Senza senso di umanità


Sette ex detenuti su dieci tornano a delinquere. Il numero di suicidi in cella ha raggiunto un nuovo record. Questi dati mostrano che la funzione rieducativa del sistema penale non funziona. La storia di un ex detenuto fa riflettere sul carcere, e su quello che avviene dopo.

L’articolo 27 della Costituzione italiana recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Nel 2021, però, solo il 38% dei detenuti presenti nelle carceri italiane stava scontando la prima detenzione, il 62% era già stato ristretto, il 18% era addirittura alla quinta carcerazione.

Questo significa che, nella maggioranza dei casi, la funzione rieducativa della pena ha fallito.

Il sistema penale dovrebbe occuparsi delle persone che hanno commesso reati per evitare che ne commettano altri, e con il fine di reimmettere in libertà individui capaci di vivere nella legalità.

Secondo i dati del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), però, circa il 70% dei detenuti, una volta usciti dal carcere, torna a delinquere.

Non si può, né deve, parlare di persone irrecuperabili, piuttosto di inefficacia della pena.

Stando al Cnel, quando i detenuti intraprendono un percorso lavorativo durante la carcerazione, la probabilità di recidiva cala drasticamente, fino al 4%.

Ci sono, quindi, delle strategie che il sistema penale può e deve mettere in atto se vuole raggiungere il suo scopo di rendere più sicura la società.

Per capire da vicino quali sono le condizioni nelle quali i detenuti vengono liberati al termine della loro pena, incontriamo Franco (nome di fantasia), che è stato in carcere nella Casa circondariale di Ivrea e condivide con noi la sua esperienza.

di Associazione Antigone

La storia di Franco

«Mi hanno aperto la porta e ciao, devi uscire», così racconta Franco. Il filo conduttore che emerge dalle sue parole è la vivida sensazione di impotenza che provava mentre era in carcere e che prova ancora oggi, fuori da quelle mura.

Nessuno si è preoccupato o occupato di dove sarebbe andato, di cosa avrebbe fatto una volta tornato in libertà.

Il suo racconto è indicativo di un sistema che punta a parcheggiare le persone nelle celle e a gestirle con il minimo sforzo possibile per liberarsene poi, velocemente, al termine della pena. Una situazione che va ad aggravare le già precarie condizioni di salute mentale di cui soffrono sovente i detenuti, condizioni che in carcere vengono troppo spesso affrontate tramite psicofarmaci.

A proposito di questo, Franco racconta: «Mi avevano riempito di medicine quando ero lì, ma quando sono uscito non avevo niente. Per quattro giorni non ho dormito, sono andato fuori di testa, fino a quando mi hanno ricoverato in ospedale».

Infatti, dopo diversi anni sotto l’effetto di farmaci, Franco è stato lasciato in libertà senza un piano terapeutico, senza il riferimento di un medico che lo seguisse in maniera adeguata.

Questo lo ha portato in breve a una grave crisi di astinenza.

Per fortuna è riuscito a farsi portare in pronto soccorso dove lo hanno stabilizzato. Ha poi incontrato uno psichiatra con il quale ha iniziato un trattamento di antidepressivi ad hoc per la sua situazione.

© Cooperativa pausa caffé

Un tempo inutile

La vita dentro il carcere descritta da Franco corrisponde a quella raccontata da chi si occupa dei diritti dei detenuti: dieci metri quadrati per due persone, un letto a castello, due scrivanie, due armadietti e un televisore. In particolare, Franco lamenta le difficoltà che aveva a mantenere le relazioni con familiari e amici, dai quali si è sentito strappato via. Questo strappo nelle relazioni oggi gli sembra che abbia compromesso le sue possibilità di ricostruirsi una vita.

Racconta che la cosa più destabilizzante in carcere è «il tempo inutile», il non fare niente per ore e ore, tutti i giorni, con relazioni umane ridotte all’osso. E poi la dipendenza: essere costretti a chiedere il permesso per fare qualsiasi cosa, dal lavarsi al prenotare una visita medica, magari dovendo aspettare giorni, settimane, o mesi prima di ottenere una risposta.

«Non è un carcere di riabilitazione – sostiene Franco -. Sai che quando esci non hai niente in mano. È tempo veramente inutile, non è costruttivo. E poi si lamentano che ci sono un sacco di recidive».

Record di suicidi

Quando Franco tocca il tema delle persone che in carcere muoiono per suicidio, la sua voce si fa più flebile.

Nel 2024 il numero di suicidi nelle case di reclusione italiane ha raggiunto il record di novanta. Persone morte mentre erano nelle mani dello Stato.

Franco ci racconta di aver sentito diverse storie, e di aver conosciuto persone che si sono suicidate anche a pochi mesi dalla fine della pena.

Pure lui ci ha pensato più volte. Racconta che aveva anche preparato una corda, ma è riuscito sempre a fermarsi in tempo.

Secondo la sua esperienza, anche l’uscita dal carcere, che normalmente ci si immagina come un momento felice, è in realtà un colpo durissimo. Franco, ad esempio, si è ritrovato solo, privo di legami familiari e disconnesso dalla realtà esterna al carcere, che durante la sua detenzione aveva avuto la sua evoluzione: non possiede lo Spid, non sa cosa sia, e fatica persino a ottenere una carta prepagata, o a prenotare una visita medica.

Trovare un lavoro, considerata la sua età e il suo passato, appare un’impresa quasi impossibile.

La prospettiva di potersi garantire una casa e il cibo per sopravvivere sembra un traguardo irraggiungibile.

© Cooperativa pausa caffé

I volontari in carcere

Franco, però, come tanti altri, ha avuto la fortuna di incontrare una rete di volontariato radicata sul territorio che gli ha permesso di attutire il colpo, di trovare un tetto provvisorio, e di ricevere un aiuto nella ricerca di un lavoro.

Abbiamo contattato Silvio Salussolia che, da decenni, è impegnato nel volontariato con i detenuti nel canavese, cercando di supportare le necessità di chi vive in carcere, e portando nelle scuole riflessioni sul tema.

Di carcere si parla molto poco nei media e nelle scuole, ma Silvio sostiene che farlo permetterebbe di guardare il mondo da un nuovo punto di vista: non dal centro, ma dalle periferie.

Il suo scopo non è solo quello di aiutare i ragazzi e la cittadinanza a empatizzare con i detenuti, ma di far riflettere sui modi con i quali i cittadini e la politica potrebbero e dovrebbero costruire una società più giusta e più sicura per tutti.

Quale rieducazione

Silvio Salussolia ci fornisce altri dati: nel carcere di Ivrea ci sono 195 posti regolamentari (di cui sei non disponibili), ma accoglie 273 detenuti: ottantaquattro in più rispetto alla capienza.  Il personale si compone di 175 membri della polizia penitenziaria e quattro educatori.

Ci si chiede come possa un numero così piccolo di educatori, costruire progetti personali, concreti e di lungo periodo per 273 detenuti, la maggioranza dei quali vive situazioni individuali e sociali critiche.

La risposta è semplice: è impossibile garantire la funzione rieducativa della pena stabilita dalla nostra Costituzione.

Esempi virtuosi

Allora il sistema penale è destinato a non funzionare?

Silvio nomina alcuni esempi virtuosi che anche in Italia danno un nuovo significato alla pena.

Il primo è quello della Comunità La Collina, in provincia di Cagliari: un luogo nato oltre vent’anni fa da un’idea di don Ettore Cannavera dove i condannati per alcuni reati possono scontare una pena alternativa.

Chi trascorre il periodo di detenzione in questo luogo ha prospettive nettamente migliori rispetto alla media dei carcerati, e i dati dimostrano che avrà meno del 4% di probabilità di tornare a delinquere in futuro.

Un tasso di recidiva così basso è spiegato da Salussolia con due fattori chiave: innanzitutto il rapporto numerico tra agenti ed educatori è invertito rispetto a quello visto sopra. Gli educatori professionisti che si occupano dei percorsi rieducativi sono in numero maggiore e, inoltre, danno grande importanza al lavoro. Tutti i detenuti de La Collina lavorano dentro o fuori la comunità.

© Cooperativa pausa caffé

Una questione politica

Oltre questo caso particolarmente illuminato, esistono altre realtà che propongono dei paradigmi diversi di carcere e di pena. Ad esempio, le case di reclusione di Bollate e di Opera (Milano).

Bollate è considerato l’istituto penitenziario più all’avanguardia in Italia. La struttura è una delle migliori, e offre numerose opportunità di studio, lavoro e cultura ai suoi detenuti. Vi sono, ad esempio, un ristorante di alta qualità dove i detenuti lavorano insieme a chef professionisti, un teatro, spazi per la socialità, e un asilo che accoglie figli di detenuti, dipendenti e non solo.

Per favorire la partecipazione alle attività è stato poi adottato un modello di carcere nel quale le celle vengono tenute aperte circa dieci ore al giorno favorendo il movimento all’interno dei reparti.

Opera è un altro esempio di come, nonostante le difficoltà e i limiti, si possano costruire spazi per la socialità e aree verdi, si possa investire nel lavoro e nella formazione, sia all’esterno dell’istituto che all’interno, grazie a laboratori di diverso tipo.

Questi esempi mostrano che un percorso più dignitoso è possibile, e che è anche più efficace e più utile per i singoli detenuti e per l’intera collettività.

Al di là di queste eccezioni, però, la normalità delle carceri in Italia è un’altra: è fatta di sovraffollamento, progettualità quasi nulle, tassi di recidiva altissimi e suicidi sempre più numerosi.

Studiare il carcere dovrebbe quindi farci capire che la sua fallibilità ha delle cause ben precise, su cui si può intervenire e che si possono modificare.

Investire sui fattori giusti permetterebbe di ridurre le recidive, rendendo più sicure le nostre città, di ridurre la pressione sulle carceri oggi sovraffollate e, da ultimo, anche far risparmiare soldi allo Stato.

Mattia Gisola

 Archivio MC

 




Mondo e tortura. Cresce l’uso dei Taser

 

L’uso dei dispositivi a scarica elettrica, noti come Pesw (Projectile electric shock weapons) o Taser (dal nome del modello più diffuso), da parte delle forze di polizia è in costante aumento in tutto il mondo.

Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani denunciano da anni il loro abuso, soprattutto in contesti di detenzione, manifestazioni pubbliche e contro gruppi vulnerabili come bambini, anziani, fasce di popolazione emarginate. Tuttavia, manca ancora un trattato internazionale che ne limiti la produzione, la commercializzazione e l’uso indiscriminato.

 

Ne parla un rapporto dell’organizzazione per i diritti umani pubblicato lo scorso 6 marzo: «I still can’t sleep at night». The global abuse of electric shock equipment. («Non riesco ancora a dormire la notte». L’abuso globale di apparecchiature per le scosse elettriche). Un lavoro che descrive i due tipi di apparecchiature a scarica elettrica in commercio: quelle a contatto diretto, che Amnesty assieme a molte altre organizzazioni internazionali chiedono di eliminare, e le Pesw a proiettili, armi paralizzanti che funzionano con una carica elettrica a distanza, legittime, ma il cui uso è da limitare a casi estremi.

Il costo umano del commercio e dell’uso non regolamentato di questi prodotti richiede l’urgente necessità di un’azione coordinata e globale.

Esempi concreti di abuso: Iran e Francia

Il lavoro di Amnesty presenta casi di tortura e maltrattamenti avvenuti in tutto il mondo tramite queste apparecchiature negli ultimi dieci anni.

L’Iran è uno dei Paesi nei quale Amnesty International ha documentato l’uso di dispositivi elettrici contro manifestanti pacifici, prigionieri politici e dissidenti.
Molti detenuti hanno subito torture con scariche elettriche prolungate per estorcere confessioni o come forma di punizione.
Le conseguenze per le vittime sono di diversa gravità: ustioni; danni neurologici permanenti, traumi psicologici profondi.

Anche in Francia, per fare solo un altro esempio, nonostante le rigide normative europee, sono stati segnalati abusi. Le forze dell’ordine hanno utilizzato i Taser durante operazioni di polizia, spesso su persone che non rappresentavano una minaccia immediata.

Torture con scosse elettriche: una lunga storia

L’uso della scossa elettrica come strumento di tortura ha radici storiche lontane.

I dispositivi per elettroshock, scrive Amnesty, sono stati a lungo utilizzati per la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti in tutto il mondo, spesso utilizzando metodi improvvisati, come pungoli elettrici per bovini, fili collegati alla rete elettrica o alle batterie delle auto.
I telefoni da campo a manovella «magneto» o «dinamo» furono utilizzati per la prima volta per la tortura dall’esercito francese in Indocina e dalla polizia militare giapponese in tutto il Giappone imperiale negli anni 30.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il telefono da campo fu utilizzato per la tortura in tutta la Francia coloniale, dall’Algeria al Madagascar, nel Kenya britannico e in Vietnam dai marines statunitensi. Nello stesso periodo, negli Stati Uniti sono emerse armi a scossa elettrica a contatto diretto progettate per le forze dell’ordine.

Negli anni 30 la polizia argentina ha adottato l’uso della picana eléctrica (manganello elettrico), un dispositivo che si sarebbe diffuso in Uruguay, Paraguay e Bolivia, mentre la tortura basata sulla scossa elettrica sarebbe stata ampiamente adottata in America Latina sotto le dittature militari degli anni 70 e 80 per reprimere il dissenso politico.

Oggi, la disponibilità commerciale di Pesw e dispositivi affini ha reso questa pratica più diffusa e difficile da monitorare.

Le conseguenze sulla salute

L’uso di strumenti a scossa elettrica può avere effetti devastanti sulla salute delle persone. Le scariche causano dolore intenso, convulsioni, perdita di controllo motorio e, in alcuni casi, arresto cardiaco.

Sono stati registrati numerosi decessi in seguito all’uso del Taser su individui in precarie condizioni di salute. Gli effetti psicologici, tra cui ansia, depressione e disturbi da stress post-traumatico, sono altrettanto gravi.

Uso contro gruppi vulnerabili

Il problema più allarmante è l’uso di questi trumenti contro categorie di persone vulnerabili.
I detenuti subiscono scosse elettriche come forma di punizione o coercizione. I manifestanti vengono colpiti per disperdere le folle, anche quando non costituiscono una minaccia reale. Le persone con problemi di salute mentale, i minori e gli anziani sono particolarmente vulnerabili agli effetti delle scariche elettriche, che possono causare danni irreversibili.

Amnesty International ha documentato diversi casi di abuso contro minori, spesso in situazioni in cui non rappresentavano alcun pericolo.

Negli Stati Uniti, alcuni bambini di appena 10 anni sono stati colpiti con i Taser da agenti di polizia durante interventi scolastici, per aver mostrato segni di disagio o per piccoli atti di ribellione. In un caso, un bambino autistico è stato colpito durante una crisi emotiva.

Per quanto riguarda gli anziani e le persone con problemi di salute mentale, Amnesty ha registrato casi in cui individui in evidente stato di confusione o in emergenza medica sono stati immobilizzati con Taser, aggravando le loro condizioni.

Negli ospedali psichiatrici e nei centri di detenzione, l’uso dei Taser è stato denunciato come una forma di abuso sistematico.

In alcune occasioni, l’uso della scarica elettrica ha provocato arresti cardiaci fatali.

Produzione e commercio: un mercato in crescita senza regole globali

Il mercato dei dispositivi a scarica elettrica è in espansione. Il modello più diffuso di Pesw è il Taser. Tanto diffuso che nel linguaggio comune il suo nome raggruppa per antonomasia tutti i dispositivi Pesw. È prodotto da Axon Enterprise, la principale azienda del settore, che fornisce le sue armi a oltre 18mila agenzie di polizia in più di 80 Paesi.

Non esistono, però, regolamenti internazionali vincolanti per limitare la produzione e la vendita di questi strumenti. La maggior parte degli Stati non ha controlli adeguati per evitare che questi dispositivi finiscano nelle mani di regimi repressivi o forze di polizia che violano i diritti umani.

La proposta di un Trattato internazionale

Per colmare questa lacuna, Unione Europea, Argentina e Mongolia hanno lanciato l’Alleanza per un commercio libero dalla tortura, con l’obiettivo di vietare la produzione e la compravendita di strumenti di tortura, compresi i Pesw.

Amnesty International e altre Ong chiedono un trattato internazionale che vieti completamente la produzione e l’uso di dispositivi a scarica elettrica da contatto diretto, e che regoli rigorosamente l’uso dei Pesw, imponendo limiti chiari e meccanismi di controllo efficaci.

Un trattato di questo tipo stabilirebbe regole chiare per il commercio e l’uso dei Pesw, riducendo il loro uso come strumenti di repressione e tortura. Solo una regolamentazione globale potrà proteggere i diritti umani e prevenire ulteriori abusi nel mondo.

Luca Lorusso




Taiwan. L’isola dei record


La storia di Taiwan è molto speciale. Racconta di dominazioni straniere, invasioni e ribellioni. Oggi ha una sovranità de facto, ma non è riconosciuta. Eppure resta un tassello fondamentale di economia e geopolitica mondiale. E la Cina vorrebbe ridisegnare il suo futuro.

«Penso che oggi il livello di democrazia a Taiwan sia buono, e che le elezioni siano libere ed eque. Il sistema di conteggio dei voti è davvero unico, aperto e trasparente. Non c’è paura di elezioni truccate. Ma quello che succede è, ancora una volta, il rischio d’influenza della Cina, che cerca di minare la nostra democrazia».

Chi parla e Brian Hioe, 32 anni, giornalista e attivista, tra i fondatori di New Bloom, sito d’informazione, ma anche spazio fisico per incontri e dibattiti, nato nel 2014 a Taipei. Era l’indomani della creazione del Movimento dei girasoli, composto per lo più da studenti, che nel marzo 2014 occupò pacificamente il Parlamento di Taiwan per protestare contro un accordo con la Cina comunista. Brian era uno di loro.

Lo incontriamo nella sede del New Bloom, nel Wanhua district di Taipei, quartiere dove osserviamo il contrasto tra grattacieli e vecchie case, allestimenti ultra moderni e ristoranti addobbati con file di lanterne accese. Quasi a ricordarci che modernità e tradizione in questo Paese vanno appaiati.

Primato di democrazia

Scorrendo la classifica dell’indice di democrazia (il Democracy index) stilata ogni anno dal settimanale britannico The Economist per valutare il livello democratico degli Stati del mondo, troviamo una sorpresa. Taiwan, il «non stato» (ha rapporti diplomatici solo con 12 piccoli Paesi, il più importante dei quali è il Vaticano), è la prima democrazia asiatica, ed è al decimo posto della classifica totale di 169 paesi studiati. È seguita, a livello continentale, da Giappone (16° posto) e Corea del Sud (22°), gli unici tre Paesi asiatici nella sezione «democrazie complete». Gli Usa sono al 29° posto e l’Italia al 34°, entrambi nella sezione «democrazie imperfette» (dati del 2023).

Ma Taiwan è una democrazia giovane, ha vissuto quaranta anni di legge marziale sotto un regime dittatoriale molto duro e ha iniziato un percorso democratico solo alla fine degli anni Ottanta, per arrivare alle prime elezioni libere nel 1996.

Storia di dominazione

Dopo la Seconda guerra mondiale, il Giappone sconfitto restituì Taiwan e le isole Penghu alla Repubblica di Cina, la quale, in quel momento, aveva Pechino come capitale e Chang Khai-shek come presidente.

Il Giappone aveva ottenuto Taiwan nel 1895 dall’allora impero cinese della dinastia Qing, dopo averlo sconfitto nella seconda guerra sino-giapponese. Aveva poi impostato un colonialismo improntato sullo sviluppo e l’assimilazione degli abitanti alla cultura giapponese.

I repubblicani di Chang, guidati dal partito unico Koumintang (Kmt), la occuparono instaurando subito un regime repressivo nei confronti delle popolazioni locali.

Taiwan

A fine febbraio del 1947 un episodio di violenza dei nuovi incaricati del monopolio di tabacco, contro una venditrice ambulante di sigarette, causò un morto e fece scattare una sollevazione generalizzato in tutta l’isola. Era guidato da correnti delle élite locali anche molto diverse tra loro. Si aprì una negoziazione con il governatore imposto dal Kmt, ma i rapporti di forza cambiarono con l’arrivo di un grosso contingente militare dal continente che represse nel sangue la rivolta. Tra i 20 e i 28mila (a seconda delle fonti) taiwanesi furono uccisi nelle settimane che seguirono.

Oggi la data di inizio della rivolta, il 28 febbraio, è chiamata Peace memorial day ed è festa nazionale, mentre il parco nel centro di Taipei dove iniziò la protesta, la ricorda con un memoriale e un museo.

Il Kmt instaurò un regime molto duro, che sarebbe passato alla storia con il nome di «Terrore bianco». Nel maggio 1949 impose la legge marziale, che sarebbe rimasta in vigore fino al 1987. Ogni dissenso veniva duramente represso.

Intanto, sul continente, sconfitto il Giappone nel 1945, era ripresa la guerra civile tra nazionalisti guidati da Chang Khai-shek e i comunisti di Mao Zedong, che si erano temporaneamente alleati contro il comune nemico giapponese. I comunisti ebbero la meglio, e Chang Khai-shek con i suoi riparò a Taiwan nell’ottica di preparare la riconquista del continente. Sbarcò sull’isola tutto l’apparato dei nazionalisti: politici, funzionari, militari, ricchi commercianti e chi poteva permetterselo. Fu una vera invasione – iniziata di fatto con la restituzione nel ‘45 – che avrebbe cambiato gli assetti etnici e identitari di Taiwan.

La Repubblica di Cina, da quel momento ebbe capitale a Taipei, ma continuò a rivendicare i territori dalla parte continentale. A Pechino, invece, nasceva la Repubblica popolare cinese (Rpc), il primo ottobre 1949. Anch’essa considerava Taiwan e le altre isole parte integrante del proprio territorio. Iniziò così la storia delle «due Cine» o, come si sarebbe detto in seguito (e ancora oggi) dell’«unica Cina», ma senza mai specificare quale.

Un’identità in evoluzione

«Dopo il ‘49 arrivarono molti cinesi dal continente, in particolare di classe medio alta. Poi c’erano i soldati.

I giapponesi, nei cinquant’anni del loro controllo, avevano costruito strade, fabbriche di vario tipo, contribuito allo sviluppo del paese». Chi ci parla è padre Louis Gendron, gesuita canadese, a Taiwan dal 1966. Lo incontriamo a Taipei, al Tien educational center, importante scuola della sua congregazione.

«I ricchi fuggiti dal continente presero in mano le attività abbandonate dai giapponesi. Poi fu fatta la riforma agraria, e anche la gente di campagna iniziò a vivere un po’ meglio. I taiwanesi sono stati parecchio influenzati dai giapponesi. Ad esempio, quando sono arrivato io, gli anziani parlavano il giapponese oltre al taiwanese, mentre il cinese mandarino non era diffuso».

Con «taiwanese» spesso si intende la lingua hoklo (hokkienese), dell’omonimo popolo originario della provincia del Fujian (Sud Minnan, sul continente al di là dello stretto di Taiwan), migrato sull’isola a partire dal XVII secolo. Anche il gruppo etnico Hakka, del Nord della Cina, è arrivato a Taiwan nei secoli passati e la sua lingua oggi è parlata soprattutto al Sud.

Non bisogna dimenticare i popoli originari dell’isola, appartenenti a varie etnie austronesiane. A livello ufficiale, oggi sono riconosciuti sedici popoli e altri hanno richiesto il riconoscimento formale. Parlano lingue diverse e hanno culture differenti tra loro. Sono circa mezzo milione, il 2% dei 23,5 milioni di taiwanesi.

«Nei secoli (prima del ‘45), Taiwan era abitata da popolazioni aborigene, ognuna con la propria lingua e fede, ma nessuna in grado di conquistare l’intera isola», ci aveva detto in un precedente incontro padre Jeffrey Chang, professore all’università cattolica a Fu Jen.

Continua Gendron: «Solo dopo il 1949 il mandarino ha preso piede, con l’arrivo dell’ondata dal continente, mentre il Kmt ha proibito di parlare in taiwanese a scuola». In questo periodo, e nei decenni successivi, i taiwanesi (ovvero gli abitanti presenti prima del ‘45) furono discriminati. Ad esempio non potevano accedere al pubblico impiego, a cariche pubbliche o all’esercito.

L’identità taiwanese, è dunque un concetto piuttosto complesso che è mutato nei decenni. Interessanti sono i numerosi sondaggi sul tema. Secondo quello di Academia sinica (noto ente di ricerca di Taipei), alla domanda « ti senti più cinese, taiwanese o entrambi», nel 1992 il 23,7% si sentiva taiwanese, il 23,4% cinese e il 59,7% entrambi. Nel 2013 le percentuali erano stravolte: si sentivano taiwanesi il 73,7% degli intervistati, il 24,2% entrambi e solo l’1,1% ha risposto di sentirsi cinese (vedi in bibliografia Ho e Lin).

Ne abbiamo parlato con una intellettuale taiwanese, figlia di un cinese del continente giunto dopo il ‘45: «Io sono nata nel 1960. Tutti quelli che hanno più di 50 anni hanno avuto un’educazione gestita dal Kmt, quindi si sentono più cinesi. Quelli nati dopo, quando il Partito democratico progressista (Dpp in inglese) ha iniziato a contare e a diffondere una nuova interpretazione della storia e nuove ideologie, dicono di essere taiwanesi. Culturalmente non c’è conflitto con la Cina. Non ci sono migliaia di anni di odio tra di noi. È solo politica».

Lotta per la democrazia

Durante gli anni del Terrore bianco, crebbe un’opposizione di attivisti pro democrazia composta da diverse tendenze e ideologie. Seppure con grandi difficoltà, portò il Kuomintang a un percorso di graduali riforme e aperture, che si può considerare iniziato a metà degli anni Settanta.

I passaggi fondamentali restano il discorso di apertura alle riforme di Chang Ching-kuo (figlio di Chang Khai-shek succeduto al padre alla morte di questo nel 1975) nel maggio del 1986, e la fondazione del Partito democratico progressista (Dpp), il 28 settembre dello stesso anno. La legge marziale sarebbe stata ufficialmente revocata un anno più tardi, e le prime elezioni presidenziali libere si realizzarono nel 1996, con la conferma di Lee Theng-hui, già presidente designato dal Chang Ching-kuo alla sua morte (1988), il primo di origine taiwanese.

Libertà e diritti

Oggi il panorama in termini di diritti umani e libertà è più che soddisfacente.

Ci dice Brian: «A Taiwan i diritti umani sono rispettati. Ci sono associazioni, ad esempio per la protezione dei diritti dei bambini, delle donne. Questo è dovuto al contesto autoritario del passato. Ci sono temi sui quali occorre ancora lavorare, in termini di qualità, come ad esempio il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni, oppure la povertà urbana».

«Penso che molto è stato fatto negli scorsi decenni sui diritti umani, ma è stata una lotta dura – prosegue Brian -. In passato si poteva essere messi in prigione arbitrariamente per nulla. Qui al New Bloom abbiamo organizzato un incontro con un ex prigioniero politico, incarcerato durante il Terrore bianco. Lui non era neppure un politico ma decisero di incolparlo per una bomba, piazzata in una biblioteca. Così si è fatto 12 anni di prigione».

Secondo Brian, uno dei motivi per cui c’è un buon livello di rispetto dei diritti umani è anche il seguente: «Oggi la Cina è la maggiore minaccia geopolitica per Taiwan, dunque Taiwan ha bisogno di differenziarsi dalla Cina. Al desiderio di proteggere i diritti, si aggiunge la volontà di mostrare che questo Paese è diverso».

Anche a livello di libertà di stampa e di espressione, Taiwan è un esempio. Ancora Brian che, come giornalista, è tra i fondatori di newbloommag.net: «Non c’è nessun tipo di restrizione sulla libertà di parola e pubblicazione, esse sono regolate dalla legge sui media. Non c’è censura. Anzi, c’è addirittura troppa facilità a essere accusati di diffamazione.

Un altro tema sono i finanziamenti cinesi ai media che operano in Taiwan e diffondono disinformazione e informazioni errate. Usano questo contesto di stampa libera, per cercare di manipolare o ribaltare le istituzioni democratiche».

Movimenti sociali

Secondo Brian le sfide sono tante, dovute al fatto che «ci sono forze antidemocratiche che cercano di tornare al passato. Spesso sono azioni connesse con la Cina, e con il Kmt, che è storicamente un partito pro Cina».

L’ex partito unico di Chang Khai-shek, nemico dei comunisti, ha sempre agito nella direzione di un maggiore dialogo con la Repubblica popolare cinese. Quando il Kmt è al potere, i rapporti infrastretto sono più distesi. Al contrario, il Dpp, spesso descritto come partito indipendentista (anche se si fa attenzione all’uso della parola indipendenza), ha posizioni di maggiore autonomia e ha sempre spinto per una identità più «taiwanese» e meno «cinese» della Repubblica di Cina.

Nel 2014, sotto la presidenza di Ma Ying-jeou del Kmt (due mandati dal 2008 al 2016), era iniziato un periodo di distensione dei rapporti con Pechino. Gli studenti e i giovani crearono il Movimento dei girasoli, e occuparono il Parlamento di Taipei (lo yuan legislativo) per 24 giorni (18 marzo – 10 aprile 2014). Si opponevano al Cssta (Cross strait service trade agreement), un trattato bilaterale che puntava a liberalizzare i flussi di capitale e di risorse umane nel settore dei servizi tra le due Cine. Il movimento riuscì, pacificamente, a paralizzare le attività parlamentari e il trattato non venne ratificato. Le motivazioni principali di chi vi aderì erano, secondo uno studio di Ming-sho Ho e Thung-hong Lin, sia il timore che la democrazia e la sovranità di Taiwan fossero in pericolo, sia la certezza che l’accordo avrebbe aumentato il divario tra i ricchi e la classe media e bassa, in particolare avrebbe reso più difficile per i giovani trovare lavoro.

L’impatto del movimento, sempre secondo lo studio, influenzò le elezioni amministrative del 2014 e quelle presidenziali nel 2016, nelle quali il Dpp vinse non solo la presidenza, con Tsai Ing-wen (rimasta poi in carica per un secondo mandato fino al 2024), ma si assicurò, per la prima volta, anche il controllo del Parlamento (68 seggi su 113).

Chi vuole la riunificazione

Non tutti, però, a Taiwan amano il Movimento dei girasoli: «Ha minato il nostro rapporto con la Cina e di conseguenza la nostra economia – commenta un docente di inglese di una cinquantina di anni -. È stato il Dpp a tramare dietro a ciò. […] Non hanno dato alcun contributo al Paese».

Secondo Brian, invece, la Cina minaccia Taiwan sotto diverse forme: «Penso che la Cina sia un pericolo reale per Taiwan. C’è un’attività navale (intorno alle isole) e anche nei cieli con i caccia, che però non vediamo (non sorvolano l’isola, ndr). È qualcosa di cui la gente è consapevole da tempo, una minaccia alla quale è abituata. Il rischio che diventi un conflitto o che le tensioni aumentino c’è, ma non è detto che i taiwanesi abbiano una sensazione diretta di questo. È chiaro che c’è stata un’escalation dell’attività militare cinese intorno a Taiwan negli ultimi tre, quattro anni, e che la tendenza è in aumento».

Gli chiediamo se pensa possibile un’invasione da parte dell’Esercito popolare di liberazione, scenario paventato, a più riprese, dai media di tutto il mondo. «È difficile prevederlo. Spesso si tratta di una narrativa iperbolica dei media. Se la Cina invadesse Taiwan sarebbe il più grande sbarco mai realizzato in paesi asiatici, che coinvolgerebbe decine di migliaia di soldati e mezzi. Penso a qualcosa di estremo, con molte perdite. Non sono sicuro che oggi la Rpc possa coinvolgersi in qualcosa del genere. Sarebbe molto controverso per il Partito comunista. Forse un rischio concreto è quello di un blocco navale, ovvero impedire a qualsiasi nave di raggiungere il Paese».

Brian vede la Rpc dietro a molte operazioni più sommerse: «La Cina vorrebbe prendere Taiwan senza combattere, per cui cerca di indurre i taiwanesi ad arrendersi offrendo loro incentivi economici o convincendo la gente dell’affinità culturale tra le due sponde».

Tassello di geopolitica

Non abbiamo qui parlato del ruolo geopolitico di Taiwan, che vede negli Stati Uniti il suo maggiore alleato e – in passato – finanziatore. Lo Stretto di Taiwan potrebbe diventare una zona di scontro tra le due superpotenze di oggi, Cina e Usa, oppure elemento di scambio sullo scacchiere internazionale. L’isola è strategica per la sua posizione, ma anche per essere il primo produttore al mondo di circuiti integrati ad altissima tecnologia (approfondiremo prossimamente, nda).

«La Cina non abbandonerà mai l’idea di recuperare Taiwan, ma c’è spazio per variazioni. E dipenderà molto dalle mosse del governo taiwanese», ci diceva padre Gendron.

A Taiwan la popolazione si è formata una coscienza identitaria (certo non uniforme) che spinge molti a volere difendere la propria sovranità e, non da ultimo, la propria democrazia, una delle migliori al mondo.

Marco Bello


Bibliografia

  • Valérie Niquet, Taiwan face à la Chine, ed Tallandier, 2022.
  • Stefano Pelaggi, L’isola sospesa, Luiss university press 2022.
  • F. Congiu, B. Onnis, Fino all’ultimo Stato, Carocci editore, 2022.
  • Ming-sho Ho, Thung -hong Lin, The Power of Sunflower, Cambridge Univeristy Press, 2019.

Taiwan su mc

 




Niger. La detenzione arbitraria di Moussa Tchangari

 

Resta in carcere, con accuse pesantissime, l’attivista e difensore dei diritti umani Moussa Tchangari, segretario generale dell’Ong nigerina Alternative espaces citoyens (Aec).

Tchagari è stato prelevato la sera del 3 dicembre, a casa sua, da uomini in abiti civili ma armati, probabilmente elementi dei servizi segreti, senza mandato d’arresto. Il suo computer e il telefono sono stati sequestrati.
Tchangari è poi ricomparso, due giorni dopo, in detenzione presso locali dei servizi di lotta antiterrorismo e la criminalità organizzata.
Non è l’unico che ha subito questo trattamento da quando, dopo il golpe del 26 luglio 2023, sono al potere i militari del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp), diretto dal generale Abderramane Tiani, attuale capo di stato. Le libertà sono state drasticamente ridotte e la società civile, ma anche ogni voce dissonante con la giunta al potere, è presa di mira.

Dopo un mese senza avere contatti con i famigliari, il 3 gennaio Tchangari è stato condotto davanti al giudice d’istruzione che lo ha incolpato di pesanti capi d’accusa, tra i quali: attentato alla sicurezza dello stato, associazione terroristica, attentato alla difesa nazionale e combutta con potenze nemiche. L’attivista è stato, dunque, traferito alla prigione di Filigué, città a 180 km a Nord Est della capitale Niamey.
Qui, il giorno 5 gennaio ha finalmente potuto incontrare la moglie e alcuni stretti collaboratori, tra i quali il giurista Mamane Kaka Touda .
Organizzazioni della società civile nigerine e internazionali si sono mobilitate in suo favore. Amnesty International, Humans Rights Watch e la Federazione internazionale dei diritti dell’uomo (Fidh) hanno chiesto la sua liberazione immediata.
Hassatou Ba Minté, resposabile Africa delle Fidh, ha sottolineato come la repressione dei difensori dei diritti umani e dei militanti pro democrazia è in forte aumento in tutti i paesi dell’area. Ha voluto ricordare come sia contro produttivo, per i governi, considerare la società civile come un nemico interno.

Missioni Consolata ha incontrato a più riprese Moussa Tchangari nel suo ufficio di Niamey e ha pubblicato diverse sue interviste e testimonianze.
Tchangari, fondatore nel 1994 di Alternative espaces citoyens, è un uomo integro, un militante senza compromessi. È rimasta una delle poche voci critiche del regime di Niamey e degli altri stati golpisti del Sahel, Mali e Burkina Faso che, nel settembre 2023, si sono uniti in un blocco di cooperazione militare, politica ed economica, l’Associazione degli stati del Sahel (Aes, sigla in francese).

Abbiamo contattato Mamane Kaka Touda, che ci ha confermato: «Sono andato a visitare Moussa ancora sabato scorso (18 gennaio, ndr). Sta bene e il suo morale è alto, ma non abbiamo nessuna idea di quando potrà essere liberato».
Moussa Tchangari è forte della consapevolezza che nessuna minima prova potrà essere trovata per confermare i capi d’accusa che gli sono stati addebitati.

Marco Bello

 




Mondo. Uccisi perché difendevano il pianeta

 

Sono 196 le persone che sono state uccise nel 2023 per aver difeso l’ambiente e la terra su cui vivevano. Provavano a resistere a uno sfruttamento incondizionato delle risorse naturali del proprio paese e per questo hanno perso la vita. È questo il numero che emerge dal rapporto «Missing voices» pubblicato a settembre dall’Ong Global Witness che,da 30 anni, si occupa di investigare e riportare gli abusi nei confronti di chi difende ambiente e diritti umani.

Centonovantasei uccisioni in un anno significano più di una ogni due giorni, ma l’atto estremo di togliere la vita è sempre accompagnato da più larghe operazioni di intimidazione, minacce e oppressioni di vario tipo alle persone che contrastano gli interessi economici di aziende, gruppi criminali e governi spregiudicati.

Il rapporto sulle uccisioni dei difensori ambientali (dalla definizione in inglese «environmental defenders») viene realizzato dal 2012 e in questi anni ha registrato un totale di 2.106 morti, la grande maggioranza delle quali avvenuta in America Latina. La Colombia in particolare è il paese dove si registrano il maggior numero di casi, sia storicamente, visto che dal 2012 se ne stimano 461, che nel corso del 2023 dove le uccisioni sono state 79. Seguono Brasile, Honduras, Messico e Filippine.

Il rapporto mostra che, in ogni regione del mondo, chi si oppone alle industrie estrattive e richiama l’attenzione sui danni ambientali che provocano rischia di subire repressioni, ritorsioni e a volte perfino la morte. Nel mondo industriale il settore più coinvolto è sicuramente quello minerario, nel 2023 sono infatti 25 i difensori dell’ambiente assassinati mentre si opponevano ad operazioni minerarie, soprattutto in America Latina e in Asia.

Analizzando chi viene colpito da questi brutali attacchi si riconosce un altro elemento chiave, il 6% sono afrodiscendenti e ben il 43% delle vittime, ovvero 99 persone, appartengono a popolazioni indigene. Gli indigeni, infatti, vivono in aree ancora ricche di risorse naturali che industriali spregiudicati e gruppi criminali non vedono l’ora di sfruttare per le loro attività economiche. Anche quando i governi non la appoggiano direttamente, l’espropriazione e la devastazione di queste aree naturali accade comunque per vie nascoste e illegali. I minatori prendono il controllo delle zone interessate con la forza e con le armi, spesso poi corrompono o minacciano gli stessi indigeni per costringerli a lavori forzati o addirittura a imbracciare le armi contro le altre tribù.

Quest’ultimo è stato il caso che ha portato, il 3 luglio 2023, al ferimento di 5 membri della comunità Yanomami con la morte di una bambina di appena 7 anni. Da tempo infatti gli Yanomami di Roraima (stato a nord del Brasile) subiscono le violenze dei minatori d’oro illegali e situazioni simili sono diffuse in diverse aree dell’America Latina. Il record mantenuto dalla Colombia dove, nel 2023, ben 31 delle 79 uccisioni hanno riguardato persone indigene. Le comunità indigene ricoprono infatti un prezioso ruolo nella difesa degli ecosistemi naturali e della biodiversità, questo è uno dei punti principali con cui è stata aperta la Cop16 sulla biodiversità (diversa dalla Cop29, che si terrà in Azerbaijan dall’11 al 22 novembre) che si è tenuta proprio a Cali, in Colombia dal 21 ottobre al 1° novembre. La cooperazione con gli indigeni è anche uno dei pochi punti su cui sono stati fatti passi avanti concreti, portando alla formazione di gruppi di lavoro permanenti che coinvolgano popoli indigenti e comunità locali nei negoziati della Convenzione sulla diversità biologica. Questi potranno dunque contare su risorse permanenti e godere finalmente di una reale rappresentanza.

Bisognerà quindi continuare a monitorare la situazione, gravissima, in cui versano i difensori ambientali in tutto il mondo, per valutare se gli strumenti adottati e le promesse dei governi avranno un reale impatto nel fermare le vessazioni che subiscono.

Mattia Gisola




Italia. Israeliani e palestinesi per la pace

 

Nonviolenti palestinesi e israeliani in Italia per testimoniare il loro lavoro comune per la pace e chiedere la fine della guerra.

Due attivisti israeliani e due palestinesi, accomunati dall’obiezione alla guerra, dal 16 ottobre stanno girando l’Italia per portare le loro testimonianze e il loro appello alla pace in diverse città dal Nord al Sud, incontrando cittadini, studenti, istituzioni.

Chiedono alle istituzioni, all’Unione europea, al nostro governo, di riconoscere lo status di rifugiati politici a tutti gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che fuggono dalle guerre e chiedono asilo e protezione.

«Vengono da Israele e Palestina, dove il diritto internazionale viene calpestato – recita un comunicato del Movimento nonviolento, organizzatore del tour nell’ambito della Campagna di obiezione alla guerra -, per rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza! Lavorano insieme e rifiutano la guerra, l’esercito, le armi, l’odio».

Sono gli israeliani Sofia Orr e Daniel Mizrahi e le palestinesi Tarteel Al-Junaidi e Aisha Omar.

Sofia Orr ha rifiutato di arruolarsi per il servizio militare obbligatorio nell’Idf, l’esercito israeliano, nel febbraio 2024, ed è stata condannata al carcere militare. Daniel Mizrahi, figlio di coloni ebrei nei territori occupati, ha fatto anche lui obiezione di coscienza, subendo la stessa sorte. La palestinese Tarteel Al-Junaidi è attivista nonviolenta per i diritti umani. Aisha Omar, cresciuta nella Territori palestinesi occupati, sostiene gli obiettori israeliani e ne fa conoscere ai palestinesi l’attività contro la guerra e l’occupazione.

I quattro rappresentano due importanti movimenti: Mesarvot, una rete di giovani israeliani obiettori di coscienza al servizio militare, e Community peacemaker teams (Cpt), sezione palestinese, che sostiene la resistenza nonviolenta contro l’occupazione israeliana.

Mesarvot è una rete che si oppone al regime di occupazione dei territori palestinesi con manifestazioni congiunte israelo-palestinesi in tutto il Paese, chiedendo un accordo sugli ostaggi, la fine del genocidio a Gaza, del conflitto in Medioriente e il raggiungimento di una soluzione diplomatica.

I suoi attivisti portano l’attenzione sui crimini commessi dall’esercito e incoraggiano i giovani israeliani ad assumersi la responsabilità personale di disobbedire al governo. In più forniscono sostegno, anche legale, a chi decide di rifiutare il servizio militare in un paese nel quale gli obiettori subiscono lunghe detenzioni e le voci dissidenti vengono represse brutalmente.

Il Cpt è uno tra i molti gruppi palestinesi di resistenza nonviolenta. Lavora contro la violenza dell’occupazione israeliana, in particolare in Cisgiordania, ad esempio con il monitoraggio dei posti di blocco israeliani attraversati dai bambini palestinesi per andare a scuola, documentando le continue violazioni dei diritti umani. Il docufilm «Light», proiettato durante il giro italiano dei quattro attivisti, racconta proprio l’impegno del Cpt.

Il tour è partito il 16 ottobre da Milano, ha toccato le città di Verona, Bologna, Parma, Reggio Emilia e Firenze, ed è arrivato a Roma il 23. Si concluderà domani a Bari in coincidenza della Giornata di mobilitazione nazionale per la pace, «Fermiamo le guerre, il tempo della pace è ora!» organizzata da Rete italiana pace e disarmo in diverse città italiane, tra cui, oltre a Bari, Torino, Firenze, Cagliari, Palermo, Roma, Milano.

Nelle varie tappe (di cui si può leggere il diario sul sito di «Azione nonviolenta»), i quattro testimoni hanno incontrato la cittadinanza durante incontri pubblici, studenti, giornalisti, sindaci, vescovi.

Ieri, 24 ottobre, hanno fatto un’audizione alla Commissione permanente per i diritti umani della Camera dei deputati seguita da un incontro pubblico, un incontro presso il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano e integrale e da una conferenza stampa a Montecitorio.

Come ha scritto Pasquale Pugliese, già presidente del Movimento nonviolento, su Comune.info, «Mentre nessuna organizzazione internazionale sembra essere in grado di fermare la violenza cieca dell’esercito israeliano, che dopo oltre 42.000 vittime palestinesi tra Gaza e Cisgiordania invade il Libano, attacca le basi Unifil, colpisce la Croce Rossa, cerca la guerra con l’Iran; mentre nessun governo occidentale, anche apparentemente dissentendo in pubblico con le sue scelte belliche, si decide in verità a interrompere l’invio di armi al governo di Netanyahu; mentre da oltre un anno grandi manifestazioni in ogni parte del mondo, e nella stessa Israele, non riescono a spezzare la spirale di violenza e di odio; mentre accade tutto questo c’è chi trova il coraggio di resistere dal basso, proprio dentro il cuore di tenebra della guerra, rifiutando la logica della violenza, del nemico e dell’odio: ha il volto di giovanissimi israeliani che rifiutano il servizio militare e di altrettanto giovani palestinesi impegnati nella resistenza nonviolenta».

Luca Lorusso




I Rohingya del Myanmar, ancora sfollati e rifugiati

 

A sette anni dallo scoppio della crisi che interessò il popolo dei Rohingya, gruppo etnico di religione musulmana stanziato nella parte occidentale del Myanmar, la comunità internazionale è ancora alle prese con una questione di difficile soluzione.

Sette anni fa, avvenne il primo esodo a seguito dello sfollamento forzato su larga scala di 750mila Rohingya che, sotto la pressione dell’esercito birmano, per sfuggire alla pulizia etnica, varcarono il confine e si stabilirono in Bangladesh, in particolare nella località di Cox’s Bazar.

La loro vita in campi profughi, organizzati in quell’area di confine grazie al governo di Dacca e agli aiuti della comunità internazionale, apparve fin dal principio molto critica.

Difficile la distribuzione di beni di prima necessità per il sostentamento. Per non parlare di istruzione, sviluppo, reinserimento sociale o occupazione per offrire un futuro agli sfollati che risultano apolidi, dunque privi di ogni diritto e riconoscimento.

Inoltre, negli anni, «nuovi problemi di sicurezza e le incertezze sui finanziamenti compromettono tutti gli aiuti», ha avvisato di recente l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur).

Sconsigliato anche il piano di rimpatrio nell’ex Birmania: nello Stato di Rakhine, in Myanmar, l’escalation del conflitto ha peggiorato le condizioni dei Rohingya rimasti nei distretti originari.

Data la guerra civile in corso nel Paese, lo sfollamento interno è ai massimi storici, oltre 3,3 milioni di sfollati all’interno del Paese. Tra questi, circa 130mila sono Rohingya che si trovano nel Rakhine settentrionale e vivono in mezzo al fuoco incrociato, vittime dei combattimenti tra l’esercito regolare e i miliziani dell’Arakan army, organizzazione militare locale tra quelle che sfidano la giunta birmana al potere.

«I civili di etnia Rohingya in Rakhine stanno sopportando il peso delle atrocità commesse dall’esercito del Myanmar e dall’opposizione dell’Arakan Army», ha spiegato Elaine Pearson, direttore per l’Asia di Human Rights Watch, presentando l’ultimo rapporto sugli abusi nell’area.

In Bangladesh, a sua volta attraversato dalla crisi politica culminata con la fuga dell’ex presidente Sheikh Hasina, il governo provvisorio di Muhammad Yunus ha mostrato una certa solidarietà auspicando che i rifugiati Rohingya possano rientrare in Myanmar in piena sicurezza, dignità e diritti. Sebbene, dunque, un ritorno dignitoso, volontario e sostenibile in Myanmar resti la soluzione ricercata dalle autorità, mancano le condizioni sul terreno per renderla possibile.

In attesa di una soluzione, la vita per i Rohingya in Bangladesh resta sospesa. I rifugiati hanno bisogno di assistenza immediata e di aiuto per costruire il loro futuro: il 52% di loro ha meno di 18 anni e molti sono nati in esilio o hanno trascorso i primi anni di vita nei campi profughi.

Nel 2024, le agenzie umanitarie hanno richiesto 852 milioni di dollari per assistere circa 1,3 milioni di persone, ma i finanziamenti internazionali per coprire quella necessità sono insufficienti. Per questo le razioni alimentari sono state ridotte, i centri sanitari devono far fronte alla carenza di personale medico e di medicinali, la bassa qualità dell’acqua causa epidemie di colera ed epatite; le opportunità di formazione professionale sono ridotte.

La nazione, poi, affronta inondazioni catastrofiche che colpiscono milioni di cittadini e anche comunità che ospitano i rifugiati, aggravando la situazione che, nota l’Acnur, richiede allora «un sostegno globale ampio e sistematico».

Paolo Affatato

 




Burkina Faso. Il capitano Traoré si rielegge presidente

 

Le «assises nazionali» – incontro di rappresentanti della società burkinabè –, tenute il 25 maggio scorso, hanno approvato il prolungamento di cinque anni della transizione in corso.

La riunione, che era prevista della durata di due giorni, con lo scopo di fare un bilancio del lavoro della giunta militare, ha votato in tutta fretta una nuova «Carta», che mantiene al potere il capitano Ibrahim Traoré, l’uomo forte del momento. Traoré non sarà più il «Presidente di transizione», ma il «Presidente della nazione», che è il nome ufficiale della carica elettiva. Resterà in carica fino al 2029 e potrà candidarsi a future elezioni.

Il capitano ha preso il potere il 30 settembre 2022, deponendo con la forza un altro militare, Paul-Henri Sandaogo Damiba, che aveva sua volta fatto un golpe nel gennaio dello stesso anno ai danni del presidente eletto Roch Marc Christian Kaboré.

Escluse le voci critiche

Alle assises, che dovrebbero raggruppare le diverse forze della società burkinabè per trovare un consenso durante un periodo crisi, in questo caso non sono stati invitati svariati movimenti della società civile, associazioni, sindacati con voci discordanti da quelle del regime.

Il giornalista Newton Ahmed Barry denuncia ha dichiarato ai microfoni di Radio France intérnationale che l’incontro non era dunque per riflettere, ma per dare ufficialità a un prolungamento della giunta al potere e che il Burkina è gestito da un regime militare, e non è più in una transizione.

In effetti, le voci non allineate con il regime sono messe a tacere. Come nel caso dell’avvocato Guy Hervé Kam, noto esponente del movimento della società civile, arrestato segretamente e tenuto nascosto per quattro mesi. Finalmente lo scorso 30 maggio, i suoi avvocati hanno potuto visitarlo in cella e capire il controverso capo di accusa.

Consenso popolare

Nonostante la deriva autoritaria del regime di Traoré e la stretta sui diritti civili, il presidente gode di una grande popolarità tra la popolazione.

Il pretesto della presa del potere con la forza era stata la situazione di grande insicurezza causata da gruppi jihadisti attivi in gran parte del Paese.

Il regime di Traoré, affiancato da milizie civili chiamate «Volontari della patria», difficilmente controllabili, non ha tuttavia migliorato le cose.

Campione di sfollati

Il Consiglio norvegese dei rifugiati (Nrc) ha pubblicato un rapporto nel quale classifica gli spostamenti di popolazione nel mondo a causa dei conflitti. Il Burkina Faso, nel 2023 per il secondo anno consecutivo, si trova al primo posto, seguito da Camerun, Repubblica democratica del Congo, Mali, Niger, Honduras, Sud Sudan, Centrafrica, Ciad e Sudan.

In Burkina si contano circa due milioni di persone sfollate interne, con oltre 707mila spostamenti solo nel 2023 (un incremento del 61% rispetto al 2022), su una popolazione di circa 23 milioni. I rifugiati burkinabè in altri paesi sono tra il 60 e i 150mila. Gli abitanti in fuga dagli attacchi degli islamisti sono dunque in aumento.

L’Alto rappresentati dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, il 31 maggio scorso, si è detto molto preoccupato sottolineando un incremento del 65% (tra novembre 2023 e aprile 2024) delle uccisioni di civili nel Paese. Vittime causate, oltre che dai gruppi armati jihadisti, anche dalle forze di sicurezza e dai Volontari della patria. Turk chiede un’inchiesta internazionale indipendente sulle violazioni e gli abusi, e che lo Stato assicuri la protezione dei propri cittadini.

Intanto il ministro degli Affari esteri della Russia, Sergej Lavrov, nella sua tourné africana, è stato il 5 giungo scorso a Ouagadougou dove ha incontrato il presidente Ibrahim Traoré, fresco di conferma fino al 2029. Traoré aveva partecipato al summit Russia-Africa del luglio 2023, dove si era distinto per un discorso zeppo di demagogia. Diversi accordi di tipo militare e tecnico sono, da allora, stati firmati tra i due paesi, compreso l’invio di istruttori russi per l’esercito, arrivati nel novembre scorso. L’ambasciata di Russia a Ouagadougou è stata riaperta nello stesso periodo, a sottolineare relazioni sempre più strette. Tratto questo che il Burkina Faso ha in comune con Mali e Niger, con i quali ha creato, nel settembre dello scorso anno, l’Alleanza degli stati del Sahel.

Marco Bello




Mondo. La geometria variabile dei diritti umani

La Dichiarazione universale dei diritti umani risale al 1948. La realtà è però diversa dalla teoria. Oggi più che mai.

«Siete dalla parte giusta della storia», si sono sentiti dire gli universitari americani per la loro difesa della causa palestinese. Parole pronunciate dall’ayatollah Khamenei, guida suprema della teocrazia iraniana che lo scorso 30 maggio – tramite X – si è rivolto direttamente a loro. Il complimento si è immediatamente trasformato in un palese imbarazzo visto che proveniva da un grande violatore dei diritti umani, leader di un Paese dove non esiste libertà.

Il fatto ha riproposto all’attenzione pubblica internazionale molti interrogativi. Uno di essi può trovare una sintesi nella seguente domanda: al di là delle dichiarazioni teoriche (la principale è quella del 1948), nella realtà esiste una definizione universale dei diritti umani?

In un momento storico come l’attuale, caratterizzato da divisioni e guerre, la risposta è «no, non esiste». Ogni stato – sia esso una democrazia o una dittatura – è convinto di rispettare i diritti umani, convinzione che spesso assume aspetti grotteschi. Prendiamo, ad esempio, la Cina di Xi.

Il complimento dell’ayatollah Kamenei, guida suprema della teocrazia iraniana, agli studenti statunitensi.

Lo scorso marzo un dipartimento del Comitato centrale del Partito comunista cinese ha organizzato – anche se pare impossibile – il terzo Forum internazionale sulla democrazia, come ha raccontato anche il «China Daily», il principale quotidiano in lingua inglese di Pechino. La democrazia – è stato detto durante il Forum – può assumere forme diverse a causa delle diverse situazioni dei paesi. Per parte sua, la Cina è un campione di democrazia. Infatti, afferma l’articolo, «pratica la “democrazia popolare integrale”, che consiste nel rendere la democrazia presente in tutti gli aspetti» (economia, politica, cultura, società, ecologia).

Difficile capire come la democrazia declinata alla cinese spieghi la mancanza di libertà in Tibet o nello Xinjiang o la repressione in atto a Hong Kong o tutto il potere concentrato nelle mani del Partito comunista e del suo leader Xi Jin Ping. Meglio allora – avrà pensato il presidente cinese – giocare d’attacco. A maggio è, quindi, uscito «The Report on Human Rights Violations in the United States in 2023», un rapporto sulle violazioni dei diritti umani negli Usa stilato dallo State council information office (Scio), l’ufficio informazioni del consiglio di stato cinese.

«La situazione dei diritti umani negli Stati Uniti – si legge nell’incipit – ha continuato a peggiorare nel 2023. Negli Stati Uniti, i diritti umani stanno diventando sempre più polarizzati. Mentre una minoranza al potere detiene il dominio politico, economico e sociale, la maggioranza della gente comune è sempre più emarginata e i suoi diritti e le sue libertà fondamentali vengono ignorati. Uno sconcertante 76% degli americani ritiene che la propria nazione vada nella direzione sbagliata».

John Lee, ex poliziotto, è il «chief executive» che Pechino ha messo alla guida di Hong Kong. (Foto GovHK)

Negli Usa i problemi certamente non mancano, ma che i diritti umani vengano ignorati è pura propaganda di Pechino per distrarre l’opinione pubblica dai problemi cinesi. A fine maggio, a Hong Kong, 14 esponenti del locale movimento per la democrazia sono stati condannati in base alla legge sulla sicurezza nazionale (nota come «Articolo 23 della Legge fondamentale»), imposta da Pechino e firmata lo scorso 23 marzo dal governatore John Lee (un ex poliziotto, vincitore di un’«elezione» in cui era il solo candidato). Probabilmente la triste esperienza di Hong Kong fa sì che anche gli abitanti di Taiwan guardino con terrore a una eventuale riunificazione con la Cina.

A ulteriore riprova della distanza esistente tra la seconda potenza mondiale e il modello democratico, c’è la Conferenza internazionale per la pace in Ucraina, prevista a Bürgenstock (Canton Nidvaldo, Svizzera) per il 15 e 16 giugno. Nonostante sia stata invitata, la Cina non vi parteciperà, prendendo a pretesto l’assenza della Russia ma confermando – una volta di più – di stare dalla parte dell’aggressore e, in generale, dei sistemi anti democratici. Da ultimo, lo scorso 4 giugno è stato il 35.mo anniversario della repressione di piazza Tiananmen (4 giugno 1989), che a Pechino è passato sotto il silenzio più assordante. E chi se ne importa dei diritti umani.

Paolo Moiola




Accordo UK-Rwanda: deportare i richiedenti asilo

 

Dopo mesi di scontri politici, il 22 aprile il Parlamento britannico ha approvato una legge che permette la deportazione in Rwanda dei richiedenti asilo. Il provvedimento riguarda chi è giunto illegalmente nel Regno Unito dopo il primo gennaio 2022 (secondo la Bbc, circa 52mila persone di origine asiatica e africana).

Il primo accordo tra i due Paesi era stato siglato ad aprile 2022, ma nessun volo era mai decollato alla volta di Kigali a causa dei numerosi ricorsi delle organizzazioni per i diritti umani. Nel giugno 2022, la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu), garante della Convenzione europea per i diritti umani di cui il Regno Unito è firmatario, era riuscita a bloccare all’ultimo il primo volo in partenza per il Rwanda.

Dopo la giustizia europea, a novembre 2023, anche quella britannica aveva rigettato il provvedimento. Secondo i giudici, lo Stato africano non poteva essere considerato un «Paese terzo sicuro» a causa di autoritarismo, repressione del dissenso e continue violazioni dei diritti umani. Infatti, il testo della sentenza riportava: «Il Rwanda ha fatto grandi progressi sul piano economico e sociale […] ed è un importante partner del Regno Unito. Tuttavia, la situazione del rispetto dei diritti umani nel Paese è molto controversa».

Mandare i richiedenti asilo in Rwanda sarebbe stata una violazione della Cedu perché li avrebbe esposti al rischio di torture e trattamenti disumani.

Nel frattempo, l’Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati) aveva ricordato di aver documentato maltrattamenti delle autorità rwandesi nei confronti di richiedenti asilo provenienti da Siria, Yemen e Afghanistan. I migranti erano arrivati a Kigali a seguito di un accordo di trasferimento firmato da Rwanda e Israele nel 2018.

Dopo la sentenza della Corte suprema, il governo britannico ha promosso un nuovo provvedimento – quello approvato a fine aprile – che stabilisce che, per il Regno Unito, il Rwanda è un «Paese sicuro».

La legge ha spianato la strada al progetto di deportazione. Giunti a Kigali, i migranti potranno chiedere asilo in Rwanda. Nel caso in cui la richiesta sarà accettata, otterranno lo status di rifugiati e il permesso di restare nel Paese. In caso contrario, potrebbero chiedere di rimanere in territorio rwandese per altri motivi o domandare asilo in un altro «Paese terzo sicuro». In nessun caso potranno tornare nel Regno Unito.

Subito dopo l’approvazione del provvedimento, numerose organizzazioni per i diritti umani (tra cui Amnesty international) e l’Unhcr hanno chiesto a Londra di riconsiderare il piano. Freedom from torture, Amnesty international e Liberty hanno definito la legge una «disgrazia nazionale che minaccia significativamente lo stato di diritto». Inoltre, hanno denunciato che la disposizione viola alcuni diritti fondamentali dei richiedenti asilo contenuti in documenti nazionali e internazionali (come la garanzia di non respingimento assicurata dalla Convenzione di Ginevra).

Nel frattempo, il premier britannico, Rishi Sunak, ha comunicato che i primi voli per Kigali partiranno entro luglio.

Di fronte all’annuncio di ricorsi da parte delle organizzazioni umanitarie alla Corte europea per i diritti dell’uomo, Sunak ha rincarato la dose: «Questa è una svolta destinata a cambiare l’equazione globale dell’immigrazione e nessun tribunale fermerà i trasferimenti». La legge addirittura prevede che il Governo possa ignorare eventuali sentenze della Corte europea.

Nei fatti, il piano è già operativoa. Il governo britannico ha affittato gli aerei charter per deportare le prime 350 persone: uomini di più di 40 anni, entrati illegalmente nel Paese. Molti sono già in detenzione preventiva dal 29 aprile. A Kigali invece è già arrivata la prima tranche di ricompense: 290 milioni di euro. Altri 140 milioni saranno versati una volta che il Rwanda avrà ricevuto i primi 300 richiedenti asilo.

A dispetto di quanto sostiene il Governo britannico, per il quale il piano sarà economicamente vantaggioso per il Regno Unito, l’Institute for public policy research (un ente di ricerca indipendente) ne ha denunciato i costi elevati. Secondo i ricercatori, infatti, potrebbero servire fino a 4,6 miliardi di euro per deportare le sole 20mila persone arrivate illegalmente tra luglio e dicembre 2023. Tra il 2022 e il 2023, invece, il sistema di asilo britannico era costato meno di 4,5 miliardi di euro.

Nelle intenzioni di Londra, la minaccia di deportazione dovrebbe agire da deterrente per scoraggiare futuri arrivi illegali. Per il momento però i flussi non accennano a fermarsi: mentre i parlamentari approvavano la legge, nella Manica annegavano tre uomini, una donna e una bambina.

L’introduzione del piano costituisce senza dubbio un importante tassello per i conservatori inglesi. Con l’avvicinarsi delle elezioni – si voterà entro gennaio 2025 -, Sunak e il suo partito avevano bisogno di un successo da vantare di fronte all’elettorato, tanto più che i sondaggi danno i laburisti in testa. Ora i tory avranno qualcosa su cui puntare. Anche a costo di ignorare i diritti umani.

Aurora Guainazzi