Sono 196 le persone che sono state uccise nel 2023 per aver difeso l’ambiente e la terra su cui vivevano. Provavano a resistere a uno sfruttamento incondizionato delle risorse naturali del proprio paese e per questo hanno perso la vita. È questo il numero che emerge dal rapporto «Missing voices» pubblicato a settembre dall’Ong Global Witness che,da 30 anni, si occupa di investigare e riportare gli abusi nei confronti di chi difende ambiente e diritti umani.
Centonovantasei uccisioni in un anno significano più di una ogni due giorni, ma l’atto estremo di togliere la vita è sempre accompagnato da più larghe operazioni di intimidazione, minacce e oppressioni di vario tipo alle persone che contrastano gli interessi economici di aziende, gruppi criminali e governi spregiudicati.
Il rapporto sulle uccisioni dei difensori ambientali (dalla definizione in inglese «environmental defenders») viene realizzato dal 2012 e in questi anni ha registrato un totale di 2.106 morti, la grande maggioranza delle quali avvenuta in America Latina. La Colombia in particolare è il paese dove si registrano il maggior numero di casi, sia storicamente, visto che dal 2012 se ne stimano 461, che nel corso del 2023 dove le uccisioni sono state 79. Seguono Brasile, Honduras, Messico e Filippine.
Il rapporto mostra che, in ogni regione del mondo, chi si oppone alle industrie estrattive e richiama l’attenzione sui danni ambientali che provocano rischia di subire repressioni, ritorsioni e a volte perfino la morte. Nel mondo industriale il settore più coinvolto è sicuramente quello minerario, nel 2023 sono infatti 25 i difensori dell’ambiente assassinati mentre si opponevano ad operazioni minerarie, soprattutto in America Latina e in Asia.
Analizzando chi viene colpito da questi brutali attacchi si riconosce un altro elemento chiave, il 6% sono afrodiscendenti e ben il 43% delle vittime, ovvero 99 persone, appartengono a popolazioni indigene. Gli indigeni, infatti, vivono in aree ancora ricche di risorse naturali che industriali spregiudicati e gruppi criminali non vedono l’ora di sfruttare per le loro attività economiche. Anche quando i governi non la appoggiano direttamente, l’espropriazione e la devastazione di queste aree naturali accade comunque per vie nascoste e illegali. I minatori prendono il controllo delle zone interessate con la forza e con le armi, spesso poi corrompono o minacciano gli stessi indigeni per costringerli a lavori forzati o addirittura a imbracciare le armi contro le altre tribù.
Quest’ultimo è stato il caso che ha portato, il 3 luglio 2023, al ferimento di 5 membri della comunità Yanomami con la morte di una bambina di appena 7 anni. Da tempo infatti gli Yanomami di Roraima (stato a nord del Brasile) subiscono le violenze dei minatori d’oro illegali e situazioni simili sono diffuse in diverse aree dell’America Latina. Il record mantenuto dalla Colombia dove, nel 2023, ben 31 delle 79 uccisioni hanno riguardato persone indigene. Le comunità indigene ricoprono infatti un prezioso ruolo nella difesa degli ecosistemi naturali e della biodiversità, questo è uno dei punti principali con cui è stata aperta la Cop16 sulla biodiversità (diversa dalla Cop29, che si terrà in Azerbaijan dall’11 al 22 novembre) che si è tenuta proprio a Cali, in Colombia dal 21 ottobre al 1° novembre. La cooperazione con gli indigeni è anche uno dei pochi punti su cui sono stati fatti passi avanti concreti, portando alla formazione di gruppi di lavoro permanenti che coinvolgano popoli indigenti e comunità locali nei negoziati della Convenzione sulla diversità biologica. Questi potranno dunque contare su risorse permanenti e godere finalmente di una reale rappresentanza.
Bisognerà quindi continuare a monitorare la situazione, gravissima, in cui versano i difensori ambientali in tutto il mondo, per valutare se gli strumenti adottati e le promesse dei governi avranno un reale impatto nel fermare le vessazioni che subiscono.
Mattia Gisola
Italia. Israeliani e palestinesi per la pace
Nonviolenti palestinesi e israeliani in Italia per testimoniare il loro lavoro comune per la pace e chiedere la fine della guerra.
Due attivisti israeliani e due palestinesi, accomunati dall’obiezione alla guerra, dal 16 ottobre stanno girando l’Italia per portare le loro testimonianze e il loro appello alla pace in diverse città dal Nord al Sud, incontrando cittadini, studenti, istituzioni.
Chiedono alle istituzioni, all’Unione europea, al nostro governo, di riconoscere lo status di rifugiati politici a tutti gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che fuggono dalle guerre e chiedono asilo e protezione.
«Vengono da Israele e Palestina, dove il diritto internazionale viene calpestato – recita un comunicato del Movimento nonviolento, organizzatore del tour nell’ambito della Campagna di obiezione alla guerra -, per rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza! Lavorano insieme e rifiutano la guerra, l’esercito, le armi, l’odio».
Sono gli israeliani Sofia Orr e Daniel Mizrahi e le palestinesi Tarteel Al-Junaidi e Aisha Omar.
Sofia Orr ha rifiutato di arruolarsi per il servizio militare obbligatorio nell’Idf, l’esercito israeliano, nel febbraio 2024, ed è stata condannata al carcere militare. Daniel Mizrahi, figlio di coloni ebrei nei territori occupati, ha fatto anche lui obiezione di coscienza, subendo la stessa sorte. La palestinese Tarteel Al-Junaidi è attivista nonviolenta per i diritti umani. Aisha Omar, cresciuta nella Territori palestinesi occupati, sostiene gli obiettori israeliani e ne fa conoscere ai palestinesi l’attività contro la guerra e l’occupazione.
I quattro rappresentano due importanti movimenti: Mesarvot, una rete di giovani israeliani obiettori di coscienza al servizio militare, e Community peacemaker teams (Cpt), sezione palestinese, che sostiene la resistenza nonviolenta contro l’occupazione israeliana.
Mesarvot è una rete che si oppone al regime di occupazione dei territori palestinesi con manifestazioni congiunte israelo-palestinesi in tutto il Paese, chiedendo un accordo sugli ostaggi, la fine del genocidio a Gaza, del conflitto in Medioriente e il raggiungimento di una soluzione diplomatica.
I suoi attivisti portano l’attenzione sui crimini commessi dall’esercito e incoraggiano i giovani israeliani ad assumersi la responsabilità personale di disobbedire al governo. In più forniscono sostegno, anche legale, a chi decide di rifiutare il servizio militare in un paese nel quale gli obiettori subiscono lunghe detenzioni e le voci dissidenti vengono represse brutalmente.
Il Cpt è uno tra i molti gruppi palestinesi di resistenza nonviolenta. Lavora contro la violenza dell’occupazione israeliana, in particolare in Cisgiordania, ad esempio con il monitoraggio dei posti di blocco israeliani attraversati dai bambini palestinesi per andare a scuola, documentando le continue violazioni dei diritti umani. Il docufilm «Light», proiettato durante il giro italiano dei quattro attivisti, racconta proprio l’impegno del Cpt.
Nelle varie tappe (di cui si può leggere il diario sul sito di «Azione nonviolenta»), i quattro testimoni hanno incontrato la cittadinanza durante incontri pubblici, studenti, giornalisti, sindaci, vescovi.
Ieri, 24 ottobre, hanno fatto un’audizione alla Commissione permanente per i diritti umani della Camera dei deputati seguita da un incontro pubblico, un incontro presso il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano e integrale e da una conferenza stampa a Montecitorio.
Come ha scritto Pasquale Pugliese, già presidente del Movimento nonviolento, su Comune.info, «Mentre nessuna organizzazione internazionale sembra essere in grado di fermare la violenza cieca dell’esercito israeliano, che dopo oltre 42.000 vittime palestinesi tra Gaza e Cisgiordania invade il Libano, attacca le basi Unifil, colpisce la Croce Rossa, cerca la guerra con l’Iran; mentre nessun governo occidentale, anche apparentemente dissentendo in pubblico con le sue scelte belliche, si decide in verità a interrompere l’invio di armi al governo di Netanyahu; mentre da oltre un anno grandi manifestazioni in ogni parte del mondo, e nella stessa Israele, non riescono a spezzare la spirale di violenza e di odio; mentre accade tutto questo c’è chi trova il coraggio di resistere dal basso, proprio dentro il cuore di tenebra della guerra, rifiutando la logica della violenza, del nemico e dell’odio: ha il volto di giovanissimi israeliani che rifiutano il servizio militare e di altrettanto giovani palestinesi impegnati nella resistenza nonviolenta».
Luca Lorusso
I Rohingya del Myanmar, ancora sfollati e rifugiati
A sette anni dallo scoppio della crisi che interessò il popolo dei Rohingya, gruppo etnico di religione musulmana stanziato nella parte occidentale del Myanmar, la comunità internazionale è ancora alle prese con una questione di difficile soluzione.
Sette anni fa, avvenne il primo esodo a seguito dello sfollamento forzato su larga scala di 750mila Rohingya che, sotto la pressione dell’esercito birmano, per sfuggire alla pulizia etnica, varcarono il confine e si stabilirono in Bangladesh, in particolare nella località di Cox’s Bazar.
La loro vita in campi profughi, organizzati in quell’area di confine grazie al governo di Dacca e agli aiuti della comunità internazionale, apparve fin dal principio molto critica.
Difficile la distribuzione di beni di prima necessità per il sostentamento. Per non parlare di istruzione, sviluppo, reinserimento sociale o occupazione per offrire un futuro agli sfollati che risultano apolidi, dunque privi di ogni diritto e riconoscimento.
Sconsigliato anche il piano di rimpatrio nell’ex Birmania: nello Stato di Rakhine, in Myanmar, l’escalation del conflitto ha peggiorato le condizioni dei Rohingya rimasti nei distretti originari.
Data la guerra civile in corso nel Paese, lo sfollamento interno è ai massimi storici, oltre 3,3 milioni di sfollati all’interno del Paese. Tra questi, circa 130mila sono Rohingya che si trovano nel Rakhine settentrionale e vivono in mezzo al fuoco incrociato, vittime dei combattimenti tra l’esercito regolare e i miliziani dell’Arakan army, organizzazione militare locale tra quelle che sfidano la giunta birmana al potere.
«I civili di etnia Rohingya in Rakhine stanno sopportando il peso delle atrocità commesse dall’esercito del Myanmar e dall’opposizione dell’Arakan Army», ha spiegato Elaine Pearson, direttore per l’Asia di Human Rights Watch, presentando l’ultimo rapporto sugli abusi nell’area.
In Bangladesh, a sua volta attraversato dalla crisi politica culminata con la fuga dell’ex presidente Sheikh Hasina, il governo provvisorio di Muhammad Yunus ha mostrato una certa solidarietà auspicando che i rifugiati Rohingya possano rientrare in Myanmar in piena sicurezza, dignità e diritti. Sebbene, dunque, un ritorno dignitoso, volontario e sostenibile in Myanmar resti la soluzione ricercata dalle autorità, mancano le condizioni sul terreno per renderla possibile.
In attesa di una soluzione, la vita per i Rohingya in Bangladesh resta sospesa. I rifugiati hanno bisogno di assistenza immediata e di aiuto per costruire il loro futuro: il 52% di loro ha meno di 18 anni e molti sono nati in esilio o hanno trascorso i primi anni di vita nei campi profughi.
Nel 2024, le agenzie umanitarie hanno richiesto 852 milioni di dollari per assistere circa 1,3 milioni di persone, ma i finanziamenti internazionali per coprire quella necessità sono insufficienti. Per questo le razioni alimentari sono state ridotte, i centri sanitari devono far fronte alla carenza di personale medico e di medicinali, la bassa qualità dell’acqua causa epidemie di colera ed epatite; le opportunità di formazione professionale sono ridotte.
La nazione, poi, affronta inondazioni catastrofiche che colpiscono milioni di cittadini e anche comunità che ospitano i rifugiati, aggravando la situazione che, nota l’Acnur, richiede allora «un sostegno globale ampio e sistematico».
Paolo Affatato
Burkina Faso. Il capitano Traoré si rielegge presidente
Le «assises nazionali» – incontro di rappresentanti della società burkinabè –, tenute il 25 maggio scorso, hanno approvato il prolungamento di cinque anni della transizione in corso.
La riunione, che era prevista della durata di due giorni, con lo scopo di fare un bilancio del lavoro della giunta militare, ha votato in tutta fretta una nuova «Carta», che mantiene al potere il capitano Ibrahim Traoré, l’uomo forte del momento. Traoré non sarà più il «Presidente di transizione», ma il «Presidente della nazione», che è il nome ufficiale della carica elettiva. Resterà in carica fino al 2029 e potrà candidarsi a future elezioni.
Il capitano ha preso il potere il 30 settembre 2022, deponendo con la forza un altro militare, Paul-Henri Sandaogo Damiba, che aveva sua volta fatto un golpe nel gennaio dello stesso anno ai danni del presidente eletto Roch Marc Christian Kaboré.
Escluse le voci critiche
Alle assises, che dovrebbero raggruppare le diverse forze della società burkinabè per trovare un consenso durante un periodo crisi, in questo caso non sono stati invitati svariati movimenti della società civile, associazioni, sindacati con voci discordanti da quelle del regime.
Il giornalista Newton Ahmed Barry denuncia ha dichiarato ai microfoni di Radio France intérnationale che l’incontro non era dunque per riflettere, ma per dare ufficialità a un prolungamento della giunta al potere e che il Burkina è gestito da un regime militare, e non è più in una transizione.
In effetti, le voci non allineate con il regime sono messe a tacere. Come nel caso dell’avvocato Guy Hervé Kam, noto esponente del movimento della società civile, arrestato segretamente e tenuto nascosto per quattro mesi. Finalmente lo scorso 30 maggio, i suoi avvocati hanno potuto visitarlo in cella e capire il controverso capo di accusa.
Consenso popolare
Nonostante la deriva autoritaria del regime di Traoré e la stretta sui diritti civili, il presidente gode di una grande popolarità tra la popolazione.
Il pretesto della presa del potere con la forza erastata la situazione di grande insicurezza causata da gruppi jihadisti attivi in gran parte del Paese.
Il regime di Traoré, affiancato da milizie civili chiamate «Volontari della patria», difficilmente controllabili, non ha tuttavia migliorato le cose.
Campione di sfollati
Il Consiglio norvegese dei rifugiati (Nrc) ha pubblicato un rapporto nel quale classifica gli spostamenti di popolazione nel mondo a causa dei conflitti. Il Burkina Faso, nel 2023 per il secondo anno consecutivo, si trova al primo posto, seguito da Camerun, Repubblica democratica del Congo, Mali, Niger, Honduras, Sud Sudan, Centrafrica, Ciad e Sudan.
In Burkina si contano circa due milioni di persone sfollate interne, con oltre 707mila spostamenti solo nel 2023 (un incremento del 61% rispetto al 2022), su una popolazione di circa 23 milioni. I rifugiati burkinabè in altri paesi sono tra il 60 e i 150mila. Gli abitanti in fuga dagli attacchi degli islamisti sono dunque in aumento.
L’Alto rappresentati dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, il 31 maggio scorso, si è detto molto preoccupato sottolineando un incremento del 65% (tra novembre 2023 e aprile 2024) delle uccisioni di civili nel Paese. Vittime causate, oltre che dai gruppi armati jihadisti, anche dalle forze di sicurezza e dai Volontari della patria. Turk chiede un’inchiesta internazionale indipendente sulle violazioni e gli abusi, e che lo Stato assicuri la protezione dei propri cittadini.
Intanto il ministro degli Affari esteri della Russia, Sergej Lavrov, nella sua tourné africana, è stato il 5 giungo scorso a Ouagadougou dove ha incontrato il presidente Ibrahim Traoré, fresco di conferma fino al 2029. Traoré aveva partecipato al summit Russia-Africa del luglio 2023, dove si era distinto per un discorso zeppo di demagogia. Diversi accordi di tipo militare e tecnico sono, da allora, stati firmati tra i due paesi, compreso l’invio di istruttori russi per l’esercito, arrivati nel novembre scorso. L’ambasciata di Russia a Ouagadougou è stata riaperta nello stesso periodo, a sottolineare relazioni sempre più strette. Tratto questo che il Burkina Faso ha in comune con Mali e Niger, con i quali ha creato, nel settembre dello scorso anno, l’Alleanza degli stati del Sahel.
Marco Bello
Mondo. La geometria variabile dei diritti umani
La Dichiarazione universale dei diritti umani risale al 1948. La realtà è però diversa dalla teoria. Oggi più che mai.
«Siete dalla parte giusta della storia», si sono sentiti dire gli universitari americani per la loro difesa della causa palestinese. Parole pronunciate dall’ayatollah Khamenei, guida suprema della teocrazia iraniana che lo scorso 30 maggio – tramite X – si è rivolto direttamente a loro. Il complimento si è immediatamente trasformato in un palese imbarazzo visto che proveniva da un grande violatore dei diritti umani, leader di un Paese dove non esiste libertà.
Il fatto ha riproposto all’attenzione pubblica internazionale molti interrogativi. Uno di essi può trovare una sintesi nella seguente domanda: al di là delle dichiarazioni teoriche (la principale è quella del 1948), nella realtà esiste una definizione universale dei diritti umani?
In un momento storico come l’attuale, caratterizzato da divisioni e guerre, la risposta è «no, non esiste». Ogni stato – sia esso una democrazia o una dittatura – è convinto di rispettare i diritti umani, convinzione che spesso assume aspetti grotteschi. Prendiamo, ad esempio, la Cina di Xi.
Lo scorso marzo un dipartimento del Comitato centrale del Partito comunista cinese ha organizzato – anche se pare impossibile – il terzo Forum internazionale sulla democrazia, come ha raccontato anche il «China Daily», il principale quotidiano in lingua inglese di Pechino. La democrazia – è stato detto durante il Forum – può assumere forme diverse a causa delle diverse situazioni dei paesi. Per parte sua, la Cina è un campione di democrazia. Infatti, afferma l’articolo, «pratica la “democrazia popolare integrale”, che consiste nel rendere la democrazia presente in tutti gli aspetti» (economia, politica, cultura, società, ecologia).
Difficile capire come la democrazia declinata alla cinese spieghi la mancanza di libertà in Tibet o nello Xinjiang o la repressione in atto a Hong Kong o tutto il potere concentrato nelle mani del Partito comunista e del suo leader Xi Jin Ping. Meglio allora – avrà pensato il presidente cinese – giocare d’attacco. A maggio è, quindi, uscito «The Report on Human Rights Violations in the United States in 2023», un rapporto sulle violazioni dei diritti umani negli Usa stilato dallo State council information office (Scio), l’ufficio informazioni del consiglio di stato cinese.
«La situazione dei diritti umani negli Stati Uniti – si legge nell’incipit – ha continuato a peggiorare nel 2023. Negli Stati Uniti, i diritti umani stanno diventando sempre più polarizzati. Mentre una minoranza al potere detiene il dominio politico, economico e sociale, la maggioranza della gente comune è sempre più emarginata e i suoi diritti e le sue libertà fondamentali vengono ignorati. Uno sconcertante 76% degli americani ritiene che la propria nazione vada nella direzione sbagliata».
Negli Usa i problemi certamente non mancano, ma che i diritti umani vengano ignorati è pura propaganda di Pechino per distrarre l’opinione pubblica dai problemi cinesi. A fine maggio, a Hong Kong, 14 esponenti del locale movimento per la democrazia sono stati condannati in base alla legge sulla sicurezza nazionale (nota come «Articolo 23 della Legge fondamentale»), imposta da Pechino e firmata lo scorso 23 marzo dal governatore John Lee (un ex poliziotto, vincitore di un’«elezione» in cui era il solo candidato). Probabilmente la triste esperienza di Hong Kong fa sì che anche gli abitanti di Taiwan guardino con terrore a una eventuale riunificazione con la Cina.
A ulteriore riprova della distanza esistente tra la seconda potenza mondiale e il modello democratico, c’è la Conferenza internazionale per la pace in Ucraina, prevista a Bürgenstock (Canton Nidvaldo, Svizzera) per il 15 e 16 giugno. Nonostante sia stata invitata, la Cina non vi parteciperà, prendendo a pretesto l’assenza della Russia ma confermando – una volta di più – di stare dalla parte dell’aggressore e, in generale, dei sistemi anti democratici. Da ultimo, lo scorso 4 giugno è stato il 35.mo anniversario della repressione di piazza Tiananmen (4 giugno 1989), che a Pechino è passato sotto il silenzio più assordante. E chi se ne importa dei diritti umani.
Paolo Moiola
Accordo UK-Rwanda: deportare i richiedenti asilo
Dopo mesi di scontri politici, il 22 aprile il Parlamento britannico ha approvato una legge che permette la deportazione in Rwanda dei richiedenti asilo. Il provvedimento riguarda chi è giunto illegalmente nel Regno Unito dopo il primo gennaio 2022 (secondo la Bbc, circa 52mila persone di origine asiatica e africana).
Il primo accordo tra i due Paesi era stato siglato ad aprile 2022, ma nessun volo era mai decollato alla volta di Kigali a causa dei numerosi ricorsi delle organizzazioni per i diritti umani. Nel giugno 2022, la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu), garante della Convenzione europea per i diritti umani di cui il Regno Unito è firmatario, era riuscita a bloccare all’ultimo il primo volo in partenza per il Rwanda.
Dopo la giustizia europea, a novembre 2023, anche quella britannica aveva rigettato il provvedimento. Secondo i giudici, lo Stato africano non poteva essere considerato un «Paese terzo sicuro» a causa di autoritarismo, repressione del dissenso e continue violazioni dei diritti umani. Infatti, il testo della sentenza riportava: «Il Rwanda ha fatto grandi progressi sul piano economico e sociale […] ed è un importante partner del Regno Unito. Tuttavia, la situazione del rispetto dei diritti umani nel Paese è molto controversa».
Mandare i richiedenti asilo in Rwanda sarebbe stata una violazione della Cedu perché li avrebbe esposti al rischio di torture e trattamenti disumani.
Nel frattempo, l’Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati) aveva ricordato di aver documentato maltrattamenti delle autorità rwandesi nei confronti di richiedenti asilo provenienti da Siria, Yemen e Afghanistan. I migranti erano arrivati a Kigali a seguito di un accordo di trasferimento firmato da Rwanda e Israele nel 2018.
Dopo la sentenza della Corte suprema, il governo britannico ha promosso un nuovo provvedimento – quello approvato a fine aprile – che stabilisce che, per il Regno Unito, il Rwanda è un «Paese sicuro».
La legge ha spianato la strada al progetto di deportazione. Giunti a Kigali, i migranti potranno chiedere asilo in Rwanda. Nel caso in cui la richiesta sarà accettata, otterranno lo status di rifugiati e il permesso di restare nel Paese. In caso contrario, potrebbero chiedere di rimanere in territorio rwandese per altri motivi o domandare asilo in un altro «Paese terzo sicuro». In nessun caso potranno tornare nel Regno Unito.
Subito dopo l’approvazione del provvedimento, numerose organizzazioni per i diritti umani (tra cui Amnesty international) e l’Unhcr hanno chiesto a Londra di riconsiderare il piano. Freedom from torture, Amnesty international e Liberty hanno definito la legge una «disgrazia nazionale che minaccia significativamente lo stato di diritto». Inoltre, hanno denunciato che la disposizione viola alcuni diritti fondamentali dei richiedenti asilo contenuti in documenti nazionali e internazionali (come la garanzia di non respingimento assicurata dalla Convenzione di Ginevra).
Nel frattempo, il premier britannico, Rishi Sunak, ha comunicato che i primi voli per Kigali partiranno entro luglio.
Di fronte all’annuncio di ricorsi da parte delle organizzazioni umanitarie alla Corte europea per i diritti dell’uomo, Sunak ha rincarato la dose: «Questa è una svolta destinata a cambiare l’equazione globale dell’immigrazione e nessun tribunale fermerà i trasferimenti». La legge addirittura prevede che il Governo possa ignorare eventuali sentenze della Corte europea.
Nei fatti, il piano è già operativoa. Il governo britannico ha affittato gli aerei charter per deportare le prime 350 persone: uomini di più di 40 anni, entrati illegalmente nel Paese. Molti sono già in detenzione preventiva dal 29 aprile. A Kigali invece è già arrivata la prima tranche di ricompense: 290 milioni di euro. Altri 140 milioni saranno versati una volta che il Rwanda avrà ricevuto i primi 300 richiedenti asilo.
A dispetto di quanto sostiene il Governo britannico, per il quale il piano sarà economicamente vantaggioso per il Regno Unito, l’Institute for public policy research (un ente di ricerca indipendente) ne ha denunciato i costi elevati. Secondo i ricercatori, infatti, potrebbero servire fino a 4,6 miliardi di euro per deportare le sole 20mila persone arrivate illegalmente tra luglio e dicembre 2023. Tra il 2022 e il 2023, invece, il sistema di asilo britannico era costato meno di 4,5 miliardi di euro.
Nelle intenzioni di Londra, la minaccia di deportazione dovrebbe agire da deterrente per scoraggiare futuri arrivi illegali. Per il momento però i flussi non accennano a fermarsi: mentre i parlamentari approvavano la legge, nella Manica annegavano tre uomini, una donna e una bambina.
L’introduzione del piano costituisce senza dubbio un importante tassello per i conservatori inglesi. Con l’avvicinarsi delle elezioni – si voterà entro gennaio 2025 -, Sunak e il suo partito avevano bisogno di un successo da vantare di fronte all’elettorato, tanto più che i sondaggi danno i laburisti in testa. Ora i tory avranno qualcosa su cui puntare. Anche a costo di ignorare i diritti umani.
Aurora Guainazzi
Indonesia, La metamorfosi del generale
La consultazione del 14 febbraio scorso si è conclusa con la netta vittoria del candidato del presidente uscente. L’anomalia apparente è che non fa parte del suo partito. Nella realtà hanno prevalso giochi e alleanze ben consolidate.
Quartier generale delle forze armate indonesiane a Giacarta, 28 febbraio. Il presidente Joko Widodo mette entrambe le mani sulle spalle di Prabowo Subianto (presidente in pectore), gli dice qualcosa e gli conferisce il grado di generale a quattro stelle onorario, il più alto possibile per l’esercito dell’Indonesia. «Questa onorificenza è una forma di apprezzamento – dice Widodo, prima di attaccare i baveri con quattro stelle d’oro sul blazer di Prabowo -, ribadisce la sua devozione al popolo e al Paese. Vorrei congratularmi con il generale». Da qualche giorno è arrivato un messaggio di congratulazioni della Casa bianca per le elezioni del 14 febbraio: il presidente Joe Biden, fervente organizzatore di summit per la democrazia, si dice «ansioso» di collaborare con la nuova leadership e «rafforzare la cooperazione con un partner strategico».
È il 28 febbraio. Eppure, fino a qualche anno fa una scena del genere sarebbe sembrata possibile solo in una sorta di universo parallelo. Già, perché nel 1998 Prabowo era stato costretto a lasciare l’esercito e a venire congedato con disonore per le molteplici accuse di violazioni dei diritti umani a suo carico che sarebbero state perpetrate quando era tenente generale e comandante delle Kopassus, le forze speciali dell’esercito. La tortura di ventidue attivisti, rapimenti e sparizioni, la repressione delle proteste degli oppositori del dittatore Suharto, le violenze contro i movimenti autonomisti di Papua e Timor Est. Un curriculum non proprio scintillante per Prabowo, che di Suharto era peraltro l’ex genero, e che gli era costato la proibizione di recarsi negli Stati Uniti. Il divieto è durato fino al 2020, quando la misura è stata revocata per consentire a Prabowo, in qualità di ministro della Difesa indonesiano, di andarci.
«Dare a Subianto un titolo onorifico a quattro stelle, con i suoi precedenti militari e le accuse di coinvolgimento in casi di violazione dei diritti umani, metterà in imbarazzo l’onore e la dignità delle forze armate indonesiane», ha dichiarato ad Ap (Associated press) Gufron Mabruri, direttore esecutivo dell’organizzazione non governativa Imparsial.
Da nemici ad amici
La scena del 28 è oggi nell’ordine delle cose. Prabowo, infatti, due settimane prima, ha stravinto le elezioni presidenziali indonesiane. Non c’è stato nemmeno bisogno del secondo turno come prevedevano quasi tutti gli analisti: l’ex generale ha ottenuto quasi il 60% già al primo turno, superando nettamente il 50,1% necessario per evitare il ballottaggio contro il secondo classificato.
Non si è trattato di un exploit improvviso, ma di un successo costruito con pazienza e in modo meticoloso, giunto peraltro tramite il sostegno di quello che fino a un certo punto era stato il suo acerrimo rivale: Widodo (famigliarmente chiamato Jokowi). Sì, proprio colui che appunta la quarta stella sul petto di Prabowo.
È cambiato davvero tutto dal 2014, l’anno in cui Widodo aveva sconfitto per la prima volta Prabowo alle presidenziali. L’ex generale, ai tempi, si presentava spesso ai comizi in sella a un cavallo, pronunciando discorsi infuocati contro l’avversario paventando politiche protezioni- stiche e suscitando parecchi timori per i suoi stretti legami con le forze islamiste radicali. Un aspetto, questo, non trascurabile nel Paese con la popolazione musulmana più vasta del mondo.
Nel 2019, al secondo tentativo di raggiungere la presidenza, Prabowo aveva nominato l’ex leader dell’ala giovanile del gruppo islamista Muhammadiyah, Dahnil Simanjuntak, come suo portavoce personale.
In entrambe le tornate elettorali, Prabowo aveva rifiutato di ammettere la sconfitta. Nel 2019 aveva accusato Widodo di brogli elettorali, scatenando una delle peggiori ondate di violenza politica degli ultimi decenni in Indonesia. Centinaia di persone erano rimaste ferite durante gli scontri tra i sostenitori di Prabowo e la polizia dopo l’annuncio dei risultati del voto. E almeno sei sono state uccise.
L’Indonesia era sembrata sulla soglia di una guerra intestina. Poi, all’improvviso, era cambiato tutto. Dopo una serie ravvicinata di incontri tra i due, dagli insulti si era passati ai selfie. Dalle accuse di brogli si era passati alla nomina di Prabowo nella squadra di governo di Widodo, come ministro della Difesa. Era parsa una mossa utile a «neutralizzare» politicamente l’ex generale.
Alleanze interne
Il capitale politico di Widodo e la futura eleggibilità del suo partito dipendevano anche dalla sua capacità di mantenere un’alleanza con la società civile islamica, si pensava allora. E aveva bisogno del sostegno di gruppi come Nahdlatul Ulama e Muhammadiyah per governare efficacemente. Insomma, la mossa di Jokowi era stata letta come la risposta alla necessità di dare stabilità al suo secondo mandato. Senza contare che era già emerso lo storico progetto di spostare la capitale da Giacarta a Nusantara (vedi box), nel Kalimantan orientale, sull’isola del Borneo. E Prabowo è una sorta di «zar» di quella zona, dove la sua famiglia possiede vasti terreni per circa 220mila ettari e detiene un’importante capitale politico.
La decisione di Widodo di tenersi vicino Prabowo si sarebbe, invece, rivelata essere più profonda. In vista delle elezioni di febbraio, infatti, il presidente uscente (ancora molto popolare nell’opinione pubblica indonesiana) ha deciso di appoggiare proprio il suo ex rivale e invece del candidato del suo Partito democratico indonesiano di lotta. Widodo ha mollato senza tanti complimenti Ganjar Pranowo, ex governatore di Giava centrale e suo teorico erede designato, lasciandolo completamente spiazzato visto che questi aveva costruito la sua immagine e la sua campagna come l’unico in grado di dare continuità alle politiche del compagno di partito. È arrivato persino terzo, dietro il candidato indipendente Anies Baswedan, ex governatore di Giacarta. Anche lui, in realtà, sperava di ricevere l’appoggio di Widodo, di cui aveva scritto per anni i discorsi prima di venire nominato ministro dell’Istruzione.
E invece Jokowi ha scelto proprio Prabowo. E non si è limitato a dargli un appoggio indiretto, ma ha addirittura piazzato il proprio figlio, Gibran Rakabuming Raka, nel ruolo di numero due del suo ex rivale e dunque eventuale futuro vicepresidente. Mossa, quest’ultima, controversa visto che Gibran ha solo 36 anni e la legge indonesiana indica nei 40 anni l’età minima per candidarsi a presidenza o vicepresidenza. Un ostacolo serenamente superato grazie a una sentenza della Corte costituzionale, che ha rimosso il vincolo di età per chi avesse vinto in precedenza un’elezione locale. E Gibran è sindaco della città di Surakarta. Il sospetto, di una sentenza ad personam è acuito da un particolare non trascurabile: a capo della Corte costituzionale di Giacarta c’è nientemeno che il marito della sorella di Widodo.
L’immagine e i social
Tra gli elettori indonesiani, c’è anche chi è rimasto scandalizzato della netta vittoria di Prabowo. Tanto che sono state organizzate diverse proteste, dopo l’annuncio dei risultati ufficiali, nelle quali centinaia di persone hanno chiesto l’impeachment di Widodo per «interferenze» nel processo elettorale. Eppure, nelle urne non tutti hanno considerato il poco invidiabile passato di Prabowo, forse anche grazie al fatto che questi ha ripulito la sua immagine con una semplice quanto astuta strategia sui social media. A livello ufficiale non ha più utilizzato i toni incendiari del passato, soprattutto sui social più seguiti dai giovani. Instagram e TikTok sono stati invasi dai video di Prabowo in versione affabulatore e con un’immagine da zio o nonno simpatico e un po’ imbranato, ma bonario e ovviamente dotato di tanta saggezza. Balletti improbabili, sorrisi e foto ricordo, aneddoti personali e il gatto Bobby hanno reso simpatica una figura di cui in tanti non ricordano, o nemmeno conoscono, gli scheletri nell’armadio.
D’altronde, la maggioranza degli elettori ha meno di 40 anni. Molti di loro non hanno ricordi nitidi della dittatura di Suharto o delle forze speciali di Prabowo, così come del suo esilio in Giordania.
Si tratta di una dinamica che inizia a essere una tendenza anche in Asia dove spesso dominano le dinastie politiche familiari. E non solo nella Corea del Nord dei Kim. Basti pensare alla Cambogia di Hun Sen (cfr MC luglio 2022), il leader eterno appena tornato presidente del Senato dopo aver lasciato il ruolo di premier al figlio Hun Manet. La strategia «prabowiana» sui social è stata un ingrediente anche del successo di Ferdinand Marcos Junior, figlio del dittatore filippino, alle elezioni presidenziali del 2022 (cfr MC agosto 2022). E anche in India il primo ministro Narendra Modi sta conducendo una campagna elettorale dove la priorità sul fronte comunicativo è data a canali come Instagram rispetto alle tradizionali interviste.
Discorsi moderati
Sul fronte più istituzionale, Prabowo ha assunto (quantomeno ufficialmente) una linea moderata con parole ben più calibrate rispetto al passato. Ha soprattutto promesso di portare avanti le politiche di Widodo sul fronte economico, lasciando aperte le porte agli investimenti esteri. Si tratta di un tema su cui c’è molta attenzione da parte delle grandi potenze, interessate a rafforzare la loro presenza in un mercato dinamico ed emergente come l’Indonesia, peraltro Paese ricco di risorse minerarie fondamentali per lo sviluppo di settori strategici sul fronte tecnologico. Su tutte, il nichel, un minerale fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici.
Nel 2014, le esportazioni di nichel ammontavano a un miliardo di dollari, oggi la cifra è arrivata a 30 miliardi. E gli investimenti esteri nel settore estrattivo sono altrettanto esplosi, raggiungendo i 16 miliardi nel 2022, in gran parte provenienti da aziende cinesi.
Politica estera
Gli Stati Uniti stanno provando a recuperare il terreno perduto. Lo scorso novembre Biden ha ricevuto Widodo alla Casa Bianca, cercando di raggiungere un accordo sull’estrazione congiunta delle terre rare. A separare Washington e Giacarta ci sono però visioni diverse sulla crisi in corso in Medio Oriente: il governo indonesiano, infatti, è molto critico con Israele, con cui peraltro non ha mai avviato relazioni diplomatiche ufficiali.
L’Indonesia ha tradizionalmente una politica estera non allineata e particolarmente cauta. Con Prabowo potrebbe però assumere un timbro più deciso, viste le posizioni su temi internazionali da lui espresse in passato, spesso molto lontane da quelle occidentali. Basti pensare alla proposta, avanzata a giugno 2023, di una pace alla coreana per la guerra in Ucraina: congelamento dei confini sulla situazione attuale e referendum nei territori occupati dai russi per far scegliere alla popolazione da che parte stare. Idea respinta con sdegno da Kiev, Bruxelles e Washington.
Eppure, quando il prossimo 20 ottobre Prabowo inizierà il suo incarico presidenziale, gli Stati Uniti, e non solo, dovranno costruire con lui un rapporto solido. Sulle relazioni con la Cina potrebbero parzialmente interferire le dispute sul mar Cinese meridionale, su cui Prabowo potrebbe assumere una linea meno conciliante di quella di Widodo. A Pechino si ricordano ancora il ruolo dell’ex generale nelle purghe anticomuniste di Suharto. Ma gli scheletri di Prabowo sembrano ormai destinati a restare ben sigillati nel suo armadio.
Lorenzo Lamperti
La valenza politica ed economica di Nusantara
In Borneo la nuova capitale
In lingua giavanese significa «arcipelago». Si trova nella remota regione orientale del Kalimantan sull’isola del Borneo. Per costruirla si prevede una spesa di circa 32 miliardi di dollari, ma anche un aumento del disboscamento di una delle foreste pluviali più antiche del mondo. È questo l’identikit di Nusantara, destinata a diventare la nuova capitale dell’Indonesia. Per completarla ci vorrà ancora diverso tempo, forse fino al 2045. Ma l’inaugurazione è prevista già per il prossimo 17 agosto, in occasione del 79simo anniversario dell’indipendenza del Paese dai Paesi Bassi. In prima fila ci sarà il presidente uscente Joko Widodo, che proprio in Nusantara identifica la sua eredità politica.
Il progetto è partito nel 2019, all’alba del secondo mandato di Widodo, quando è emersa la necessità di decongestionare Giacarta. L’attuale capitale soffre di inquinamento e traffico, e, secondo diversi studi, si sta persino parzialmente inabissando. Non a caso le alluvioni sono diventate sempre più frequenti. Il Borneo invece è meno esposto a disastri naturali e si trova geograficamente al centro del Paese. I lavori sono ufficialmente partiti nel 2022, rallentati all’inizio dalla pandemia da Covid-19, oggi proseguono in una sorta di corsa contro il tempo per consentire a Widodo di partecipare all’inaugurazione prima di lasciare la presidenza a Prabowo Subianto. Sul posto sono impiegati circa centomila operai, in un’area grande quattro volte quella di Giacarta.
Lo spostamento della capitale ha una valenza fortemente politica ed economica. L’obiettivo è infatti anche quello di favorire lo sviluppo di una regione rimasta meno popolata, diversificando la crescita interna e riducendo la centralizzazione che ha contraddistinto il modello di sviluppo indonesiano.
L’apertura di Nusantara significa anche lanciare una nuova rete di infrastrutture ed edifici pubblici, con la speranza di attrarre una pioggia di investimenti esteri. In realtà, su questo fronte i risultati sono stati meno brillanti del previsto.
Il colosso giapponese SoftBank ha ritirato la sua partecipazione a causa di preoccupazioni sulla sostenibilità economica del progetto e delle 300 aziende globali, citate dal governo come interessate, molte non hanno ancora firmato alcun accordo. Restano diversi dubbi anche sul fronte ambientale, dato il possibile contraccolpo sulla ricca biodiversità dell’area. C’è poi chi teme che Nusantara possa tramutarsi in una sorta di «cattedrale nel deserto», quasi un corpo estraneo rispetto al resto del Paese. Il tempo lo dirà. Ma intanto Widodo ha fretta per lasciare il suo marchio e tagliare il nastro.
L.L.
Le religioni in Indonesia
Il più grande paese musulmano
L’Indonesia è il più grande Paese musulmano al mondo per numero di credenti. I fedeli sono peraltro in costante crescita, visto che dal 2011 al 2022 sono passati da 202,9 milioni a 277,3. Si tratta dell’87,2% della popolazione totale. La quasi totalità dei musulmani indonesiani, pressoché il 99%, è sunnita. L’islam indonesiano è caratterizzato da una forte influenza della cultura locale, tanto da venire chiamato islam Nusantara. Nel giugno 2015, Joko Widodo ha espresso apertamente il suo sostegno a questa forma che molti giudicano più moderata di islam e secondo il presidente uscente «compatibile coi valori culturali indonesiani».
Ma nel Paese sono presenti anche altre religioni. Il 9,9% della popolazione è cristiano, con il 7% protestante e 2,9% cattolico. C’è poi un 1,7% di indù e uno 0,7% di buddhisti. Si stima che circa 20 milioni di persone, soprattutto a Giava, Kalimantan (Borneo) e Papua, pratichino vari sistemi di credenze tradizionali, spesso indicati collettivamente come aliran kepercayaan.
La Costituzione afferma che la nazione indonesiana «è basata sulla fede in un unico Dio supremo», ma garantisce a tutte le persone il diritto di praticare il culto secondo la propria religione e il proprio credo. Il decreto presidenziale del 1965 sulla prevenzione della blasfemia e dell’abuso delle religioni proibisce le «interpretazioni devianti» degli insegnamenti religiosi e qualsiasi organizzazione blasfema. Non mancano però i casi controversi. La provincia di Aceh prevede la sharia (legge islamica, ndr) applicata dai tribunali islamici, fino dal 2001, con la promulgazione della legge sull’autonomia speciale. Queste leggi, in alcuni casi, prevedono fino a 100 frustate come punizione. Negli ultimi anni alcuni gruppi islamisti, anche radicali, hanno guadagnato spazio nel dibattito politico e pubblico, tanto da essere corteggiati dal presidente eletto Prabowo Subianto.
L.L.
Pakistan. L’eredità di Bhatti, difensore delle minoranze
Sono passati tredici anni dall’assassino del ministro per le Minoranze del Pakistan Shahbaz Bhatti che difendeva i cristiani e le altre persone discriminate nel suo paese. Parla il fratello Paul Bhatti che oggi ne ha preso l’eredità.
«Shahbaz ci manca, ma il suo messaggio è arrivato in tutto il mondo e il suo sacrificio ha portato tanti frutti», ci dice Paul Bhatti, fratello del ministro per le Minoranze del Pakistan ucciso il 2 marzo del 2011 per la sua azione di difesa delle persone discriminate del suo Paese. A partire dalla sua comunità: quella cristiana.
Oggi Paul, medico che vive tra l’Italia e il Pakistan, ne ha assunto la difficile eredità.
Lo abbiamo incontrato l’11 marzo scorso al Senato della Repubblica italiana in occasione di un evento dedicato proprio all’opera di Shahbaz Bhatti a tredici anni dalla morte.
«II Pakistan è un Paese che ha avuto, e che ancora ha, gravi problemi dal punto di vista economico, sociale e politico – sottolinea Paul Bhatti -. Per quanto riguarda la libertà religiosa e l’integrazione delle persone più emarginate, i problemi restano, ma molto è stato fatto da Shahbaz. È quanto riconoscono in Pakistan ma anche a livello internazionale. La sua perdita ci ha fatto soffrire, mio fratello Shahbaz ci manca. Però il messaggio che è stato percepito a livello nazionale in Pakistan e anche internazionale in qualche modo ha ridotto questa sofferenza. Ci dà sollievo che il suo sacrificio in qualche modo non è stato vano».
Paul racconta quanto la perdita del fratello abbia inciso sulla sua vita personale: «Io facevo il medico in Italia, ero contento. Lui mi diceva sempre: “Devi tornare in Pakistan, anche qui ci sono gli ospedali”. Io gli rispondevo: “Ma tu vuoi che io passi dal paradiso all’inferno…”. E invece con la sua morte ho capito che dovevo tornare e fare qualcosa per il mio Paese».
Parla dei suoi incontri per pacificare il Pakistan: «Nei giorni scorsi ho avuto un incontro con politici, leader religiosi musulmani, vescovi cattolici. Tutti riconoscevano quanto fatto da Shahbaz e questo mi dà sostegno e coraggio.
Dopo la morte di mio fratello – confida – ho avuto alti e bassi. Però ci sono state anche grandi soddisfazioni. Prima mi ero limitato al mio lavoro in campo medico e alla famiglia. Ora sono esposto al mondo intero e spesso non riesco a credere a quante persone ritengono importante il messaggio di fratellanza e di pace di Shahbaz».
Paul Bhatti nel corso di questi anni ha incontrato più volte Papa Francesco ed è in stretto collegamento con la Segreteria di Stato vaticana per portare avanti le sue iniziative.
Per Shahbaz Bhatti, che aveva scelto la via politica per difendere gli ultimi del suo Paese e ha pagato con la vita il suo impegno, è in corso il processo di beatificazione. «La fede è stata fondamentale. Lavorare in Pakistan parlando contro determinate leggi, come quella sulla blasfemia, e contro alcune ideologie fondamentaliste, comporta dei rischi. Lui con grande coraggio ha affrontato questi temi. Noi, in famiglia, quando ha cominciato, eravamo tutti terrorizzati. Non riuscivamo a capire da dove gli arrivava questo coraggio, poi abbiamo capito – dice Paul Bhatti – che la sua fede era talmente forte che non aveva paura».
Shahbaz, infatti, diceva che «lui aveva scelto di seguire Gesù Cristo e che non faceva altro che quello che Lui gli aveva insegnato».
Manuela Tulli
Venezuela. Qui non funziona niente… però c’è il sole!
Suor Mara mi sta portando in auto a celebrare la messa in una comunità. Viaggiando comincia a elencare tutte le cose che non funzionano in Venezuela, e sono tante. Alla fine, però, conclude che almeno c’è il sole. È la sintesi dello spirito venezuelano e l’anima che tiene ancora in piedi questo popolo.
Da sette anni il Venezuela vive una grave crisi economica. Il crollo del prezzo del petrolio e la corruzione della classe politica hanno spinto più di cinque milioni di persone ad andarsene. La situazione è paragonabile a quella dei paesi che hanno attraversato un conflitto armato.
Le politiche economiche della cosiddetta rivoluzione bolivariana che, in un primo momento, avevano suscitato enorme entusiasmo nella popolazione venezuelana, a poco a poco hanno dimostrato la loro follia portando al collasso l’economia.
Allo stesso tempo, la mancanza di trasparenza politica e gli attacchi all’opposizione democratica hanno indotto gli Stati Uniti e l’Europa a imporre pesanti sanzioni, che hanno peggiorato ulteriormente la situazione.
A causa della fame che dilagava in tutto il Paese, la gente ha cominciato a lasciare il territorio nazionale con tutti i mezzi a sua disposizione, raggiungendo quasi sei milioni di sfollati economici.
Durante la pandemia, il governo ha dovuto fare alcune concessioni al settore privato, come la possibilità di libera importazione e vendita di molti prodotti. Questo ha contribuito a ridurre le enormi carenze, senza tuttavia risolvere il problema a causa dei prezzi in dollari degli stessi.
In questa situazione il governo ha cominciato ad accettare di dialogare con l’opposizione politica e ha aperto diversi tavoli negoziali in Messico e alle Barbados.
Le guerre cambiano le cose
Gli scenari di guerra, soprattutto quelli in Ucraina e in Israele e Palestina, hanno contribuito anch’essi ha cambiare il panorama. L’embargo petrolifero imposto alla Russia, il pericolo di un’escalation di violenza in Medio Oriente hanno costretto le potenze occidentali a ridurre le misure che avevano adottato, portando, in un certo senso, un sollievo a tutto il Venezuela.
Infatti, le compagnie internazionali possono nuovamente estrarre il petrolio nel Paese, ed è così che la Repsol spagnola, l’Eni italiana e la Total francese sono nuovamente presenti con la Chevron statunitense, che non ha mai lasciato il territorio. C’è stata quindi un’iniezione di denaro nelle casse del Paese che ha portato una ventata di sollievo economico.
Questo fa sperare che nel prossimo futuro ci sarà una leggera crescita.
Al momento, il miglioramento non si percepisce ancora, e gli stipendi di tutti rimangono molto bassi, però la riduzione delle sanzioni fa sperare in un prossimo cambiamento.
Tornando all’esodo dei venezuelani, di carattere essenzialmente economico, è prevedibile che con il miglioramento delle condizioni di vita, esso possa diminuire, ed è addirittura prevedibile che alcuni ritorneranno.
In effetti, il responsabile degli aiuti umanitari in Venezuela, in un recente incontro con imprenditori, ha sottolineato che più di 300mila venezuelani sono già tornati nel territorio nazionale e ora stanno lavorando per avere le condizioni minime per non essere costretti a ripartire.
Tutto ciò, insieme al fatto che quest’anno ci dovrebbero essere le elezioni presidenziali, ci fa sognare che un barlume di speranza possa risplendere sul Venezuela. Questa è l’attesa di tutti coloro che lavorano perché in questo Paese ritorni la pace, la crescita e la giustizia.
Intanto, nel novembre 2023, il portale digitale del quotidiano El Nacional, contrario al governo di Nicolás Maduro, ha riferito che il flusso migratorio venezuelano, che stava arrivando in Messico attraversando diversi paesi tra cui la terribile giungla del Darién a Panama, era diminuito del 66%.
La Chiesa
La Chiesa cattolica in Venezuela conta circa 25 milioni di fedeli pari al 90% della popolazione. L’evangelizzazione del territorio cominciò agli inizi del XVI secolo contemporaneamente al processo di conquista coloniale da parte della Spagna.
Con lo Stato al collasso, l’assistenza ecclesiastica resta per molti l’unica àncora di salvezza. Aiutando i poveri, la Chiesa tiene in vita quel sostrato di umana solidarietà senza la quale non c’è riscatto.
Ha raccontato il cardinale Baltazar Porras, arcivescovo di Caracas: «Si pensa che il nostro sia un Paese ricco, mentre invece è solo il Governo a essere ricco, non la gente. In questo momento attraversiamo una grave crisi, con grandi povertà e miseria in tutto il Venezuela, e anche noi preti e vescovi dobbiamo aiutare la popolazione a non perdere la speranza. A differenza di quello che accade in Europa, qui avviene una rinascita della fede, perché nella crisi e nella sofferenza abbiamo bisogno di Dio per lavorare in favore del bene comune e della dignità delle persone. Questo fa sì che abbiamo una vita ecclesiale ricca e gioiosa». In una lettera scritta alla conclusione della Conferenza episcopale del luglio 2021, i vescovi così scrivevano: «Quando un’ideologia prende il sopravvento come sistema di potere che viola i diritti umani e rifiuta la dignità delle persone, essa genera ingiustizia e violenza istituzionale».
I vescovi sottolineano tre realtà specifiche nella dolorosa situazione del Paese, esacerbate dalla pandemia: «Lo smantellamento delle istituzioni democratiche e delle imprese statali; […] il drammatico esodo dovuto all’emigrazione forzata di quasi sei milioni di compatrioti espatriati per mancanza di opportunità di sviluppo nel Paese [e] la povertà della grande maggioranza del nostro popolo». Particolare enfasi è stata messa sulla malnutrizione dei bambini e sulle situazioni di ingiustizia vissute dagli anziani. I vescovi aggiungono che, oltre a questi aspetti, «ci sono i danni psicologici, morali e spirituali vissuti dai venezuelani nel dramma che stiamo vivendo».
«Ciò che è veramente in gioco, in mezzo a tutto questo deterioramento, è – scrivono ancora – la persona umana nella pienezza della sua vocazione». Per questo concludono invitando i cristiani a fare attenzione perché «c’è un obiettivo di fondo: trasformare l’essere umano, creato da Dio come un essere libero e responsabile, in un semplice esecutore».
Appello a non mollare
Nella lettera della Conferenza episcopale (Cev) oltre la denuncia è forte anche il richiamo alla necessità di «continuare a lavorare per la comunione, la pace e il benessere materiale e spirituale del nostro popolo» e l’appello a tutti i settori del Paese perché facciano la loro parte nella ricerca del bene comune. «Che nessuno si senta escluso». Nell’esortazione, spiegano che la «rifondazione della nazione» implica l’inclusione degli svantaggiati, la promozione del dialogo, la promozione della famiglia e dell’educazione e «il rinnovamento dei partiti politici». Insieme ai già noti problemi in ambito sociale, economico e politico c’è la fragilità del sistema democratico venezuelano e le molteplici difficoltà a partecipare alle elezioni viste le intimidazioni e l’estromissione dei candidati.
Monsignor González de Zarate, attuale presidente della Conferenza episcopale e Arcivescovo della diocesi di Cumanà, spiega: «Di fronte a questo panorama, la Chiesa fa un ripetuto appello agli attori politici perché cerchino percorsi di rinnovamento e di partecipazione, percorsi di inclusione sociale in risposta ai grandi bisogni del nostro Paese». Riguardo alla situazione economica che vede una ripresa, il presidente dei vescovi parla di un «miglioramento apparente», perché larghi strati della società restano esclusi e, anzi, sottolinea che una causa dell’esodo venezuelano è «la mancanza di opportunità che costringe le persone a lasciare il Paese», cosa che «crea una grave crisi familiare perché gli adulti in età produttiva viaggiano, lasciando spesso gli anziani e i bambini soli in situazioni precarie».
Non c’è dubbio che la Chiesa venezuelana abbia accompagnato il popolo in questa drammatica situazione. Gli ostacoli per essa sono stati gli stessi di quelli «vissuti quotidianamente da tutto il popolo venezuelano». Oggi per la Chiesa è molto più difficile compiere la sua missione – ha spiegato monsignor González de Zarate – perché ci sono problemi di insicurezza. Tuttavia continua a servire specialmente i più poveri ed esclusi come meglio può. «Con le sue esortazioni – ha concluso il presidente dell’episcopato – vuole illuminare questa realtà a partire dai valori del Vangelo, della solidarietà, della giustizia e della libertà, in modo inclusivo, con la partecipazione di tutti».
I Missionari della Consolata
I nostri missionari continuano la loro missione con una presenza semplice e consolante, molto apprezzata dalla gente e anche dalla Chiesa locale. La missione in terra venezuelana è caratterizzata dalla presenza nella periferia della capitale con una parrocchia, Carapita, in ambiente povero e popolare, e con la casa della delegazione che è la casa di accoglienza. A Barquisimento continua il Centro di animazione missionaria e vocazionale, mentre Barlovento è una missione tra afrodiscendenti. Infine, siamo nel delta del rio Orinoco con il popolo indigeno warao con una presenza nella città di Tucupita per accompagnare gli indigeni residenti in città e una sul fiume, a Nabasanuka.
La missione in questo tempo così politicamente e socialmente complicato è caratterizzata anche dal supporto alimentare ai più poveri e abbandonati. Ogni giorno nelle diverse comunità i nostri missionari distribuiscono cibo a 400 – 600 persone.
Un’esperienza che ho potuto fare una domenica sera è stata quella di unirmi al gruppo giovani di Caracas e, insieme ad alcuni missionari, visitare i poveri e i senza tetto lungo le strade della città condividendo con loro una «arrepita» e una bevanda calda fatta di latte in polvere e avena. Un’esperienza molto commovente, caratterizzata dall’incontro personale con uomini e donne concrete. Il gruppo non si limita a dare del cibo ma si rende disponibile all’incontro, al dialogo, allo scambio e condivisione fraterna, e anche alla preghiera. Ogni incontro permette uno scambio di parole e di consolazione che danno al povero pasto colore di cielo. Qui ci sono tante storie di sofferenza, tanti sogni non ancora realizzati, tante realtà negate; ma c’è anche il profumo del crisma, ci sono i segni del Messia, di colui che prende su di sé le sofferenze degli altri.
Tornando alla missione quella sera, mi sono commosso perché non siamo andati a fare la predica su Gesù, ma l’abbiamo incontrato nella sua Parola e nella sua carne: in quei volti che ho incrociato, in quelle mani che ho stretto, in quelle case che mi hanno ospitato. Non abbiamo fatto una buona azione, ma siamo andati a incontrare lo stesso Gesù che abbiamo incontrato nella celebrazione dell’Eucaristia e nell’ascolto della Parola alla Messa della mattina. E poi, se non c’è la strada non c’è Vangelo, perché noi non possiamo annunciare una notizia bella, non possiamo dire che i sogni si realizzano se non ci mettiamo in strada. E il Vangelo non è mai astratto. Mai come in questo caso il Vangelo è la strada.
Speriamo che il sole continui a risplendere anche per la povera gente di questo paese meraviglioso.
Stefano Camerlengo
Iran. Droni e petrolio vendesi
Nonostante le foto diffuse dall’Agenzia di stampa della Repubblica islamica (Irna) sembrino mostrare il contrario, venerdì 1 marzo l’Iran – paese con 88 milioni di abitanti – è andato alle urne senza alcun entusiasmo, segnando la più bassa partecipazione di votanti dalla rivoluzione del 1979: il 41 per cento degli aventi diritto. In gioco c’erano i 290 seggi del Parlamento (Majlis) e gli 88 dell’Assemblea degli esperti. Quest’ultima è l’organo clericale cui spetta la scelta della Guida suprema, attualmente rappresentata dall’ayatollah Ali Khamenei (85 anni).
Come ampiamente previsto, anche senza attendere i risultati del secondo turno (sarà a maggio), hanno vinto i conservatori e gli ultra conservatori, agevolati dall’assenza – per divieto o per boicottaggio – non solo dei candidati progressisti ma anche di gran parte di quelli moderati.
Il popolo iraniano sta vivendo anni bui sotto il giogo della casta sciita al potere. Dopo le manifestazioni di piazza del 2022 (proteste guidate dalle donne), la violazione dei diritti civili e la carcerazione o l’uccisione degli oppositori sono una prassi consolidata.
Per la teocrazia iraniana non mancano, però, le note positive. Nonostante un’inflazione elevata (40 per cento annuo), l’economia resiste (più 4,2 per cento nel 2023), sospinta dai legami sempre più stretti con la Cina di Xi Jinping e la Russia di Vladimir Putin, paesi che lo scorso 1° gennaio hanno accolto l’Iran in seno al gruppo dei Brics. La produzione di petrolio, grande ricchezza del Paese, è in crescita (2,99 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2023, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia) con la quota d’esportazione quasi interamente acquistata dalla Cina. In questo momento storico il maggiore successo economico (e politico) del Paese è però dato dalla vendita di un micidiale prodotto tecnologico per uso militare: i droni, i veicoli aerei senza pilota (Unmanned aerial vehicles, Uav). I droni iraniani – come lo «Shahed 136» o il «Mohajer-6» – sono venduti soprattutto alla Russia per la sua aggressione all’Ucraina, ma anche in Africa (Etiopia, Sud Sudan e Fronte Polisario del Sahara occidentale) e in America Latina (Venezuela e Bolivia).
Inoltre, essendo il Paese sponsor delle milizie sciite in Libano (Hezbollah), in Yemen (Houti) e in Iraq, i droni di fabbricazione iraniana sono un’arma sempre più utilizzata nell’esplosiva regione mediorientale.