Senza senso di umanità
Sette ex detenuti su dieci tornano a delinquere. Il numero di suicidi in cella ha raggiunto un nuovo record. Questi dati mostrano che la funzione rieducativa del sistema penale non funziona. La storia di un ex detenuto fa riflettere sul carcere, e su quello che avviene dopo.
L’articolo 27 della Costituzione italiana recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Nel 2021, però, solo il 38% dei detenuti presenti nelle carceri italiane stava scontando la prima detenzione, il 62% era già stato ristretto, il 18% era addirittura alla quinta carcerazione.
Questo significa che, nella maggioranza dei casi, la funzione rieducativa della pena ha fallito.
Il sistema penale dovrebbe occuparsi delle persone che hanno commesso reati per evitare che ne commettano altri, e con il fine di reimmettere in libertà individui capaci di vivere nella legalità.
Secondo i dati del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), però, circa il 70% dei detenuti, una volta usciti dal carcere, torna a delinquere.
Non si può, né deve, parlare di persone irrecuperabili, piuttosto di inefficacia della pena.
Stando al Cnel, quando i detenuti intraprendono un percorso lavorativo durante la carcerazione, la probabilità di recidiva cala drasticamente, fino al 4%.
Ci sono, quindi, delle strategie che il sistema penale può e deve mettere in atto se vuole raggiungere il suo scopo di rendere più sicura la società.
Per capire da vicino quali sono le condizioni nelle quali i detenuti vengono liberati al termine della loro pena, incontriamo Franco (nome di fantasia), che è stato in carcere nella Casa circondariale di Ivrea e condivide con noi la sua esperienza.
La storia di Franco
«Mi hanno aperto la porta e ciao, devi uscire», così racconta Franco. Il filo conduttore che emerge dalle sue parole è la vivida sensazione di impotenza che provava mentre era in carcere e che prova ancora oggi, fuori da quelle mura.
Nessuno si è preoccupato o occupato di dove sarebbe andato, di cosa avrebbe fatto una volta tornato in libertà.
Il suo racconto è indicativo di un sistema che punta a parcheggiare le persone nelle celle e a gestirle con il minimo sforzo possibile per liberarsene poi, velocemente, al termine della pena. Una situazione che va ad aggravare le già precarie condizioni di salute mentale di cui soffrono sovente i detenuti, condizioni che in carcere vengono troppo spesso affrontate tramite psicofarmaci.
A proposito di questo, Franco racconta: «Mi avevano riempito di medicine quando ero lì, ma quando sono uscito non avevo niente. Per quattro giorni non ho dormito, sono andato fuori di testa, fino a quando mi hanno ricoverato in ospedale».
Infatti, dopo diversi anni sotto l’effetto di farmaci, Franco è stato lasciato in libertà senza un piano terapeutico, senza il riferimento di un medico che lo seguisse in maniera adeguata.
Questo lo ha portato in breve a una grave crisi di astinenza.
Per fortuna è riuscito a farsi portare in pronto soccorso dove lo hanno stabilizzato. Ha poi incontrato uno psichiatra con il quale ha iniziato un trattamento di antidepressivi ad hoc per la sua situazione.
Un tempo inutile
La vita dentro il carcere descritta da Franco corrisponde a quella raccontata da chi si occupa dei diritti dei detenuti: dieci metri quadrati per due persone, un letto a castello, due scrivanie, due armadietti e un televisore. In particolare, Franco lamenta le difficoltà che aveva a mantenere le relazioni con familiari e amici, dai quali si è sentito strappato via. Questo strappo nelle relazioni oggi gli sembra che abbia compromesso le sue possibilità di ricostruirsi una vita.
Racconta che la cosa più destabilizzante in carcere è «il tempo inutile», il non fare niente per ore e ore, tutti i giorni, con relazioni umane ridotte all’osso. E poi la dipendenza: essere costretti a chiedere il permesso per fare qualsiasi cosa, dal lavarsi al prenotare una visita medica, magari dovendo aspettare giorni, settimane, o mesi prima di ottenere una risposta.
«Non è un carcere di riabilitazione – sostiene Franco -. Sai che quando esci non hai niente in mano. È tempo veramente inutile, non è costruttivo. E poi si lamentano che ci sono un sacco di recidive».
Record di suicidi
Quando Franco tocca il tema delle persone che in carcere muoiono per suicidio, la sua voce si fa più flebile.
Nel 2024 il numero di suicidi nelle case di reclusione italiane ha raggiunto il record di novanta. Persone morte mentre erano nelle mani dello Stato.
Franco ci racconta di aver sentito diverse storie, e di aver conosciuto persone che si sono suicidate anche a pochi mesi dalla fine della pena.
Pure lui ci ha pensato più volte. Racconta che aveva anche preparato una corda, ma è riuscito sempre a fermarsi in tempo.
Secondo la sua esperienza, anche l’uscita dal carcere, che normalmente ci si immagina come un momento felice, è in realtà un colpo durissimo. Franco, ad esempio, si è ritrovato solo, privo di legami familiari e disconnesso dalla realtà esterna al carcere, che durante la sua detenzione aveva avuto la sua evoluzione: non possiede lo Spid, non sa cosa sia, e fatica persino a ottenere una carta prepagata, o a prenotare una visita medica.
Trovare un lavoro, considerata la sua età e il suo passato, appare un’impresa quasi impossibile.
La prospettiva di potersi garantire una casa e il cibo per sopravvivere sembra un traguardo irraggiungibile.
I volontari in carcere
Franco, però, come tanti altri, ha avuto la fortuna di incontrare una rete di volontariato radicata sul territorio che gli ha permesso di attutire il colpo, di trovare un tetto provvisorio, e di ricevere un aiuto nella ricerca di un lavoro.
Abbiamo contattato Silvio Salussolia che, da decenni, è impegnato nel volontariato con i detenuti nel canavese, cercando di supportare le necessità di chi vive in carcere, e portando nelle scuole riflessioni sul tema.
Di carcere si parla molto poco nei media e nelle scuole, ma Silvio sostiene che farlo permetterebbe di guardare il mondo da un nuovo punto di vista: non dal centro, ma dalle periferie.
Il suo scopo non è solo quello di aiutare i ragazzi e la cittadinanza a empatizzare con i detenuti, ma di far riflettere sui modi con i quali i cittadini e la politica potrebbero e dovrebbero costruire una società più giusta e più sicura per tutti.
Quale rieducazione
Silvio Salussolia ci fornisce altri dati: nel carcere di Ivrea ci sono 195 posti regolamentari (di cui sei non disponibili), ma accoglie 273 detenuti: ottantaquattro in più rispetto alla capienza. Il personale si compone di 175 membri della polizia penitenziaria e quattro educatori.
Ci si chiede come possa un numero così piccolo di educatori, costruire progetti personali, concreti e di lungo periodo per 273 detenuti, la maggioranza dei quali vive situazioni individuali e sociali critiche.
La risposta è semplice: è impossibile garantire la funzione rieducativa della pena stabilita dalla nostra Costituzione.
Esempi virtuosi
Allora il sistema penale è destinato a non funzionare?
Silvio nomina alcuni esempi virtuosi che anche in Italia danno un nuovo significato alla pena.
Il primo è quello della Comunità La Collina, in provincia di Cagliari: un luogo nato oltre vent’anni fa da un’idea di don Ettore Cannavera dove i condannati per alcuni reati possono scontare una pena alternativa.
Chi trascorre il periodo di detenzione in questo luogo ha prospettive nettamente migliori rispetto alla media dei carcerati, e i dati dimostrano che avrà meno del 4% di probabilità di tornare a delinquere in futuro.
Un tasso di recidiva così basso è spiegato da Salussolia con due fattori chiave: innanzitutto il rapporto numerico tra agenti ed educatori è invertito rispetto a quello visto sopra. Gli educatori professionisti che si occupano dei percorsi rieducativi sono in numero maggiore e, inoltre, danno grande importanza al lavoro. Tutti i detenuti de La Collina lavorano dentro o fuori la comunità.
Una questione politica
Oltre questo caso particolarmente illuminato, esistono altre realtà che propongono dei paradigmi diversi di carcere e di pena. Ad esempio, le case di reclusione di Bollate e di Opera (Milano).
Bollate è considerato l’istituto penitenziario più all’avanguardia in Italia. La struttura è una delle migliori, e offre numerose opportunità di studio, lavoro e cultura ai suoi detenuti. Vi sono, ad esempio, un ristorante di alta qualità dove i detenuti lavorano insieme a chef professionisti, un teatro, spazi per la socialità, e un asilo che accoglie figli di detenuti, dipendenti e non solo.
Per favorire la partecipazione alle attività è stato poi adottato un modello di carcere nel quale le celle vengono tenute aperte circa dieci ore al giorno favorendo il movimento all’interno dei reparti.
Opera è un altro esempio di come, nonostante le difficoltà e i limiti, si possano costruire spazi per la socialità e aree verdi, si possa investire nel lavoro e nella formazione, sia all’esterno dell’istituto che all’interno, grazie a laboratori di diverso tipo.
Questi esempi mostrano che un percorso più dignitoso è possibile, e che è anche più efficace e più utile per i singoli detenuti e per l’intera collettività.
Al di là di queste eccezioni, però, la normalità delle carceri in Italia è un’altra: è fatta di sovraffollamento, progettualità quasi nulle, tassi di recidiva altissimi e suicidi sempre più numerosi.
Studiare il carcere dovrebbe quindi farci capire che la sua fallibilità ha delle cause ben precise, su cui si può intervenire e che si possono modificare.
Investire sui fattori giusti permetterebbe di ridurre le recidive, rendendo più sicure le nostre città, di ridurre la pressione sulle carceri oggi sovraffollate e, da ultimo, anche far risparmiare soldi allo Stato.
Mattia Gisola
Archivio MC
- Mattia Gisola, Il carcere uccide, giugno 2024.
- Claudio Paterniti Martello, Carcere e Covid, marzo 2022.