Bielorussia. Lukashenko: ieri, oggi e domani

È al potere dal 1994 e pochi giorni fa ha annunciato che l’anno prossimo si presenterà per ottenere il settimo mandato consecutivo. Insomma, ad Alexander Lukashenko non bastano 30 anni di potere assoluto: ne vuole altri cinque. È il dittatore più longevo d’Europa, precedendo l’alleato e sodale Vladimir Putin, fermo a quota 24.

Dal febbraio 2022 la Bielorussia – paese con 9,5 milioni di abitanti – ospita sul proprio territorio truppe russe impegnate nella guerra d’aggressione contro l’Ucraina. Si parla – inoltre – anche di una sua collaborazione nella deportazione illegale di bambini dalle città ucraine occupate dalla Russia.

Nel frattempo, domenica 25 febbraio si è tenuta una tornata di «elezioni» per i 110 seggi della camera bassa e per i consigli locali. Non c’erano candidati dell’opposizione né sono stati ammessi osservatori dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Dal suo esilio lituano, Sviatlana Tsikhanouskay (moglie di Sergei, politico e attivista bielorusso condannato a 18 anni di carcere), leader dell’opposizione, aveva chiamato al boicottaggio, memore di quanto avvenuto nell’agosto 2020.

Sviatlana Tsikhanouskay, probabile vincitrice delle elezioni presidenziali del 2020, si è rifugiata in Lituania. (Foto eroparl.europa.eu)

In quell’occasione c’erano state grandi (e inusuali per il Paese) manifestazioni di protesta dopo che i dati ufficiali avevano attribuito la vittoria a Lukashenko con l’80 per cento dei voti. Le opposizioni avevano accusato il governo di aver scippato la vittoria a Svetlana Tikhanovskaja, poi costretta a rifugiarsi nella vicina Lituania.

In questi ultimi anni Lukashenko ha messo di nuovo mano alla Costituzione e varato nuove leggi per consolidare il proprio potere, garantirsi l’immunità da eventuali accuse e limitare la possibilità di candidarsi per gli oppositori. Intanto, è continuata la repressione interna. In carcere è finito anche Ales Bialiatski, premio Nobel per la pace 2022 (assieme all’organizzazione russa Memorial e all’ucraina Ccl), fondatore e presidente del «Centro per i diritti umani Viasna», organizzazione di Minsk che, dal 1996, fornisce aiuto e assistenza ai prigionieri politici e alle loro famiglie.

Con la sua unica avversaria politica in esilio, gli oppositori interni in carcere (sono 1.413 persone, secondo Viasna) e il grande sponsor saldamente al potere a Mosca, Alexander Lukashenko può dormire sonni tranquilli.

Paolo Moiola




Contro la tratta di persone

Si è tenuta ieri, 8 febbraio, la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone, alla sua decima edizione dopo essere stata indetta da Papa Francesco nel 2015.

«Aleksandr proveniva da una città dell’Europa orientale – viene raccontato nel Global Report on Trafficking in Persons 2022, pubblicato dall’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime, l’ufficio Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) -. La morte della moglie, il suo recente rilascio dal carcere e la disoccupazione lo avevano spinto a recarsi nella capitale in cerca di lavoro. È stato avvicinato da un uomo in una stazione ferroviaria, dopo che gli erano stati rubati i documenti e il denaro. L’uomo gli ha offerto un pasto e ha ascoltato la sua storia. Dopo aver mangiato, Aleksandr si è sentito disorientato, e si è accorto che nel suo cibo erano stati messi dei sedativi. È stato trasportato, privo di sensi, in auto in una regione lontana con altri tre cui era stato promesso un lavoro. I trafficanti ricevono per ogni persona trafficata circa 200-250 dollari Usa.
All’arrivo, ad Aleksandr è stato detto che doveva pagare il reclutatore per il trasporto e, non avendo soldi, la sua unica opzione era lavorare. Dopo un mese senza paga, gli è stato detto che aveva accumulato altro debito per il cibo e le sigarette.
Aleksandr non è mai riuscito a saldare il suo debito ed è stato sfruttato per cinque anni durante i quali ha tentato di scappare diverse volte senza successo ed è stato rivenduto diverse volte per svolgere varie forme di lavoro forzato, dalla produzione di mattoni alla cura del bestiame. Ha lavorato per turni di 16 ore, vivendo in pessime condizioni, subendo violenze, privazione del sonno e malnutrizione.
Durante la sua ultima fuga, ha evitato le strade grandi e si è spostato di notte. Una notte è scivolato in uno stagno procurandosi un grave infortunio alle gambe. È strisciato fino a una stazione, dove alcuni sconosciuti hanno chiamato un’ambulanza. Entrambe le sue gambe gli sono state amputate. Una Ong lo ha aiutato a tornare a casa, ma non è sopravvissuto alle complicazioni post-operatorie ed è morto poco dopo».

I dati della tratta

Secondo gli ultimi dati disponibili, le vittime accertate di traffico di esseri umani a livello mondiale nel 2020 sono state 53.800 in 141 paesi. Un dato che mostra solo la punta di un iceberg che coinvolge diversi milioni di persone: il Global Report on Trafficking in Persons 2022 conta, infatti, solo i casi accertati e registrati di un fenomeno difficile da quantificare (le stime dell’Organizzazione mondiale del lavoro, ad esempio, contano circa 50 milioni le persone ridotte in stato di schiavitù nel mondo).

Per quanto possano essere limitati, i dati diffusi dall’Unodc offrono comunque un quadro che aiuta a capire il fenomeno: delle vittime registrate, il 42% erano donne, il 23% uomini, il 18% ragazze e bambine, il 17% ragazzi e bambini. I motivi del loro essere trafficati sono stati soprattutto il lavoro forzato (38,8%), lo sfruttamento sessuale (il 38,7%) e le attività criminali forzate (il 10,2%). Tra le altre forme di sfruttamento, anche i matrimoni forzati (0,9%), l’accattonaggio (0,7%), le adozioni illegali (0,3%) e la rimozione di organi (0,2%).
I trafficanti prendono di mira i più vulnerabili: donne, bambini e uomini privi di opportunità, protezione sociale e altro sostegno, coloro che, in ogni parte del mondo, fuggono da conflitti o disastri ambientali. Lo sfruttamento può avvenire nel paese d’origine della vittima, durante la migrazione o in un paese straniero.
Secondo il report, le ragazze e le donne hanno una probabilità di subire violenze, anche estreme, tre volte superiore rispetto ai ragazzi e agli uomini; i bambini in generale hanno il doppio delle probabilità di subire violenza rispetto agli adulti.

Le giornate internazionali

La tratta di esseri umani è stata definita nel 2000 nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale organizzato, nel Protocollo addizionale sulla tratta: «La “tratta di persone” indica il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o l’accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità, dando oppure ricevendo somme di denaro o benefici al fine di ottenere il consenso di un soggetto che ha il controllo su un’altra persona, per fini di sfruttamento. Per sfruttamento si intende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, lavoro o servizi forzati, la schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, l’asservimento o l’espianto di organi».
Mentre la giornata internazionale contro la tratta, istituita dall’Onu nel 2013, si celebra il 30 luglio, la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone è stata istituita da papa Francesco nel 2015, e si celebra l’8 febbraio, memoria liturgica di santa Giuseppina Bakhita, la suora, nata in Sudan nel 1869 e morta in provincia di Vicenza nel 1947, che aveva vissuto da vittima l’esperienza della tratta.
Nell’ultimo Angelus del 4 febbraio scorso, papa Francesco ha detto: «Anche oggi tanti fratelli e sorelle vengono ingannati con false promesse e poi sottoposti a sfruttamenti e abusi. Uniamoci tutti per contrastare il drammatico fenomeno globale della tratta di persone umane».

Luca Lorusso

Sul tema Tratta, rimandiamo anche a:




Sahel. Le mosse dei golpisti (e della Russia)

Lo scorso 28 gennaio, le televisioni di Mali, Burkina Faso e Niger hanno trasmesso simultaneamente una dichiarazione congiunta con la quale i leader militari dei tre Paesi – saliti al potere tra il 2021 e il 2023 grazie a colpi di stato – hanno annunciato l’intenzione di abbandonare la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao/ Ecowas). I tre Paesi hanno giustificato la decisione sostenendo che l’organizzazione fosse ormai uno strumento nelle mani dell’Occidente e avesse tradito gli ideali dei padri fondatori e lo spirito del panafricanismo.

La Cedeao
La Cedeao è stata fondata nel 1975 con l’obiettivo di rafforzare la cooperazione economica tra i quindici Stati membri. Successivamente, di fronte alla diffusa instabilità nella regione a causa di conflitti e tensioni politiche, le sue prerogative sono state ampliate. Tra i suoi obiettivi sono stati inclusi il mantenimento di pace e sicurezza e le è stata attribuita la possibilità di dispiegare forze militari.
Nel 2001, la Cedeao ha adottato il Protocollo supplementare su democrazia e buon governo, un documento che sancisce i principi democratici che i Paesi membri devono rispettare. Su tutti, il non coinvolgimento dei militari nella vita politica e il rispetto dei limiti costituzionali dei mandati presidenziali.
Tuttavia, l’atteggiamento della Cedeao di fronte alle numerose crisi dell’Africa occidentale è stato ambivalente. In alcuni casi, ha mobilitato le sue forze militari, intervenendo militarmente per ripristinare la pace e la sicurezza (come durante le guerre civili in Liberia e Sierra Leone). In altri casi, non si è opposta a evidenti violazioni della democrazia, come nel 2020 in Guinea in occasione della contestata terza rielezione di Alpha Condé.

L’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger
La decisione di Mali, Burkina Faso e Niger di lasciare la Cedeao non giunge inaspettata. Da quando i militari hanno preso il potere accusando i governi civili di essere incapaci di contrastare l’insicurezza causata dalla diffusione del jihadismo, si è assistito a un crescendo di tensioni tra i tre regimi e l’organizzazione.
Di fronte al timore di un’ulteriore diffusione dei colpi di stato in Africa occidentale, la Cedeao ha reagito chiedendo il rispetto dei principi democratici. Se nel caso dei golpe a Bamako e Ouagadougou, l’organizzazione aveva imposto sanzioni e sospeso i Paesi, dopo quello a Niamey (luglio 2023), ha minacciato l’intervento militare. Accusando la Cedeao di essere uno strumento nelle mani dell’Occidente, Mali e Burkina Faso hanno annunciato il loro supporto al Niger e dichiarato che un’azione dell’organizzazione sul suolo nigerino sarebbe stata un attacco anche nei loro confronti.
Dunque, si è acuita la frattura con i tre Paesi golpisti che, a settembre 2023, hanno annunciato la creazione di un loro blocco militare, politico ed economico – l’Alleanza degli Stati del Sahel (Aes) – prima di dichiarare anche l’intenzione di uscire dalla Cedeao. Una dimostrazione dell’esistenza di profonde fratture all’interno dell’organizzazione e dell’apertura di spazi per lo sviluppo di nuovi schemi di alleanza che guardano ad altri partner come la Russia.

Le debolezze della CedeaoLa nascita dell’Aes e l’annuncio dell’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger dalla Cedeao mostrano la debolezza politica e militare del blocco dell’Africa occidentale, spesso incapace di agire per assicurare la stabilità della regione.
Dal 2012, con la diffusione del jihadismo, si è registrato il fallimento della maggior parte delle missioni occidentali di contrasto al terrorismo e la Cedeao stessa non è riuscita a garantire pace, sicurezza e democrazia nell’area. Ha così contribuito a creare terreno fertile per i colpi di stato in Mali, Burkina Faso e Niger e a spingere questi regimi verso nuovi alleati come i mercenari Wagner.

C’è spesso la percezione che l’organizzazione – che non dispone di strutture finanziarie e militari indipendenti – non abbia una reale strategia unitaria, ma prenda o meno posizione a seconda degli interessi e della volontà di coinvolgimento dei Paesi leader (in particolare, la Nigeria).
Perché l’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger dalla Cedeao diventi effettiva è necessario un anno, ma intanto la loro decisione è un altro duro colpo a un’organizzazione sempre più fragile e dimostra quanto la Cedeao sia in difficoltà.

Aurora Guainazzi




Burkina Faso. Le stragi della giunta

 

«L’esercito del Burkina Faso ha utilizzato armi sofisticate e di precisione per sparare su assembramenti di civili. Tra agosto e novembre scorsi, in tre raid eseguiti da droni forniti dalla Turchia, sono stati attaccati due mercati e un funerale, con il risultato di oltre 60 civili morti e decine di feriti». La denuncia, ben documentata e verificata è di Human rights watch (Hrw), l’organizzazione per la difesa dei diritti umani con base a New York.

Con un rapporto uscito il 25 gennaio, Hrw descrive i particolari di questi eventi, accaduti il 3 agosto a Bouro (attacco al mercato settimanale di zona frequentato da centinaia di persone), il 21 settembre a Bidi (missili su un funerale) e il 18 novembre nei pressi di Boulkuessi, villaggio del Mali vicino alla frontiera del Burkina (mercato di zona). Hrw ha condotto inchieste basandosi su testimonianze di persone presenti, foto e video inviati dai siti degli attacchi, foto satellitari. I testimoni raccontano di decine di corpi straziati dopo la caduta dei missili. Queste aree, tutte nel Nord del Paese, sono controllate da gruppi armati jihadisti del Gsim (Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani), legato ad Al Qaeda, i cui uomini si spostano normalmente in moto. Alcuni di loro erano presenti nei mercati, e hanno poi organizzato i primi soccorsi.

Hrw insiste sul fatto che: «L’uso di droni con bombe ad alta precisione a guida laser, fa pensare che i due mercati e il funerale fossero gli obiettivi prescelti».

Quindi: «Gli attacchi […] hanno violato le leggi di guerra che proibiscono operazioni che non fanno distinzione tra obiettivi civili e militari, e costituiscono dei crimini di guerra apparenti». L’organizzazione chiede quindi al governo del Burkina Faso di operare inchieste indipendenti, imparziali e trasparenti per ognuno dei casi, portare in tribunale i responsabili e indennizzare le vittime.

La propaganda della giunta militare, sui media controllati, descrive questi eventi, come attacchi con i droni a forze jihadiste, senza alcuna menzione alle vittime civili.

Una guerra che continua

Il governo putschista di Ibrahim Traoré è al potere dal 30 settembre 2022, in seguito a un golpe ai danni della precedente giunta militare, al potere dal 24 gennaio dello stesso anno.

La guerra in corso in Burkina Faso tra esercito e gruppi armati è iniziata nel 2016 dopo i primi attacchi dei miliziani jihadisti. Nell’ultimo periodo Hrw ha documentato gravi abusi perpetrati dalle forze di sicurezza e dalle milizie pro governative. Si tratta di esecuzioni sommarie, tortura e sparizioni forzate. I gruppi islamisti sono pure responsabili di distruzioni, saccheggi, esecuzioni e rapimenti. Secondo l’Africa Center for strategic studies, la violenza e l’instabilità sono aumentate dopo i due colpi di stato del 2022.

All’inizio, la narrazione antifrancese e anticolonialista in generale, aveva fatto accogliere favorevolmente il golpe da larghe fasce di popolazione, soprattutto giovane.

Sparizioni politiche

Oggi, rapimenti di uomini politici, alti graduati dell’esercito o di chiunque abbia espresso dissenso nei confronti della giunta guidata da Ibrahim Traoré, sono all’ordine del giorno.

L’ultimo, in ordine di tempo, è avvenuto la sera del 24 gennaio, quando l’avvocato Guy Hervé Kam (già portavoce del gruppo Le balais citoyen e attuale coordinatore del movimento politico Sens), è stato fermato e fatto sparire da uomini senza identificazioni, al suo arrivo all’aeroporto di Ouagadougou. L’avvocato Kam aveva criticato, in una intervista al quotidiano burkinabè Le Pays, la mancanza di legalità nel paese.

Il presidente dell’Ordine degli avvocati, dopo una rapida indagine, ha scoperto che Kam è detenuto nei locali della polizia della capitale. Ha quindi protestato tramite un comunicato ufficiale, mentre una petizione per la liberazione dell’attivista è stata lanciata.

Un cittadino burkinabè ci ha dato la sua visione sulla situazione attuale: «Tutti vivono nella paura. Ma potrebbe finire male, ovvero del sangue potrebbe scorrere. La popolazione inizia a essere esausta e vuole liberarsi. Non si può più dire nulla. Ad esempio sul costo della vita: tutto aumenta senza ragione ma il primo ministro proibisce che lo si dica. Stiamo anche contribuendo allo sforzo di guerra: a tutti è prelevato l’1% del salario, a partire dal primo gennaio».

Oltre a questo, il 28 gennaio, i governi di Burkina Faso, Mali e Niger hanno dichiarato di uscire dall’organizzazione economica regionale, la Cedeao, il che comporterà problematiche di tipo doganale, di transito di merci e persone. Per questo, per tre paesi, senza sbocco sul mare, che si devono appoggiare ai paesi costieri per qualsiasi tipo di commercio, la decisione potrebbe avere un effetto boomerang.

Marco Bello




Carceri Italia. Tre metri quadrati a testa

 

Inasprire le pene è utile per i consensi elettorali ma inutile per migliorare la convivenza civile. Intanto i carcerati vivono sempre peggio.

Da mesi l’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuovi reati sembra essere diventata la principale risposta (inutile) dello Stato alle «emergenze» sulle quali si focalizza periodicamente la cronaca nazionale: dalla violenza di genere alle gang giovanili, dalle proteste ambientaliste alle rivolte nelle carceri, e così via.

Il populismo penale produce consensi elettorali, ma non aiuta a risolvere i problemi. E ha tra le sue conseguenze la violazione sempre più frequente dei diritti delle persone incarcerate. Queste aumentano di numero senza vedere aumentare gli spazi e migliorare la qualità della vita dietro le sbarre.

Due dati possono dare un’idea delle condizioni disumane nelle quali vivono molti detenuti (e, spesso, anche il personale che nei penitenziari lavora): la densità di popolazione ristretta e il numero di suicidi.

 

Al 31 dicembre 2023, secondo i dati del ministero della Giustizia, la popolazione carceraria era di 60.166 persone. L’associazione Antigone, che si occupa dei diritti delle persone in carcere, indica in un suo breve report che la capienza complessiva effettiva del sistema carcerario è di circa 48mila posti, e sottolinea il fatto che i detenuti abbiano in media meno di 3 metri quadrati a testa a disposizione nelle proprie celle.

Tra le carceri visitate dall’associazione ve ne sono alcune che ospitano il doppio dei detenuti rispetto alla capienza della struttura: a Brescia il 200%, a Foggia il 190%, a Como il 186%, solo per fare alcuni esempi. Questo significa che in uno spazio per due persone vivono in quattro. Celle nelle quali manca troppo spesso il riscaldamento (9% delle strutture monitorate da Antigone), l’acqua calda e la doccia (52,2%), uno spazio separato per il wc (4,5%).

 

Il secondo dato da sottolineare è quello relativo ai suicidi. Nel 2023 si sono tolte la vita in carcere 68 persone. L’età media era di 40 anni. Quindici tra loro non ne aveva più di 30 (questi e altri dati sono consultabili al questo link).

Se consultiamo il sito del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, troviamo maggiori dettagli, benché gli ultimi dati si riferiscano al 2022: su una popolazione carceraria che in quell’anno contava 55mila detenuti, se n’erano suicidati 85. L’età media era di 40 anni. I più giovani avevano 21 anni. Il più anziano 83. Trentasei erano stranieri, 20 dei quali senza fissa dimora. Fa riflettere il dato riguardante gli stranieri: essi rappresentano il 31,4% della popolazione carceraria, ma il 42% dei suicidi.

In generale è impressionante il confronto tra il numero di suicidi riferito alla popolazione italiana (0,6 ogni 10mila persone) e il numero di quelli riferiti alla popolazione carceraria (15 ogni 10mila nel 2022, 11 ogni 10mila nel 2023: tra le 19 e le 25 volte più frequenti).

Accanto ai dati «grezzi» sui suicidi in carcere, l’Associazione Antigone ne riporta altri che aiutano ulteriormente a comprendere il contesto: «Nel corso del 2023, negli istituti visitati da Antigone, si sono registrati in media ogni 100 detenuti 16,3 atti di autolesionismo, 2,3 tentati suicidi, 2,3 aggressioni ai danni del personale e 4,6 aggressioni ai danni di altre persone detenute». Ci sono state 13 diagnosi psichiatriche gravi ogni cento detenuti, sono stati somministrati farmaci stabilizzatori dell’umore, antipsicotici, antidepressivi a 19,2 detenuti su cento, sedativi e ipnotici a 38,4 su cento.

 

Per dare un volto umano e una storia ad almeno uno dei tanti che per l’opinione pubblica rischiano di rimanere solo numeri, vale la pena riportare alcuni stralci di una lettera datata 9 gennaio 2024, diffusa via newsletter dalla rivista «Ristretti orizzonti», scritta da Manuela Mezzacasa, una professoressa volontaria al carcere Due Palazzi di Padova, sul suicidio di un suo ex studente ventiseienne detenuto da pochi mesi:

L’ultima volta che l’ho intravisto […] camminava mestamente davanti a me nel corridoio con un agente […]. L’avevo riconosciuto dalla camminata e dalla figura, piuttosto massiccia.
In biblioteca invece mi avevano colpito lo sguardo e il modo di muoversi […]. Prof, ma aveva i capelli lunghi e biondi…. Già, e lui era un ragazzino molto speciale.

Ci era capitato tra capo e collo all’inizio dell’anno […]. Mai frequentato regolarmente la scuola […]. È stato mio alunno per due anni, prima e seconda media, alla fine ce l’avevamo quasi fatta. […]. Poi l’abbiamo bocciato, devo dire così perché il voto è di maggioranza, ma ovviamente non ero d’accordo.
Così l’anno dopo lui aveva perso i compagni, che nel frattempo gli si erano affezionati, e gran parte degli insegnanti. […].
Spesso mi aveva parlato di sé e della sua famiglia, veniva da Chioggia, suo padre pescatore. […] Il suo mondo erano il mare e un cantiere di sfasciacarrozze dove passava le giornate con una banda di ragazzini, invece di andare a scuola. Lui sapeva più di me, senza dubbio. Scriveva bene, era sveglio, curioso, buono, si può dire?
Ho conosciuto la madre e il padre, gli volevano bene, non ce la facevano a stargli dietro, non ricordo quanti figli avessero. […] Mi diceva “Non vedo l’ora di avere diciotto anni” “E cosa farai?” Rideva “Torno a Chioggia”.

[…] Ecco, in mezzo ai libri ci siamo ritrovati […]. Abbiamo parlato, dei suoi progetti, la musica, la scrittura. Il secondo giovedì si interessò al concorso di poesia che stava per scadere; con la collaborazione di Enrico riuscimmo a spedire per il rotto della cuffia una poesia dedicata a una ragazza. […]. Il terzo giovedì mi portò tre fogli scritti a mano, con riflessioni filosofiche […].

Non l’ho più rivisto».

Luca Lorusso




La Cina è latina


Sono molti i paesi latinoamericani che firmano accordi commerciali con la Cina. La «Belt and road initiative» dà la possibilità al gigante asiatico di intensificare gli investimenti. Le aziende tecnologiche cinesi sono sempre più presenti nel continente, il che diventa un’influenza geopolitica. Cosa che non piace agli Usa, storicamente «padroni» di quel territorio.

La «trade war» con gli Stati Uniti, la corsa ai materiali critici, ma anche la necessità di trovare nuove opportunità di investimento e assoldare ulteriori partner per portare avanti la riforma dellʼordine mondiale: la Cina ha molte buone motivazioni per guardare allʼAmerica Latina. E i numeri confermano come lʼinteresse sia già tangibile. Complice il clamoroso ritardo di un Occidente restio a concretizzare le annose mezze promesse. Ad esempio, Guillermo Lasso, presidente uscente dell’Ecuador, liberale e con un passato da dirigente alla Coca Cola, il 15 maggio ha siglato un accordo di libero scambio con Pechino. Non è il solo da quelle parti a rivolgere lo sguardo a Oriente. Cile, Costa Rica, Perù, Paraguay, Uruguay e Honduras hanno già firmato trattati analoghi o si apprestano a farlo.

Mentre gli Stati Uniti, potenza regionale, frenano lʼespansione dei commerci citando il mancato rispetto dei diritti umani, la Cina – con circa 500 miliardi di dollari di interscambio – è ormai il secondo partner commerciale per tutta lʼAmerica Latina dopo Washington. Nel Sud America è già il primo. Soia, grano, mais, cotone, tabacco e carne bovina: sono alcuni dei 106 prodotti statunitensi a cui Pechino nel 2018 ha applicato tariffe rialzate fino al 25% per rappresaglia contro i dazi imposti da Donald Trump sulla tecnologia cinese. Questi prodotti oggi guidano la lista delle esportazioni dallʼAmerica Latina verso la Repubblica popolare cinese (Rpc). Più merci scambiate vuol dire anche maggiori occasioni per effettuare pagamenti in valuta locale, tanto che recentemente lo yuan, la moneta cinese, ha superato lʼeuro come seconda valuta di riserva estera del Brasile.

La via della seta

Poi ci sono gli investimenti. Oltre venti paesi dellʼAmerica Latina hanno aderito alla Belt and road initiative (Bri), il progetto lanciato da Pechino nel 2013 per costruire reti di trasporto in giro per il mondo. Dal 2005 al 2022 le banche cinesi hanno concesso prestiti ad aziende e governi regionali per oltre 136 miliardi di dollari. Dopo un periodo di assestamento, lʼultimo anno è stato contraddistinto da un ritorno ai finanziamenti su larga scala, con un crescente interesse per le energie rinnovabili anziché per lʼindustria petrolifera. Seguono tecnologia digitale, scienze e tecnologie agrarie, e comunicazioni satellitari: la Cina cementa la propria presenza nel continente e lo fa intercettando abilmente le aspirazioni dei governi in carica.

Gli avvertimenti americani sono serviti a poco: Huawei – bandita (completamente o in parte) dal 5G di una decina di paesi europei -, secondo il Center for latin america and latino studies, avrà verosimilmente accesso alla rete di Colombia, Venezuela, Cile, Argentina e Uruguay. Forse anche del Brasile, dopo lʼuscita di scena del sinoscettico Jair Bolsonaro e lʼelezione a presidente di Lula, che ha personalmente visitato un centro di ricerca Huawei durante un viaggio a Shanghai dello scorso aprile.

(Photo by Luis Barron / Eyepix Group). (Photo by Eyepix/NurPhoto)

Aziende cinesi in America Latina

La regione è sempre più laboratorio per lʼinternazionalizzazione delle aziende tecnologiche cinesi: in Colombia, quella di Didi è stata lʼapp di trasporto più scaricata del 2020, mentre lo scorso luglio il colosso cinese delle auto elettriche Byd ha annunciato che investirà 624 milioni di dollari in Brasile per costruire un nuovo complesso industriale, il suo primo impianto fuori dallʼAsia.

La Cina raccoglie anche quanto lasciato dallʼOccidente. Nella lista figurano dieci progetti idroelettrici in Brasile abbandonati dallʼamericana Duke Energy nel 2016, nonché quote di partecipazione nel colosso del litio cileno Sqm, lasciate due anni più tardi.

«Washington è come la Chiesa cattolica, i cinesi sono come i mormoni»: è il paragone eloquente utilizzato da un ministro degli Esteri latinoamericano, citato dal Financial Times, per descrivere lʼapproccio pragmatico di Pechino in opposizione agli aut aut ideologici degli Stati Uniti, convinti che gli affari vadano subordinati alla difesa dei valori democratici.

La «nuova Africa»

Lʼimpressione è che lʼAmerica Latina stia diventando – insieme al Medio Oriente – la «nuova Africa». Lʼaumento del debito africano, la permeabilità del continente al terrorismo islamico, la corruzione dilagante stanno spingendo la Cina a diversificare i mercati di sbocco per i propri investimenti nonché ad assicurarsi nuovi fornitori di materiali critici. Secondo i dati del Servizio geologico degli Stati Uniti, Bolivia, Argentina e Cile sono i primi tre paesi al mondo per riserve di litio, rispettivamente con 21, 19,3 e 9,6 milioni di tonnellate. Lʼinnalzamento di barriere normative in Namibia e Zimbabwe ha reso più appetibili le miniere sudamericane.

Proprio come in Africa, ora quei contatti economici coltivati nelle ultime decadi diventano paravento per sinergie meno innocue. LʼAmerica Latina sta diventando lo scacchiere di una nuova partita tra grandi potenze che vede la penetrazione cinese assumere connotazioni non più solo economiche, ma anche politiche e militari. È il segno di come la capacità di stringere accordi commerciali, dispensare investimenti e concedere prestiti, abbia contemporaneamente assegnato a Pechino una preziosa leva diplomatica in unʼarea del mondo centrale nel risiko per la leadership globale. Inoltre, trattandosi del «cortile di casa» statunitense ogni vittoria cinese assume un valore simbolico elevatissimo.

President of Brazil Luiz Inacio Lula da Silva (L) and President of China Xi Jinping (R) (Photo by Phill Magakoe / AFP)

Taiwan

Tutto, o quasi, ruota intorno a Taiwan (vedi dossier su questo numero ndr), lʼisola che la Cina rivendica come parte integrante dei propri territori. La maggior parte dei paesi latinoamericani hanno riconosciuto la Repubblica popolare cinese subito dopo il viaggio a Pechino del presidente americano Richard Nixon nel 1972. Da allora il legame ideologico è servito da collante politico in tutti quei paesi storicamente guidati dalla sinistra, come Venezuela, Argentina, Cuba, Bolivia e Messico. Ciononostante, per decenni la regione è rimasta ugualmente una delle più accoglienti per Taipei, alleata degli Stati Uniti fin dalla Guerra fredda.

Una decina di stati latinoamericani ha continuato a tenere fede agli impegni presi negli anni ʼ40, quando – su istruzione dellʼamministrazione Truman – iniziarono a diventare ferventi anticomunisti.

Nel 2016 lʼarrivo al potere a Taiwan dei filo indipendentisti del Partito democratico progressista (Dpp, in inglese) ha spinto Pechino a ostracizzare ancora di più lʼisola, proprio sfruttando il forte ascendente economico. Da allora Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador, Nicaragua e Honduras hanno interrotto rapporti ufficiali con Taiwan per riconoscere la Cina popolare. Alcune isole dei Caraibi, Haiti, Guatemala, Paraguay e Belize sono rimaste le uniche nazioni regionali con cui Taipei intrattiene ancora relazioni diplomatiche. Una fedeltà precaria spesso messa in discussione durante le campagne elettorali, quando promettere lʼarrivo di capitali cinesi torna comodo agli aspiranti presidenti. Dʼaltronde Taipei, sebbene non estranea alla cosiddetta «diplomazia dei dollari», ha presa ormai solo sulle nazioni meno sviluppate dellʼAmerica Latina, mentre i paesi più avanzati, come Panama, da tempo orbitano nella galassia cinese. Tanto che ad agosto il Parlamento centroamericano (istituzione politica per lʼintegrazione regionale, ndr) ha espulso lʼex Formosa come osservatore permanente dopo oltre ventʼanni.

Questione di sicurezza

Inutile dirlo, è una questione che preoccupa anche gli Stati Uniti. Quando El Salvador ha reciso i legami con Taiwan a favore della Repubblica popolare, al Congresso Usa è stata proposta la sospensione degli aiuti al governo di Nayib Bukele come monito per gli altri governi regionali ancora indecisi.

Il fatto è che il crescente affiatamento tra la dirigenza cinese e i leader dellʼAmerica Latina ha risvolti anche in termini di sicurezza. Come sottolinea su Asia Times Evan Ellis del Us army war college strategic studies institute, la Cina gestisce diverse strutture commerciali sparse tra Messico, Bahamas, Panama e nei Caraibi, potenzialmente utilizzabili per la raccolta di informazioni dʼintelligence. È uno degli aspetti più controversi della Belt and Road Initiative, additata dai detrattori.

A giugno il Wall Street Journal ha riacceso i riflettori sulla presenza a Cuba di avamposti utilizzati dal ministero della Sicurezza dello stato cinese ad appena 100 miglia dalle coste della Florida. Non è esattamente una novità: la Cina utilizza lʼisola caraibica per la raccolta di informazioni militari fin dal 1999, quando LʼAvana ha concesso al governo cinese di stabilirsi a Bejucal, città a sud della capitale, in una struttura dove operavano precedentemente i servizi sovietici.  Per stessa ammissione della Casa bianca, nel 2019 Pechino avrebbe provveduto a potenziare la base, non è chiaro se in cambio di nuovi investimenti nel paese o della rinegoziazione dei debiti, annunciata lo scorso novembre. Sempre secondo fonti del quotidiano finanziario (Wsj), la possibile nuova struttura militare fa parte del «Progetto 141», unʼiniziativa con cui la Cina mira a espandere la propria rete di supporto militare e logistico in tutto il mondo.

Mentre la vicinanza geografica agli Stati Uniti rende gli stati latinoamericani degli avamposti troppo vulnerabili per un attacco navale in caso di guerra, la stessa prossimità fisica si rivela invece strategica per portare avanti operazioni di disturbo a livello di comunicazione elettronica. A questo proposito giocano a favore della Repubblica popolare gli accordi commerciali stretti a livello locale dalle big tech cinesi: ad esempio il G5 Huawei (azienda privata ma legata al governo cinese, accusata di spionaggio in vari paesi).

Come sottolinea sempre Ellis, lo scenario bellico più probabile coinvolge proprio Taiwan, definita da Pechino il «rischio più importante» per le relazioni con Washington. Un coinvolgimento degli Usa al fianco di Taipei potrebbe rendere necessario il supporto delle nazioni dellʼAmerica Latina.

(Photo by Ecuadorian presidential palace / XINHUA / Xinhua via AFP)

«Fratellanza Sud-Sud»

Ma lʼinvasione cinese dellʼisola – salvo colpi di scena – non sembra imminente. Più che a imbracciare le armi, nellʼimmediato, il sostegno della regione latinoamericana è teso perlopiù alla promozione di valori e aspirazioni condivise. La chiamano «fratellanza Sud-Sud», è la solidarietà che lega Cina e molti paesi emergenti, accomunati da un passato simile. Nel 1840, centinaia di migliaia di immigrati cinesi furono portati dai colonizzatori portoghesi e americani a Cuba e in Perù per lavorare come schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero o nelle miniere dʼargento. Oggi gli echi di quellʼimperialismo occidentale nel cosiddetto «Sud globale» sono amplificati dal malcontento accumulato negli ultimi decenni a causa della mancata riforma dellʼordine internazionale. Da noi si parla di «revisionismo», ma per molti paesi emergenti lʼarchitettura mondiale è composta da istituzioni ormai obsolete che non rispecchiano adeguatamente i nuovi equilibri economici e geopolitici.

Nuovo ordine mondiale

Prendiamo i Brics, lʼacronimo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Nata nei primi anni Duemila, lʼorga-nizzazione ha acquisito nuovo vigore dopo la guerra in Ucraina e la contestuale rinascita di un terzo blocco di nazioni «non allineate», ovvero non favorevoli allʼinvasione russa, ma critiche nei confronti della Nato. Sono sempre di più i paesi a valutare un ingresso nella piattaforma.

Nel 2022, anticipando lʼadesione dellʼArgentina, il presidente (uscente, ndr) Alberto Fernández ha definito il gruppo «unʼalternativa cooperativa a un ordine mondiale che ha lavorato a beneficio di pochi». Lo stesso vale per il Venezuela. Incontrando a Brasilia lʼomologo Luiz Inacio Lula da Silva alcuni mesi fa, Nicolas Maduro ha affermato che Caracas è pronta a contribuire alla «costruzione della nuova architettura geopolitica mondiale che sta nascendo». Si tratta di un supporto simbolico ma non solo, considerata la vagheggiata intenzione di introdurre una moneta dei Brics in grado di affrancare gli stati membri dal dollaro.

Ecco che, mentre oggi tutti gli occhi sono puntati su Taiwan e le acque agitate dellʼIndo-Pacifico, lʼepicentro della competizione tra Cina e Stati Uniti si sta spostando proprio in America Latina.

Alessandra Colarizi

Nel numero di ottobre abbiamo pubblicato un articolo sulla Russia in America Latina.


La storia infinita del canale del Nicaragua

Doppio canale

Agli inizi del Novecento gli Stati Uniti avevano due opzioni per la costruzione di un canale che mettesse in comunicazione il Pacifico con l’Atlantico: passare per il Nicaragua o attraverso Panama. Il Congresso votò per la seconda opzione. Non solo perché era il percorso più breve, ma anche perché permetteva di aggirare i vari vulcani attivi che costellano l’America Centrale.

Un secolo dopo, con l’aumento del traffico marittimo, l’idea di un’alternativa nicaraguense torna d’attualità. Stavolta sono i cinesi a fiutare l’affare, incoraggiati dalla nascente Bri e dal contestuale interesse economico di Pechino per i mercati emergenti.

Nel giugno 2013, la Hk Nicaragua canal development investment group (Hknd), società registrata a Hong Kong e guidata dall’imprenditore Wang Jing, ottiene una concessione di 50 anni per finanziare e gestire l’opera. Ma nel 2015 il terremoto del mercato azionario cinese compromette fortemente la stabilità finanziaria dell’ex miliardario e del suo impero economico. Tre anni dopo il progetto è praticamente da considerarsi defunto: non solo, nel frattempo la Cina ha ormai spostato molti dei suoi investimenti a Panama.

A seguito di difficoltà finanziarie, nel 2018 la Hknd chiude i suoi uffici e sparisce nel nulla. È solo nel novembre 2021 che Wang ricompare con una lettera di congratulazioni per la conferma del presidente Daniel Ortega a un quarto mandato. «Il Gruppo Hknd e io abbiamo fiducia nel progetto del Canale grande», scrive l’affarista quasi a voler esorcizzare le pile di debiti che in patria lo hanno messo nei guai. E non è l’unico: passività e insolvenze da anni rallentano l’espansione della Bri.

C’è chi ritiene che Managua non abbia mai pensato seriamente di cedere la costruzione del canale ai cinesi. Piuttosto, il governo nicaraguense voleva dimostrare agli Stati Uniti di avere altre valide alternative, spiega alla Bbc la ricercatrice Sarah McCall Harris.

Poco dopo la vittoria elettorale, Ortega ribadisce il messaggio interrompendo le relazioni diplomatiche con Taiwan per allacciare contatti ufficiali con Pechino.

Lo scorso 31 agosto i due paesi annunciano la firma di un trattato di libero scambio che coinvolge pratiche doganali, tariffe, servizi finanziari e accordi ambientali multilaterali. Ma del famigerato canale, oltre la Grande muraglia, non se ne parla più.

A.C.




Iran. Dopo Masha, Armita

Nel Medio Oriente in fiamme per colpa di Hamas e dell’eccesso di difesa da parte del governo israeliano guidato dal Benjamin Netanyahu, agisce anche l’Iran degli ayatollah sciiti.

Sabato 28 ottobre è stata annunciata la morte di Armita Geravand, la ragazza di neppure 17 anni picchiata nella metro di Teheran dalla polizia morale (Gasht-e Ershad) per non indossare lo hijab, il velo islamico. Secondo l’agenzia governativa Irna (the Islamic republic news agency), la ragazza avrebbe invece avuto un mancamento (a causa di un abbassamento della pressione) mentre saliva sulla metro sbattendo a terra la testa.

Alla cerimonia funebre di domenica 29 ottobre, numerosi partecipanti – tra cui Nasrin Sotoudeh, nota avvocata dei diritti umani (già condannata a molti anni di carcere) – sarebbero stati picchiati e arrestati.

La giovanissima Armita Geravand è morta dopo alcune settimane di coma. Le autorità iraniane negano che sia stata picchiata nella metro da agenti della «polizia morale».

La vicenda di Armita ricorda quella di Masha Amini, la giovane curda di 22 anni uccisa in circostanze analoghe il 16 settembre 2022. Da allora le donne iraniane lottano contro il regime oscurantista, maschilista e violento di Ali Khamenei, la «guida suprema» del paese. Protestano sotto lo slogan «Donna, vita, libertà» (Zan, zendegi, azadi). O cantando in lingua farsi Bella ciao, la canzone per eccellenza della resistenza italiana.

Un ritratto di Masha Amini, uccisa dalla «polizia morale» iraniana il 16 settembre 2022. (Immagine da jornada.com)

La protesta è molto costosa in termini personali: si rischia la vita o la prigione. Le ultime a sperimentarlo sono state Nilufar Hamedi e Elaheh Mohammadi, due giornaliste iraniane che, all’epoca, fecero conoscere la tragedia di Masha Amini. Dopo essere state incarcerate, il 22 ottobre (guarda caso proprio nei giorni in cui Armita era in coma in ospedale) sono state condannate a sette e sei anni di carcere. Secondo Iran Human Rights (gruppo con sede a Oslo), nel 2023 in Iran sono state giustiziate – per impiccagione o lapidazione – almeno 589 persone (tra cui 14 donne), molte per l’accusa di moharebeh (in farsi, «fare la guerra a Dio» e, per estensione, all’ordine costituito, cioè alle autorità islamiche al potere), alcune per blasfemia, (ovvero per insulti al profeta Maometto o al Corano).

Ebrahim Raisi, presidente della Repubblica islamica dell’Iran dal 2021. (Foto da irna.ir)

Per capire meglio le connessioni geopolitiche (e giudicare con cognizione di causa), vale la pena di ricordare tre fatti riguardanti la teocrazia sciita. Il primo: da tempo la Cina di Xi Jinping è il primo partner commerciale dell’Iran: nel 2022, il commercio tra i due paesi è cresciuto del 7%, secondo fonti cinesi. Il secondo: lo scorso 26 ottobre, il viceministro degli esteri iraniano Ali Bagheri Kani è volato a Mosca per un incontro con omologhi russi e una delegazione di Hamas. Infine, non va dimenticato che Teheran dovrebbe essere un nuovo membro dei Brics, l’associazione economica di alcuni paesi del Sud alternativa a quella dell’Occidente, un’alternativa guidata dalle dittature di Cina e Russia. Tutti fatti che evidenziano un similia similibus, un’attrazione tra simili.

Paolo Moiola




La rivoluzione pacifica (o quasi)

Da una settimana il Guatemala è in sciopero. Lo sono gli studenti, i docenti universitari, il personale sanitario, i commercianti, i popoli indigeni e, a partire da lunedì 9 ottobre, anche i venditori ambulanti dei mercati comunitari. Le strade e i ponti che conducono al centro di Ciudad de Guatemala sono bloccati così come oltre 50 strade che dalla capitale portano in provincia. A guidare una rivoluzione, che nelle ultime ore ha visto l’inizio di tensioni per le strade, ci sono i popoli indigeni organizzati e in particolare l’organizzazione indigena dei 48 Cantoni del dipartimento di Totonicapán che chiede, a voce e con presenza fisica, le dimissioni della procuratrice generale Consuelo Porras e la destituzione immediata di Rafael Curruchiche, attuale direttore della Fiscalia Especial contra la Impunidad (organo della giustizia che dovrebbe indagare sui crimini di corruzione), e con loro tutti i giudici che hanno contribuito al tentativo di annullare il risultato delle elezioni democratiche dello scorso 28 agosto.

All’indomani della vittoria del candidato di sinistra Bernardo Arévalo, Consuelo Porras, che insieme a Curruchiche è stata segnalata nella lista di persone straniere «impegnate in azioni che minano processi o istituzioni democratiche, in atti di significativa corruzione o di ostruzione delle indagini su di essi» dal Dipartimento di stato degli Stati Uniti, ha ordinato il ricalcolo delle schede e ha accusato il partito vincitore Movimiento Semilla di irregolarità nella raccolta delle firme all’atto di costituzione. Al rifiuto del Tribunale elettorale supremo di eseguire l’ordine, in quanto le elezioni sono state ritenute regolari, Porras ha risposto disponendo l’occupazione dell’istituzione da parte della polizia, di fatto orchestrando un colpo di stato soft, più procedurale che militare ma ugualmente illegittimo, contro il neoeletto presidente Bernardo Arévalo.

Il leader progressista del Movimento Semilla rappresenta infatti una spina nel fianco per l’élite di oligarchica di destra, di cui Porras e Curruchiche sono parte e strumento, che da quattro decenni governa il Paese a suo uso e consumo perpetrando un sistema di disuguaglianza e di povertà in cui vive oltre il 50% della popolazione.

Proprio in quest’ultima settimana in Guatemala si respira un’aria nuova e pare che la voglia di cambiamento che da anni si sentiva ribollire nelle fasce più escluse della società sia matura. Per la prima volta nella storia vede un’alleanza tra la minoranza intellettuale di sinistra blanco mestiza (bianca e meticcia) composta da docenti universitari, studenti e piccoli imprenditori e la maggioranza indigena rappresentata da 22 popoli maya, il popolo Garifuna e Xincá. Sono infatti proprio i popoli originari a guidare la protesta stufi di essere esclusi dalle scelte politiche di un paese che per oltre il 60% è indigeno. Se fino a lunedì le manifestazioni sono state pacifiche, da martedì si è verificata un’escalation di tensione culminata in scontri tra manifestanti e polizia, distruzione di vetri e incendi a esercizi commerciali. Le responsabilità non sono state ancora chiarite, nonostante si vociferi che il gruppo di persone incappucciate che hanno dato inizio ai disordini potrebbero essere degli infiltrati assoldati per minare le manifestazioni pacifiche e far ricadere le responsabilità sui popoli indigeni.

Manifestazione a Città del Guatemala. Scritta: Lotta per la democrazia. Foto di Liliana Villatoro.

Nonostante la violenza che in questo momento ha preso piede in città, i tempi sembrano maturi per un cambio di sistema politico e di giustizia che invece negli anni ha mietuto teste e voci democratiche. Sono oltre 20 gli operatori di giustizia del pool anticorruzione rifugiatisi all’estero per evitare una persecuzione politica e giudiziaria a cui si aggiungono decine di giornalisti che hanno dovuto lasciare il paese per le loro dichiarazioni scomode o sono incarcerate, come il sessantaseienne Chepe Zamora, storico direttore del quotidiano el Periódico che a maggio scorso ha dovuto chiudere i battenti per il collasso economico causato dalla persecuzione politica portata del governo di destra del presidente uscente Alejandro Giammattei, oggetto di numerosi scandali per corruzione.

Migliaia di persone indigene che dormono in giacigli precari per la strada e che ricordano, non a caso, le proteste dei popoli indigeni aymara e quechua del Perù dell’inverno scorso, quando manifestavano per la stessa cosa: il diritto di essere ascoltati e di vivere in uno stato basato su un sistema di giustizia trasparente dove anche le loro istanze siano incluse nel dibattito politico.

Mentre il Guatemala si risveglia dal suo settimo giorno di proteste, Porras ha dichiarato che non si dimetterà. Dall’altra parte migliaia di persone dicono che non lasceranno libere le strade fino alle dimissioni della procuratrice generale.

In questo tira e molla tra democrazia e oligarchia, tra il grido identitario dei popoli indigeni e uno status quo che vorrebbe escluderli, i prossimi giorni saranno decisivi.

Simona Carnino




Confine turco-bulgaro. Violenze e respingimenti

Un report denuncia le violenze sistematiche della polizia di frontiera contro i migranti sul confine bulgaro-turco.

«Hanno camminato per due giorni fino ad arrivare a Drachevo, nei pressi di Sredets (Bulgaria sud orientale a circa 40 km dal confine turco, nda). Poco più avanti […] hanno trovato una macchina della polizia di frontiera bulgara, e sono stati arrestati da due poliziotti in uniforme verde che gli hanno rubato i telefoni e li hanno portati alla centrale di polizia di Sredets.

Alla discesa dall’auto gli hanno tirato pugni in faccia, dopodiché sono stati fatti sdraiare pancia a terra e sono stati presi a calci per un’ora».

Il racconto si riferisce a un episodio avvenuto nel gennaio 2023, raccolto dalla voce di uno dei 24 siriani vittime della violenza e reso pubblico dagli attivisti del Collettivo rotte balcaniche alto vicentino nel report Torchlight. Gettare luce sulla violenta opacità del regime europeo dei confini.

Una volta terminato il pestaggio, prosegue il racconto, la border police ha requisito le scarpe ai migranti e li ha fatti entrare in una gabbia, la stessa ripresa in un video di Lighthouse Report datato 22 dicembre 2022.

«Alla richiesta di un po’ d’acqua da bere, la polizia ha risposto “Zitti! Oppure vi picchiamo!”. Sono stati lasciati dentro a questa gabbia, doloranti, senz’acqua, senza cibo. Ad un certo punto, passate cinque ore, la polizia è arrivata con un altro gruppo di 50 persone. Li ha caricati tutti e 75 su un camion militare per riportarli in Turchia. Prima di arrivare al confine hanno dovuto camminare due ore – ricordiamo che erano scalzi. Arrivati alla rete hanno trovato cinque soldati fermi ad aspettarli, i quali vestivano l’uniforme dell’esercito e i passamontagna neri.

I soldati hanno aperto un varco nella rete e hanno fatto passare le 75 persone una a una, picchiando senza pietà ognuna mentre varcava il confine. Quando sono passati tutti hanno sparato proiettili in aria per spaventarli».

 

Secondo i dati del ministero dell’Interno bulgaro, negli ultimi due anni si è registrato un aumento notevole degli attraversamenti illegali del confine Turchia-Bulgaria: 55mila persone nel 2021 sono diventate 168mila nel 2022 per aumentare ancora nel 2023: quasi 109mila «tentativi di attraversamento illegale fermati» dal 1 gennaio al 7 agosto, di cui 47mila nei soli mesi giugno e luglio.

«Tentativi di attraversamento illegale fermati», si traduce con «respingimenti» e, in particolare, respingimenti violenti, stando a quanto denunciato dal Collettivo rotte balcaniche e da diverse altre organizzazioni, tra cui la nota Human Right watch, e il Bulgarian Helsinki Committee.

La violenza della polizia di frontiera, dice il report, non è una violenza episodica, ma sistematica. Gli attivisti, che promettono la pubblicazione futura di altri rapporti e analisi, hanno infatti avuto modo di condurre ricerche e raccogliere testimonianze sul campo, in particolare tra le città di Harmanli e di Svilengrad, constatando la ripetitività dello schema di respingimento violento raccontato sopra.

Vale la pena scaricare e leggere il report per farsi un’idea più precisa di quello che avviene quotidianamente lungo uno dei confini della fortezza Europa: dopo un primo paragrafo che descrive il contesto bulgaro e un secondo che descrive uno dei centri di detenzione, gli altri due raccontano, anche tramite testimonianze di migranti, i respingimenti sui due confini che separano la Bulgaria dalla Turchia e dalla Serbia.

«Nonostante questo breve scritto si focalizzi sulla situazione bulgara – è scritto nell’introduzione del report -, ci preme sottolineare come le pratiche che qui osserviamo si iscrivano con coerenza e continuità nel disegno europeo “sulla migrazione e l’asilo”: il confine bulgaro-turco rappresenta in questo momento la porta terrestre d’Europa».

I diritti che l’Ue dovrebbe difendere e promuovere vengono violati scientemente e nel silenzio generale dei media. Per questo il Collettivo rotte balcaniche, oltre a «supportare attivamente le persone in transito», raccoglie testimonianze per produrre documentazione sulle violenze della polizia ai confini dell’Europa e per mobilitare la società civile.




Guatemala. Democrazia in affanno


Il paese è andato al voto senza troppe speranze dicambiamento. Le possibili candidature innovative sono state bloccate da cavilli. La stampa è sempre più imbavagliata e il sistema di lotta alla corruzione è stato smantellato. I guatemaltechi sono in fuga da miseria e violenza verso gli Stati Uniti. Eppure, dal primo turno elettorale, è arrivata una sorpresa.

Città del Guatemala. Passeggiare per la capitale del Guatemala nel giugno 2023 non lascia spazio a dubbi. Si è chiaramente in uno Stato alla soglia del suo Election Day. Non è necessario essere appassionati di politica per rendersene conto. A ogni passo ci si imbatte in enormi cartelloni elettorali che rivestono pali della luce, spartitraffico, piazzali e attraversano le superstrade che dalle periferie portano verso il centro. Fotografie di candidati sorridenti e nomi di partiti si ammucchiano uno sull’altro senza un ordine preciso, alle fermate dei bus, di fronte ai mercati e in tutti gli angoli, anche dei quartieri più marginali della città, dove le facce in carne e ossa delle persone raffigurate in quei cartelloni probabilmente non sono mai state. O meglio, si fanno vedere proprio adesso, all’ultima ora, per fare proseliti, cercare voti e convincere a votare anche chi dalla politica si è sempre sentito escluso.

Il 25 giugno 2023 i cittadini del paese più a nord del Centroamerica sono stati chiamati alle urne per eleggere il nuovo presidente. La campagna elettorale, iniziata a marzo, non ha lasciato spazio a grandi novità, anzi è stata il riflesso di un sistema antico e consolidato dove a fare da padrona, in un Paese che al 60% è indigeno, è una ridotta oligarchia bianca di destra, incarnata in grandi proprietari di impresa e veterani di guerra, ancora oggi discendenti direttamente dai coloni spagnoli.

Gli esclusi

Le novità, in teoria, ci sarebbero anche potute essere, ma sono state messe fuorigioco fin dall’inizio. All’appello dei 23 candidati in lizza per le elezioni è mancato la coppia presidenziale formata dal sodalizio tra la leader del Comité de desarrollo campesino (Codeca), di origine maya mam, Thelma Cabrera, e l’ex procuratore per i diritti umani, famoso per la sua lotta contro la corruzione, Jordán Rodas, entrambi candidati per il partito di sinistra Movimiento de liberación de los pueblos (Mlp). Il Tribunale supremo elettorale ha bocciato la candidatura di Rodas e, di conseguenza, anche quella di Cabrera, a causa di un’indagine aperta contro di lui per presunte irregolarità avvenute durante il suo incarico come procuratore, che però non gli era mai stata notificata. Una secchiata d’acqua fredda per i due candidati che ha rappresentato uno stop per Thelma Cabrera che, con il 10,9% dei voti, si era piazzata al quarto posto già nelle precedenti elezioni e, di fatto, avrebbe avuto la possibilità di raggiungere buoni risultati anche in questa tornata. All’esclusione dei due candidati del Mlp, si è affiancato anche quella del candidato di destra Roberto Arzú, figlio dell’ex presidente Alvaro Arzú e, all’ultima ora, del favorito da tutti i sondaggi, il leader de partito Prosperidad ciudadana, Carlos Pineda, per supposte irregolarità avvenute durante l’assemblea del partito.

L’elemento che più colpisce in questa vicenda è il ruolo di «tagliatore di teste» giocato dal Tribunale elettorale supremo che (anche alla conclusione del primo turno, ndr), invece di garantire l’iscrizione dei candidati presidenziali in un contesto democratico, ha abusato del proprio potere per escludere le candidature che sarebbero potute essere d’ostacolo al potere attuale, rappresentato da Alejandro Giammattei, presidente uscente (che non si è potuto ricandidare perché il mandato è unico), conservatore di destra, che da sempre rappresenta gli interessi dell’oligarchia. Human rights watch e numerose organizzazioni internazionali, già a gennaio, avevano espresso inquietudine di fronte alle frodi elettorali, dichiarando che «queste elezioni si sarebbero svolte in un contesto di deterioramento dello stato di diritto, in cui le istituzioni incaricate di monitorare le elezioni hanno poca indipendenza e credibilità. La decisione del Tribunale elettorale supremo del Guatemala di impedire ad alcuni candidati di partecipare alle elezioni presidenziali del 2023 si basa su motivazioni dubbie, mette a rischio i diritti politici e mina la credibilità del processo elettorale».

Chi comanda il paese

Frode, corruzione e fragile democrazia sono parole chiave per comprendere le elezioni in Guatemala dove l’astensionismo rimane sempre il protagonista, attestandosi intorno al 40% (come nel 2019), un dato che riflette lo scoraggiamento e la sensazione che nulla possa cambiare di fronte agli interessi di una élite economica e militare che favorisce senza mezze misure i suoi candidati di punta.

Tra questi ultimi c’è Zury Ríos Sosa, figlia minore dell’ex dittatore del Guatemala Efraín Ríos Montt, condannato nel 2013 a 50 anni di carcere per il crimine di genocidio durante il conflitto armato interno durato 30 anni e conclusosi nel 1996. Sebbene la sentenza sia stata annullata per cavilli burocratici, la Costituzione del Guatemala proibisce ai consanguinei dei dittatori, fino al quarto grado di parentela, di potersi presentare come presidente o vice. Tuttavia, la candidatura della figlia di Ríos Montt è stata accettata, permettendole di presentarsi alle elezioni percorrendo una strada spianata grazie all’esclusione di tre candidati che avrebbero potuto darle filo da torcere.

In pole position dei sondaggi, oltre a Zury Ríos Sosa, c’erano Edmond Mulet, 72 anni, del partito Cabal (Esatto, in italiano), e Sandra Torres, 67 anni, moglie dell’ex presidente Álvaro Colom, e candidata di Unidad nacional de la esperanza (Une).

Entrambi hanno un profilo che, seppure differente, è offuscato da presunti scandali e macchie difficili da cancellare.

La prima dama di Une, sconfitta proprio da Giammattei nelle elezioni precedenti, è stata arrestata nel 2019, poi prosciolta, per il reato di associazione illecita e finanziamento elettorale non registrato del suo stesso partito.

Traffico di adozioni

Edmond Mulet, nonostante abbia sempre respinto le accuse e sia stato assolto in un processo, è legato alle adozioni illegali di minori guatemaltechi avvenute nella decade inclusa tra gli anni Ottanta e Novanta, durante il conflitto armato interno. A partire dal 1977 il Guatemala aprì le porte alle adozioni internazionali e, l’allora avvocato trentenne Mulet, partecipò come legale a una organizzazione che facilitava le pratiche di adozioni per motivi che, lui stesso, ha sempre dichiarato essere umanitari. Proprio in quegli anni le richieste di bambini in adozione da parte di Europa, Stati Uniti e Canada aumentarono a dismisura e si creò una redditizia rete di traffico. Migliaia di bambini, dati in adozione e dichiarati in stato di abbandono, in realtà venivano prelevati dalle comunità distrutte dal conflitto armato, rapiti nelle strade e nei parchi, o direttamente dagli ospedali, in assenza del consenso dei genitori o dietro un misero pagamento che a volte le famiglie più povere si vedevano costrette ad accettare. Molti avvocati coinvolti nelle reti di traffico si occupavano di falsificare documenti, velocizzando le procedure di adozione.

Come riportato dalla Corte interamericana dei diritti umani, in quegli anni il Guatemala si è distinto per essere il terzo paese al mondo per numero di adozioni internazionali, dopo Russia e Cina, realizzate in maniera irregolare «senza un ufficio notarile e senza alcun coinvolgimento degli organi statali». Nel 1981, Mulet è stato arrestato con l’accusa di essere coinvolto nelle reti di traffico e successivamente scagionato dall’organismo giudiziale di competenza «per mancanza di sufficienti motivi per portare il processo alla fase pubblica».

A giugno, il collettivo Aquí Estamos formato da alcuni dei bambini, oggi adulti, adottati tra Canada e Stati Uniti, e tornati in Guatemala per cercare le proprie famiglie biologiche, hanno organizzato una conferenza stampa per denunciare la candidatura a presidente di persone coinvolte con il traffico di bambini, tra cui Mulet, ma anche Zury Ríos Sosa, in quanto figlia del dittatore che, con la violenza scatenata negli anni della guerra, ha distrutto o ridotto in povertà molte famiglie.

Oggi, invece, Mulet è un diplomatico apprezzato all’estero per la sua carriera internazionale come ex ambasciatore del Guatemala negli Stati Uniti e presso l’Unione europea, ex direttore della Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti (Minustah) e sottosegretario generale dell’Onu per le operazioni di pace nel 2007. Il candidato di Cabal, inoltre, è un intellettuale vicino al mondo giornalistico che ha dichiarato, diversamente da altri candidati, l’importanza della libertà di espressione severamente a rischio nel Paese e ha dimostrato vicinanza al pool anticorruzione attivo in Guatemala fino al 2018.

Farsa elettorale

Di fronte a questo panorama politico, il Paese, in buona parte, ha la sensazione che le elezioni siano una farsa, una porta falsamente democratica da cui entrerà in scena un governo autoritario che non farà altro che rappresentare gli interessi delle lobby economiche e militari da sempre al governo. Si ripeterà una gestione arbitraria delle istituzioni, che adatterà la legge alle proprie necessità e colpirà duramente tutti gli oppositori, così come fino a oggi è stato fatto dal presidente Alejandro Giammattei. Due esempi su tutti sono la persecuzione degli operatori di giustizia che, negli scorsi anni, si sono dedicati a sradicare la corruzione nel Paese e, di riflesso, il bavaglio stretto intorno ai giornalisti che si sono distinti per inchieste scomode sul governo.

Il caso Zamora

Caso paradigmatico è quello del processo contro José Rubén Zamora Marroquín, detto Chepe, 66 anni, giornalista riconosciuto a livello nazionale e internazionale per centinaia di inchieste contro la corruzione nel Paese, direttore del secondo quotidiano più diffuso del Guatemala, «El Periódico». Il giornalista, da quasi un anno, è in carcere accusato per riciclaggio di denaro, ricatto e traffico di influenze, nonostante non ci siano prove determinanti della sua colpevolezza.

A metà giugno è stato condannato a sei anni. Il suo giornale ha chiuso i battenti il 15 maggio scorso a causa del collasso finanziario dovuto al sequestro dei conti correnti stabilito dal pubblico ministero dopo l’incarcerazione di Zamora il 29 luglio 2022. Erano passati cinque giorni dall’uscita di un reportage incentrato sulla corruzione del presidente del Guatemala, che è stato al centro di centinaia di altre inchieste de El Periódico, tra le quali quella che rivelava lo scandalo dell’acquisto di vaccini a prezzi gonfiati di cui avrebbero beneficiato persone vicine all’esecutivo.

Zamora ha affermato più volte di sentirsi un prigioniero politico, in uno stato in cui il potere giudiziario, legislativo e governativo sono cooptati dalle oligarchie economiche in sodalizio con politici, giuristi corrotti e bande criminali che, di fatto, stanno riportando il Paese a una condizione simile a quella antecedente il 1996, quando ci fu il ritorno della democrazia.

L’attacco a Zamora e, di conseguenza, la chiusura del suo quotidiano, è un avvertimento a tutta la stampa nazionale. Annichilire il famoso giornalista significa mandare a tutti i suoi colleghi il messaggio che a esprimersi liberamente si rischia il carcere.

Contro i giudici

Questa minaccia si trasforma in una vera e propria vendetta nel caso della persecuzione del pool di giudici, molti dei quali operativi nella Fiscalía especial contra la impunidad (Feci), che lavorava a fianco della Comisión internacional contra la impunidad en Guatemala (Cicig), organismo dell’Onu istituito nel paese nel 2006 per indagare sui gravi casi di corruzione. La Cicig è stata smantellata nel 2018 dall’allora presidente Jimmy Morales, che ha pure dichiarato Iván Velásquez, direttore della commissione, «persona non gradita» e lo ha cacciato dal Paese. Famosa è l’immagine in cui l’esercito scorta il funzionario in aeroporto.

Da quel momento, uno dopo l’altro, tutti gli operatori di giustizia scomodi al governo e allo status quo sono stati perseguitati in differenti forme, a partire dal rinomato magistrato anticorruzione Juan Francisco Sandoval, direttore della Feci, che è stato sollevato dall’incarico e sostituito da Rafael Curruchiche, segnalato dal Dipartimento di stato degli Stati Uniti come persona «impegnata in azioni che minano processi o istituzioni democratiche, in atti di significativa corruzione o di ostruzione delle indagini su di essi».

Sandoval è stato costretto a fuggire all’estero, così come altri ventiquattro operatori di giustizia all’epoca attivi nelle indagini anticorruzione, per sfuggire alla caccia alle streghe lanciata dal nuovo gruppo di giudici della Feci scelto dai settori politici più conservatori del Guatemala.

Che fa il popolo

A fare da pubblico alla lenta morte dello stato di diritto in Guatemala ci sono circa 17 milioni di cittadini, per lo più esclusi dalle logiche di potere e da qualsiasi scelta politica. Secondo la Banca mondiale, il 59% della popolazione vive in condizione di povertà e i numeri, come è successo in tutto il mondo, sono aumentati con la pandemia. Oggi meno di un chilo di pomodori al mercato costa 1,2 euro e in qualsiasi supermercato non si trova un prodotto di base, neppure mezzo chilo di fagioli, a meno di un euro.

Molte persone decidono di migrare verso gli Stati Uniti in condizioni precarie, in viaggi nei quali mettono a rischio la propria vita, ma che diventano quasi un obbligo quando si vive in condizione di precarietà economica.

Oggi nel paese nordamericano è presente una comunità guatemalteca, regolarmente residente, di circa un milione e mezzo di persone a cui si aggiunge un numero, difficile da quantificare, di lavoratori che vivono nel paese senza documenti.

Nonostante le rimesse siano la prima voce del prodotto interno lordo guatemalteco, solo tre candidati alla presidenza, tra cui Mulet, hanno fatto campagna elettorale per intercettare gli elettori all’estero, che, come riporta il giornale Los Angeles Times, hanno fatto arrivare dalla California un chiaro messaggio alla dirigenza del paese: «ristabilite lo stato di diritto».

Nonostante petizioni per il ritorno a una democrazia reale, e non solo di facciata, arrivino da più voci nazionali e internazionali, bisognerà aspettare il 20 agosto per sapere chi sarà il o la presidente del Guatemala, e capire se davvero esiste la volontà da parte di chi verrà eletto di sfidare lo status quo e dare una svolta a un sistema in cancrena che lascia poca immaginazione per il futuro.

Simona Carnino


Al primo turno del 25 giugno è arrivata in testa Sandra Torres, con circa il 15,8%, mentre la sorpresa è stato il secondo posto di Bernardo Arévalo, del movimento Semilla (semente) di centro sinistra. Dato all’ottavo posto dei sondaggi, ha invece sfiorato il 12%. Il 20 agosto si terrà il ballottaggio tra i due. A meno di eventuali, nuovi interventi del Tribunale elettorale, il solo vero protagonista delle elezioni guatemalteche.