiglio per i diritti umani (Ohchr, nella sua sigla in inglese) ha formalmente riconosciuto il concetto di «difensori dei diritti umani e dell’ambiente», e ha raccomandato una particolare collaborazione tra l’Alto commissariato per i Diritti umani e i Rapporteur speciali dell’Onu per raccogliere dati e seguire la situazione paese per paese.

Abandoned mill and uranium tailings at Taboshar, Tajikistan. Copyright: IAEA Imagebank Photo Credit: Peter Waggit/IAEA
https://www.flickr.com/photos/iaea_imagebank/4770413243/in/photostream/ – Milioni di tonnellate di rifiuti radioattivi provenienti Sovietica volte, Istiklol (Tabošar), Tagikistan – https://ejatlas.org/conflict/300m-radioactive-waste-from-soviet-times-in-taboshar-tajikistan?translate=it

Il lavoro dell’EJAtlas

In articoli anteriori in questa rivista (cfr. MC 2016 e 2017), abbiamo presentato il lavoro svolto presso l’Atlante globale di giustizia ambientale – Ejatlas, un archivio mondiale di storie di conflitti ambientali e degli attori coinvolti, dalle imprese ai movimenti per la giustizia sociale e ambientale. Attualmente l’Ejatlas conta più di tremila schede, molte delle quali aggiornate da attivisti e attiviste locali. Di esse, più di 400 documentano casi di conflitti che hanno registrato uno o più omicidi intenzionali di attivisti (si veda il planisfero qui a sinistra).

A fine 2019, il nostro gruppo di ricerca ha intrapreso un’analisi delle caratteristiche dei conflitti e dei processi di resistenza a partire dai dati disponibili fino ad allora (un totale di 2.743 conflitti), allo scopo di ottenere utili elementi di riflessione e azione.

La ricerca è stata pubblicata nel luglio del 2020 su Global environmental change, rivista scientifica specializzata in studi sui cambiamenti ambientali. Titolata Environmental conflicts and defenders: a global overview, è accessibile gratuitamente dal sito https://www.sciencedirect.com. Tutti gli autori e le autrici hanno attivamente contribuito a creare la base di dati e a mantenere contatti con organizzazioni e movimenti sociali di base.

La pubblicazione è stata elaborata nell’ambito di EnvJustice, un progetto di ricerca finanziato dal Consiglio europeo della ricerca (Erc), agenzia dell’Unione europea dedicata al supporto della ricerca scientifica di frontiera incentrata sul ruolo del ricercatore.

 

Ambientalismo dei poveri

Innanzitutto, è necessario definire gli attivisti ambientali, per capire meglio chi sono.

Secondo la definizione elaborata dalle Nazioni Unite, difensore dei diritti umani e dell’ambiente è chiunque ne difenda i diritti, tra cui quello costituzionale (cioé riconosciuto da stati sovrani) a vivere in un ambiente sano e pulito.

L’azione di difesa può essere dovuta al fatto che questo diritto venga negato e messo in pericolo da parti terze. Si può trattare di membri di comunità indigene, piccoli produttori e produttrici agricoli, pescatori e pescatrici, membri di organizzazioni ambientaliste o movimenti sociali, o ancora giornalisti, ricercatori, studenti e studentesse, etc.

Molti difensori agiscono sulla base di una necessità urgente, quando viene loro negato, ad esempio, l’accesso al fiume o al bosco dal quale dipende la loro quotidiana sopravvivenza.

L’ecologia politica ha proposto il concetto di «ambientalismo dei poveri», per indicare questo tipo di azioni contro la degradazione dell’ambiente.

Piuttosto di «poveri», però, potremmo dire «impoveriti» da secoli di attività estrattive, mega infrastrutture e contaminazione massiva per estrarre ed esportare minerali, derrate agricole, legnami, ecc.

I difensori sono spesso membri di gruppi vulnerabili che soffrono le conseguenze del modello depredatore, e a volte sono vittime di discriminazione intersettoriale nella quale s’intersecano più fattori di esclusione e dunque di disuguaglianza (per esempio il fatto di essere donna e far parte allo stesso tempo di una comunità indigena).

Mesa de entendimiento: HidroSogamoso Claudia Patricia Ortiz, dirigente del Movimiento Social por la defensa del Río Sogamoso. Proceso de diálogo que busca solucionar los conflictos sociales, laborales y ambientales alrededor del proyecto HidroSogamoso. Vereda La Putana, Santader. Colombia 2011 – Artículo: Desarrollo de la noticia . Fotografía: Véala
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Proteggere comunità e terre

Le personalità scomode che osano alzare la voce, proteggere la propria comunità e le proprie terre, diventare portavoce di un popolo indignato, sono le vittime designate della violenza che può culminare nella loro eliminazione.

Secondo i dati analizzati nella ricerca citata sopra, almeno il 13% dei casi di conflitto presentano una o più vittime di assassinii legati alle proteste.

I settori economici che riportano maggiori casi di omicidi sono quello minerario, l’agrobusiness connesso alla deforestazione, e le infrastrutture idriche, principalmente dighe idroelettriche.

Troviamo però altissimi numeri anche in relazione alla creazione e gestione di zone cosiddette «protette», come parchi nazionali o riserve (si veda il dossier sui parchi in India di Eleonora Fanari, La vita non vale un parco, MC maggio 2019). Queste aree sono infatti spesso abitate da popolazioni indigene o da altre comunità tradizionali, a volte nomadi o seminomadi. Alla designazione di un territorio come «zona protetta», i governi e le autorità del parco spesso costringono le popolazioni autoctone ad allontanarsi o proibiscono loro l’ingresso nel territorio, senza offrire alternative.

Il conflitto, in questi casi, sorge dal fatto che le comunità perdono la loro fonte di vita, oltre al territorio che costituisce la loro identità e con il quale hanno convissuto per generazioni.

La marginalizzazione che normalmente soffrono tiene lontani dai riflettori della stampa e dagli interessi politici i crimini perpetrati nei loro confronti.

Área Natural Protegida de Wirikuta

Omicidi, ma non solo

Capita che i crimini più violenti attraggano l’attenzione mediatica o catalizzino l’indignazione della comunità internazionale. Normalmente succede in modo temporaneo. Tuttavia, questi crimini sono solo la punta dell’iceberg di una realtà complessa.

Spesso gli assassinii sono preceduti da giorni, mesi o anni di minacce e intimidazioni di diversa natura, e da criminalizzazione della protesta con accuse infondate per screditare la credibilità e l’onore delle persone colpite.

Se sommiamo ai casi di omicidi, quelli di violenza fisica, la percentuale sale al 18%. Se aggiungiamo anche le varie forme di criminalizzazione, al 20%.

Se però guardiamo ai dati in forma disaggregata, e mettiamo a confronto quelli che si riferiscono a territori abitati da popolazioni indigene con gli altri territori, notiamo che i primi soffrono tassi di violenza più alti fino al doppio. Questo è ulteriore indicatore di una discriminazione storica e della mancanza di strutture di tutela e di sistemi di giustizia adeguati, di trasparenza e d’informazione. È probabilmente indicatore anche del fatto che i popoli indigeni oggi abitano le zone del pianeta con più risorse naturali e più biodiversità, perché hanno saputo tutelarle e farle rigenerare.

Resistenza nonviolenta

I dati mostrano anche un’altra cosa importante: i processi di resistenza possono avere successo, fermare le attività distruttive e arrivare ad avere giustizia.

È da notare che, con pochissime eccezioni, la totalità delle azioni concordate e pianificate da collettivi e movimenti sociali sono di natura nonviolenta: petizioni formali, campagne di sensibilizzazione pubblica, creazione di reti di supporto a livello locale, ma anche regionale o internazionale, azioni sul piano legale e, non meno importante, un lavoro di raccolta di saperi locali e di dati di prima mano da parte delle comunità direttamente interessate. Quest’ultimo si dimostra un fattore chiave nel momento in cui si fa necessario contrastare le informazioni impacchettate e imbellettate delle imprese o dei governi che negano spesso i potenziali impatti, o lodano progetti anteriori come portatori di prosperità e lavoro. Chi meglio degli abitanti stessi della zona può togliere il velo della menzogna e dell’impunità?

https://www.flickr.com/photos/curacumba/25213769047/ – Three Gorges Dam, China – https://ejatlas.org/conflict/three-gorges-dam-on-the-yangtze-river-in-hubei-china?translate=it

Le tecniche più efficaci

L’analisi ci ha anche dato importanti elementi di riflessione in merito agli strumenti di opposizione usati per le azioni di resistenza più efficaci.

Notiamo in particolare tre strumenti principali: un’opera di informazione preventiva; l’adozione di una combinazione di strategie diverse di opposizione; le azioni legali.

Le mobilitazioni che cominciano in forma preventiva (cioè prima che il progetto venga messo in atto) hanno il doppio di probabilità di successo di fermare l’attività rispetto a quelle nelle quali la protesta si consolida solo una volta che l’attività è già avviata.

Può risultare piuttosto intuitivo, ma questo dato indica quanto sia importante il lavoro d’informazione e di presa di coscienza a livello comunitario, la discussione di alternative e la possibilità di accesso a un’informazione precisa sui progetti.

Spesso, infatti, una confusa e incompleta visione del progetto da osteggiare inibisce l’organizzazione di base, crea false speranze e smarrimento, e scoraggia il dibattito a livello locale.

Rendere opache le informazioni sui progetti è una delle strategie preferite dagli sponsor, dai magnati dell’agrobusiness, dai grandi costruttori d’infrastrutture e dalle grandi imprese minerarie.

Il secondo strumento, che porta a una probabilità più alta di fermare attività distruttive, è la combinazione di diverse strategie di opposizione. Laddove la protesta adotta una pluralità di tattiche, la frequenza di cancellazione dei progetti raggiunge il 16%, mentre dove si è limitata ad alcune, raggiunge solo il 7% (le percentuali si riferiscono a parametri corrispondenti a «maggiore di 10 tattiche» o «minore di 5 tattiche»; ovviamente sono parametri analitici che hanno il solo scopo di orientare la lettura dei dati e non sono da prendere in modo letterale).

Il terzo strumento sono le azioni legali, come ad esempio denunce per l’applicazione incompleta di direttive ambientali, o per la mancata restituzione di terre, per la mancata corresponsione dell’indennizzo promesso, per il mancato riconoscimento di diritti consuetudinari o per irregolarità nelle valutazioni d’impatto ambientale.

Nei casi in cui tali azioni legali sono state intraprese, il giudizio della corte ha avallato i progetti nel 18% dei casi, mentre si è dichiarato favorevole alle istanze di giustizia ambientale in ben il 34% (il restante indica casi non ancora conclusi, non classificabili, o dati non disponibili).

Ciò comprova il fatto che la gran parte dei progetti contestati non rispetta le normative in vigore e gli standard sociali e ambientali, nazionali o internazionali.

I dati ci mostrano un ulteriore elemento interessante. Quando questi tre strumenti, la mobilitazione preventiva, la diversità di tattiche e le azioni legali, vengono adottate congiuntamente, la probabilità di fermare l’attività aumenta notevolmente.

Il consenso previo

Queste considerazioni ci hanno portano a formulare nello studio Environmental conflicts and defenders delle raccomandazioni importanti. Innanzitutto, quella riguardante l’informazione previa sul progetto, che deve essere fornita in modo chiaro e trasparente per permettere alle comunità di organizzarsi, dibattere ed esprimere il proprio parere. Questo parere poi non può limitarsi a una mera consultazione (come normalmente previsto in troppe legislazioni nazionali) ma deve diventare la base sulla quale la comunità possa concedere il proprio consenso su un determinato progetto, o porre un veto.

Il principio del «Consenso previo, libero e informato» stabilito per convenzione nel diritto internazionale raccomanda proprio che tale consenso, o dissenso, sia vincolante e che sia richiesto per avviare qualsiasi progetto in particolar modo in territori indigeni e comunità tradizionali.

La Convenzione 169 dell’Organizzazione mondiale del lavoro (un’agenzia delle Nazioni Unite), adottata nel 1989, raccoglie tale raccomandazione in relazione a decisioni che riguardano territori abitati da popoli indigeni e tribali. Essa riconosce ai popoli indigeni un insieme di diritti fondamentali, tra cui quelli sulle terre ancestrali e di decidere autonomamente del proprio futuro.

Attualmente, la Convenzione costituisce uno dei pochi, se non l’unico, strumento legislativo internazionale di protezione dei diritti dei popoli indigeni.

Al 2021, solo 23 paesi al mondo l’hanno ratificata. Di europei se ne contano pochi, tra cui Spagna, Paesi Bassi e Danimarca. Anche se in Europa sono pochi i popoli originari (i Sami di Svezia e Finlandia), i governi nazionali, compreso quello italiano, possono avere un ruolo importante in materia. Innanzitutto, per regolamentare le attività delle proprie imprese all’estero, ma anche in quanto membri di istituzioni internazionali o multilaterali come la Banca mondiale, e perché sono attori di gran peso nell’ambito della cooperazione internazionale (e quando parliamo di cooperazione ricordiamoci che ci riferiamo anche a interventi di grosse aziende).

 

L’Accordo di Escazu

Per garantire l’accesso all’informazione e alla giustizia in temi ambientali, una buona notizia è giunta a fine gennaio dall’America Latina, in particolare dall’Argentina e dal Messico. La firma di questi due paesi ha fatto raggiungere i requisiti minimi per l’entrata in vigore dell’Accordo di Escazu (l’Accordo regionale sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico e l’accesso alla giustizia in materia ambientale in America Latina e nei Caraibi), avvenuta nell’aprile di quest’anno.

Si tratta dell’unico accordo vincolante generato in seno alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (Rio+20), ed è attualmente il primo strumento internazionale vincolante che contiene disposizioni precise in difesa dei difensori dei diritti umani e dell’ambiente.

Ci auguriamo che sia applicato con efficacia e che l’esempio latinoamericano possa guidare altri governi nella stessa direzione.

Nel frattempo, e consapevoli che questi risvolti istituzionali, pur importanti, non fermano la violenza e l’arroganza dell’interesse corporativo, è importante mantenere e prendersi cura delle reti di supporto internazionale, esercitare pressioni politiche, proteggere la libera informazione e prevenire la violenza contro le comunità e al loro interno. C’è lavoro per tutti noi, a partire anche dai nostri territori e dalle nostre comunità.

Daniela Del Bene
coordinatrice dell’Ejatlas

 




Storia di Zam, giornalista impiccato

Il regime sciita di Teheran non perdona. Ruhollah Zam, giornalista e oppositore, è stato giustiziato. Il clero al potere interpreta e impone la sharia a tutti i propri cittadini. Ma non a se stesso.

Lo scorso 12 dicembre è arrivata una delle tante lugubri notizie che attraversano l’etere: un giornalista iraniano è stato impiccato a Teheran. Si chiamava Ruhollah Zam e viveva in esilio volontario in Francia con la famiglia. Da quanto si è letto sulla stampa, è caduto in una trappola tesa dai servizi d’intelligence iraniani. Nell’ottobre del 2019, con un pretesto, è stato indotto a recarsi in Iraq, paese in cui la Repubblica islamica esercita una notevole influenza. Appena arrivato, è stato fermato dalle forze di sicurezza irachene, che l’hanno poi consegnato alle Guardie della rivoluzione. I mezzi d’informazione iraniani hanno salutato con entusiasmo la cattura di uno dei nemici della Repubblica, avvenuta grazie a una «meticolosa operazione di intelligence» (Press Tv, 14 ottobre 2019).

La notizia ha suscitato commenti soddisfatti da parte delle autorità, che hanno lodato l’abilità delle Guardie e hanno manifestato orgoglio per il grande successo da loro ottenuto (Teheran Times, 14-15-16 ottobre 2019).

Ruhollah Zam, giornalista e oppositore del regime iraniano, davanti al Tribunale rivoluzionario di Tehran il 2 giugno 2020. Condannato, Zam sarà impiccato il 12 dicembre 2020. Foto Ali Shirband – Mizan News / AFP.

Chi era Ruhollah Zam

Perché le Guardie della rivoluzione ritenevano questo giornalista un nemico così pericoloso da mobilitare tutte le proprie risorse d’intelligence pur di snidarlo dal suo rifugio in Francia e riportarlo in Iran? Perché le autorità hanno tanto esultato per il successo dell’operazione?

Ruhollah Zam era il figlio di Mohammad Ali Zam, un eminente chierico sciita che, dopo la rivoluzione, ha diretto la sezione relativa alle arti dentro l’Organizzazione per la propaganda islamica. Era, dunque, figlio di un attivo sostenitore del nuovo Iran inaugurato da Ruhollah Khomeini, del quale portava il nome. Nel tempo, suo padre si era collocato all’interno della fazione politica genericamente definita «riformista», in opposizione a quella altrettanto genericamente definita «conservatrice».

Il conflitto tra le due anime del clero sciita è emerso con particolare evidenza subito dopo le elezioni presidenziali del 2009, quando la denuncia da parte del candidato riformista Mousavi di massicci brogli ha dato origine alle proteste popolari dell’Onda verde. Verde era il colore scelto da Mousavi per la campagna elettorale.

Tra i manifestanti arrestati dalla polizia durante quelle proteste c’era anche Ruhollah Zam che, dopo la liberazione, ha deciso di lasciare il paese e ha ottenuto asilo politico in Francia. In esilio ha continuato la lotta attraverso internet e le reti sociali. Nel 2015 ha fondato su Telegram un canale d’opposizione chiamato Amad News.

Tra il dicembre 2017 e il gennaio 2018 l’Iran è stato sommerso da un’altra ondata di proteste che, a differenza di quelle del 2009, hanno interessato soprattutto le province, dove inferiore è il livello di vita e maggiori sono le difficoltà economiche. Le manifestazioni, infatti, questa volta hanno avuto come causa scatenante il rincaro di generi di prima necessità, sebbene gli slogan siano subito divenuti anche politici. I manifestanti, soprattutto giovani, gridavano la propria frustrazione per le promesse economiche non mantenute, ma anche il proprio malcontento contro il sistema.

Ci sono stati atti di vandalismo, assalti a stazioni di polizia, si sono bruciati ritratti della Guida suprema. Pur condannando le violenze, persino il presidente Rohani ha riconosciuto fondate le motivazioni economiche all’origine delle proteste, ma la Guida suprema le ha attribuite alle trame di governi stranieri e dell’opposizione iraniana all’estero, e questa è rimasta la versione ufficiale.

Reti sociali e proteste

Già nel 2009 i manifestanti avevano utilizzato internet, sia per organizzarsi, sia come cassa di risonanza delle proprie rivendicazioni. Nel frattempo, l’utilizzo delle reti sociali e, in particolare, di Telegram, che funziona bene anche con una connessione lenta, tra gli iraniani si era moltiplicato, e internet era sempre di più divenuto una fonte d’informazione alternativa alla Tv di stato. Nel dicembre del 2017, la gente stabiliva su Telegram dove e quando uscire in strada.  Non c’era un movimento organizzato, non c’erano leader o figure carismatiche, c’era Telegram. Anche Amad News ha fatto la sua parte, ma per poco, perché già a fine dicembre (le proteste sono iniziate il 28) è stato chiuso da Pavel Durov, il fondatore di Telegram, per avere postato istruzioni su come costruire bombe molotov. Zam ha fondato allora un altro canale, Voce del popolo, che ha continuato ad amministrare fino alla cattura.

Dopo questi avvenimenti, le autorità hanno cominciato a vivere nel timore di altre proteste e del pericolo costituito dalla rete. La possibilità che internet offre a chiunque di mettere in circolazione materiale non censurabile è percepita come una sfida aperta, che le autorità non riescono a neutralizzare per quanti sforzi facciano, perché nell’era di internet non c’è più il monopolio dell’informazione. Viste le precedenti esperienze, quando nel novembre del 2019 nuovi rincari hanno riacceso la miccia delle rivolte, i collegamenti internet sono stati immediatamente interrotti ovunque. Ciò ha messo in difficoltà i manifestanti e ha ostacolato la diffusione d’informazioni su quanto stava avvenendo, ma ha anche ostacolato il funzionamento di ogni forma di attività nel paese, governativa e non. Il problema, dunque, è più che mai aperto.

Minareti nella città di Qom. Foto Mustafa Meraji . Pixabay.

Condannato a morte

Di quanto è successo nel novembre del 2019 non si poteva accusare Ruhollah Zam, che era già sotto processo in patria. Contro di lui sono stati comunque sollevati diversi capi d’imputazione: spionaggio per conto di Israele e della Francia, collaborazione con il governo ostile degli Stati Uniti, diffusione di notizie false, istigazione alla rivolta, blasfemia, insulti alle autorità islamiche, diffusione della «corruzione sulla terra». Il processo ha fatto il suo corso e il 30 giugno 2020 è arrivato il verdetto: condanna a morte per impiccagione. L’8 dicembre la Corte suprema ha confermato la sentenza e, solo quattro giorni dopo, il giornalista è stato giustiziato.

Alla storia di Ruhollah Zam è stata assicurata in Iran ampia copertura mediatica: doveva essere esemplare, servire da avvertimento. «Non è che l’inizio», avevano postato le Guardie della rivoluzione sul loro canale Telegram subito dopo la cattura. La soddisfazione che quella morte ha suscitato è significativamente espressa nelle amare parole pronunciate da suo padre dopo l’esecuzione e riportate dall’organo dei Guardiani, per confutarle: «La vicenda umana di Ruhollah è finita. Congratulazioni a quelli che erano in agguato di una tale gioia» (Nournews, 15 dicembre 2020). La storia di Zam dava occasione di ribadire e «provare» con le «ammissioni» pubbliche del giornalista, che la causa dei disordini interni al paese è da ricercarsi nei disegni dei nemici esterni e dei loro collaboratori, uno dei quali aveva ora ricevuto la meritata punizione.

I crimini secondo la sharia

Non entro in merito all’accusa di avere fatto circolare su Telegram notizie false per fomentare rivolte antigovernative. Non sarei in grado di confermarla, né di smentirla. È noto che la disinformazione è strumento di lotta politica e manipolazione delle coscienze da molto prima dell’arrivo di internet. Lo sanno bene anche le autorità iraniane, che, a ogni anniversario, per raccontare la storia della rivoluzione selezionano i documenti, ritoccano foto storiche, tagliano filmati.

Vorrei, però, soffermarmi sull’accusa mossa a Zam di «corruzione sulla terra», che ai nostri orecchi suona strana.

La sharia contempla un tipo di crimini definito con un termine che si può tradurre come «corruzione, marcio, disordine in senso morale». Chi diffonde questa corruzione sulla terra deve essere perseguito. Sono crimini commessi da nemici di Dio e dell’ordine da Lui voluto sulla terra, persone ingiuste e malvagie che mettono a repentaglio il buon essere, sia sociale, che morale, degli uomini.

Nel libro in cui illustra la propria idea di governo islamico, Khomeini afferma che esso deve rimuovere dalla società dei fedeli ogni traccia di corruzione. È difficile per il fedele, argomenta Khomeini, mantenersi puro e coltivare la propria fede in un ambiente corrotto. Invariabilmente finirà per corrompersi a sua volta, a meno che non scelga di distruggere la fonte stessa della corruzione e abbattere i regimi oppressivi. È chiaro a che cosa si riferisse l’autore in quest’opera, uscita nel 1970, quando si trovava in esilio in Iraq e faceva parte dell’opposizione, non solo islamica, allo scià. Anche lui, come Zam, poi ottenne esilio politico in Francia. Una storia che si ripete.

Dunque, per Khomeini è legittimo opporsi a un regime oppressivo, in quanto esso è corruttore di uomini. Questa parte del suo pensiero non è sbandierata in Iran, dove sono anche censurati i discorsi da lui stesso tenuti dopo il ritorno in patria, là dove affermava che è diritto del popolo decidere attraverso un referendum la forma di governo che preferisce. Ma, in quel caso, naturalmente, il voto avrebbe dovuto rimuovere la monarchia; com’è effettivamente avvenuto col referendum del 30-31 marzo 1979, che ha istituitoì la Repubblica islamica.

Un potere che non garantisce al fedele musulmano un ambiente propizio alla sua crescita spirituale, come per Khomeini era quello dello scià, è illegittimo ed è giusto fargli guerra. Al contrario, un potere che si basa sulla sharia e ha al proprio vertice una Guida spirituale, ossia il rappresentante di Dio in terra, dovrebbe creare le condizioni migliori perché quella crescita avvenga nel migliore dei modi. Qui è l’ubi consistam (il fondamento) del Governo islamico e la sua giustificazione.

Clero sciita, l’ipocrisia al potere

Dopo più di quarant’anni di governo assoluto del clero sciita, bisogna constatare che queste condizioni non ci sono ancora. Al contrario, la fede dei musulmani iraniani è stata, ed è messa a dura prova dal comportamento della classe politica al potere, che è continua fonte di scandalo, perché contraddice apertamente gli insegnamenti di pietà, giustizia, austerità impartiti dalla religione.

Una delle figure più care ai fedeli sciiti è quella del primo imam, Ali, genero di Maometto, che fu il quarto califfo dell’islam, capo politico, oltre che spirituale, dei musulmani. Di lui s’insegna che era uomo di grande pietà e giustizia, e che riteneva proprio dovere assicurare a tutti una vita dignitosa. Per se stesso considerava disdicevole vivere meglio dell’ultimo dei musulmani e viaggiava in incognito per vedere dove era il bisogno, e soccorrerlo. Di lui si raccontano molte storie devozionali.

In una di esse Ali giunge non riconosciuto a casa di una vedova, vede la miseria in cui vive con i suoi figli e si mette a servirli, poi porta loro del cibo, e, quando quella lo ringrazia, si schermisce, chiede perdono per non aver saputo compiere a tempo debito il compito di provvedere a loro. A questo punto la vedova capisce che il suo ignoto benefattore è, in realtà, il califfo.

Che cosa vede, invece, il cittadino della Repubblica islamica? Vede che religiosi e politici influenti, sebbene predichino la necessità di una vita modesta al servizio dei poveri, vivono in un lusso mal celato; vede che i più redditizi settori dell’economia sono monopolizzati da organizzazioni legate al clero; vede intorno la miseria di tanti che non hanno il necessario per vivere, mentre ingenti risorse sono utilizzate per finanziare una politica estera ambiziosa; quando ha a che fare con le istituzioni a qualsiasi livello, conosce l’umiliazione di dover ottenere grazie a conoscenze, o al denaro, diritti e servizi che gli dovrebbero essere garantiti. Il cittadino vede la corruzione, vede l’ingiustizia e il mal governo, ma non può parlare, perché ha paura, perché criticare la Repubblica islamica può essere equiparato a bestemmia, con tutte le conseguenze che ne derivano. Come abbiamo visto, blasfemia è una delle accuse sollevate contro Zam.

Villaggio sulle montagne iraniane. Foto Mustafa Meraji – Pixabay.

Insofferenza, astio e frustrazione

Tutto ciò ha nel tempo logorato la fede degli iraniani. Un governo che si presenta come la voce di Dio in terra, con il comportamento dei suoi servitori ha discreditato l’idea stessa di Dio, ha seminato l’agnosticismo, l’insofferenza per ogni discorso sulla religione e l’astio verso i suoi ministri. È un danno che, tra l’altro, ricade su tutto il clero, anche su quelli che non condividono le ambizioni temporali del governo teocratico. La generazione arrivata alla maturità prima della rivoluzione è in genere rimasta legata ai valori tradizionali, ma le generazioni venute dopo, cresciute in un mondo in cui la difformità tra parole e realtà è la regola, in cui l’ipocrisia è premiata, sono disorientate e vivono un forte disagio interiore. In estrema sintesi: l’immoralità dei teocrati ha generato un’amoralità diffusa. Sempre di più nei giovani ai riferimenti tradizionali si sostituisce la ricerca dei valori materialistici del confort personale, del denaro, dell’affermazione sociale, che si scontra, però, con la crisi economica in cui da anni versa il paese, aggravata dal regime delle sanzioni.

Le difficoltà economiche rendono molto arduo fare progetti per sé e per la propria famiglia, il futuro appare incerto, si vive in una costante preoccupazione per il domani. Sono problemi reali: la mancanza di lavoro, o la paura di perderlo, l’inflazione che moltiplica le spese, gli affitti esorbitanti, una malattia che mette in ginocchio tutta la famiglia, perché le cure sono a pagamento. Però le difficoltà sono tanto più sentite, quanto più la felicità s’immagina legata al raggiungimento di beni materiali. Questa condizione mentale, che accomuna ricchi e poveri, è una vera e propria malattia dello spirito, un’epidemia, molto peggiore del Covid. I soldi sono diventati un’idea fissa. Ormai i discorsi che si sentono in giro sono monotematici. Si parla dei prezzi che crescono, di ciò che si può comprare o vendere, di ciò che si ha o che si vorrebbe. Chi ha, vorrebbe di più, chi non ha, pensa a come fare per avere. I giovani hanno pochi strumenti per difendersi dal pensiero dominante, non riescono a elaborare un’alternativa, e ne rimangono soggetti. A causa del senso di frustrazione creato dalla distanza tra realtà e desiderio cadono in depressione, ricorrono agli stupefacenti, o si tolgono la vita. Quello dei suicidi in Iran è da anni un dato in crescita, soprattutto nelle aree urbane. Non ci sono statistiche ufficiali attendibili, i mezzi d’informazione non ne parlano, ma tra la gente questo aumento è percepito. Mi è recentemente capitato di parlare con un pompiere che fa servizio nell’area dove risiedo, poco fuori Teheran. Lui aveva ben chiara la drammaticità della situazione, perché i pompieri hanno dovuto moltiplicare gli interventi per suicidio e oramai sono chiamati più volte a settimana.

Maria Chiara Parenzo


Archivio MC:

Minareto a Qom. Foto Mustafa Meraji – Pixabay.




Armi, Gang e un uomo al comando

testo di Marco Bello |


La deriva autoritaria dell’élite al potere. L’impunità a livelli mai visti. I banditi che controllano la popolazione. Mentre imperversa l’«economica del rapimento». La diaspora guarda con grande preoccupazione il 2021: l’anno di tutte le sfide.

È il 28 agosto 2020, a Port-au-Prince l’avvocato Monferrier Dorval viene freddato con un proiettile. Dorval era il presidente dell’Ordine degli avvocati della capitale, e stava lottando per migliorare la situazione nel suo paese. L’assassinio suscita indignazione in molti settori della società haitiana.

Quattro mesi dopo, il 28 dicembre, in un assalto è ferito gravemente il giornalista Vario Sérant, e ucciso l’ingegnere Obelson Mésidor, che è in auto con lui. Collaboratore della Nazioni unite e insegnate all’Università di stato di Haiti, Sérant viene salvato per il rotto della cuffia.

Due eventi non isolati, segnali di una situazione sociale ormai al limite del collasso nel paese caraibico.

Ma cerchiamo di capire cosa sta succedendo.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Uomo solo al comando

Il 7 febbraio 2017, dopo un’elezione contestata (svoltasi tra fine 2015 e gennaio 2016) e un anno di transizione (con presidente ad interim il presidente del senato Joselerme Privert), è diventato capo di stato Jovenel Moise. Grande imprenditore agricolo, anche noto come «Neg banan» (l’uomo delle banane, in creolo), Moise rappresenta una ristretta classe di neo arricchiti grazie a traffici e commerci più o meno leciti. Una classe legata alla destra storica duvalierista, di cui fa parte anche il cantante Joseph Martelly, che lo ha preceduto alla presidenza (2011-2016) (si veda MC aprile 2017).

Come già Martelly, anche Moise ha evitato accuratamente di realizzare elezioni, facendo scadere gli eletti locali prima, e poi, a inizio 2020, la camera dei deputati e due terzi del senato. Da allora, non essendoci più il parlamento (ad eccezione di un terzo del senato, dieci senatori), il presidente, governa per decreto, forzando la Costituzione e facendo diventare Haiti una «quasi» dittatura presidenziale.

Mentre Martelly non era riuscito a creare consenso per un Consiglio elettorale provvisorio (Cep), e, quindi, a costituire questo organo fondamentale, Moise ha avuto a disposizione un Cep riconosciuto e funzionante, durante gran parte del suo mandato. Nonostante questo, non ha realizzato le elezioni, fino alle dimissioni del Cep, nell’agosto 2019, a causa della constatazione, da parte dello stesso, che non c’erano le condizioni per realizzare la consultazione elettorale.

«Moise vuole cambiare la struttura istituzionale del paese, ma vuole farlo tutto da solo», ci confida il giornalista Gotson Pierre. «Non ha mai smesso di criticare il fatto che c’è una condivisione di potere (dettata dalla Costituzione, ndr). Lui è per un potere presidenziale, mettendo il presidente della Repubblica a capo supremo della nazione. Come è stato durante la dittature dei Duvalier».

E continua: «Vuole liberarsi istituzionalmente, per governare liberamente. Per questo motivo dice: da quando non c’è più il parlamento, facciamo molte cose. L’organo legislativo è un ostacolo per lui».

Così dal gennaio dello scorso anno, scadute le due camere, Moise ha firmato molti decreti, alcuni dei quali piuttosto discutibili e, soprattutto, senza il controllo di nessuna altra istituzione. Di fatto sta legiferando in modo diretto, e molti sono decreti che modificano le istituzioni repubblicane. «Ha fatto oltre quaranta decreti nei vari settori, per esempio nell’ambito dell’organizzazione degli ordini professionali, del codice penale, e di altri organi indipendenti, come la corte superiore dei conti».

Alcuni decreti mettono a rischio la libertà e i diritti fondamentali, come quello che istituisce l’Agenzia nazionale d’intelligence (Ani), molto criticato da opposizione e società civile. Questa struttura, infatti, ricorda tanto la milizia dei famigerati Tonton Macoute: «Sarà un’agenzia dei servizi segreti, i cui membri possono essere armati, e andare a casa delle persone senza mandato. Renderanno conto solo al presidente, il che assomiglia molto ai Macoute del passato. Anche i diplomatici stranieri hanno detto a Moise che è un decreto pericoloso». Da notare che gli ambasciatori delle diverse cancellerie, in generale mantengono una posizione defilata, omettendo di ostacolare la deriva autoritaria del presidente. Chi ci parla ricorda bene i Duvalier e la loro milizia: padre Jean-Yves Urfié, missionario francese della congregazione dello Spirito Santo, ha iniziato a lavorare ad Haiti nel 1964. Da Duvalier è stato pure espulso nel ‘69, per poi tornare nel paese.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Ritorno al passato?

Il disegno di Moise è chiaro. Con un decreto del 7 gennaio, il presidente rende pubblico il suo calendario elettorale. Vuole realizzare un referendum costituzionale il 25 aprile di quest’anno e poi elezioni presidenziali, legislative e locali, tra il 19 settembre e il 21 novembre. Per arrivare il 22 gennaio 2022 alla proclamazione ufficiale dei risultati, e procedere all’insediamento del presidente della repubblica il 7 febbraio, data simbolo della caduta di Jean-Claude Duvalier (7 febbraio 1986).

Le questioni sul tavolo sono diverse e complesse. Primo: il mandato dell’attuale presidente scade il 7 febbraio 2021 e non 2022 (su questo punto c’è un’ambiguità nella Costituzione). Secondo: il Consiglio elettorale provvisorio si è dimesso e Moise ha creato il proprio Cep (nell’ottobre scorso) che non risponde alla normale procedura, non ha un consenso tra le istituzioni ed è dunque illegale, non avendo neppure prestato giuramento di fronte alla Corte di cassazione. Terzo: la Costituzione, per essere riformata, prevede un iter complesso di modifica, con diversi passaggi in parlamento, a cavallo tra due legislature. Moise invece ha creato un comitato di redazione, «composto da amici suoi», sottolinea padre Jean-Yves, ai suoi ordini, incaricato di redigere un progetto di Costituzione. Questo sarà votato dal popolo al referendum e diventerebbe dunque valido, nei programmi del presidente, entro maggio. Anche questo procedimento è illegale. Come è possibile tutto ciò? Una spiegazione ce la può dare Jaques Stephen Alexis, grande scrittore, medico e uomo politico haitiano (1922-1961), quando diceva che Haiti è il paese del «Réalisme Merveilleux» (realismo meraviglioso).

Gotson Pierre tenta di spiegarci. «Con il referendum costituzionale, Moise vuole modificare la Costituzione, ma violando la Costituzione attuale. È la prima volta dal 1987, quando è stata promulgata, che chi detiene il potere osa metterla di lato. Ci sono stati i colpi di stato, ma la Costituzione è stata sempre menzionata, e si parlava di ritorno all’ordine democratico. Ma con Moise, siamo fuori dalla Costituzione, e lui agisce senza avvertire, senza un discorso: dice “creiamo un comitato per fare una nuova costituzione”, e questo senza contattare nessuno. È pura arbitrarietà».

Inoltre, si conoscono già le grandi linee della nuova carta fondamentale: «Si ha l’impressione che questa Costituzione l’abbia già pensata: massimi poteri al presidente, soppressione del primo ministro, il parlamento diventa unicamerale, eliminando il senato. Siamo in una grande riforma istituzionale, portata avanti in maniera informale, e tutto è fatto dall’esecutivo da solo».

Il rischio per lo stato è dunque elevato, continua il giornalista: «Il referendum consacrerà l’insieme dei decreti che sono già stati pubblicati sui diversi settori della vita pubblica. Cancellerà tutte le acquisizioni democratiche del 1986 in materia istituzionale. Da circa un anno siamo in questo processo».

Qualcuno non è d’accordo

L’opposizione politica e gli altri settori della società haitiana cosa dicono? «Il movimento popolare era più forte nel 2019, aveva bloccato il paese durante diverse settimane», ricorda padre Urfié, riferendosi al cosiddetto «paylock», ovvero il blocco totale del paese nell’autunno di quell’anno, causato da diversi settori della società che protestavano contro la corruzione del presidente e il suo entourage nell’affare Petrocaribe: aiuti venezuelani ad Haiti dirottati nei forzieri di pochi.

Però l’opposizione politica è variegata e divisa, ci ricorda il missionario, che negli anni ‘90 era stato un promotore dei movimenti sociali e della democrazia nel paese, attraverso le comunità di base, rischiando varie volte la vita: «Nell’opposizione ci sono anche personaggi simili a Moise. Quindi, il popolo non ha fiducia in molti dei suoi dirigenti. Inoltre questi non riescono a mettersi d’accordo. Per essere efficace, occorre che il movimento sia generalizzato, invece ci sono gruppi gli uni contro gli altri. Troviamo quelli che sono più radicali e altri meno, quelli favorevoli al dialogo e altri no. Tra i radicali c’è gente come Yuri Latortue, che faceva parte degli squadroni della morte durante il colpo di stato (si riferisce al putsch di Raoul Cédras, 1991-1994, che lui ha vissuto in prima persona, ndr). È qualcuno che è diventato molto ricco grazie a traffici strani».

Gotson Pierre approfondisce: «C’è rivalità fra i leader, ma forse c’è anche un problema di rappresentazione, che rende le cose difficili. Che messaggio comunicano? Stanno iniziando a cambiare, parlano di transizione, perché, secondo loro, Moise deve rispettare la Costituzione. È una richiesta legittima, anche agli occhi della comunità internazionale, la quale sostiene globalmente Moise, anche se c’è stata qualche dichiarazione contro il governare per decreto».

«Ora fanno incontri, anche se è un po’ tardi. Il processo d’intesa a livello dell’opposizione non è facile, per molteplici ragioni. Tendenze, differenze nel panorama politico haitiano, molti ostacoli.

C’è una ricerca di concertazione, quello che si constata è che non arrivano, per il momento, a invertire il rapporto di forza con il presidente. Occorre mobilitare veramente la gente e smuovere le cose».

Il presidente Jovenel Moise © Valerie Baeriswyl / AFP

Vuoto istituzionale

A inizio gennaio, si è riunito quel che resta del parlamento, ovvero dieci senatori (un terzo del senato, che ad Haiti è rinnovato ogni due anni in modo parziale). Questi reduci hanno eletto il presidente del senato, nella figura di Joseph Lambert, che diventa, oltre a Moise, la sola carica istituzionale di vertice attualmente eletta ad Haiti. Politico di lungo corso, è in parlamento dal 1990, e aveva l’ambizione di fare il primo ministro con Moise.

«Il presidente si è fatto il vuoto istituzionale intorno, gli unici eletti sono i dieci senatori. Come la transizione del dopo Martelly è stata guidata dal presidente del senato dell’epoca, così Lambert sarebbe forse l’unico titolato a sostituire Moise dopo il 7 febbraio. Sembra che abbia avuto contatti con l’ambasciata Usa. Potrebbe essere contro Moise oppure suo alleato», analizza il giornalista.

Lambert è un altro personaggio ambiguo, già consigliere di Michel Martelly, una nostra fonte ci dice che è classificato dalla Dea statunitense come responsabile di traffico di stupefacenti.

Diversi gruppi della società civile e dell’opposizione politica hanno iniziato la mobilitazione delle piazze dal 15 gennaio, per opporsi alla permanenza di Moise dopo il 7 febbraio e per una transizione. La repressione da parte dei corpi speciali di intervento rapido (Cimo) e della polizia, è stata violenta, con l’uso di lacrimogeni, proiettili di gomma ma anche armi reali.

La Rete nazionale per la difesa dei diritti umani, Rnddh, il 22 gennaio ha scritto in un comunicato che: «I recenti avvenimenti […] costituiscono una violazione flagrante delle libertà di espressione, circolazione e libertà individuali del popolo haitiano». Dice inoltre: «[La Rnddh] giudica inquietante che questi casi di violazioni si siano intensificati all’indomani delle dichiarazioni minacciose del presidente Jovenel Moise, il 19 gennaio […], e che la sua Agenzia nazionale d’intelligence, già attiva, gli permetta di raccogliere informazioni relative ai cittadini che partecipano o finanziano i movimenti antigovernativi. Perché, ha affermato, quello che era possibile negli anni scorsi, non lo sarà più nel 2021».

Nelle mani delle Gang

Gotson Pierre ci ricorda che per invertire il rapporto di forza occorre una mobilitazione generale. Ma anche che oggi, ad Haiti, c’è una problematica sociale molto forte: «Se queste mobilitazioni riescono, allora è un segnale molto buono. Ma le difficoltà sono tante, perché praticamente tutti i quartieri sono controllati dalle gang. In certi casi la gente non può uscire di casa, c’è il rischio che non possano andare a manifestare».

In molti quartieri la popolazione è in ostaggio, le gang (termine creolo di origine inglese, che indica bande armate di malviventi), sovente hanno in mano la situazione, malgrado le operazioni di polizia. Gang che intessono legami con i politici, e le più importanti sono vicine, o fanno accordi, con chi detiene il potere.

«È un fenomeno che si è già visto nel passato, ma adesso, non solo è più forte, hanno più gente, più armi, ma si è generalizzato. In tutti i quartieri troviamo delle cellule di gang. In alcuni sono molto più sviluppate che in altri, ma non si può dire che ci sia un luogo esente. E le troviamo anche in altre città, oltre che in capitale. In certi quartieri non c’è un’aggressione evidente: le gang ci sono e fanno i loro affari. Ma in altri, è una vera e propria guerra. Ad esempio, Bel Aire (quartiere centrale di Port-au-Prince, ndr): non si può passare adesso, trovi strade sbarrate, vie vuote, tutto è chiuso».

© Valerie Baeriswyl / AFP

L’economia del rapimento

Un altro fenomeno, legato alle gang, che si sta diffondendo sempre più, è quello dei rapimenti a scopo di estorsione, chiamati qui kidnapping. «È il banditismo. Penso che sia un fenomeno che si nutre dell’impunità, il traffico di armi e di droga. Quando la situazione è questa, chi è senza scrupoli riesce a fare di tutto. Inoltre, tutto questo funziona bene quando si ha il banditismo di stato», racconta Gotson Pierre.

«Attraverso i rapimenti fanno molti soldi, e non parlo dei ricavi dei piccoli rapitori, o dei soldà come li chiamano qui. Si tratta di centinaia di migliaia di dollari, talvolta milioni, tutto in cash, che passano di mano e sono gestiti ai livelli alti delle gang. È una vera e propria industria remunerativa, e tutti questi contanti devono sicuramente andare da qualche parte e servire a qualcosa». Qualcuno fa l’ipotesi che questo denaro servirà a finanziare le prossime elezioni.

Occorre purtroppo osservare, che «quando il kidnapping funziona, tutto funziona». Molti soldi girano, molte persone lavorano, è come se ci fosse un’«economia del kidnapping».

Iliana Joseph, presidente di Haititalia, associazione culturale della diaspora haitiana in Italia, mette l’accento su alcuni aspetti: «Hanno inventato rapimenti che non eravamo abituati a vedere: hanno capito che con questo sistema si fanno tanti soldi, allora la cosa si è diffusa, anche grazie alla televisione. Non erano mai arrivati a rapire bambini o famigliari di persone del popolo». E parla delle paure di chi vive lontano: «Se qualcuno sa che un vicino di casa ha un parente all’estero, questo può essere preso di mira. Chiedono dei riscatti molto elevati che spesso non si possono pagare. Se non si paga, i rapiti vengono ammazzati. Neanche le generazioni più anziane di noi avevano mai visto una situazione così nel paese. Io non ho mai avuto paura di prendere un aereo e andare al mio paese, in 25 anni che vivo in Italia. Oggi ci penso bene. Tutto questo è molto grave».

Il Covid ha colpito poco Haiti in modo diretto. Durante la prima ondata è stato abbozzato un lockdown. Ora non più, e i casi stanno aumentando. Ma un effetto importante è stato indiretto.

Ancora Iliana Joseph: «Chi vive all’estero sostiene la sua famiglia con le rimesse, che sono un’entrata rilevante nel bilancio di Haiti. La pandemia, e il conseguente lockdown, ha fatto perdere il lavoro a una gran parte della diaspora nel mondo, con il conseguente crollo degli invii in valuta pregiata. Questo ha aumentato la povertà in maniera diffusa e contribuito a far degenerare la situazione sociale nel paese».

Marco Bello


Nota

Mentre stiamo chiudendo la rivista, gli eventi ad Haiti sono in rapida evoluzione. Torneremo sulla situazione quando si sarà stabilizzata.


Archivio MC

• Marco Bello, «La cultura ci salverà», MC 04/2017.
• Marco Bello, A due passi dalla Tortuga, MC 07/2016.
• Marco Bello, dossier: La cultura è rivoluzione, MC 05/2016.
• Marco Bello, Il presidente a vita è morto, MC 12/2014




Palestina. Senza odio né violenza

testo e foto di Operazione Colomba |


Le famiglie palestinesi delle colline a Sud di Hebron sono ancora lì. Nonostante le violenze quotidiane, anche sui bambini, subite da decenni da parte di esercito e coloni israeliani. Resistono, a difesa delle proprie terre e identità. Condividono la loro lotta nonviolenta i volontari di Operazione Colomba.

È il 2004 quando un gruppo di militanti israeliani, i Ta’ayush1, propongono ai volontari di Operazione Colomba di visitare le colline a Sud di Hebron, in Cisgiordania.

Lì, un comitato popolare locale di palestinesi ha richiesto la presenza di attivisti internazionali per monitorare l’accompagnamento a scuola dei bambini. Lungo la strada per arrivare a lezione, infatti, gli studenti palestinesi sono oggetto di violenze da parte dei coloni israeliani insediati nella zona.

Il villaggio di At-Tuwani si trova nell’area conosciuta come Massafer Yattaad. È il più grande della zona, con circa 300 abitanti. Quando vi arrivano, i volontari del Corpo nonviolento di pace dell’associazione Papa Giovanni XXIII hanno già due anni di esperienza di Palestina. Sono stati in Cisgiordania (West Bank), vicino a Ramallah, a sostegno delle comunità palestinesi private delle proprie terre a causa della costruzione del muro di separazione tra Israele e i Territori occupati. Prima ancora sono stati nella Striscia di Gaza, durante la Seconda Intifada nel 2002.

L’unica via per la pace

Operazione Colomba è nata nel 1992, dal desiderio di alcuni volontari e obiettori di coscienza di vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra.

Inizialmente ha operato nell’ex Jugoslavia, e negli anni a seguire ha aperto presenze stabili in diversi scenari di conflitto, dai Balcani all’America Latina, dal Caucaso all’Africa, dal Medio all’estremo Oriente, coinvolgendo oltre 2mila volontari uniti dalla determinazione di sperimentare nella propria vita la nonviolenza, l’unica via per ottenere una pace vera, fondata sulla verità, la giustizia, il perdono e la riconciliazione.

Vivere in Area C

Il villaggio di At-Tuwani si trova in Area C, tra la città di Yatta e la Green line, quello che dovrebbe essere il confine tra Israele e i Territori palestinesi occupati.

Secondo gli accordi di Oslo, la Cisgiordania è divisa in tre Aree denominate A, B, e C. In particolare, l’Area C, che copre circa il 61% dell’intero territorio della Cisgiordania, è sotto il controllo civile e militare di Israele. Questo significa che i palestinesi non possono costruire nulla, se non con un permesso rilasciato dalle autorità israeliane, e che le loro terre possono essere confiscate.

È proprio in merito a questi poteri che nel 1999 la zona a Sud di Yatta è stata dichiarata area di addestramento militare (Firing zone 918) dall’amministrazione israeliana. Tale dichiarazione ha portato al trasferimento forzato di tutti gli abitanti palestinesi viventi nell’area, circa 700 persone di dodici villaggi, che sono stati caricati su camion militari e portati altrove mentre le ruspe distruggevano le tende e le grotte in cui avevano vissuto.

Dopo sei mesi, grazie a un procedimento portato avanti da avvocati israeliani, e in seguito a una decisione dell’alta corte di Giustizia israeliana, i palestinesi sono potuti tornare nei propri villaggi, senza però che vi fosse prima stato un formale smantellamento della zona di addestramento militare, che ancora oggi minaccia la vita degli abitanti.

Oltre all’occupazione militare, è andata crescendo negli anni anche quella civile, con le espansioni degli insediamenti israeliani e la nascita di nuovi avamposti, abitati da coloni nazional religiosi che, per mezzo di attacchi fisici anche molto violenti, impediscono ai palestinesi gli spostamenti e l’accesso alle proprie terre. Gli avamposti, come anche le colonie, sono peraltro considerati illegali, non solo dal diritto internazionale ma perfino dallo stesso ordinamento israeliano.

Resistenza nonviolenta

La scelta più semplice per i palestinesi delle colline a Sud di Hebron avrebbe potuto essere quella di lasciare le proprie terre per vivere una vita più sicura in città, oppure di abbandonarsi alla violenza – come talvolta capita quando non si ha più speranza nella vita -. Invece, questi semplici pastori e contadini, hanno deciso di restare e di lottare per difendere i propri diritti. Alcuni abitanti di At-Tuwani, allora, sotto la guida di uno di loro, Hafez Hureini, si sono uniti in un comitato popolare per trovare assieme il metodo più efficace per resistere alle ingiustizie.

È nata così la loro resistenza popolare nonviolenta.

Si tratta di una forma di lotta dal basso in cui le famiglie e i villaggi si uniscono per difendere una terra che è di tutti, senza ingerenze politiche, valorizzando il ruolo di ognuno, dalle donne, ai bambini, agli anziani.

Quando un terreno è minacciato, è terra di tutti; quando un giovane viene arrestato, è il figlio o il fratello di tutti.

La nonviolenza chiede ogni giorno di non guardare l’oppressore come un nemico, ma come un essere umano che sta sbagliando. Chiede di denunciare con forza l’ingiustizia, senza odiare chi la compie.

Lo scopo non è schiacciare l’altro, ma includerlo nella ricerca di una soluzione condivisa.

L’obiettivo della lotta popolare è il riconoscimento dei palestinesi come esseri umani portatori di diritti umani inalienabili.

Nella pratica, il comitato popolare delle colline a Sud di Hebron, organizza manifestazioni e azioni nonviolente, supporta i contadini e i pastori nell’accesso quotidiano alle loro terre, e promuove numerose iniziative per garantire servizi essenziali come l’acqua potabile, la corrente elettrica, la costruzione di scuole e di cliniche mediche.

Negli anni la resistenza nonviolenta ha raggiunto risultati incredibili: dallo smantellamento del muro nel 2006 che avrebbe distrutto la vita delle comunità, all’approvazione di un piano regolatore che riconosce l’esistenza del villaggio principale dell’area, At-Tuwani. Vittorie importanti, che però non sono sufficienti in una quotidianità di oppressione come quella dell’occupazione militare.

Accompagnare i bambini

In questa realtà, Operazione Colomba si è stabilita ad At-Tuwani, inizialmente con il compito di accompagnare i bambini all’unica scuola presente nell’area. Per raggiungerla, i bambini dei due villaggi di Tuba e Maghayir Al Abeed, ancora oggi, devono percorrere una strada che passa tra la colonia israeliana di Ma’on e l’avamposto di Havat Ma’on.

Dati i frequenti attacchi da parte dei coloni su quella strada, i bambini avevano iniziato a fare un percorso alternativo che li costringeva però a camminare ogni giorno circa 2 ore e mezza, rischiando comunque la violenza degli israeliani.

Nel 2004, durante un accompagnamento di bambini sulla strada più breve, quattro attivisti internazionali sono stati brutalmente attaccati e feriti dai coloni. L’episodio ha ottenuto un’attenzione mediatica così ampia che la commissione per i Diritti dell’infanzia della Knesset (il parlamento israeliano) ha deciso di riconoscere una scorta militare ai bambini che ogni giorno li accompagnasse nel tragitto da casa a scuola.

Dal 2004, Operazione Colomba monitora questo servizio per denunciarne le mancanze e i continui ritardi. Infatti, spesso la scorta militare non si presenta, lasciando i bambini ad aspettare, a volte per ore, in una zona estremamente pericolosa, esponendoli al rischio di essere attaccati. Inoltre questi ritardi portano anche a perdere ore scolastiche, che non vengono recuperate, ledendo ulteriormente il diritto all’istruzione degli alunni.

Qualora la scorta non si presenti, sono gli stessi volontari a ricoprire la sua funzione, accompagnando i bambini e condividendo con loro il rischio degli attacchi da parte dei coloni, che spesso approfittano dell’assenza dell’esercito.

 

Documentare le violenze

Come stile di vita, i volontari di Operazione Colomba hanno scelto la piena condivisione della quotidianità del villaggio, vivendo al suo interno, nello stesso modo in cui vivono i palestinesi.

Tra le attività di cui si occupano, l’accompagnamento dei pastori e delle famiglie sulle loro terre è la più importante. Poiché le terre spesso si trovano vicino a colonie e avamposti israeliani, i volontari documentano con foto e video le loro violazioni e, quando se ne presenta la necessità, s’interpongono tra i palestinesi e i coloni armati.

A questa attività, che occupa la maggior parte della giornata di un volontario, si aggiungono tutte le situazioni classificabili come emergenze. Tra esse, ad esempio, il monitoraggio dei checkpoint mobili, improvvisati lungo la strada dai militari israeliani, troppo spesso luoghi di violenze e umiliazioni nei confronti dei palestinesi; il monitoraggio delle demolizioni di abitazioni o di strutture per animali, strade e tubature per acqua potabile.

I volontari osservano e documentano arresti e violenze perpetrate dalle forze armate israeliane o dai coloni: la documentazione tramite video e fotocamere (spesso condivisa sulla pagina Facebook di Operazione Colomba) è fondamentale per poter denunciare e mettere l’opinione pubblica a conoscenza delle violazioni dei diritti umani che avvengono.

Attivisti israeliani per i palestinesi

Fortunatamente, a supportare la resistenza nonviolenta delle colline a Sud di Hebron, non ci sono solo i volontari internazionali: fin dal 1999 è stata costante la presenza di attivisti israeliani.

La loro azione è basilare sia negli accompagnamenti dei contadini sui loro campi che nelle azioni legali che vengono promosse da avvocati israeliani.

Opporsi alle ingiustizie perpetrate dal proprio paese, dal proprio esercito, non è affatto facile, e ha un costo molto alto: spesso gli attivisti vengono identificati come traditori della patria, sono emarginati e perseguitati. La loro scelta implica molta solitudine e talvolta il carcere, come succede per i giovanissimi che rifiutano il servizio militare per obiezione di coscienza.

 

Nonviolenza ereditaria

Nel corso degli anni, i volontari di Operazione Colomba ad At-Tuwani hanno visto crescere una nuova generazione di giovani che s’impegna e che diviene progressivamente consapevole del valore della resistenza popolare nonviolenta. I frutti di questa trasmissione intergenerazionale si riconoscono nella nascita del presidio di Sarura, e di Youth of Sumud2, un gruppo di azione nonviolenta.

Era il maggio 2017 quando alcuni attivisti israeliani, insieme ai giovani palestinesi delle colline a Sud di Hebron – figli di coloro che quasi vent’anni prima avevano iniziato la resistenza nonviolenta -, si sono stabiliti a Sarura, un villaggio abbandonato negli anni ’90 a causa della violenza dei coloni. La loro intenzione era di ristrutturare le grotte dell’ex villaggio e di riportarvi le famiglie a viverci.

Telecamera alla mano, hanno iniziato anche ad affiancare i volontari di Operazione Colomba nelle loro attività giornaliere: accompagnamenti dei bambini e dei pastori, e documentazione di checkpoint e di demolizioni.

Non è stato facile mantenere una presenza stabile a Sarura: le vessazioni da parte dei coloni e dell’esercito sono state continue, ma i giovani di Youth of Sumud hanno continuato la resistenza nonviolenta restaurando una prima grotta, dove ora è tornata a vivere la famiglia proprietaria.

In una Palestina in cui i villaggi vengono evacuati e distrutti, nelle colline a Sud di Hebron, un villaggio abbandonato è rinato ed è tornato in vita, grazie all’impegno di questi ragazzi.

Essere la loro voce

Negli ultimi anni, i volontari di Operazione Colomba hanno iniziato a visitare altre aree oltre al villaggio di At-Tuwani, accompagnando e supportando le comunità palestinesi in lotta anche altrove nella Cisgiordania occupata, ovunque ce ne sia bisogno.

Una realtà che ricorda molto le colline a Sud di Hebron di quindici anni fa, è quella delle comunità di pastori che vivono nella valle del Giordano. Circa l’86% del suo territorio è, infatti, area C, e la presenza di colonie e avamposti israeliani è massiccia, così come la presenza di aree dichiarate zone militari e di riserve naturali, sotto la piena giurisdizione israeliana.

Tutto ciò porta al trasferimento forzato di intere comunità palestinesi, costrette ad andarsene dalle proprie case.

Nel 2019, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato l’intenzione di annettere parte della valle del Giordano entro il 2020, operazione per ora sospesa.

Grazie all’aiuto di attivisti israeliani, i volontari di Operazione Colomba hanno iniziato a visitare le comunità della zona, mettendo a disposizione la propria esperienza. In particolare, nell’ultimo anno hanno iniziato a dormire in un villaggio e ad accompagnare i pastori della zona, ripercorrendo le fasi di conoscenza reciproca e di creazione di un rapporto di fiducia simili a quelle degli inizi della presenza ad At-Tuwani.

Spesso le storie di resistenza e nonviolenza rimangono nascoste e silenziose. I palestinesi di At-Tuwani sono persone normali, che fanno vite semplici, ma che si sono trovate loro malgrado vittime di un’oppressione, e hanno deciso di lottare per i propri diritti e la giustizia.

Kifah Adara, una donna del villaggio, ogni volta che qualcuno dei volontari parte per ritornare in Italia, chiede di raccontare quello che ha visto in Palestina, di essere la loro voce amplificata. Ed è questo il nostro augurio: che possiamo sempre essere megafono dei popoli che chiedono giustizia.

Volontari di Operazione Colomba

Note:

1- Organizzazione di israeliani e palestinesi che lottano insieme, attraverso un’azione diretta nonviolenta quotidiana, per porre fine all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e per raggiungere la piena uguaglianza civile. www.taayush.org

2- www.facebook.com/youthofsumud

Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII è un’associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio. Fondata nel 1968 da don Oreste Benzi, è impegnata da allora, concretamente e con continuità, nel contrasto all’emarginazione e alla povertà. La Comunità lega la propria vita a quella dei poveri e degli oppressi e vive sempre con loro, ogni giorno.

Attraverso lo strumento della condivisione diretta con gli emarginati, i membri di Comunità non possono chiudere gli occhi davanti alle ingiustizie e anzi lavorano incessantemente per la loro denuncia e rimozione.

Oggi la Comunità siede a tavola, ogni giorno, con oltre 41mila persone nel mondo, grazie a più di 500 realtà di condivisione tra case famiglia, mense per i poveri, centri di accoglienza, comunità terapeutiche, Capanne di Betlemme per i senzatetto, famiglie aperte e case di preghiera. La Comunità opera anche attraverso progetti di emergenza umanitaria e di cooperazione allo sviluppo in molti paesi del mondo.

Infine, è presente nelle zone di conflitto con il proprio Corpo nonviolento di pace Operazione Colomba.

Complessivamente è presente in una quarantina di paesi nei cinque continenti.

Dal 2006 la Comunità Papa Giovanni XXIII è anche presente all’Onu con un ruolo consultivo speciale presso l’Ecosoc (consiglio Economico e Sociale dell’Onu), rendendosi portavoce degli ultimi del mondo, nel foro in cui i leader internazionali prendono le decisioni sulle sorti dell’umanità.

Grazie alla forza dei suoi membri, dei volontari e dei suoi sostenitori, la Comunità Papa Giovanni XXIII porta avanti il grande progetto di solidarietà del suo fondatore: essere famiglia per chi non ce l’ha.

www.apg23.orgwww.operazionecolomba.it

www.facebook.com/OperazioneColomba


Vite che non si arrendono

La prossimità alle persone che vivono in zone di conflitto, o ci hanno vissuto, ha due facce: quella della vicinanza lì (in Palestina, Siria, Libano, Iraq); e quella dell’accoglienza qui, in Italia. Due amici ce le raccontano attraverso 24 storie di incontri. In Cisgiordania come a Torino, ciò che emerge è la speranza di chi resiste, la resilienza dell’umanità.

Fatima vive ad Aleppo, una città distrutta dalla guerra. Ha tre bambini che mostrano i segni della malnutrizione. Accudisce una sorella disabile. Suo marito è morto per un’esplosione. Lei guadagna qualcosa vendendo oggetti che recupera in giro, tra le macerie. A volte trova bombe inesplose che smonta per venderne i pezzi. Disfa ordigni di morte per ricavarne cibo e vita.

Aisha è una giovane somala sbarcata a Lampedusa tempo fa. Dopo anni dalla fuga, sente ancora ogni tanto dentro sé i morsi delle violenze viste e subite.

Le loro sono storie difficili, e Alessandro Ciquera e Marco Canta ce le raccontano trasmettendoci la speranza e la forza di cui sono pervase. Oltre a Fatima e ad Aisha, ci presentano Arsema, ragazza etiope in cerca di casa in Italia; i figli di Hafez che piangono mentre il padre viene portato via dalla polizia militare israeliana; Ola e il suo fratellino, siriani malati di talassemia, profughi in Libano; e poi Mohammed, Karim, Abu Zahra, e altri.

Gli autori de La speranza ha il vestito azzurro, parlano di resilienza, e ce la mostrano nel racconto dei gesti quotidiani di uomini, donne e bambini.

Come Fatima, che tramuta bombe in pane, morte in vita, tutti loro fanno i conti con il male, la sofferenza, facendone il luogo della loro resistenza e, a volte, rinascita.

Alessandro ha 32 anni e fa parte dell’Operazione Colomba. A 18 anni ha fatto il suo primo viaggio in un luogo di conflitto, a Kirkuk, in Iraq, per costruire un campetto da calcio per i bambini, e da allora non ha più smesso di viaggiare per incontrare e condividere. È stato in Palestina per due anni, in Siria, in Albania, nei campi profughi siriani in Libano per tre anni.

In Italia ha lavorato in progetti educativi presso il carcere minorile di Torino, nella scolarizzazione di minori in condizioni socialmente critiche e nell’assistenza alle persone senza fissa dimora.

Da ragazzo è stato animatore, in oratorio a Grugliasco (To), dei figli di Marco.

Marco Canta ha 54 anni, si è formato nella Gioc (Gioventù operaia cristiana), è stato attivo nel Gruppo Abele, presidente della Cooperativa Orso che si occupa, tra le altre cose, di accoglienza di rifugiati, e attualmente è direttore e vicepresidente di Casa Oz, Onlus che offre accoglienza a bambini malati e alle loro famiglie che soggiornano a Torino per il periodo delle cure. È portavoce del Forum del terzo settore del Piemonte.

Alessandro, nel libro racconti di persone che non si arrendono, e che, ad esempio ad At-Tuwani, in Cisgiordania,
resistono alle ingiustizie in modo nonviolento.

«I palestinesi di At-Tuwani e dei villaggi di quell’area, da decenni vivono aggressioni sistematiche.

Loro vorrebbero solo vivere la loro vita, andare ai pascoli, coltivare, fare pozzi, costruire stalle, ma tutti i giorni sono umiliati, minacciati, ostacolati, picchiati, a volte uccisi o arrestati.

Quello che li aiuta è il senso del resistere insieme: non c’è nessuno lì che si salva da solo. Quando qualcuno è arrestato, subito fanno una colletta per gli avvocati, manifestano, chiamano giornalisti.

Quella gente desidera solo rimanere sulla propria terra.

Il fatto che dopo decine di anni di soprusi non se ne siano andati altrove, è un messaggio bello per tutti. I giovani di lì, sanno bene cosa c’è fuori del loro villaggio, però sono consapevoli della loro identità: sono nati lì, le loro famiglie abitano quelle terre da generazioni, e anche loro vi appartengono.

Ecco, in questo tenere insieme la vita normale, semplice, i piccoli gesti, la scuola, il seminare, con l’oppressione, io ci ho sempre visto qualcosa che parla del Vangelo. Lì ho imparato cosa può voler dire un’esistenza senza violenza».

Dove ti ha portato Operazione Colomba negli anni?

«Io sono legato a Operazione Colomba da quando mi sono diplomato. Ho iniziato in Palestina, dove sono stato due anni, poi sono stato in Iraq più di una volta, in Libano per tre anni, in Siria, in Albania. Sempre cercando la condivisione con le persone che vivono situazioni di sofferenza e di conflitto. Mai con l’idea di essere “l’occidentale che va lì a salvare i poveri”, ma con il desiderio di camminare insieme, di partecipare nel mio piccolo a una lotta che magari va vanti da decenni.

In Iraq la gente rischia di morire anche solo facendo gesti semplici, come andare al mercato, a messa, esprimere un pensiero. In Siria ci sono la guerra, l’obbligo del servizio militare, il rischio del carcere o di sparire, le fosse comuni, i villaggi bruciati. Ecco, in Siria ho trovato un dolore grande, e se c’è qualcosa che si può imparare da queste persone è il desiderio di non fermarsi, di rimanere in piedi: anche se vivi sotto una tenda, metti una stufetta, un fiore, un quadretto, provi a far fare i compiti ai bambini. E continui ad avere fede, a vivere la fede nelle ferite che la vita ti ha fatto incontrare».

Nel libro parli molto dei profughi siriani in Libano.

«Quello che mi ha colpito della vita dei profughi è la loro solitudine. Se vivi in un villaggio in Palestina, pur nella violenza, sei a casa tua, hai la tua casetta, le tue pecore, la tua gente. Invece il profugo ha la sensazione di essere dimenticato da tutti, che la sua vita non vale niente, e che, se oggi muore, saranno in pochi ad accorgersene, pochi o nessuno potrà venire al suo funerale, perché ha un amico in Turchia, un altro è morto, un altro fa il servizio militare, un altro è scomparso in prigione, un altro è in Europa, un altro sta provando a prendere una barca per attraversare il Mediterraneo.

Chi sei tu senza le tue relazioni? Tanti ci dicevano: “Non abbiamo nessun altro, a parte Dio e voi”».

Marco, i capitoli che raccontano gli incontri con rifugiati avvenuti a Torino e dintorni, sono tuoi?

«Sì. Il primo incontro con i rifugiati per me è stato nel 2009: sono entrato quasi per caso nell’ex clinica San Paolo di corso Peschiera a Torino che era occupata da 400 rifugiati, provenienti soprattutto dal Corno d’Africa. Quell’incontro ha cambiato la mia vita. Prima non sapevo nemmeno cosa significasse fuggire da contesti di guerra.

La proprietà dell’immobile, a un certo punto, ne aveva chiesto la restituzione, e prefettura e questura avevano deciso per lo sgombero. Da lì è nato “Non solo asilo”, un coordinamento di associazioni, che ha avviato un dialogo, e che ha ottenuto sei mesi di tempo per trovare opportunità per le persone. In poche settimane abbiamo creato una rete di comuni e associazioni che ci ha aiutati ad avviare progetti per 200 persone. Lavoravamo sul modello dell’accoglienza diffusa, e non sulle grandi strutture. La rete dello Sprar si è allargata così in buona parte del Piemonte, e ad Avigliana si è realizzato il primo Cas diffuso (centro accoglienza straordinaria), che poi ha fatto scuola in Italia».

Perché hai voluto raccontare questi tuoi incontri?

«Nel libro raccontiamo storie di persone che hanno una forza, un’energia, una capacità di resilienza tale che, se fossimo in grado di accoglierle e di renderle conosciute tra i giovani, ne avremmo giovamento tutti. Sono storie potenti.

Se pensiamo alla crisi della nostra società, ai ragazzi disillusi che non lavorano e non studiano, le storie di queste persone, che sono riuscite a superare delle tragedie enormi ricostruendo il loro futuro, danno speranza a tutti.

Una delle storie raccontate nel libro è quella di Mohammed, arrivato in Italia come minore non accompagnato. Oggi è un giovane di 22 anni, come mio figlio più grande. Se penso all’influsso positivo che lui ha avuto sui miei figli, mi è chiaro che quando riesci a superare la barriera della non conoscenza, poi accadono cose belle».

E tu Alessandro?

«Ho scritto dei miei incontri con queste persone ferite dalla vita, ma resilienti, perché quando trovi una perla preziosa, non puoi tenerla in tasca. Devi mostrarla. Non sono storie solo nostre. Abbiamo iniziato a scriverle in un tempo difficile, quando sono stati fatti i decreti sicurezza e parlare di questi temi era davvero dura. Volevamo lanciare queste storie come un salvagente».

Luca Lorusso

 




Guatemala: Cuore maya, contro l’impunità


Testo di Marco Bello e Francesca Rosa; foto Archivio CISV


Il conflitto armato in Guatemala (1960-1996) è stato uno dei più cruenti e con più vittime civili. Oggi, i responsabili cercano di proteggersi con leggi ad hoc. Ma negli ultimi 10 anni la presa di coscienza della società civile ha fatto molti progressi. E per questo si registra un aumento della violenza contro i militanti per i diritti umani. Storia di una rete di associazioni di donne maya per la giustizia.

«Mi avvicinai alle donne che oggi fanno parte della Red (Rete, ndr) nel 2002. All’inizio fu un avvicinamento tecnico, perché dovetti fare per loro un lavoro che portai avanti nei due anni successivi. Offrivo assistenza e formazione per l’utilizzo del microcredito, perché stavano beneficiando di un fondo. A quell’epoca studiavo “lavoro sociale”».

Juana Bacá Velasco è un’attivista per i diritti umani guatemalteca. Nata nel 1974 a Nebaj, nel dipartimento del Quiché è maya ixil. Juana è entrata in contatto con alcune associazioni che si occupano di difesa dei diritti della donna tramite la sua professione, per poi aderire alla causa, fino a fare diventare la lotta per la giustizia la sua vita. Dal 2009 è direttrice dell’Asoremi (Asociación Red de Mujeres Ixhiles, associazione rete di donne ixil, abbreviato Red, ndr), che lei stessa ha contribuito a creare. Non senza rischi. Infatti è scampata a un attentato alla propria vita nel 2004 e oggi vive sotto scorta.

La incontriamo a Torino, di passaggio per andare a Ginevra, invitata al Festival internazionale dei film sui diritti umani. Juana è pure al vertice della Defensoria de la Mujer I’x, centro di appoggio per donne vittime di violenza di genere e punto di riferimento per la lotta contro l’impunità.

Juana si racconta: «A causa di un caso di violazione che affrontammo nel 2004, mi sentii molto coinvolta, e capii l’importanza della nostra partecipazione come cittadine e anche del fatto di fare valere i nostri diritti. Così iniziai a separare il mio impegno tecnico da quello militante, che andava crescendo. Cominciammo a costruire questa rete per necessità, perché iniziammo a essere vittime di una persecuzione politica molto forte da parte di attori importanti e potenti nel comune. E questo ci portò a verificare fino a che punto noi donne potevamo unirci e reagire a queste persecuzioni.

Tentavano di ucciderci anche a livello organizzativo, perché ci opponevamo e resistevamo di fronte a questa situazione di violenza e impunità. Eravamo oltre 300 donne maya e prendemmo una decisione molto forte, ma con molta paura, perché c’era oppressione, persecuzione. Ci dicemmo: venga quello che deve venire ma stiamo insieme e affrontiamo questa situazione attraverso la denuncia, ma anche la solidarietà e l’integrazione tra noi, perché vedevamo che era meglio affrontare i problemi tutte insieme e con molto cuore. Volevamo dire cosa stavamo subendo e meritavamo che ci rispettassero».

Juana e le compagne hanno iniziato a creare la Red, un modo di unire le associazioni di donne di Nebaj per fare massa critica e portare avanti la battaglia per i diritti.

Una rete per le donne

«Iniziammo un cammino a livello organizzativo, ma anche di grande impegno come donne per poter essere soggetti dei nostri diritti. Iniziammo a costruire la Red nel 2005, fino a legalizzarla nel 2010.

Questo processo ci ha segnate fortemente. Nel 2007 ci fu una tappa importante per decidere cosa fare: proseguire la lotta, ponendo così a rischio le nostre vite, e quella delle nostre famiglie, oppure ignorare le persecuzioni, come se non fosse successo nulla. Anche grazie all’accompagnamento internazionale da parte della Ong Cisv, non ci siamo sentite sole, ma supportate e aiutate a fare il lavoro organizzativo».

I dubbi erano forti: cosa avrebbe implicato questo impegno? «Occorreva affrontare il sistema di giustizia: che conseguenze avrebbe avuto nella vita di una donna indigena maya, povera, il fatto di denunciare una violenza subita? E fino a dove questo sistema ci escludeva dal diritto di accedere alla giustizia? Queste domande ci spinsero a conoscere meglio il sistema. Avevamo diritto che la nostra denuncia fosse ascoltata». Juana nel frattempo ha proseguito gli studi laureandosi in Legge e in Scienze sociali. In questo modo si è dotata anche di strumenti, come l’interpretazione legislativa, che il «nemico», chi sta al potere, sa maneggiare bene.

Il percorso con l’Ong Cisv di Torino si è rivelato fondamentale per la Red. «Con Cisv abbiamo iniziato lavorando sui diritti umani e, in particolare, i diritti della donna. Il lavoro è stato orientato a promuovere i diritti, difenderli e proteggerli. Ma è stato pure fatto un lavoro integrato per l’empowerment (acquisire competenze per migliorare l’equità e la qualità della vita, ndr) delle donne e per invitarle a denunciare la violenza quotidiana che subiscono, per avere la propria autonomia».

Juana ripercorre quelle fasi: «Si è rivelato importante il lavoro con operatori di giustizia, autorità comunitarie, società civile, autorità educative. Perché vediamo che già a questi livelli si iniziano a violare i diritti. Occorre lavorare affinché le donne denuncino le violazioni dei loro diritti, e non le vedano come qualcosa di normale. Un lavoro che abbiamo fatto fino dal 2007. Nel 2009 abbiamo avuto dei fondi dal programma di emergenza della Cooperazione italiana in Guatemala, con i quali abbiamo finanziato la costruzione di una “Defensoria”. Questa, nel 2010, è stata messa a disposizione delle donne ixil, ma anche di altre donne nei municipi vicini, e pure sulla costa, perché molte donne ixil si sono spostate dalla loro terra di origine. Abbiamo mantenuto la comunicazione con loro per appoggiarle là dove vivono.

Il lavoro che fa la Defensoria è dare appoggio psicologico, legale, di orientamento e accompagnamento a chi subisce violenza di genere. In seguito a una ricerca che abbiamo realizzato sulle violazioni dei diritti umani a livello della regione ixil, abbiamo visto che è importante allargare l’intervento ai diritti umani generali, evitando di rimanere solo sui diritti della donna e su come appoggiare le donne per farle uscire dalla violenza. Si è allargato lo spettro per coinvolgere diversi settori della società civile e verificare la conflittualità che si ha nel comune».

Verso le elezioni

Il presidente guatemalteco Jimmy Morales / Photo by ORLANDO ESTRADA / AFP)

Oggi il Guatemala vive un periodo storico particolarmente delicato. Con le elezioni alle porte (previste a giugno, vedi box) sono aumentati gli assassinii di attivisti mentre regna l’impunità. Nel settembre scorso la popolazione ha manifestato pacificamente per cacciare il presidente della repubblica, l’attore comico Jimmy Morales, retto dalla casta militare.

Juana ci racconta: «Negli ultimi otto mesi in Guatemala c’è una situazione politica molto grave, pericolosa, in particolare per la vita degli attivisti dei diritti umani. Grazie a un percorso durato molti anni si è arrivati a unire la società civile organizzata.

Nei tribunali si stanno realizzando processi sulle responsabilità storiche per quello che il popolo del Guatemala, e in particolare il popolo ixil, ha vissuto nei 36 anni di conflitto armato.

Nello scorso autunno è stato evidente questo risultato: una presa di coscienza della popolazione che ha manifestato per esigere giustizia e il rispetto dei propri diritti. Per questo motivo c’è una reazione molto forte degli attori e dei responsabili coinvolti nei massacri durante la guerra. Ad esempio, nel 2013, il 10 maggio, c’è stata una sentenza di condanna con giudizio di genocidio, e poi una seconda sentenza nel settembre 2018 sui responsabili esecutori.

Nel percorso di ricerca della giustizia e di uscita dal silenzio, le donne hanno giocato un ruolo da protagoniste. Sono le donne che hanno testimoniato, donne che sono state torturate, violentate e sottomesse ad azioni di interesse dell’esercito. E quelli che governano oggi il nostro paese sono ex militari. Questo ha complicato la situazione, e in Guatemala, l’anno scorso, come riporta il rapporto dell’Udefegua (Unidad de proteccion a defensores y defensoras de derechos humanos, Guatemala) ci sono stati 25 assassinii di difensores e difensoras di diritti umani. E ci sono state anche denunce e campagne di criminalizzazione (accuse, ndr) contro gli attivisti allo scopo di spaventarli e zittirli e di proteggere chi è sotto giudizio per questi crimini».

Dove regna l’impunità

Anche a Nebaj la questione delle responsabilità dei massacri è molto sentita e per coprirle sono in atto assassinii selettivi di attivisti: «A livello locale il tema dell’impunità è stato molto forte e i colpevoli cercano di ostacolare i processi penali finalizzati a chiarire i fatti e i responsabili.

Ad esempio, a Nebaj, ci sono stati quattro femminicidi e un omicidio di attivisti ixil. Una di loro era Juana Ramirez Santiago che faceva parte del consiglio di amministrazione della Red. C’è anche stato l’assassinio di Juana Rivera, una dirigente di Codeca (Comitato di sviluppo contadino, associazione locale e ora anche partito politico, ndr), e quello del giovane Jacinto di Cotzal, un altro attivista per i diritti umani. Tutti nel 2018, tra giugno e settembre.

Questi fatti ci mostrano il sentimento dello stato e delle autorità, di quelle persone che si meritano un processo penale, una condanna per le loro responsabilità storiche, sia come mandanti intellettuali che come esecutori».

Juana continua in tono pacato, quasi parlasse di cose semplici: «Tutto ciò ha obbligato la popolazione a reagire e pronunciarsi per respingere la politica che lo stato sta portando avanti, contraria ai diritti umani e contraria al chiarimento storico per arrivare alla giustizia. La maggioranza della popolazione si è resa conto che i propri diritti sono violati, e ha capito che il fine ultimo dello stato è proteggere se stesso. Questo perché coloro che governano oggi hanno delle responsabilità nei confronti dei fatti che sono stati denunciati e che si vogliono chiarire, e che, a causa dell’impunità in Guatemala, si è sempre evitato di perseguire.

Ma ora noi guatemaltechi abbiamo capito chi sono i corrotti e chi sono i protagonisti di quelle azioni. Non si tratta di una persona singola ma della struttura dello stato del Guatemala: è un’attitudine che complica e destabilizza la governabilità nel paese. Perché uno stato non può esigere giustizia, trasparenza rispetto dei diritti umani, se è lui stesso che li sta violando, come persone e come autorità.

Siamo in una situazione frustrante, preoccupante e vergognosa, perché stanno facendo di tutto affinché non siano visibili le responsabilità che hanno verso il popolo.

Adesso la gente vuole che Morales lasci il potere, perché sta lavorando sotto l’influenza e l’interesse dei militari che hanno avuto gravi responsabilità nella storia del Guatemala».

Pensando agli ultimi 10 anni

Negli ultimi 10 anni la situazione dei diritti umani non è migliorata, ma la società civile si è dotata di strumenti di denuncia: «In passato non si vedeva l’entità del problema, perché non si alzava la voce e non si denunciava, però grazie a tutto il lavoro di diverse persone e organizzazioni, si è ottenuto che oggi si possa parlare, denunciare, senza troppo terrore. Ci possiamo lamentare che lo stato non compia il suo dovere di fare giustizia. Questa è infatti una sua responsabilità. Ma ringraziamo anche per l’appoggio di interventi internazionali. Per esempio si è ottenuto che la Commissione interamericana per i diritti umani sia intervenuta su queste norme a protezione dei colpevoli dei delitti del passato. Parliamo della legge di amnistia, che vuole ostacolare le organizzazioni della società civile e il processo di denuncia. Sono progetti di legge in corso di definizione, con l’obiettivo di proteggere giuridicamente questi grandi responsabili, violando norme costituzionali e diritti umani».

Cosa fa la Red

In questo contesto, la Red, che raggruppa nove associazioni locali per un totale di 365 donne maya ixil, è molto attiva. Continua Juana: «Per la Red l’appoggio politico e sociale è stato importante. È parte dell’appoggio al processo delle organizzazioni nella loro lotta sui temi di giustizia, prevenzione, formazione, sensibilizzazione.

Cisv ci sta accompagnando e ha condiviso, anche con la propria presenza a Nebaj, questo processo che la Red e la società civile sta portando avanti. I progetti della Red perseguono la ricerca della giustizia, attraverso le denunce delle donne, per cercare una trasformazione nella loro vita, affinché la violenza non sia più tollerata. La Red inoltre è molto impegnata nell’appoggio offerto alle sopravvissute alle violenze, e anche in interventi sul territorio comunale per ridurre la conflittualità. Appoggiamo le vittime in ambito legale, psicosociale, dando accompagnamento, ma anche incidendo in alcuni temi e spazi più politici, perché se si vuole generare qualche cambiamento occorre partire dalle autorità e dalle comunità».

Chiediamo a Juana cosa possiamo fare in Italia per appoggiare il lavoro di protezione e difesa dei diritti umani in Guatemala.

«Vi ringraziamo per tutto l’appoggio dato. È importante continuare questa relazione e ampliarla a livello internazionale perché è una forma per proteggere il lavoro, la dinamica in corso e la lotta dei guatemaltechi e guatemalteche che portiamo avanti da lunghi anni, anche grazie al sacrificio di vite. È un intervento molto politico, di protezione e di appoggio».

Marco Bello


Situazione sociale turbolenta nel paese centroamericano

Verso le elezioni… con violenza

Il presidente attore Jimmy Morales ha bloccato i lavori della commissione Onu contro l’impunità. La gente si è rivoltata manifestando pacificamente nelle città. Le tensioni
sociali e politiche sono in aumento e con esse la violenza nei confronti di leader e attivisti per i diritti umani. Un gruppo della società civile decide di candidarsi alle elezioni.

A 23 anni dalla firma degli accordi di pace che hanno messo fine a un conflitto armato interno durato oltre tre decadi (1960-1996), in Guatemala si registrano ancora gravi violazioni dei diritti umani, alti livelli di povertà, disuguaglianza, discriminazione e impunità. Secondo le Nazioni Unite (Undp 2018), il Guatemala è oggi al 127° posto dell’Indice di sviluppo umano, in discesa a causa della totale assenza di politiche che promuovano l’uguaglianza di genere e la lotta alle disuguaglianze sociali ed economiche. Inoltre, registra uno dei coefficienti di Gini (che misura la disparità economica tra poveri e ricchi) peggiori al mondo (0,63), e circa il 60% della popolazione continua a vivere sotto la soglia della povertà, percentuale che raggiunge il 76,1% nelle zone rurali, il 79,2% tra le popolazioni indigene.

Questa situazione di violenza strutturale è strettamente legata all’impianto razzista e discriminatorio dello stato che da sempre esclude le popolazioni maya, agli alti livelli d’impunità e di corruzione che caratterizzano l’attuale governo di Jimmy Morales, eletto nel 2015 con il sostegno dell’ala più reazionaria dell’esercito. La sua politica, come quella del predecessore Otto Perez Molina, è caratterizzata da corruzione, militarizzazione dei territori e repressione.

Diritti sempre più negati

Negli ultimi tre anni il Congresso non ha registrato progressi nella legislazione relativa alla promozione dei diritti economici, sociali e culturali della popolazione e ha invece adottato posizioni e proposte legislative che favoriscono l’impunità, limitano la partecipazione politica e violano i diritti delle fasce più deboli della popolazione, ovvero popoli indigeni, donne e minoranze (ad esempio la proposta di legge 5377 per riformare la Legge di riconciliazione nazionale, che concederebbe l’amnistia per tutti i crimini commessi durante il conflitto armato).

L’apice della politica governativa a favore d’impunità e corruzione si è toccato nel cosiddetto «Caso Cicig», la Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala, un’entità finanziata dall’Onu, che dal 2007 appoggia la procura e altre istituzioni statali nelle indagini sui reati commessi da reti criminali. Tra i casi più emblematici coadiuvati dalla Cicig, si ricorda il «Caso della Linea», che ha portato all’arresto di molti funzionari governativi e dell’ex presidente Peréz Molina insieme all’ex vice Roxana Baldetti. Dopo aver aperto, insieme alla procura di stato, un’indagine su presunti finanziamenti illeciti elettorali che coinvolge l’attuale presidente e il suo partito, Jimmy Morales ha dichiarato non gradito il coordinatore in loco della Cicig, Iván Velasquez, e ha sciolto unilateralmente la commissione, violando gli accordi internazionali ratificati dallo stesso stato guatemalteco, e le sentenze della Corte Costituzionale guatemalteca, la quale ha reiteratamente affermato l’illegittimità di tale decisione.

Cresce la società civile

L’attivismo a favore dei diritti umani e della lotta all’impunità della società civile organizzata guatemalteca ha registrato un progressivo incremento nel corso dell’ultima decade, soprattutto nelle aree rurali del paese. Un’importante organizzazione di base, la Codeca (Comitato di sviluppo contadino), con un alto numero di affiliati tra le popolazioni indigene e contadine, ha deciso di costituire un partito politico per partecipare alle prossime elezioni, previste a giugno 2019. Questa forza della società civile organizzata nelle aree rurali ha provocato un incremento delle tensioni sociali e politiche, cui è seguito un forte aumento dei casi di criminalizzazione e aggressione contro militanti dei diritti umani: nel 2018 si sono registrati 391 attacchi a difensori dei diritti, 26 omicidi, tra i quali anche quello di Juana Ramirez, socia fondatrice di Asoremi, il 21 settembre e 147 casi di criminalizzazione. Un incremento del 136% rispetto al 2017, una situazione che richiama i periodi oscuri della recente storia del paese, incluso il conflitto armato interno, e che ha portato il Guatemala al quarto posto a livello mondiale per numero assoluto di militanti assassinati. Le vittime sono principalmente uomini e donne indigeni che lottano per la difesa dei diritti alla terra e dei diritti umani, e molte di queste, tra cui due dall’inizio del 2019, erano attivisti o candidati del partito di Codeca. Il livello d’impunità per questo tipo di crimini è quasi totale.

L’apertura della campagna elettorale lo scorso marzo in vista delle elezioni di giugno ha, di fatto, incrementato le violenze e i conflitti sociali.

Francesca Rosa




Burkina Faso: Tra jihad e fibra ottica


Il (Burkina Faso) paese che ha vissuto negli ultimi anni un’insurrezione popolare, un tentativo di colpo di stato e tre attentati sanguinari nella capitale, si confronta oggi con un incremento di attacchi terroristici sul suo territorio. Il tema della sicurezza domina il dibattito politico, mentre la società civile si divide e non riesce a giocare il ruolo di guardiana del potere. La vita quotidiana è influenzata dall’incertezza e da un nemico invisibile. E c’è chi dice che nell’ombra trami l’ex presidente-dittatore Blaise Compaoré.


Testo e foto di Marco Bello


Percorriamo la strada che dalla capitale Ouagadougou porta a Ouahigouya, nel Nord. Lungo tutti i suoi 180 km, vediamo di lato un fossato scavato e poi ricoperto. Ogni tanto spuntano dal terreno grossi cavi neri chiusi con un tappo colorato. È una visione che contrasta con la brousse, la campagna saheliana. Quel cavo è la fibra ottica che porta dati e connessione internet anche nei luoghi più remoti dell’Africa. È arrivata anche qui e presto sarà operativa.

Ma nel Burkina Faso di oggi, proprio Ouahigouya, città a 70 km dal confine con il Mali, è anche il limite della cosiddetta «zona rossa». Nella cartografia della sicurezza, la mappa aggiornata dall’ambasciata di Francia (in questo caso), il paese è diviso in zone: giallo, arancio e rosso. Il giallo corrisponde a «vigilanza rafforzata»; l’arancio a «zona sconsigliata, salvo per ragioni imperative»; mentre il rosso è «formalmente sconsigliata». Per il Burkina quest’area «proibita» agli stranieri coincide con tutta la banda di frontiera con il Mali, il Niger e parte del Benin. In queste zone, è più probabile che i jihadisti (terroristi islamisti, come li chiamano qui), i banditi e molti altri gruppi compiano attacchi o rapimenti.

Ebbene sì, il tranquillo Burkina Faso, terra di tolleranza e di convivenza pacifica tra etnie (ben 60) e religioni1, si sta trasformando in un territorio di conflitto, seguendo il contagio dei paesi vicini, Mali e Niger in prima battuta, in un’area, quella dell’Africa dell’Ovest, che è ormai tutta piuttosto instabile.

(Photo by ISSOUF SANOGO / AFP)

Come cambia la vita

A Ouahigouya, frontiera della zona rossa, incontriamo Adama Sougouri, direttore della radio comunitaria «La Voix du Paysan» (la voce del contadino). La radio trasmette in otto lingue locali e porta avanti un lavoro educativo, oltre che informativo, tipico di un media di comunità. «Il problema dell’insicurezza ha cambiato il modo di vivere qui nel Nord – ci racconta il direttore -. Quando è cominciato, ci dicevamo che da noi non sarebbe successo come in Mali, con i rapimenti e gli attentati. L’esercito aveva rinforzato i presidi, ma d’improvviso la nostra regione è stata messa in zona rossa a livello internazionale e questo ha giocato molto sull’organizzazione della vita e in particolare sull’economia». Questa, fino a poco tempo fa, era una zona di passaggio dei turisti per andare a visitare i famosi «Paesi Dogon» in Mali. Hotel, ristoranti e anche molti artigiani, giovani in particolare, e commercianti vivevano di turismo. Oggi il settore è in ginocchio. Anche l’associazionismo che viveva di partenariati con Ong e associazioni europee ha visto una drastica riduzione dei propri progetti, «perché gli stranieri qui non vengono più».

A livello sociale il clima d’insicurezza ha creato la «paura del prossimo», continua Sougouri. «Questa situazione è vissuta come un’incertezza, non si capisce cosa potrebbe succedere da un momento all’altro. Oggi ci sono località nel Nord dove due vicini che si conoscono bene, non hanno più fiducia uno dell’altro. Perché qualcuno è stato scoperto a trattare con questi sedicenti ribelli o jihadisti. Tutti hanno paura di tutti». Ma c’è anche chi approfitta di questa situazione: gruppi di banditi che vivono di saccheggio.

«Alcune scuole sono state chiuse perché gli insegnanti sono stati prima minacciati, accusati di insegnare il francese ai bambini, e poi uccisi a sangue freddo». Stessa sorte è successa ad amministratori e funzionari comunali, sgozzati nelle loro povere sedi comunali.

«Non sappiamo se siano jihadisti o criminali comuni. Per tutto quello che succede usiamo la parola terrorismo. Ma è questa la strategia reale dei jihadisti?». Si interroga il direttore: «Creare una situazione di paura, di psicosi nella popolazione, per poi mettersi di lato e guardare la nostra società disgregarsi».

(Photo by Ahmed OUOBA / AFP)

Il grande Nord

Con un pick-up sfrecciamo sulla pista di laterite che da Ouahigouya conduce a Titao, a Nord Est. Penetriamo ancora di più in «zona rossa», ma vediamo solo il verde del sorgo e del miglio dei campi, che, grazie a un’ottima stagione delle piogge, è cresciuto rigoglioso. Incrociamo, nell’altro senso di marcia, due camionette zeppe di militari della gendarmerie, in assetto da combattimento, con elmetti, kalashnikov e le mitragliatrici sul tettuccio, pronte – sembrerebbe – a sparare. Deve essere, pensiamo, una pattuglia di stanza nel comune di Titao, che ha finito il turno ed è stata rimpiazzata.

Giungiamo nel villaggio di You. Qui un gruppo di donne ci accoglie festanti, perché un progetto della Ong Cisv, finanziato dal Fondo Fiduciario di emergenza dell’Unione europea2 ha consegnato loro delle capre. Potranno farle riprodurre e vendere i piccoli, godendo così di un piccolo reddito per lottare contro la fame. Incontriamo poi degli agricoltori, scelti tra i più poveri del villaggio, ci assicurano quelli di Cisv. Sono in un campo di niebé (fagiolo autoctono). Lo stesso progetto li ha aiutati a strappare questa terra all’erosione, grazie a tecniche locali e ha insegnato loro come coltivare con metodi più naturali, agroecologici.

La gente è serena, contenta della visita. Non si avverte la tensione tipica da «zona rossa».

Alcuni giorni dopo la nostra visita, il 23 settembre, a un’ottantina di chilometri più a Nord, un’auto dell’impresa che sfrutta la miniera d’oro di Inata, la ghanese Balaji Group, verrà fermata da una quarantina di motociclisti armati sull’asse Tongomayel – Djibo. I tre occupanti, un burkinabè, un indiano e un sudafricano verranno rapiti. I gendarmi lanciati all’inseguimento lasceranno tre morti sul terreno. Alcuni giorni dopo interverranno pure i Mirage francesi (aerei da caccia), dell’operazione Barkhane3, a bombardare la zona. Ma è difficile colpire delle motociclette nel deserto. E ormai il gruppo riparerà nel vicino Mali.

(Marco Bello 2018)

Fronte dell’Est

Da agosto sono cominciati attacchi nelle regioni ad Est del Burkina Faso, tanto da far scrivere ad alcuni media che è nata una nuova cellula jihadista in questa zona.

Il culmine si ha il 17 settembre, con il rapimento di padre Pierluigi Maccalli, missionario italiano della Sma di Genova, in una località nigerina, nei pressi della frontiera con il Burkina. Era nella sua parrocchia, dove lavorava dal 2007. L’ipotesi più accreditata è che il padre sia stato rapito dal gruppo che imperversa nell’Est del Burkina, in fuga dalle forze di sicurezza. Può essere stato portato nella foresta della Tapoa (Burkina), oppure verso il Mali lungo un corridoio Sud-Nord sulla frontiera Burkina-Niger.

Ricordiamo che numerosi sono i gruppi integralisti di base nel vicino Mali (cfr. MC ago-set 18 e giugno 17), alcuni legati ad Al Qaeda e altri all’Isis. Il gruppo che più ha influenzato il Burkina è il Fronte di liberazione di Macina, di Amadou Koufa, che ha pure ispirato la nascita del primo gruppo jihadista burkinabè, Ansarul Islam, nato proprio a Djibo, nel Nord. I tre attacchi eclatanti a hotel, ristoranti e, l’ultimo, all’ambasciata francese e allo Stato maggiore dell’esercito (marzo 2018) sono stati compiuti da altri gruppi della galassia maliana, come Al Murabitun. Qualcuno teme anche l’arrivo in Burkina di Boko Haram, il gruppo estremista nato nel Nord della Nigeria e in guerra aperta con Niger, Ciad e Camerun (cfr. MC ottobre 16). Gruppo che però agisce in modo geograficamente circoscritto, la cui presenza qui pare improbabile.

(Marco Bello 2018)

Che fa il governo?

«L’opposizione critica il governo sulla questione della sicurezza, ma in realtà questo non può fare di meglio, per i mezzi che ha. Ha pure organizzato una sezione speciale all’Assemblea Nazionale (parlamento, ndr) per valutare il budget militare che penso sarà aumentato sostanzialmente», commenta Germain Nama, direttore del giornale «L’Evénement» e giornalista impegnato per i diritti umani.

«Ma la questione della sicurezza non è solo una questione militare, perché si tratta di una guerra asimmetrica, con attacchi terroristici. Contano molto i mezzi tecnologici moderni, così come i servizi di sicurezza, per cui lo stato deve investire in questi aspetti».

Da notare che l’intelligence del regime di Compaoré, che era piuttosto forte e radicata, è stata smantellata, e ora costituisce uno degli aspetti deboli delle istituzioni.

Continua Nama: «Simon4 (Compaoré, ndr), è venuto qui in redazione e lo abbiamo intervistato. Quando gli abbiamo chiesto se la natura di questo terrorismo è, secondo lui, la stessa di quella del Nord o se ci sono nigeriani, ha detto che non ci sono elementi per dirlo. È poi stata diffusa quella rivendicazione poco credibile. Occorre essere prudenti». Si riferisce a un video mal fatto, che è circolato sui social in Burkina, nel quale alcuni uomini vestiti da jihaidisti, affermano di appartenere a una sedicente cellula legata ad Al Qaeda e rivendicano gli attacchi nell’Est del paese.

(Marco Bello 2018)

Richieste sociali

Se la questione degli attacchi e della sicurezza occupa molto il dibattito nazionale, un altro aspetto importante sono le rivendicazioni della società civile. Una parte di essa, quella dei lavoratori organizzati, ha visto, negli ultimi tre anniuno, un particolare slancio rivendicativo.

Incontriamo Mamadou Barro, già segretario generale della Federazione dei sindacati nazionali dei lavoratori dell’educazione e della ricerca, il maggiore sindacato degli insegnanti. «Sul piano sociale, le richieste sono molto forti. Nei settori strutturati, come quello dei salariati, sia della funzione pubblica che del privato, molti scioperi si sono susseguiti. Per noi è l’espressione delle frustrazioni, contenute e soffocate o represse durante gli anni del regime autocratico, quasi dittatoriale, di Blaise Compaoré». Mamadou Barro si collega al passato regime, quello di Blaise Compaoré, durato 27 anni e caduto sotto la rivolta popolare dell’ottobre 2014. «L’insurrezione ha indebolito chi detiene il potere, sono stati creati molti sindacati negli ultimi tre anni. Anche in settori che non avevano mai avuto un sindacato».

Continua il sindacalista: «Ma anche i settori non strutturati, come quelli dei contadini, cercatori d’oro artigianali, abitanti dei quartieri, stanno facendo rivendicazioni sulla sistemazione del territorio, la bonifica delle strade e l’accesso ai servizi sociali di base».

«Il fallimento del regime precedente è anche di questo attuale, perché, se prendete gli uomini ai vertici di oggi, hanno tutti avuto ruoli di primo piano ieri. Rifiutando di tenere in conto le richieste della cittadinanza per il miglioramento delle condizioni di vita in termini di lavoro, accesso ad elettricità, acqua, scuola di qualità, cure mediche, i dirigenti di oggi decidono di continuare su una linea fallimentare».

Secondo la lettura di Barro, l’insicurezza viene utilizzata in modo strumentale dal governo del presidente Roch Marc Christian Kaboré: «In questo contesto si inserisce la separazione che il potere cerca di creare tra le problematiche di sicurezza e le richieste sociali: sapendo di non avere risposte alle questioni sociali, allora agita la questione dell’insicurezza come la via per la quale si deve fare l’unione sacra». Ovvero uniamoci per far fronte all’insicurezza e dimentichiamoci gli altri problemi.

«E diventa quasi un ricatto: se parlate di un problema, se siete contro il governo, significa che non amate la nazione in pericolo, attaccata dagli integralisti».

Secondo Germain Nama, questo governo è comunque riuscito a dare qualche risposta. Almeno nel campo della sanità, con la legge che rende gratuite le cure per le donne incinte e i bimbi sotto i 5 anni (una prima assoluta) e la costruzione di dispensari nelle province. Altro campo è quello dell’educazione, con al costruzione di infrastrutture scolastiche. Anche diverse strade cittadine sono state asfaltate.

(Marco Bello 2018)

Giustizia: a piccoli passi

Per quanto riguarda i dossier pendenti in Giustizia, alcune importanti novità sono state confermate dal processo sul tentato golpe del 16 settembre 2015. In particolare è stato confermato che Blaise Compaoré, in esilio in Costa d’Avorio, era dietro all’operazione.

Altri dossier importanti in fase istruttoria sono quello sull’insurrezione del 2014 e le sue vittime, che vede imputato il regime Compaoré; il dossier sull’assassinio di Thomas Sankara e i suoi compagni (15 ottobre 1987); il dossier sull’uccisione cruenta del giornalista Norbert Zongo (13 dicembre 1998), per il quale è incriminato François Compaoré, fratello del presidente, e altri.

«Mi sembra che le cose vadano avanti, in qualche caso si aspetta di terminare l’istruttoria, in altri, come per Zongo, si attende l’estradizione di François, arrestato in Francia». Ma la popolazione soffre anche per la crisi economica che morde il Burkina Faso, uno dei paesi più poveri del mondo. «I veri problemi non sono affrontati», denuncia il quadro burkinabè di una Ong internazionale. «La mancanza di lavoro per i giovani, un’economia che sta peggiorando, causando un deterioramento delle condizioni di vita di tutti. Ho l’impressione che la linea di questo governo non sia di rottura con il passato regime».

Nama ricorda che «i commercianti non sono contenti, perché dicono che i soldi non circolano, mentre prima (dell’insurrezione del 2014, nda) c’erano più soldi e più lavoro. Forse prima erano soldi sporchi …».

Anche un falegname della capitale Ouagadougou ci dice che si lavora molto di meno e lui ha dovuto licenziare diversi aiutanti, e rimanere solo con suo figlio. L’economia in effetti ha subito un rallentamento dopo il cambio di regime.

(Marco Bello 2018)

Dov’è finita la società civile?

Che ne è stato del movimento della società civile che ha condotto l’insurrezione e poi si è opposta al colpo di stato del 2015? Le premesse erano che la presa di coscienza cittadina, incanalata attraverso un certo tipo di associazioni, avrebbe esercitato un potere di «controllo» sull’operato del governo.

Ma la società civile, almeno la componente che aveva guidato l’insurrezione, ha perso credibilità. «Molti leader sono caduti per soldi o potere», ci dice il quadro dell’Ong. «I movimenti più a sinistra hanno rimproverato ai gruppi di spicco, in particolare il Balai Citoyen5, di aver accettato i militari al potere. I capi di Balai sono poco critici del potere attuale, proprio perché hanno questo “peccato originale”. Se avessero tenuto le distanze, avrebbero potuto rimanere credibili e denunciare ancora  l’operato di questo governo».

Il sindacalista Mamadou Barro è ancora più netto: «Non è più un segreto oggi: sono i dirigenti di Balai Citoyen che hanno convinto Isaac Zida a prendere il potere». Il 31 ottobre 2014, dopo la fuga di Blaise Compaoré, si era creato un momentaneo vuoto di potere. Il tenente colonnello Zida, che era il numero due della guardia presidenziale, i fedelissimi dello stesso Compaoré, si è imposto presentandosi sulla piazza dell’indipendenza, circondato dai responsabili di Balai Citoyen. «Zida non avrebbe avuto il coraggio di presentarsi in quella piazza, se non fosse stato circondato dai beniamini della stessa. Il loro obiettivo era quello di mettere in piedi un regime militare, ma penso che neppure le potenze imperialiste (Francia, Stati Uniti, nda) fossero per questa soluzione. C’era gente che lo ha contestato, molti manifestanti erano contro alla sua presa di potere». Le potenze straniere hanno fatto sì che si creasse un governo di transizione con un presidente, Michel Kafando, che non è un militare. Però Zida è riuscito a rientrare dalla finestra, diventando ministro della Difesa. Poi, dopo un anno di transizione, con la scusa di una missione in Canada, è rimasto in quel paese, e da allora non è mai più tornato. La giustizia del Burkina lo cerca perché avrebbe fatto sparire molti fondi dello stato.

Oggi Balai Citoyen cerca di tenere vivo l’interesse organizzando incontri e dibattiti. Come le 72 ore organizzate proprio a Ouahigouya a inizio dello scorso ottobre.

«Hanno una struttura, ma non sono più così popolari – continua Barro -. Inoltre penso che gli Stati Uniti in qualche modo li finanzino, perché realizzano attività che senza fondi esterni non sarebbero possibili». Il sindacalista ci tiene a sottolineare la differenza tra il suo movimento e il Balai: «Cinquantotto anni dopo l’indipendenza, non riusciamo a liberarci, ma la coscienza è aumentata e molti, in particolare tra i giovani, hanno capito che ci vuole la rottura antimperialista. Finché non la facciamo non avremo uno sviluppo. Nel nostro paese c’è un movimento che ha delle forze e propone un altro modo di concepire il nostro destino nazionale, diverso dal medicare gli aiuti. E il Balai Citoyen non fa parte di questo movimento. Non possono neppure, perché ricevono finanziamenti dai paesi imperialisti».

Scopriamo che Balai Citoyen è il principale partner burkinabè del progetto «Justice and Security Dialogues» della statunitense United States Institute of Peace (Usip). Si tratta di un istituto nazionale indipendente fondato dal Congresso (il parlamento statunitense), che lavora in diversi paesi nell’ottica della riduzione dei conflitti come strategia per la sicurezza Usa. Di fatto è l’ente governativo Usa per la promozione della pace.

Salita all’onore delle cronache nei giorni dell’insurrezione, Balai Citoyen è in realtà una organizzazione piuttosto giovane, nata sull’onda delle manifestazioni del 2013. Altre sono le associazioni che hanno portato all’insurrezione di fine ottobre 2014. «Loro erano nei momenti giusti nei posti chiave», dice il sindacalista, che ricorda invece l’Organisation démocratique de la jeunesse (Organizzazione democratica della gioventù) come attore importante. «Quelli di Balai sono arrivati all’ultimo momento, mentre altri gruppi, come Cgtb6 (Confédération générale du travail du Burkina, ndr) e Mbdhp7 (Mouvement burkinabè des droits de l’homme et des peuples), hanno portato avanti la lotta per anni», ci conferma il quadro dell’Ong. Un movimento sociale che ha radici fin dalla fine del 1998, quando, l’indignazione per l’assassinio di Norbert Zongo causò l’inizio di un percorso di lotta per lo stato di diritto nel paese.

(Marco Bello 2018)

Il nemico che non vedi

In Burkina Faso, oggi si ha l’impressione che né la gente né le istituzioni siano abituate a questa situazione e che le misure di sicurezza non facciano parte del loro modo di essere. Anche se i muri si alzano e cingono di filo spinato. Fatto quasi inesistente anche solo pochi anni fa. Si percepisce una certa paura, mentre la gente cerca di condurre la sua vita in modo normale, con tanto di birra alla buvette (bar di strada) dopo il lavoro e il sabato sera. Eppure si capisce che il contesto non è più lo stesso di pochi anni fa nel paese degli uomini integri. C’è un nemico invisibile, che talvolta si materializza e fa parlare di sé. Intanto la fibra ottica è arrivata in zona rossa.

Marco Bello
(fine prima puntata – continua)

Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. Copyright Marco Bello 2018


Note

(1) In Burkina Faso si contanto 60 etnie, di cui le maggioritarie sono: mossì, gourmanché, fulbé (peulh), bobo e bissa. Anche a livello religioso c’è sempre stata ottima coabitazione: 60% musulmani, 19% cattolici, 5% protestanti, più culti tradizionali.
(2) Fondi fiduciari di emergenza dell’Ue: si tratta di un pacchetto di aiuti stanziati all’incontro della Valletta (novembre 2015), per alcuni paesi africani. L’obiettivo dichiarato è la stabilità e la migliore gestione delle migrazioni.
(3) Operazione militare francese anti terrorismo attiva in 5 paesi: Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania, dal 1 agosto 2014.
(4) Simon Compaoré, già ministro dell’Interno e della sicurezza, figura di spicco del vecchio e del nuovo regime e oggi ministro alla Presidenza della repubblica.
(5) Balai Citoyen (scopa cittadina), movimento della società civile, nato nel 2013, ha acquisito notevole visibilità durante l’insurrezione popolare, grazie a un’accorta strategia comunicativa.
(6) Cgtb, Confederazione generale del lavoro, è una confederazione sindacale, creata nel 1988, raggruppa 12 sindacati nazionali e 70 sindacati d’impresa.
(7) Mbdhp, Movimento burkinabè per i diritti dell’uomo e dei popoli, fondato nel 1989, è la maggiore associazione per la difesa dei diritti in Burkina Faso.

Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. Copyright Marco Bello 2018




Sud Sudan: L’ennesimo processo di pace per il conflitto più cruento


È la guerra civile più efferata degli ultimi tempi. Ma anche la più dimenticata. In 5 anni ha ucciso tra le 50 e le 300mila persone, ha prodotto oltre 3,5 milioni di sfollati e 5 milioni a rischio fame. È stato fatto uso massiccio dello stupro e di violenze anche su minori, disabili, anziani. Da alcuni mesi una mediazione internazionale sta cercando di portare le tante fazioni in conflitto alla firma di una pace duratura. Riuscirà il petrolio dove il buonsenso ha fallito?

È il 5 agosto 2018. A Khartum, capitale del Sudan, Omar al Bashir, controverso presidente (accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità) e mediatore, ottiene la firma di un accordo di pace «provvisorio» tra le fazioni in guerra (civile) nel Sud Sudan. Questo è lo stato più giovane del mondo, si è diviso dal Nord il 9 luglio del 2011. «È come se il loro ex presidente fosse riuscito a imporsi per farli firmare», dice qualcuno. Presenti alla firma pure i presidenti di Kenya, Uganda e Gibuti, oltre che diversi corpi diplomatici. Salva Kiir Mayardit (presidente del Sud Sudan) e il suo acerrimo nemico Riek Machar (primo tra i ribelli), insieme a tutte le altre fazioni in conflitto in Sud Sudan, firmano. Ma il processo di pace non inizia e non finisce qui. Il 27 giugno è stata firmata la «Dichiarazione di Khartum», che doveva essere un cessate il fuoco tra tutte le parti, mentre il 25 luglio è stato siglato un accordo preliminare.

I presidenti lasciano la capitale del Sudan mentre i tecnici mettono a punto l’accordo reale e definitivo. Molti sono gli aspetti da definire sulla sua applicazione.

Ma ora cosa succederà? Riuscirà il più giovane paese dell’Africa, sconvolto da cinque anni di guerra cruenta a pacificarsi? A guardare il video – divenuto virale – che mostra Machar porgere la mano a Kiir e questo che abbassa la testa senza ricambiare il gesto, qualche dubbio ci assale.

A fine agosto arriva la notizia che Machar e i leader del Ssoa (South Sudan Opposition Alliance) non vogliono firmare l’accordo definitivo, che non prenderebbe in considerazione alcune loro richieste su divisione in stati, quote etniche del governo e meccanismi di modifica della Costituzione. Poi, nelmomento in cui scriviamo, Machar dichiara di voler firmare, perché confida che la mediazione sudanese sia garante delle loro rivendicazioni.

AFP PHOTO / SUMY SADURNI

Una storia breve

Dopo l’indipendenza dal Sudan, nel 2011, viene creato un governo in cui Kiir è presidente e Machar il suo vice. Subito però riaffiorano le antiche rivalità tra i Dinka, etnia maggioritaria (circa 4 milioni) tra i 64 gruppi etnici sudsudanesi (12,5-13 milioni in tutto), e Nuer la seconda etnia per dimensione (un milione). Nel 2013 il dinka Kiir accusa il nuer Machar di essere artefice di un complotto per rovesciarlo e scoppia la guerra tra le due principali fazioni, che poi si moltiplicheranno.

Nell’agosto 2015 le parti firmano un accordo simile a quello di oggi, che porta a un governo transitorio, in cui Machar è ancora vice presidente (si veda MC maggio 2017). Accordo poi fallito pochi mesi dopo, con Machar che fa una vera «chiamata alle armi» contro i Dinka al potere, chiedendo a tutti i sudsudanesi di combatterli. Operazione che non piace ai paesi della regione e alla comunità internazionale, che invece hanno interesse a stabilizzare il Sud Sudan.

Una poltrona per cinque

I dubbi sulla firma del 5 agosto restano, perché i nodi cruciali non sono stati risolti. I punti fondamentali dell’accordo sono i seguenti: Salva Kiir rimane presidente, mentre Riek Machar ridiventa vicepresidente. Ma ci sono già due vice, ovvero James Wani Igga (di etnia bari), che aveva sostituito lo stesso Machar nel 2013, e Taban Deng Gai, nuer, messo nel 2015 perché rappresentava l’opposizione, la quale però non l’ha mai riconosciuto. A questo punto Machar potrebbe rientrare come primo vicepresidente, mentre se ne aggiungerebbero altri due, in modo da accontentare tutte le fazioni. In particolare i Dinka legati alla famiglia di John Garang (il leader carismatico morto misteriosamente nel 2005), che si dissociano dalla gestione di Kiir di questi anni e i Silluk (si fa il nome di Lam Akol, già alto ufficiale dell’Spla, poi ministro del Sudan e quindi fondatore della fazione Splm – democratic change).

«Sono tutte persone molto speciali e difficili, con delle storie un po’ strane. Lo stesso Salva Kiir, che pure non è un santo, si chiede come farà mai a governare con questi cinque vice presidenti», confida un osservatore.

Si dovrebbe formare un governo di pre transizione che durerebbe in carica alcuni mesi, con lo scopo di creare un parlamento e un nuovo governo di transizione della durata di tre anni, nei quali i seggi e gli incarichi sarebbero contingentati per etnia. Si tratta di fatto di un accordo di condivisione del potere, che però non prevede meccanismi o programmi, ma solo divisione di posti.

Jason Patinkin/IRIN

I nodi sul tappeto

Uno dei principali punti controversi dell’accodo è quello della sicurezza, da garantire per tutti. Intimamente legato alla creazione di un esercito unico, come vorrebbe il governo. Oggi ci sono una moltitudine di eserciti e di gruppi armati, ognuno legato a una fazione o meglio a un leader. Lo stesso Spla (esercito governativo) è diviso al suo interno. Ma come integrare tutte queste milizie? Sarebbero tanti i militari da mandare a casa, in particolare ufficiali e generali.

Ogni gruppo si garantisce la sicurezza con il suo esercito. Ad esempio, Machar che da anni vive in esilio, per tornare a Juba in sicurezza dovrebbe portarsi il suo esercito, come già successo nel 2016, creando tensioni con l’esercito governativo.

L’altro punto è la suddivisione territoriale, che l’attuale governo vuole portare a 32 stati. Dai 10 stati suddivisi in 86 contee del 2011, si è passati nel 2015 a 28 stati teorici. L’operazione sembra fatta più che per organizzare lo stato, per garantire ulteriori posti di potere da suddividere tra le fazioni. Il problema è che il paese rischia di diventare ancora più ingovernabile.

«Ci sono situazioni molto diverse. È un paese al quale non riesci a dare un’identità». Ci racconta una cooperante che è in Sud Sudan da tre anni e ha avuto modo di viaggiare in diverse zone.

«Nel Nord gli stati Unity, Jonglei, Upper Nile, sono popolati da tribù nomadi, dedite alla pastorizia. Ci sono i problemi di furti di bestiame e delle inondazioni. Sono le zone più arretrate. Rispetto a Greater Equatoria (nel Sud, dove c’è la capitale Juba) c’è un abisso. Quest’ultimo è uno stato a sé. C’è molta instabilità, gruppi armati che non si sa a che fazione appartengono, tante imboscate sulle strade. Nonostante questo, la gente sta tornando dall’Uganda, dove nel 2017 sono fuggiti a milioni. È gente che sta cercando di stabilizzare la propria vita. Negli stati Norhtern e Western Bhar el Ghazal, Warap, Lakes, ci sono altre popolazioni, contadini. A Wau la gente esce dal campo di sfollati e va a coltivare, si fa i mattoni per ricostruire la casa. Poi la notte rientra a dormire nel campo.

Si vedono almeno tre paesi diversi con mentalità e approcci alla vita propri».

AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Pressioni internazionali

Gli osservatori sono concordi nel giudicare che le pressioni internazionali, in particolare dei paesi dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa), sono state fondamentali per ottenere la firma di tutti i belligeranti. E il Sudan è stato in prima linea. «Il Sudan, come anche il Sud Sudan, versa in una grave crisi economica. Se i pozzi di petrolio del Sud riprendono a pompare, il greggio ha come unica via l’oleodotto che lo porta a Port Sudan, sul Mar Rosso, nel Nord, e Khartum riceve per ogni barile un grossa quota di profitti», dice l’osservatore.

In effetti, il giorno stesso della firma, al Bashir ha annunciato la ripresa dell’estrazione di greggio e, puntuale, il 26 agosto un test è stato fatto nello stato di Unity, alla presenza di due delegazioni di Sudan e Sud Sudan guidate dai rispettivi ministri del Petrolio. La produzione dovrebbe normalizzarsi entro la fine dell’anno. Gli esperti dicono che nel Sud Sudan è passata dai 350.000 barili/anno di cinque anni fa, a circa 120.000 barili/anno.

Altri paesi interessati sono l’Uganda, che ha sempre appoggiato la fazione di Salva Kiir, (mentre il Sudan è piuttosto legato a Riek Machar), l’Etiopia, che ha dovuto accogliere alcune centinaia di migliaia di sfollati, e il Kenya.

Mentre l’Unione europea è stata assente, gli Stati Uniti, che hanno molto investito in Sud Sudan, hanno criticato l’accordo firmato a Khartoum. Inoltre, hanno fatto pressione all’Onu e fatto passare l’embargo sulle armi (13 luglio), ma si tengono lontani dal processo in atto.

Voci dal terreno

Ma quali cambiamenti ha portato sul terreno questo nuovo processo di pace?

Secondo l’operatrice umanitaria, «non c’è alcun cambiamento interno nel paese. Ad esempio in questi giorni si sta combattendo nel campo di sfollati di Juba. Qui ci sono 30.000 persone, tutti Nuer ma di diversi clan, e basta un nulla per fare scoppiare la violenza. Spesso si combattono per portare più servizi al loro gruppo. A livello locale, dove noi andiamo per assistere gli sfollati, l’accordo di pace non ha portato a cambiamenti». E continua: «In alcune zone del Nord gli sfollati rientrati in patria che assistiamo, mi hanno detto: tra alcune settimane ricomincia la stagione secca, le truppe hanno più facilità di spostamento e verranno a riprendere questa zona. Noi siamo già pronti a scappare di nuovo in Sudan».

Un missionario che lavora a Juba ci racconta: «Per l’accordo la gente ha grande speranza. Sono esausti di questa situazione, quindi qualsiasi cosa va bene, purché ci sia tranquillità e l’economia si riprenda. A giugno un dollaro era arrivato a valere 350 sterline sudanesi. Con i salari minimi intorno alle 3-4.000 sterline. Molti prodotti sono di importazione, arrivano dall’Uganda o da altri paesi, per cui i prezzi aumentano con il cambio. Dopo la firma dell’accordo il dollaro è a 160 sterline, e questo dà un grosso respiro alla gente. In realtà al mercato c’è confusione, perché c’è ancora chi applica cambi diversi».

Displaced children stand at a camp for Internally Displaced Persons (IDP) near Kadugli, the capital of Sudan’s South Kordofan state during a United Nations humanitarian visit on May 13, 2018. / AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Conferma il missionario: «Il costo della benzina è sceso e questo è importante, soprattutto per le merci trasportate. Ad esempio, il prezzo della farina è sceso. Ma non si sa quanto durerà. Il dubbio è: come faranno queste persone, che sono sempre le stesse al governo, a superare le loro divisioni e disaccordi? Come credere che non siano lì per la loro ambizione, ma per dare un minimo di pace al paese?».

La guerra che va avanti da cinque anni è particolarmente efferata, come denuncia l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu: «[…] Questa è una delle più orrende situazioni dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio dello stupro come strumento di terrore e arma di guerra […]», dichiara l’Alto commissario Zeid Ra’ad Al Hussein.

Un sud sudanese, operatore umanitario, con studi all’estero (come tutti a livello universitario), ma che lavora nel suo paese, analizza la situazione. Raggiunto telefonicamente, ci chiede l’anonimato, come già le altre fonti, per ragioni di sicurezza: «Molte persone sono in attesa degli sviluppi di questa firma. Ma se si guarda alla situazione nel paese, è ancora molto confusa. C’è la fazione del governo, poi ci sono tante fazioni di opposizione. La gente vuole la pace, ma molti non sono pronti per questo, come i politici che cercano solo i propri interessi. C’è molta corruzione in ambiente politico. Tutti vogliono mantenere la loro fetta di potere».

E continua: «Fatto l’accordo di pace, ora devono vedere come metterlo in atto, ovvero come governare. Con questo tipo di accordo è difficile soddisfare tutte le persone. Ci sono tante comunità (o etnie), molte differenze, e se i politici lavoreranno solo a livello politico, sul terreno non si vedranno cambiamenti».

Il coordinatore (africano) di una Ong medica internazionale ci confida: «La situazione è molto fluida.

Ci sono diverse violazioni degli accordi, in molte zone, e gli operatori umanitari sono preoccupati».

A fine luglio, alcune centinaia di giovani armati, hanno attaccato e saccheggiato una base di Ong e Nazioni Unite a Maban, nel Nord dello stato di Upper Nile. Non si capisce che origini abbia questo attacco».

Continua la nostra fonte: «La popolazione aspetta che gli accordi di pace siano realmente implementati, ma finora non ci sono stati ancora cambiamenti.

C’è parecchio pessimismo. I sud sudanesi non hanno molta fiducia. Non è il primo accordo e la gente ha paura che i militari ricomincino a combattersi. Chi è più vicino al governo (o alla etnia del presidente) è più ottimista, al contrario le comunità legate all’opposizione sono più pessimiste.

Le Ong non sono molto sicure che gli accordi saranno implementati. Il problema è anche che ci sono molte richieste da parte dell’opposizione, condizioni molto complesse da garantire».

AFP PHOTO / PATRICK MEINHARDT

Società civile cercasi

«Inoltre qui – ci confida il missionario che risiede a Juba, ma ha vissuto anche in altre zone – la popolazione è costretta ad accettare le cose così come sono. Quando il valore della moneta crollava di settimana in settimana mi sono stupito che non ci siano stati scioperi o manifestazioni. La gente sa che non può esprimersi liberamente. Accetta facilmente di farsi proteggere dal forte di turno. Inoltre i gruppi sono spesso allineati etnicamente. La società civile ha ancora una lunga strada da percorrere per dar vita al cambiamento. Probabilmente c’è da aspettare che questa generazione di politici finisca e sia sostituita da un’altra». E continua: «Le Ong nazionali sono finanziate dai grandi enti e offrono servizi di vario tipo. Creano lavoro per la gente locale, ma portano avanti un approccio di emergenza piuttosto che di sviluppo, anche perché questo permette loro di continuare a lavorare».

Importante è stato il ruolo del South Sudan Council of Churches (Consiglio delle chiese sud sudanesi) che riunisce Chiesa cattolica, la Chiesa episcopale (la più diffusa) e la Chiesa presbiteriana.

Ci racconta il missionario: «Il governo rispetta le chiese ma le teme pure. Teme la loro indipendenza. Se una chiesa è allineata la ascolta, altrimenti la lascia un po’ da parte e la Chiesa cattolica è quella che fa più fatica ad allinearsi, quindi si attira più sospetti.

Inoltre è un momento un po’ difficile della nostra Chiesa: quattro diocesi su sette sono senza vescovo. Molte energie devono essere spese per far fronte ai tanti problemi interni e quindi non riesce sempre a farsi ascoltare dal governo. Nonostante tutto le rimane una grande autorità morale: parla una voce unica, non ci sono divisioni etniche in essa. È presente in tutte le comunità (le etnie), per cui non è di parte. Le altre Chiese invece corrono il rischio di essere più allineate e di essere percepite come tali. La Chiesa presbiteriana ha più influenza nelle zone nuer, per cui è stata vista come la chiesa più vicina alle opposizioni. Mentre la Chiesa episcopale aveva gerarchie soprattutto dinka, per cui era vista come filo governativa. Adesso sta superando questo, grazie al nuovo primate più neutrale».

Oltre alle Ong locali e alle Chiese, ci spiega il coordinatore della Ong internazionale, «ci sono altre associazioni per i diritti umani, associazioni delle donne per la pace. Ma le associazioni basate in Sud Sudan devono essere dalla parte del governo. Ce ne sono anche non allineate, ma stanno all’estero, perché non è conveniente per motivi di sicurezza. Essere contro diventa rischioso. Non è un paese nel quale puoi esprimere liberamente quello che vuoi, puoi solo parlare a favore del governo».

La cooperante riassume così le sue sensazioni: «Sono molto delusa. Non è possibile che dal 2013 ci siano sempre le stesse dinamiche. Quello che mi delude di più è che ai politici non importa nulla della gente, fanno solo i loro giochi di potere. Si scontrano e poi vanno a cena assieme. Si stringono le mani, poi litigano di nuovo. Quanto potrà durare un accordo di pace con queste prospettive?»

Marco Bello




Crateús, dove Dio è donna

Testi di Stefania Garini, foto cortesia CISV (Raffaele Giammaria, Viviana Pittalis e Marta Versaci) |


Nel Ceará, uno degli stati più poveri del Brasile e tra i più violenti al mondo, suor Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, combatte da sempre a fianco degli ultimi: le donne vittime di abusi, i giovani, i contadini senza terra e le pescatrici senza acqua. Animata da una fede incrollabile nel Vangelo e nella capacità umana di riscattarsi.

suor Francisca Erbenia de Sousa a Crateús

«Ho deciso di farmi suora a 9 anni, il giorno in cui ho assistito allo stupro di una ragazza per strada. Sono corsa in cerca d’aiuto ma nessuno è intervenuto perché dicevano che era una prostituta. Quella ragazza è stata violentata e uccisa, ma non importava a nessuno. Per me è stato terribile, mi sentivo impotente, ho iniziato a pensare che consacrandomi avrei potuto aiutare le donne, le tante vittime di violenza che nel mio paese restavano “invisibili”». Racconta così la sua vocazione suor Francisca Erbenia de Sousa, nata 53 anni fa a Quixeramobim nello stato del Ceará, Nord Est brasiliano, e dal 2006 responsabile della Caritas diocesana di Crateús.

All’epoca, il papà fa il camionista trasportando il cotone delle piantagioni, mentre la mamma si occupa dei sette figli. «I miei genitori non erano religiosi. Mio padre era legato agli ambienti politici di destra, ultraconservatori, e ostacolava la mia scelta, così a 17 anni me ne sono andata di casa per farmi suora». Da allora questa religiosa dall’apparenza dimessa, ma tenace e combattiva, non ha mai smesso di battersi per i diritti degli ultimi, a cominciare proprio dalle donne: le prostitute e le vittime di abusi, le catadores che campano raccogliendo rifiuti, le abitanti delle favelas, le contadine senza mezzi e senza terre, le pescatrici prive di prospettive economiche e riconoscimenti professionali.

Abbiamo incontrato suor Erbenia durante il suo primo viaggio in Italia lo scorso novembre (2017), in compagnia di Antonio Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, in visita a due associazioni con cui la Caritas brasiliana collabora, Cisv di Torino e WeWorld di Milano.

Teologia incarnata

Formatesi alla scuola del pedagogista Paulo Freire e della teologia della liberazione, Erbenia e la Caritas di Crateús promuovono una lettura critica delle disuguaglianze sociali, viste non come volontà di Dio cui ci si deve piegare ma al contrario come una violenza nella creazione divina. «L’esistenza di Dio si traspone nelle nostre esistenze e ci spinge a interrogarci sulla realtà che ci circonda: com’è possibile che molti di noi debbano vivere senz’acqua da bere, senza terra da lavorare, senza prospettive per i giovani? Il volto di Dio è quello che si mostra nell’Esodo: “Ho osservato la miseria del mio popolo […] conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo […] verso un paese nel quale scorre latte e miele” (Esodo 3,7-10). È un Dio capace di vedere e ascoltare gli affanni, le speranze, le perdite ma anche le potenzialità delle vite umane». Si tratta di una teologia incarnata, in cui la dimensione spirituale resta inseparabile dall’azione concreta: «La preghiera è per noi un’esigenza quotidiana, in chiave contemplativa: pregare significa contemplare la vita di ogni giorno, cercando di leggerla alla luce del Vangelo», spiega suor Erbenia. «Il nostro modo di considerarci figli e figlie di Dio ci porta spesso a unirci alla popolazione nell’occupazione delle terre rurali e urbane lasciate in abbandono, o prese indebitamente da imprese minerarie e fazendeiros» (cfr. MC novembre 2017). Iniziative che spesso sono costate aggressioni e intimidazioni. «Abbiamo subìto una forte repressione militare tra gli anni Sessanta e Ottanta, molti di noi sono stati vittime di violenze, persecuzioni, prigionia, abbiamo imparato a correre al buio per scappare. E oggi le occupazioni di terre continuano ad attirarci le “attenzioni” di fazenderos e polizia», racconta la suora senza tradire emozioni.

Pur essendo la nona potenza economica al mondo, negli ultimi due anni la situazione del Brasile è molto peggiorata, e oggi la Chiesa brasiliana si sta schierando sempre più apertamente contro il governo di Michel Temer. «Il nostro paese è un palcoscenico di corruzione, si è tornati a colpire le popolazioni indigene e gli afro discendenti, soprattutto i giovani. I diritti conquistati a fatica in 50 anni sono adesso andati perduti: pensate che i programmi d’intervento popolare sono stati tagliati del 92%», dice Erbenia, ricordando come il governo Lula avesse garantito case popolari, assegni familiari in base al numero di figli e la possibilità per i giovani poveri di accedere all’università. «Oggi, per la prima volta nella storia del Brasile, in parlamento c’è una presenza fortissima delle chiese pentecostali, che sono fautrici di una politica ultraconservatrice. E ciò favorisce un clima repressivo, violazioni dei diritti e violenza diffusa». Il Brasile è il quinto paese al mondo per femminicidi, e si calcola che più del 50% delle donne tra i 14 e i 50 anni abbiano sofferto una qualche forma di violenza. Il primo passo per cambiare questo stato di cose è «investire nella formazione, come insegnava Paulo Freire: l’oppresso ha bisogno di riconoscersi come tale per riuscire a liberarsi», spiega Adriano Leitão, responsabile dei progetti sociali della Caritas di Crateús, che come suor Erbenia fa parte della fraternità mista in cui vivono insieme suore, preti e laici. «Per affrancare le donne dalla violenza occorre renderle libere su un piano pratico, autonome dal punto di vista professionale ed economico». Ed è quanto fa la Caritas nel Nord Est brasiliano insieme ad altre associazioni, come Cisv e WeWorld.

Puntare sui giovani

La Caritas, che secondo le parole di papa Francesco è «la carezza della Chiesa ai poveri», nello stato del Ceará è organizzata in 800 comunità ecclesiali di base che condividono la lettura critica della realtà volta a emancipare la persona, attraverso un’educazione contestualizzata, cioè adattata al contesto in cui vive. «Nel nostro territorio i figli e le figlie delle famiglie contadine sono tradizionalmente i più esclusi dall’istruzione. Perciò una quindicina d’anni fa abbiamo occupato un terreno per fondarvi una scuola, così da poter offrire loro una formazione di qualità sulle tecniche agroecologiche, alla luce delle specificità ambientali e sociali del territorio semiarido brasiliano», spiega suor Erbenia. La scuola accoglie ogni anno oltre 100 ragazzi e ragazze che, secondo la pedagogia dell’alternanza, per 15 giorni al mese seguono le lezioni teoriche e pratiche (sull’agricoltura, sul commercio solidale ma anche sulla gestione dei conflitti), mentre negli altri 15 giorni vanno a casa ad applicare negli orti familiari ciò che hanno appreso. I giovani che escono dalla scuola di agroecologia sono poi aiutati a trovare un primo impiego e in seguito, sempre in una logica di alternanza, spinti a frequentare l’università.

Negli anni la Caritas di Crateús, che conta oggi circa 70 membri, ha creato 126 scuole e formato 17.000 studenti, che hanno potuto «imparare il rispetto della terra e la produzione di cibi sani, senza fare ricorso ai pesticidi o a pratiche tradizionali di incendio dei terreni, e impiegando tecnologie idonee per l’immagazzinamento dell’acqua. Tutto questo nella prospettiva del Bem viver (vedi sotto) e grazie all’opera gratuita di oltre 1.500 insegnanti, uomini e donne impegnati a titolo volontario». Erbenia non usa molto la parola provvidenza, ma ogni suo discorso trasmette piena fiducia e positività per il futuro.

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Il business della siccità

La maggior parte dei giovani che oggi beneficiano della formazione Caritas provengono da 2.600 famiglie di pescatori o pescatrici d’acqua dolce, che nel Ceará rappresentano i più poveri tra i poveri, isolati e ignorati dalle istituzioni. «La Caritas di Crateús, insieme al Cpp, Consiglio pastorale della pesca, e all’Ong Cisv, grazie a un progetto cofinanziato dall’Unione europea, lavora con queste famiglie alle prese con un’aridità cronica, aggravata dal fatto che qui non piove ormai da 6-7 anni».

Il problema non è solo ambientale ma politico, come ci spiega Adriano: «Il semiarido brasiliano è quello, tra tutti i semiaridi, in cui piove di più al mondo, quindi il problema non è solo la siccità ma la privatizzazione dell’acqua e l’assenza di politiche pubbliche». La siccità anzi per molti è un business: «Le imprese legate al governo producono cisterne per l’acqua in plastica, che costano attorno ai 5.000 reais (circa 1.300 euro), mentre noi le costruiamo in cemento, materiale più ecologico ed economico, che riduce i costi di un terzo».

La mancanza cronica di acqua e di pesci attenta alle risorse vitali delle numerose famiglie rurali, che vivono tradizionalmente di pesca. «Noi cerchiamo di creare opportunità alternative di reddito e spingere il governo a farsi carico del problema, perché la legge vieta, di fatto, a pescatori e pescatrici di integrare le loro entrate con altre attività produttive», spiega suor Erbenia. Anche qui, «le più discriminate sono le donne: a loro non è riconosciuto lo status professionale di pescatrici, perché vengono considerate semplici “accompagnatrici” dei mariti e “aiutanti” dei pescatori, quindi escluse dagli scarsi sussidi previsti per le aree depresse». Il Ceará è uno degli stati brasiliani dove è più radicata la cultura machista, «un modo di pensare che non è peculiare del maschio, ma impregna anche le donne, minando alla radice la loro autostima e la fiducia nelle proprie possibilità». Resta allora fondamentale intervenire con la (in)formazione, che permette di de-costruire i modi di essere dominanti e costruirne di nuovi. «Ma soprattutto all’inizio è stata dura mettere queste donne intorno a un tavolo per ragionare insieme sulla loro condizione e sulle alternative possibili. Gli uomini non volevano che partecipassero agli incontri e li sabotavano. Una donna ci ha raccontato che, quando il marito usciva di casa, la legava per i capelli al soffitto per impedirle di allontanarsi. Adesso, grazie al nostro lavoro di sensibilizzazione, alcuni uomini hanno iniziato ad aprirsi e spingono le mogli, che non si sentono all’altezza, a frequentare il centro».

Pescatori su un laghetto nei dintorni di Crateús

La salvezza è donna

Come ci spiega Erbenia, il lavoro di empowerment delle donne si ricollega a una lettura della Bibbia in chiave «femminista» (vedi box) ispirata alle posizioni del Centro Ecumenico di Studi Biblici, in particolare alla teologia del Pés no chão, piedi per terra, che trae spunto dai lavori di Leonardo Boff e Ivone Gebara. Attraverso alcune figure chiave dell’Antico e del Nuovo Testamento – le ostetriche che disubbidiscono all’ordine di uccidere i neonati maschi; la sorella di Mosè che guida il passaggio dalla schiavitù d’Egitto alla terra promessa; Elisabetta che genera vita anche in tarda età; Maria che spinge Gesù al primo miracolo di Canaan – emerge il ruolo fondamentale della donna nella storia della salvezza. «L’atteggiamento di Gesù è sempre stato quello di domandare, piuttosto che insegnare. Sono state le donne da lui incontrate che, in vari modi, gli hanno mostrato come approcciarsi alla realtà, mettendo al centro la persona e il valore della vita». Una prospettiva non banale, in una cultura come quella brasiliana permeata di maschilismo e misoginia.

La teologia della liberazione e le pratiche sociali a essa connesse non sempre hanno incontrato i favori del Vaticano. Gli stessi vescovi brasiliani in passato si sono spesso schierati contro di essa. Ma oggi le cose stanno cambiando e nuove speranze per l’umanità, ci dice Erbenia, provengono dall’attuale pontefice che ha rappresentato una svolta rispetto al conservatorismo dei suoi predecessori: «Al di là delle dichiarazioni e degli scritti, è soprattutto il suo atteggiamento umano che stimola al cambiamento reale, nel segno di una Chiesa aperta dove il Verbo si fa carne». E del resto, conclude la suora con un sorriso, «non è un caso se papa Francesco ha vissuto molto tempo in America Latina».

Stefania Garini

suor Francisca Erbenia de Sousa su uno dei laghetti attorno a Crateús


La filosofia del Bem Viver

Anche oggi si può essere felici

Prendersi cura di chi si prende cura, occupandosi della terra e proteggendo la biodiversità. Non è possibile stare bene senza una dimensione comunitaria, senza un legame con l’ambiente.

«In Brasile siamo figli e figlie di un ventre violato, siamo discendenti di indigeni, africani, europei; un incrocio di popoli nato dalla violenza della colonizzazione». A questa violenza originaria, dice suor Francisca Erbenia de Sousa, responsabile della Caritas diocesana di Crateús, risale la dicotomia che permea la storia recente del Brasile, tra avere ed essere: «Abbiamo ereditato una malattia dello spirito, pensando di poterci realizzare solo se “abbiamo”. Siamo impregnati di consumismo e siamo schiavi di questo modello, schiavi dei cellulari, dei vestiti, pronti a tutto per ottenerli: a indebitarci, a rubare, a compiere violenze finendo ai margini della società. “Abbiamo”, ma siamo infelici, il nostro è tra i paesi con il più alto tasso di suicidi al mondo, soprattutto di giovani». Per superare questo modello distruttivo, molte iniziative della Caritas di Crateús si ispirano al concetto del Bem viver.

Sviluppato da Euclides André Mances, fondatore dell’Istituto di Filosofia della liberazione, il Bem viver «consiste nell’esercizio umano di disporre dei mezzi materiali, politici, educativi e informativi per soddisfare eticamente le necessità biologiche e culturali di ciascuno, ma anche per garantire eticamente la realizzazione di tutto quanto possa essere concepito e desiderato per la libertà personale senza negare la libertà pubblica». In opposizione all’appropriazione di conoscenze, ricchezze e accumulo – con lo scopo più o meno consapevole di dominare (l’altro, il tempo, la natura…) – il Bem viver si prende cura della Madre Terra e dei suoi ritmi: «Proteggo, coltivo e mi prendo cura di un ambiente dove la vita ha le proprie leggi e il proprio tempo», nota Erbenia. In questa prospettiva una dimensione importante è quella del cuidade curanderos, il «prendersi cura di chi si prende cura», ad esempio avendo riguardo per la terra, rispettandone la biodiversità, evitando di avvelenarla con pesticidi, prendendo da essa il necessario per vivere e non di più. Questo atteggiamento di curatori e protettori del Creato ci rende a immagine e somiglianza di Dio, ed è il percorso – indicato anche da papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ – che ci permette di superare il cancro del consumismo».

Esiste un forte legame tra il Bem viver di ciascuno e quello di tutti, in una prospettiva di promozione della libertà che si muove su un piano insieme concreto e utopico, e si riconnette alle parole di Gesù: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 1-21). Come spiega suor Erbenia, «stare bene non può essere un fatto solo personale: non è possibile stare bene senza la dimensione comunitaria e senza un legame con la terra, senza che stiano bene la natura e chi la abita. È qualcosa che a Crateùs cerchiamo di realizzare anche simbolicamente attraverso la ciranda, una danza che si fa tutti assieme, in cerchio, cercando ognuno di rispettare i passi dell’altro e lasciando il giusto spazio per ciascuno. Il nostro sogno è espandere questo girotondo, per allargare il cerchio delle possibilità a sempre più persone e costruire una diversa realtà».

S.G.


La lettura femminista della Bibbia

Chi decide la storia

Le figure femminili nell’Antico e nel Nuovo Testamento hanno spesso un ruolo pedagogico e salvifico. Queste figure sono fondamentali per la vita.

Il Centro ecumenico di studi biblici segue una corrente della teologia della liberazione che valorizza il ruolo spirituale e salvifico della donna. Come spiega suor Francisca Erbenia de Sousa, si possono leggere in tal senso alcune figure femminili della Bibbia che «pur restando spesso senza nome, hanno avuto un ruolo pedagogico rispetto ai protagonisti maschili della storia della salvezza». Come le ostetriche egizie del libro dell’Esodo che, rifiutandosi di ubbidire al re e uccidere i neonati maschi ebrei, riescono a salvarli evitando uno scontro diretto contro il potere e ricorrendo a un abile stratagemma, dichiarando di non esser arrivate in tempo perché le madri avevano partorito troppo in fretta: «Le donne ebree non sono come le egiziane, sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito» (Es 1, 8-22). O come Miriam, la sorella di Mosè, che ha un ruolo significativo e guida le donne israelite nella danza e nei canti per festeggiare la liberazione dalla schiavitù quando le acque del Mar Rosso si chiudono sulle truppe egiziane (Es 15, 20-21). «Episodi come questi mostrano che chi decide la storia sono le figure femminili, che aiutano la vita: a nascere, a crescere, a sfuggire ai pericoli».

Emblematico è poi l’incontro tra Maria ed Elisabetta, che segna il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento (Lc 1, 39-45). «Elisabetta esprime la saggezza della donna che genera vita pur essendo avanti con gli anni, e accoglie una donna più giovane di lei in cui inizia ad affacciarsi la vita. È Maria qui a essere “accolta”, perché è in fuga dopo la scoperta di essere rimasta incinta. Le due donne rappresentano un Dio che si rivela tanto nella gioventù come nella vecchiaia». Analogamente, Giovanni Battista e Gesù rappresentano due modelli di umanità: il primo ha una relazione forte con la natura, vive nel e del deserto, per disintossicarsi dalle convenzioni sociali; Gesù invece ha una particolare sensibilità verso gli esseri umani, è più «prossimo» alle persone, più accogliente.

Nel Nuovo Testamento la Madonna spinge il figlio, ancora riluttante, a compiere il suo primo miracolo, insegnandogli che «bisogna agire quando è necessario» (Gv 2, 1-11). Mentre l’emorroissa che si fa strada tra la folla per toccargli un lembo del mantello gli insegna che la legge dev’essere al servizio della vita, e non viceversa (Lc 8, 40-48). «L’emorroissa è una donna impura per le perdite di sangue, non può avere contatti fisici con le altre persone, e il fatto di farsi strada in mezzo a molta gente la pone a rischio della sua stessa vita; ma il dolore e le discriminazioni le hanno insegnato ad alzare la testa, e Gesù non rimane insensibile a queste sofferenze».

Infine l’episodio dell’adultera che, in base alle leggi vigenti, deve essere lapidata (Gv 8, 1-11). «L’aspetto interessante qui è il gesto di Gesù che si china per terra, come a condividere con il suo corpo il movimento verso il basso, assumendo la sofferenza della donna e dando la propria vita in sua difesa. In questo modo è lasciata agli accusatori la responsabilità della decisione, mentre all’adultera – e a Gesù – non resta che riprendere in mano la propria vita».

S.G.

suor Francisca Erbenia de Sousa a Crateús