Colombia: La pace bussa due volte
I guerriglieri delle Farc hanno lasciato i loro rifugi per andare nei «campi di normalizzazione». Dopo il referendum del 2 ottobre 2016, la fine di 52 anni di conflitto interno sembrava in pericolo. Invece, la pace ha bussato due volte. Il 24 novembre è stato firmato un nuovo accordo e il processo di pace ha avuto inizio. Di questo e altro abbiamo parlato con mons. Luis Augusto Castro Quiroga, presidente della Conferenza episcopale colombiana e mediatore nelle lunghissime trattative tra il governo di Manuel Santos e le Farc.
L unedì 3 ottobre tutto sembrava sfumato, volatilizzato: quattro anni di negoziati, la possibilità di porre fine a 52 anni di guerra civile, la speranza di un nuovo inizio per il paese. Il referendum sull’accordo di pace tra governo?Santos e le Farc – peraltro disertato dalla maggioranza dei colombiani – aveva visto prevalere, per poche migliaia di voti, il «no». Invece di perdersi d’animo, le parti si sono subito rimesse attorno a un tavolo per ascoltare le voci dissenzienti e per rinegoziare i punti più controversi.
In poco più di 40 giorni si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo, che il 24 novembre è stato firmato dal presidente Manuel Santos e dal comandante Rodrigo Londoño, alias Timochenko, leader delle Farc. Pochi giorni dopo il testo è passato al vaglio del Senato e della Camera dei rappresentanti, che lo hanno approvato. Alla votazione non ha partecipato lo schieramento dell’ex presidente?Álvaro Uribe Vélez, contrario all’accordo per definizione (oltre che per precisi calcoli politici).
Considerata la lunghezza e difficoltà del percorso, è ancora troppo presto per dire se la pace arriverà per davvero. Quello che però si può dire con certezza è che le Farc (a parte piccole frange isolate) stanno rispettado gli impegni sottoscritti. A gennaio e febbraio migliaia di guerriglieri – tra cui 87 donne incinte e 65 madri allattanti – hanno lasciato montagne, foreste e accampamenti per andare nei 27 «campi transitori di normalizzazione» (Zonas veredales transitorias de normalización e Puntos transitorios de normalización) dislocati sul territorio del paese. Qui, al momento stabilito, consegneranno le armi nelle mani dei rappresentanti delle Nazioni Unite e cominceranno la preparazione per il loro reinserimento nella vita civile e il passaggio alla legalità.
«È cominciata l’ultima marcia delle Farc», ha annunciato l’Alto Commissariato per la pace (Alto Comisionado para la paz). Una frase ad effetto, ma fedele a ciò che sta accadendo.
Il prossimo settembre papa Francesco visiterà la Colombia. Al suo viaggio è stato dato un titolo significativo: «Demos el primer paso», «Facciamo il primo passo». Ad accogliere il papa non ci sarà mons. Luis Augusto Castro Quiroga, attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), che a luglio concluderà il suo mandato. Uno scherzo del destino considerando quanto, fin dagli anni Ottanta in Caquetá, mons. Castro si è speso per la pace e il suo ruolo di mediatore (non sempre compreso e sostenuto anche all’interno della stessa Chiesa cattolica colombiana) nei colloqui tra il governo?Santos e le Farc.
Abbiamo incontrato mons. Castro per parlare non soltanto del processo di pace, ma anche di tutti i problemi che pesano sulla Colombia a partire dalle diseguaglianze e dal narcotraffico.
Dal «no» al nuovo accordo
Mons. Castro, al referendum del 2 ottobre ha vinto il «no» all’accordo di pace. Si è trattato di una sconfitta o semplicemente di uno stop temporaneo sul cammino verso la pace?
«È stata innanzitutto una sconfitta che però si è convertita in un passaggio interlocutorio. È stata una sconfitta sì, ma in una partita giocata tra due minoranze estreme perché la grande maggioranza dei colombiani non ha votato. E non ha votato soprattutto perché non aveva inteso di cosa si trattasse, cosa fosse in gioco.
Continuamente, direi tutti i giorni, io ripetevo al governo: fate un po’ di pedagogia, spiegate questa domanda bene e con semplicità.
Non da avvocato ad avvocato, ma a una persona semplice per aiutare a capire l’importanza di tutto questo. Non lo hanno fatto. Quindi, quelli del no invece di spiegare hanno iniziato a instillare terrore nei colombiani. Sembrava che il processo di pace fosse un processo di guerra. Sembrava un processo contro i colombiani e non a loro favore. Questa propaganda piena di terrore ha fatto sì che molti colombiani abbiano votato per il no.
E alla fine, per pochissimo, quelli del no hanno battuto quelli del sì.
Fin qui, dunque, è stata una sconfitta. Questa è però servita affinché sia quelli del sì come quelli del no s’incontrassero. E soprattutto s’incontrassero quelli del no e il governo per vedere quali fossero le modifiche che essi chiedevano per poter essere soddisfatti e dire sì al processo. Per molti giorni si sono riuniti e alla fine si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo».
Le Farc come hanno reagito alla bocciatura dell’accordo iniziale, quello di agosto?
«La guerriglia è stata molto responsabile. Ha accettato tutte le osservazioni acconsentendo che esse entrassero nel nuovo schema d’accordo. Io stesso sono rimasto tutto un giorno con loro, mostrando le debolezze che c’erano nel testo di agosto e dicendo che avrebbero dovuto considerarle. E così hanno fatto.
Non si è tornati a votare con un referendum. Tutto è passato al Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti, ndr), che è l’organo naturale di un paese, e questo ha iniziato a studiare e votare tutti i punti. E a votare le leggi necessarie affinché i punti si traducano in misure legalmente operative».
Mi permetta di insistere sul referendum di ottobre. Pur lavorando da sempre per la pace, come presidente della Conferenza episcopale, lei non si era dichiarato chiaramente a favore del «sì». Come mai?
«È stata una decisione della Conferenza episcopale, assunta tutti insieme.
Ci siamo dichiarati a favore del voto: che tutti i colombiani e tutti i cattolici andassero a votare. Però non abbiamo dato un’indicazione: né a favore del “no”, né a favore del “sì”. Doveva maturare nella coscienza dei cittadini ciò che a essi appariva come la scelta migliore. E così hanno fatto. Liberamente. Così abbiamo proceduto. Certamente a molti non è piaciuto quello che abbiamo fatto, neppure ai sostenitori del no. Tuttavia, il comportamento era corretto: fare appello alla coscienza di ogni colombiano, invitare a studiare la questione e quindi prendere una decisione. Questo è stato il nostro suggerimento».
Il post conflitto e le «nuove stanze» della Colombia
Lei parla continuamente di «pedagogia della pace». Cosa intende?
«È cercare di far capire alla Colombia il significato di questo processo. Soprattutto il post conflitto. Io mi sono dato un compito: disegnare un’immagine che la gente semplice capisca. Il post conflitto è come la costruzione di una casa nuova. In cosa consiste la novità delle diverse stanze? Che ognuna ha qualcosa che prima non esisteva. Per esempio, la stanza della politica. Essa necessita dell’elemento dell’inclusione, un elemento sempre assente in questi anni. Tutti coloro che erano esclusi dalla politica presero le armi contro lo stato. Prendiamo l’economia. In Colombia essa dà vantaggi solamente a un gruppo molto piccolo di colombiani. È un’economia a cui manca l’elemento della solidarietà. Se si firma la pace, occorre inventarsi un’economia solidale, come sempre richiesto dalla Chiesa. E così per gli altri settori: l’istruzione, la cultura.
Tuttavia, una casa senza cemento cade. Ci sono tre tipi di cemento. Quello etico, che naturalmente ha a che vedere con l’onestà. Come in qualsiasi parte del mondo la corruzione è un elemento molto dannoso. Essa danneggia profondamente la vita di ogni colombiano. Ecco perché è necessario un cemento etico. In secondo luogo, è necessario un cemento spirituale. Esso è il perdono e la riconciliazione. Infine, c’è il cemento culturale. È necessario avere una cultura della vita, dei diritti, delle relazioni umane. L’elemento culturale è molto importante per costruire questa nuova società.
Bene, questa è la pedagogia che può entrare facilmente nella testa di qualsiasi persona, perché tutti sappiamo come si costruisce una casa. Secondo me, questa immagine aiuta a capire il futuro della Colombia in termini di pace».
Monsignor Castro, ci spieghi perché le vittime dovrebbero perdonare.
«In Colombia, le vittime comprovate ufficialmente sono 8 milioni. Però per ognuna di loro ce ne sono almeno due in più: un figlio con mamma e papà, un padre con moglie e figli. Se per ogni vittima ce ne sono altre due coinvolte, arriviamo alla cifra di 24 milioni di vittime. Questo significa il 50% della popolazione. Se non ci sarà il loro perdono, mai smetteranno di essere vittime.
Non esiste la vittima felice. Una vittima sarà sempre infelice. Per questo è importante passare dalla condizione di vittima a quella di sopravvissuto. “Con l’aiuto di Dio io sono stato capace di superare l’odio e il sentimento di vendetta e costruirmi un futuro differente”. Questa è la speranza per ogni vittima. Per questo si insiste sul perdono. E sulla riconciliazione».
Le Farc non sono un cartello
Secondo rapporti internazionali e reportage, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terrorista, per alcuni) in un cartello del narcotraffico che guadagna milioni di dollari. Questa interpretazione è realistica o è manipolata per motivi politici?
«Io direi più la seconda ipotesi che la prima. Le Farc sempre hanno negato di essersi convertite in un cartello della droga.
I guadagni che avevano venivano dalle imposte: se un narcotrafficante voleva droga, doveva pagare alla guerriglia una tassa. Il business rimaneva però nelle mani dei narcotrafficanti.
Per non essere troppo radicale direi che la gran parte delle Farc ha vissuto di questa imposta, nota come vacuna. Non possiamo scartare l’ipotesi che qualcuno si sia messo nel narcotraffico. Però non a livello di organizzazione.
Alcuni guerriglieri non hanno accettato il processo di pace e si sono staccati (sarebbero circa 100 uomini del Frente Primero, di stanza in Guaviare, guidato da Iván Mordisco e Gentil Duarte, e alcune decine appartenenti ad altri fronti, ndr). E credo, come tanti, che lo abbiano fatto perché si sono messi in questa attività. A costoro interessa il denaro e non la pace in Colombia. Sono delinquenti comuni. Però nelle Farc non c’è mai stata una scelta ufficiale di trasformarsi in trafficanti di droga veri e propri. L’hanno usata per ottenere risorse. Come lo hanno fatto con altri strumenti – orribili! – tipo il sequestro (le cosiddette «pescas milagrosas», ndr).
Naturalmente, in questo momento, le Farc cercano di dimostrare che mai sono state dei mercanti di droga. Allo stesso tempo ammettono che chiedevano soldi ai narcotrafficanti per autofinanziarsi».
Con quali esponenti delle Farc lei ha avuto modo di parlare?
«Con molta gente. Con i dirigenti. Con Iván Márquez, per esempio. Una delle ultime volte mi ha sorpreso. Durante una conversazione, a l’Avana, venne fuori una espressione latina. “Mi ricordo ancora qualche frase in latino”, disse lui. “E dove lo ha imparato?”, chiesi. “In seminario”, rispose. “E chi glielo insegnò?”, continuai io. Non so se posso dirlo in questa intervista, ma i padri della Consolata erano stati quelli che gli avevano insegnato il latino.
Un giorno egli decise di lasciare il seminario, ma chiese al vescovo se avesse potuto dargli un lavoro. Lui lo nominò professore in una struttura educativa. Il problema di Iván Márquez era che credeva che quel vescovo fossi io. Invece era mons. Cuniberti. In ogni caso, l’uomo ha maturato un grande rispetto per i missionari della Consolata che sono stati suoi formatori in filosofia, latino e altre discipline.
Questo lo racconto per dire che il dialogo fluiva in maniera molto facile, tranquilla e sincera. Quando il mio collaboratore portava una lista di richieste della gente, Márquez le prendeva e le distribuiva tra i suoi uomini affinché se ne occupassero. Con lui si dialogava. Con Timochenko, il leader maximo delle Farc, ci siamo incontrati solamente una volta. Verso la fine, quando capimmo che loro erano realmente decisi a fare il passo dalla guerra alla pace. E che non c’erano possibilità di tornare indietro».
Le cause economiche e sociali che, nel 1964, portarono alla guerra sono tuttora presenti: concentrazione della terra in poche mani, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione pubbliche. Lei non crede che senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace non potrà mai diventare effettiva?
«La prima causa della ribellione delle Farc contro lo stato fu la loro esclusione dalla politica. Non fu per la povertà né per altri motivi. Il fatto è che, essendo esclusi dalla politica, non potevano lavorare sugli altri aspetti dell’esistenza. Oggi l’obiettivo è integrarsi nella politica. Detto questo, l’accordo di pace non è tanto sugli elementi politici, dati per acquisiti, quanto su tutti gli altri aspetti della vita colombiana. In primo luogo, l’aspetto della terra, una terra superconcentrata in poche mani che non sono certamente quelle dei poveri. E poi il problema agricolo. Tutto è stato studiato nell’accordo di pace che è stato approvato. Una cosa è deciderlo, un’altra è metterlo in pratica. Per fare questo si richiedono ingenti quantità di denaro. Per fortuna molti paesi hanno iniziato ad aiutare».
L’applicazione di cui lei parla ha avuto inizio?
«È iniziata il primo dicembre del 2016. È iniziata con la definizione delle aree dove si concentrerà la guerriglia per le varie fasi del processo. La prima fase è quella del disarmo. Poi la formazione per integrarsi positivamente nella società. Formazione anche dal punto di vista lavorativo, apprendendo elementi che servano per aprirsi le porte nel mondo del lavoro. In generale, la implementazione di un accordo è più difficile della sua approvazione» .
Uribe, il grande oppositore
Mons. Castro, la sua opinione su Álvaro Uribe e sulle Autodefensas unidas de Colombia (Auc).
«Mettere questi due soggetti nella stessa domanda è una cosa… maliziosa… Sono due cose differenti. Io credo che il presidente Uribe
sia stato ferito quando Santos, già ministro sotto la sua presidenza, fu nominato presidente e prese una linea totalmente autonoma rispetto alla sua. E lo fece fin dal suo discorso iniziale. Questo ha fatto sì che Uribe sia diventato un grande oppositore.
Quando papa Francesco ha invitato Santos in Vaticano ha chiamato anche Uribe per cercare un riavvicinamento tra i due, ma non vi è riuscito (a dicembre 2016, ndr). Naturalmente Uribe ha molti nemici e si dice che, in passato, egli abbia avuto rapporti con i gruppi paramilitari come le Auc, composti da delinquenti. Su questa cosa però io non dico nulla perché non ho elementi per giudicare».
Chiudere il «ciclo del dolore»
Abbiamo visto che i numeri delle vittime sono impressionanti. Cosa può dire a una persona che ha perso un familiare o a un profugo?
«A queste persone si possono dire due cose. In primis, che esse hanno la possibilità di fare reclamo contro lo stato per i danni e le conseguenze sofferte perché la guerra era contro lo stato. Questo c’è negli accordi di pace.
In secondo luogo, come ho già spiegato, nel Tribunale per la pace ogni guerrigliero è obbligato a dire ciò che sa in termini di sparizioni, morti, sequestri. Se vuole avere degli sconti di pena, deve dire tutto quello che sa. Come successe in Sudafrica dove la commissione di conciliazione diceva: “Se dice la verità, lo favoriremo. In caso contrario, la giustizia cadrà su di lei con tutto il peso della legge”.
Le vittime, molte vittime possono ottenere risposte in termini di verità, che poi è quello che chiedono. “Che è successo a mio figlio?”, “Che è successo a mio marito?”, “Dove sta il cadavere? Se lo hanno ammazzato, che si possa almeno fare il funerale”. Tutto questo per chiudere il ciclo del dolore. Se esso non si chiude, lascia tutti nell’incertezza continuando a soffrire tremendamente.
Pertanto, da un lato ci sarà l’azione del Tribunale per la pace (organo giudiziale, ndr), dall’altro la Commissione della verità (organo extragiudiziale, ndr).
Da ultimo, l’ho già detto, bisogna invitare le vittime a fare un atto di coraggio: perdonare per non essere più vittime, perché il futuro che meritano non deve essere questo. Non cioè una triste vittima, ma una persona che si è conquistata un progetto di vita, un futuro differente. Una persona che, con l’aiuto di Dio, riconquista la tranquillità e serenità che merita».
Dunque, possiamo riassumere tutto in tre parole: verità, giustizia, perdono. È così?
«Sì, è corretto. Tutte e tre sono parole importanti. Verità per le vittime. Giustizia perché la guerriglia deve rispondere di quello che ha fatto. E perdono che è la motivazione interna di una persona per essere nuovamente felice».
Gli indigeni e il conflitto
L’oltre mezzo secolo di conflitto interno come ha influenzato la vita delle minoranze etniche?
«Le minoranze non sono state colpite in quanto minoranze, ma in quanto colombiane. Tutti siamo stati colpiti dalla guerra. Anche le minoranze etniche. Una delle conseguenze della guerra è stata la confisca della terra principalmente ai contadini e appunto agli indigeni. Sono stati soprattutto i gruppi paramilitari a farlo per beneficio di alcuni. Questo ha prodotto grandi sofferenze. Ci sarebbero molte cose da dire sulle minoranze indigene».
Per esempio?
«Per esempio che la Costituzione della Colombia afferma che esso è un paese multietnico. È un’espressione che a me provoca vergogna. Dire multietnico significa dire che è un paese di diversi, dove ognuno vive e lascia vivere e nulla di più. Mi sembra che sia troppo poco. Noi abbiamo bisogno non di un paese multietnico ma plurietnico. Anzi, ancora meglio sarebbe la parola interetnico in cui la maggioranza e le minoranze si relazionano, imparano le une dalle altre, crescono in un contatto mutuo. Invece, dicendo multietnico è come dire: “Io sono qui e tu là”, “Io non ti disturbo e tu non mi disturbi”. Una minoranza etnica che si chiuda (come succede in Colombia) poco a poco va a sparire perché le culture non crescono per intra-fecondazione ma per inter-fecondazione. Tutte le culture, tutti i popoli si arricchiscono. Se, al contrario, uno si chiude, va a debilitarsi.
Ricordo che, in questo momento, c’è un problema molto grave nel Nord della Colombia, tra i Guajiros: i loro bambini stanno morendo. Morendo di fame» (sono stati oltre 60 i bimbi morti nel 2016, ndr).
La coca e la narcoeconomia
È difficile non ricordare che la Colombia è nota in tutto il mondo per la droga. Oggi, nel suo paese, qual è il peso della narcoeconomia?
«Io non definirei assolutamente così la nostra economia. È un fatto che ci sia un lavaggio di dollari. Tuttavia, da parte dello stato c’è una coscienza ben chiara che esso non può funzionare con questo tipo di denaro. Il contrasto di questo business è molto grande. Le tonnellate e tonnellate di droga che si individuano ogni mese e anno testimoniano che stiamo lottando contro questo problema. Che è molto grande e che è internazionale.
All’interno dell’accordo di pace si stabilisce di aiutare a chiudere con la coltivazione della coca. Prima si era pensato di farlo attraverso la cosiddetta fumigazione (disinfestazione con glifosato, un erbicida probabilmente cancerogeno, ndr). Ci furono molte proteste, alcune corrette, altre meno».
La fumigazione avveniva anche tramite il Plan Colombia degli Stati Uniti…
«Sì, esso aiutava anche in quel senso. Comunque, ci furono proteste e dunque si decise di sradicare le piante manualmente. In tal modo non si contamina l’aria e non si causano problemi addizionali. Adesso anche le Farc andranno a distruggere le piantagioni di coca e lo faranno assieme all’esercito. Questa mi pare una buona cosa».
Però i cocaleros, i piccoli produttori, coltivano la coca perché non hanno alternative…
«No, non direi questo. Per 13 anni io sono stato vescovo del Caquetà, un dipartimento con una notevole produzione di coca. In quel momento – erano gli anni Ottanta-Novanta – la coltivazione della coca si poteva “giustificare”, detto tra virgolette. Cioè si potevano trovare ragioni sul perché si faceva: non c’erano strade, non c’erano aiuti per i campesinos; c’era un’assenza dello stato. Non c’erano né assistenza tecnica, né risorse. Da fuori arrivarono dunque i narcotrafficanti che dissero ai campesinos: “Vi invitiamo a seminare un altro tipo di semi che noi vi daremo”. Erano semi di coca. “Vi offriremo assistenza tecnica. In tre mesi ci sarà il raccolto che noi compreremo”. Insomma, tutto ciò che dovrebbe fare uno stato. “Voi – spiegavano i narcotrafficanti – guadagnerete 10 volte di più di quello che guadagnate in questo momento”. Che campesino poteva resistere a un’offerta di questo tipo? Individualmente, nessuno. Per fare una lotta adeguata contro questo occorreva formare comunità, come nell’esperienza di padre Franzoi (missionario della Consolata, ndr). Comunità unite che si opposero alla coca, avendo però delle alternative. Era il programma “No alla coca, sì al cacao”. Però, lo ripeto, erano attività comunitarie. Un individuo da solo non aveva la capacità di opporsi alla coca.
Questo per spiegare che, a causa dell’assenza dello stato, in quel momento le coltivazioni si giustificavano. Oggi no».
Cosa è cambiato oggi rispetto a un tempo?
«Oggi lo stato non è quello di allora. La Colombia è un paese molto diverso. Con strade, metodi di coltivazione.
La coca è un prodotto miracoloso: in tre mesi la semini e la raccogli. Se un professore può chiedere tre mesi di licenza, va, semina la sua coca e ritorna. Questo è un esempio ironico per spiegare che è una coltivazione molto rapida. Per questo genera molti profitti.
Tutti i produttori di qualsiasi cosa lottano sempre perché non trovano consumatori in numero sufficiente. Al contrario, per la coca i consumatori abbondano e stanno tutti negli Stati Uniti e nel mondo industrializzato. Ogni volta chiedono di più e chi maneggia il business sa che più produce, più venderà.
Questa è la situazione. Però, lo ripeto, c’è tutto un programma per sradicare le coltivazioni di coca e per controllare questo businness».
Lei ritiene che ciò sia possibile?
«Io credo di sì. Credo sia possibile. Perché oggi c’è più volontà, più forza. Non c’è un gruppo che favorisca la produzione come le Farc che da lì traevano le imposte. Anzi, adesso andranno a lavorare per il suo sradicamento. Pertanto, io credo che, se si vuole, si può fare».
La Colombia e Francesco
La prossima visita del papa in Colombia potrà aiutare il processo di pace?
«Per prima cosa va detto che il papa già ha aiutato in maniera importante il processo di pace nel paese. Ogni volta che c’era un evento speciale lui faceva un intervento speciale. Quando visitò l’Avana fece un intervento illuminante per il paese. Tutto il tavolo delle trattative e specialmente la guerriglia chiedeva di incontrarsi con il papa. Questo non fu possibile. Fummo a l’Avana. Ci spiegarono la richiesta. Parlammo con il cardinal Ortega per capire che possibilità ci fossero. Ci rispose che non c’era alcuna possibilità perché era già tutto programmato e non si poteva cambiare. Allora si chiese non di variare il programma, ma che il papa dicesse qualcosa nell’ambito degli eventi previsti. Il papa accettò e disse parole importanti sulla pace, parole che aiutarono moltissimo.
In ogni caso, il suo interesse per il processo di pace è stato continuo. Tanto che, dal presidente Santos agli altri protagonisti, tutti gli sono grati».
Se dovesse fare un appello finale, lei che direbbe?
«Direi, prima di tutto, che Dio ci illumini per continuare a lavorare per la pace. Per una pace che sia integrale, che non si riduca solamente a lotta di forze per ottenere il potere, che sia veramente la costruzione di relazioni sane tra tutti i colombiani, tra i colombiani e la natura, tra i colombiani e Dio. Una pace completa, insomma.
Come Chiesa, in questi anni di conflitto e di polarizzazione, abbiamo un compito molto difficile da perseguire. Però, poco a poco, tutti stanno cominciando a capire l’importanza e il valore di questo sforzo per la pace».
Paolo Moiola