Colombia: La pace bussa due volte


I guerriglieri delle Farc hanno lasciato i loro rifugi per andare nei «campi di normalizzazione». Dopo il referendum del 2 ottobre 2016, la fine di 52 anni di conflitto interno sembrava in pericolo. Invece, la pace ha bussato due volte. Il 24 novembre è stato firmato un nuovo accordo e il processo di pace ha avuto inizio. Di questo e altro abbiamo parlato con mons. Luis Augusto Castro Quiroga, presidente della Conferenza episcopale colombiana e mediatore nelle lunghissime trattative tra il governo di Manuel Santos e le Farc.

L unedì 3 ottobre tutto sembrava sfumato, volatilizzato: quattro anni di negoziati, la possibilità di porre fine a 52 anni di guerra civile, la speranza di un nuovo inizio per il paese. Il referendum sull’accordo di pace tra governo?Santos e le Farc – peraltro disertato dalla maggioranza dei colombiani – aveva visto prevalere, per poche migliaia di voti, il «no». Invece di perdersi d’animo, le parti si sono subito rimesse attorno a un tavolo per ascoltare le voci dissenzienti e per rinegoziare i punti più controversi.

In poco più di 40 giorni si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo, che il 24 novembre è stato firmato dal presidente Manuel Santos e dal comandante Rodrigo Londoño, alias Timochenko, leader delle Farc. Pochi giorni dopo il testo è passato al vaglio del Senato e della Camera dei rappresentanti, che lo hanno approvato. Alla votazione non ha partecipato lo schieramento dell’ex presidente?Álvaro Uribe Vélez, contrario all’accordo per definizione (oltre che per precisi calcoli politici).

Considerata la lunghezza e difficoltà del percorso, è ancora troppo presto per dire se la pace arriverà per davvero. Quello che però si può dire con certezza è che le Farc (a parte piccole frange isolate) stanno rispettado gli impegni sottoscritti. A gennaio e febbraio migliaia di guerriglieri – tra cui 87 donne incinte e 65 madri allattanti – hanno lasciato montagne, foreste e accampamenti per andare nei 27 «campi transitori di normalizzazione» (Zonas veredales transitorias de normalización e Puntos transitorios de normalización) dislocati sul territorio del paese. Qui, al momento stabilito, consegneranno le armi nelle mani dei rappresentanti delle Nazioni Unite e cominceranno la preparazione per il loro reinserimento nella vita civile e il passaggio alla legalità.

«È cominciata l’ultima marcia delle Farc», ha annunciato l’Alto Commissariato per la pace (Alto Comisionado para la paz). Una frase ad effetto, ma fedele a ciò che sta accadendo.

Il prossimo settembre papa Francesco visiterà la Colombia. Al suo viaggio è stato dato un titolo significativo: «Demos el primer paso», «Facciamo il primo passo». Ad accogliere il papa non ci sarà mons. Luis Augusto Castro Quiroga, attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), che a luglio concluderà il suo mandato. Uno scherzo del destino considerando quanto, fin dagli anni Ottanta in Caquetá, mons. Castro si è speso per la pace e il suo ruolo di mediatore (non sempre compreso e sostenuto anche all’interno della stessa Chiesa cattolica colombiana) nei colloqui tra il governo?Santos e le Farc.

Abbiamo incontrato mons. Castro per parlare non soltanto del processo di pace, ma anche di tutti i problemi che pesano sulla Colombia a partire dalle diseguaglianze e dal narcotraffico.

Margot Silva, della FARC, con suo figlio  / AFP PHOTO / Luis Acosta

Dal «no» al nuovo accordo

Mons. Castro, al referendum del 2 ottobre ha vinto il «no» all’accordo di pace. Si è trattato di una sconfitta o semplicemente di uno stop temporaneo sul cammino verso la pace?

«È stata innanzitutto una sconfitta che però si è convertita in un passaggio interlocutorio. È stata una sconfitta sì, ma in una partita giocata tra due minoranze estreme perché la grande maggioranza dei colombiani non ha votato. E non ha votato soprattutto perché non aveva inteso di cosa si trattasse, cosa fosse in gioco.

Continuamente, direi tutti i giorni, io ripetevo al governo: fate un po’ di pedagogia, spiegate questa domanda bene e con semplicità.

Non da avvocato ad avvocato, ma a una persona semplice per aiutare a capire l’importanza di tutto questo. Non lo hanno fatto. Quindi, quelli del no invece di spiegare hanno iniziato a instillare terrore nei colombiani. Sembrava che il processo di pace fosse un processo di guerra. Sembrava un processo contro i colombiani e non a loro favore. Questa propaganda piena di terrore ha fatto sì che molti colombiani abbiano votato per il no.

E alla fine, per pochissimo, quelli del no hanno battuto quelli del sì.

Fin qui, dunque, è stata una sconfitta. Questa è però servita affinché sia quelli del sì come quelli del no s’incontrassero. E soprattutto s’incontrassero quelli del no e il governo per vedere quali fossero le modifiche che essi chiedevano per poter essere soddisfatti e dire sì al processo. Per molti giorni si sono riuniti e alla fine si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo».

Le Farc come hanno reagito alla bocciatura dell’accordo iniziale, quello di agosto?

«La guerriglia è stata molto responsabile. Ha accettato tutte le osservazioni acconsentendo che esse entrassero nel nuovo schema d’accordo. Io stesso sono rimasto tutto un giorno con loro, mostrando le debolezze che c’erano nel testo di agosto e dicendo che avrebbero dovuto considerarle. E così hanno fatto.

Non si è tornati a votare con un referendum. Tutto è passato al Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti, ndr), che è l’organo naturale di un paese, e questo ha iniziato a studiare e votare tutti i punti. E a votare le leggi necessarie affinché i punti si traducano in misure legalmente operative».

Mi permetta di insistere sul referendum di ottobre. Pur lavorando da sempre per la pace, come presidente della Conferenza episcopale, lei non si era dichiarato chiaramente a favore del «sì». Come mai?

«È stata una decisione della Conferenza episcopale, assunta tutti insieme.

Ci siamo dichiarati a favore del voto: che tutti i colombiani e tutti i cattolici andassero a votare. Però non abbiamo dato un’indicazione: né a favore del “no”, né a favore del “sì”. Doveva maturare nella coscienza dei cittadini ciò che a essi appariva come la scelta migliore. E così hanno fatto. Liberamente. Così abbiamo proceduto. Certamente a molti non è piaciuto quello che abbiamo fatto, neppure ai sostenitori del no. Tuttavia, il comportamento era corretto: fare appello alla coscienza di ogni colombiano, invitare a studiare la questione e quindi prendere una decisione. Questo è stato il nostro suggerimento».

Il post conflitto e le «nuove stanze» della Colombia

Lei parla continuamente di «pedagogia della pace». Cosa intende?

«È cercare di far capire alla Colombia il significato di questo processo. Soprattutto il post conflitto. Io mi sono dato un compito: disegnare un’immagine che la gente semplice capisca. Il post conflitto è come la costruzione di una casa nuova. In cosa consiste la novità delle diverse stanze? Che ognuna ha qualcosa che prima non esisteva. Per esempio, la stanza della politica. Essa necessita dell’elemento dell’inclusione, un elemento sempre assente in questi anni. Tutti coloro che erano esclusi dalla politica presero le armi contro lo stato. Prendiamo l’economia. In Colombia essa dà vantaggi solamente a un gruppo molto piccolo di colombiani. È un’economia a cui manca l’elemento della solidarietà. Se si firma la pace, occorre inventarsi un’economia solidale, come sempre richiesto dalla Chiesa. E così per gli altri settori: l’istruzione, la cultura.

Tuttavia, una casa senza cemento cade. Ci sono tre tipi di cemento. Quello etico, che naturalmente ha a che vedere con l’onestà. Come in qualsiasi parte del mondo la corruzione è un elemento molto dannoso. Essa danneggia profondamente la vita di ogni colombiano. Ecco perché è necessario un cemento etico. In secondo luogo, è necessario un cemento spirituale. Esso è il perdono e la riconciliazione. Infine, c’è il cemento culturale. È necessario avere una cultura della vita, dei diritti, delle relazioni umane. L’elemento culturale è molto importante per costruire questa nuova società.

Bene, questa è la pedagogia che può entrare facilmente nella testa di qualsiasi persona, perché tutti sappiamo come si costruisce una casa. Secondo me, questa immagine aiuta a capire il futuro della Colombia in termini di pace».

Monsignor Castro, ci spieghi perché le vittime dovrebbero perdonare.

«In Colombia, le vittime comprovate ufficialmente sono 8 milioni. Però per ognuna di loro ce ne sono almeno due in più: un figlio con mamma e papà, un padre con moglie e figli. Se per ogni vittima ce ne sono altre due coinvolte, arriviamo alla cifra di 24 milioni di vittime. Questo significa il 50% della popolazione. Se non ci sarà il loro perdono, mai smetteranno di essere vittime.

Non esiste la vittima felice. Una vittima sarà sempre infelice. Per questo è importante passare dalla condizione di vittima a quella di sopravvissuto. “Con l’aiuto di Dio io sono stato capace di superare l’odio e il sentimento di vendetta e costruirmi un futuro differente”. Questa è la speranza per ogni vittima. Per questo si insiste sul perdono. E sulla riconciliazione».

Le Farc non sono un cartello

Secondo rapporti internazionali e reportage, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terrorista, per alcuni) in un cartello del narcotraffico che guadagna milioni di dollari. Questa interpretazione è realistica o è manipolata per motivi politici?

«Io direi più la seconda ipotesi che la prima. Le Farc sempre hanno negato di essersi convertite in un cartello della droga.

I guadagni che avevano venivano dalle imposte: se un narcotrafficante voleva droga, doveva pagare alla guerriglia una tassa. Il business rimaneva però nelle mani dei narcotrafficanti.

Per non essere troppo radicale direi che la gran parte delle Farc ha vissuto di questa imposta, nota come vacuna. Non possiamo scartare l’ipotesi che qualcuno si sia messo nel narcotraffico. Però non a livello di organizzazione.

Alcuni guerriglieri non hanno accettato il processo di pace e si sono staccati (sarebbero circa 100 uomini del Frente Primero, di stanza in Guaviare, guidato da Iván Mordisco e Gentil Duarte, e alcune decine appartenenti ad altri fronti, ndr). E credo, come tanti, che lo abbiano fatto perché si sono messi in questa attività. A costoro interessa il denaro e non la pace in Colombia. Sono delinquenti comuni. Però nelle Farc non c’è mai stata una scelta ufficiale di trasformarsi in trafficanti di droga veri e propri. L’hanno usata per ottenere risorse. Come lo hanno fatto con altri strumenti – orribili! – tipo il sequestro (le cosiddette «pescas milagrosas», ndr).

Naturalmente, in questo momento, le Farc cercano di dimostrare che mai sono state dei mercanti di droga. Allo stesso tempo ammettono che chiedevano soldi ai narcotrafficanti per autofinanziarsi».

Con quali esponenti delle Farc lei ha avuto modo di parlare?

«Con molta gente. Con i dirigenti. Con Iván Márquez, per esempio. Una delle ultime volte mi ha sorpreso. Durante una conversazione, a l’Avana, venne fuori una espressione latina. “Mi ricordo ancora qualche frase in latino”, disse lui. “E dove lo ha imparato?”, chiesi. “In seminario”, rispose. “E chi glielo insegnò?”, continuai io. Non so se posso dirlo in questa intervista, ma i padri della Consolata erano stati quelli che gli avevano insegnato il latino.

Un giorno egli decise di lasciare il seminario, ma chiese al vescovo se avesse potuto dargli un lavoro. Lui lo nominò professore in una struttura educativa. Il problema di Iván Márquez era che credeva che quel vescovo fossi io. Invece era mons. Cuniberti. In ogni caso, l’uomo ha maturato un grande rispetto per i missionari della Consolata che sono stati suoi formatori in filosofia, latino e altre discipline.

Questo lo racconto per dire che il dialogo fluiva in maniera molto facile, tranquilla e sincera. Quando il mio collaboratore portava una lista di richieste della gente, Márquez le prendeva e le distribuiva tra i suoi uomini affinché se ne occupassero. Con lui si dialogava. Con Timochenko, il leader maximo delle Farc, ci siamo incontrati solamente una volta. Verso la fine, quando capimmo che loro erano realmente decisi a fare il passo dalla guerra alla pace. E che non c’erano possibilità di tornare indietro».

Le cause economiche e sociali che, nel 1964, portarono alla guerra sono tuttora presenti: concentrazione della terra in poche mani, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione pubbliche. Lei non crede che senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace non potrà mai diventare effettiva?

«La prima causa della ribellione delle Farc contro lo stato fu la loro esclusione dalla politica. Non fu per la povertà né per altri motivi. Il fatto è che, essendo esclusi dalla politica, non potevano lavorare sugli altri aspetti dell’esistenza. Oggi l’obiettivo è integrarsi nella politica. Detto questo, l’accordo di pace non è tanto sugli elementi politici, dati per acquisiti, quanto su tutti gli altri aspetti della vita colombiana. In primo luogo, l’aspetto della terra, una terra superconcentrata in poche mani che non sono certamente quelle dei poveri. E poi il problema agricolo. Tutto è stato studiato nell’accordo di pace che è stato approvato. Una cosa è deciderlo, un’altra è metterlo in pratica. Per fare questo si richiedono ingenti quantità di denaro. Per fortuna molti paesi hanno iniziato ad aiutare».

L’applicazione di cui lei parla ha avuto inizio?

«È iniziata il primo dicembre del 2016. È iniziata con la definizione delle aree dove si concentrerà la guerriglia per le varie fasi del processo. La prima fase è quella del disarmo. Poi la formazione per integrarsi positivamente nella società. Formazione anche dal punto di vista lavorativo, apprendendo elementi che servano per aprirsi le porte nel mondo del lavoro. In generale, la implementazione di un accordo è più difficile della sua approvazione» .

Uribe, il grande oppositore

Mons. Castro, la sua opinione su Álvaro Uribe e sulle Autodefensas unidas de Colombia (Auc).

«Mettere questi due soggetti nella stessa domanda è una cosa… maliziosa… Sono due cose differenti. Io credo che il presidente Uribe

sia stato ferito quando Santos, già ministro sotto la sua presidenza, fu nominato presidente e prese una linea totalmente autonoma rispetto alla sua. E lo fece fin dal suo discorso iniziale. Questo ha fatto sì che Uribe sia diventato un grande oppositore.

Quando papa Francesco ha invitato Santos in Vaticano ha chiamato anche Uribe per cercare un riavvicinamento tra i due, ma non vi è riuscito (a dicembre 2016, ndr). Naturalmente Uribe ha molti nemici e si dice che, in passato, egli abbia avuto rapporti con i gruppi paramilitari come le Auc, composti da delinquenti. Su questa cosa però io non dico nulla perché non ho elementi per giudicare».

Chiudere il «ciclo del dolore»

Abbiamo visto che i numeri delle vittime sono impressionanti. Cosa può dire a una persona che ha perso un familiare o a un profugo?

«A queste persone si possono dire due cose. In primis, che esse hanno la possibilità di fare reclamo contro lo stato per i danni e le conseguenze sofferte perché la guerra era contro lo stato. Questo c’è negli accordi di pace.

In secondo luogo, come ho già spiegato, nel Tribunale per la pace ogni guerrigliero è obbligato a dire ciò che sa in termini di sparizioni, morti, sequestri. Se vuole avere degli sconti di pena, deve dire tutto quello che sa. Come successe in Sudafrica dove la commissione di conciliazione diceva: “Se dice la verità, lo favoriremo. In caso contrario, la giustizia cadrà su di lei con tutto il peso della legge”.

Le vittime, molte vittime possono ottenere risposte in termini di verità, che poi è quello che chiedono. “Che è successo a mio figlio?”, “Che è successo a mio marito?”, “Dove sta il cadavere? Se lo hanno ammazzato, che si possa almeno fare il funerale”. Tutto questo per chiudere il ciclo del dolore. Se esso non si chiude, lascia tutti nell’incertezza continuando a soffrire tremendamente.

Pertanto, da un lato ci sarà l’azione del Tribunale per la pace (organo giudiziale, ndr), dall’altro la Commissione della verità (organo extragiudiziale, ndr).

Da ultimo, l’ho già detto, bisogna invitare le vittime a fare un atto di coraggio: perdonare per non essere più vittime, perché il futuro che meritano non deve essere questo. Non cioè una triste vittima, ma una persona che si è conquistata un progetto di vita, un futuro differente. Una persona che, con l’aiuto di Dio, riconquista la tranquillità e serenità che merita».

Dunque, possiamo riassumere tutto in tre parole: verità, giustizia, perdono. È così?

«Sì, è corretto. Tutte e tre sono parole importanti. Verità per le vittime. Giustizia perché la guerriglia deve rispondere di quello che ha fatto. E perdono che è la motivazione interna di una persona per essere nuovamente felice».

Gli indigeni e il conflitto

L’oltre mezzo secolo di conflitto interno come ha influenzato la vita delle minoranze etniche?

«Le minoranze non sono state colpite in quanto minoranze, ma in quanto colombiane. Tutti siamo stati colpiti dalla guerra. Anche le minoranze etniche. Una delle conseguenze della guerra è stata la confisca della terra principalmente ai contadini e appunto agli indigeni. Sono stati soprattutto i gruppi paramilitari a farlo per beneficio di alcuni. Questo ha prodotto grandi sofferenze. Ci sarebbero molte cose da dire sulle minoranze indigene».

Per esempio?

«Per esempio che la Costituzione della Colombia afferma che esso è un paese multietnico. È un’espressione che a me provoca vergogna. Dire multietnico significa dire che è un paese di diversi, dove ognuno vive e lascia vivere e nulla di più. Mi sembra che sia troppo poco. Noi abbiamo bisogno non di un paese multietnico ma plurietnico. Anzi, ancora meglio sarebbe la parola interetnico in cui la maggioranza e le minoranze si relazionano, imparano le une dalle altre, crescono in un contatto mutuo. Invece, dicendo multietnico è come dire: “Io sono qui e tu là”, “Io non ti disturbo e tu non mi disturbi”. Una minoranza etnica che si chiuda (come succede in Colombia) poco a poco va a sparire perché le culture non crescono per intra-fecondazione ma per inter-fecondazione. Tutte le culture, tutti i popoli si arricchiscono. Se, al contrario, uno si chiude, va a debilitarsi.

Ricordo che, in questo momento, c’è un problema molto grave nel Nord della Colombia, tra i Guajiros: i loro bambini stanno morendo. Morendo di fame» (sono stati oltre 60 i bimbi morti nel 2016, ndr).

La coca e la narcoeconomia

È difficile non ricordare che la Colombia è nota in tutto il mondo per la droga. Oggi, nel suo paese, qual è il peso della narcoeconomia?

«Io non definirei assolutamente così la nostra economia. È un fatto che ci sia un lavaggio di dollari. Tuttavia, da parte dello stato c’è una coscienza ben chiara che esso non può funzionare con questo tipo di denaro. Il contrasto di questo business è molto grande. Le tonnellate e tonnellate di droga che si individuano ogni mese e anno testimoniano che stiamo lottando contro questo problema. Che è molto grande e che è internazionale.

All’interno dell’accordo di pace si stabilisce di aiutare a chiudere con la coltivazione della coca. Prima si era pensato di farlo attraverso la cosiddetta fumigazione (disinfestazione con glifosato, un erbicida probabilmente cancerogeno, ndr). Ci furono molte proteste, alcune corrette, altre meno».

La fumigazione avveniva anche tramite il Plan Colombia degli Stati Uniti…

«Sì, esso aiutava anche in quel senso. Comunque, ci furono proteste e dunque si decise di sradicare le piante manualmente. In tal modo non si contamina l’aria e non si causano problemi addizionali. Adesso anche le Farc andranno a distruggere le piantagioni di coca e lo faranno assieme all’esercito. Questa mi pare una buona cosa».

Però i cocaleros, i piccoli produttori, coltivano la coca perché non hanno alternative…

«No, non direi questo. Per 13 anni io sono stato vescovo del Caquetà, un dipartimento con una notevole produzione di coca. In quel momento – erano gli anni Ottanta-Novanta – la coltivazione della coca si poteva “giustificare”, detto tra virgolette. Cioè si potevano trovare ragioni sul perché si faceva: non c’erano strade, non c’erano aiuti per i campesinos; c’era un’assenza dello stato. Non c’erano né assistenza tecnica, né risorse. Da fuori arrivarono dunque i narcotrafficanti che dissero ai campesinos: “Vi invitiamo a seminare un altro tipo di semi che noi vi daremo”. Erano semi di coca. “Vi offriremo assistenza tecnica. In tre mesi ci sarà il raccolto che noi compreremo”. Insomma, tutto ciò che dovrebbe fare uno stato. “Voi – spiegavano i narcotrafficanti – guadagnerete 10 volte di più di quello che guadagnate in questo momento”. Che campesino poteva resistere a un’offerta di questo tipo? Individualmente, nessuno. Per fare una lotta adeguata contro questo occorreva formare comunità, come nell’esperienza di padre Franzoi (missionario della Consolata, ndr). Comunità unite che si opposero alla coca, avendo però delle alternative. Era il programma “No alla coca, sì al cacao”. Però, lo ripeto, erano attività comunitarie. Un individuo da solo non aveva la capacità di opporsi alla coca.

Questo per spiegare che, a causa dell’assenza dello stato, in quel momento le coltivazioni si giustificavano. Oggi no».

Cosa è cambiato oggi rispetto a un tempo?

«Oggi lo stato non è quello di allora. La Colombia è un paese molto diverso. Con strade, metodi di coltivazione.

La coca è un prodotto miracoloso: in tre mesi la semini e la raccogli. Se un professore può chiedere tre mesi di licenza, va, semina la sua coca e ritorna. Questo è un esempio ironico per spiegare che è una coltivazione molto rapida. Per questo genera molti profitti.

Tutti i produttori di qualsiasi cosa lottano sempre perché non trovano consumatori in numero sufficiente. Al contrario, per la coca i consumatori abbondano e stanno tutti negli Stati Uniti e nel mondo industrializzato. Ogni volta chiedono di più e chi maneggia il business sa che più produce, più venderà.

Questa è la situazione. Però, lo ripeto, c’è tutto un programma per sradicare le coltivazioni di coca e per controllare questo businness».

Lei ritiene che ciò sia possibile?

«Io credo di sì. Credo sia possibile. Perché oggi c’è più volontà, più forza. Non c’è un gruppo che favorisca la produzione come le Farc che da lì traevano le imposte. Anzi, adesso andranno a lavorare per il suo sradicamento. Pertanto, io credo che, se si vuole, si può fare».

AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO

La Colombia e Francesco

La prossima visita del papa in Colombia potrà aiutare il processo di pace?

«Per prima cosa va detto che il papa già ha aiutato in maniera importante il processo di pace nel paese. Ogni volta che c’era un evento speciale lui faceva un intervento speciale. Quando visitò l’Avana fece un intervento illuminante per il paese. Tutto il tavolo delle trattative e specialmente la guerriglia chiedeva di incontrarsi con il papa. Questo non fu possibile. Fummo a l’Avana. Ci spiegarono la richiesta. Parlammo con il cardinal Ortega per capire che possibilità ci fossero. Ci rispose che non c’era alcuna possibilità perché era già tutto programmato e non si poteva cambiare. Allora si chiese non di variare il programma, ma che il papa dicesse qualcosa nell’ambito degli eventi previsti. Il papa accettò e disse parole importanti sulla pace, parole che aiutarono moltissimo.

In ogni caso, il suo interesse per il processo di pace è stato continuo. Tanto che, dal presidente Santos agli altri protagonisti, tutti gli sono grati».

Se dovesse fare un appello finale, lei che direbbe?

«Direi, prima di tutto, che Dio ci illumini per continuare a lavorare per la pace. Per una pace che sia integrale, che non si riduca solamente a lotta di forze per ottenere il potere, che sia veramente la costruzione di relazioni sane tra tutti i colombiani, tra i colombiani e la natura, tra i colombiani e Dio. Una pace completa, insomma.

Come Chiesa, in questi anni di conflitto e di polarizzazione, abbiamo un compito molto difficile da perseguire. Però, poco a poco, tutti stanno cominciando a capire l’importanza e il valore di questo sforzo per la pace».

Paolo Moiola

Il dono della «penna della pace» da presidente Juan Manuel Santos prior a papa Francesco il 16/12/2016 in Vaticano. / AFP PHOTO / POOL / VINCENZO PINTO




Good morning Korea


Diciotto missionari provenienti da undici paesi diversi, sparsi in Asia fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore del grande continente. Questa la realtà dei missionari della Consolata tra Sud Corea, Mongolia e Taiwan. Questo è il pensiero che mi accompagna «turisteggiando» a Seul.

Cammino per le strade di Seul ormai da un paio d’ore. Mi sono preso una giornata di vacanza per girare liberamente in città, visto che forse è l’ultima volta che ho l’opportunità di farlo. La capitale coreana mi piace molto. Ho imparato a sentirmi a casa qui, pur senza conoscere la lingua della gente, cosa che mi avrebbe permesso di apprezzare di più un mondo tanto diverso, eppure così affascinante. Vagolo senza meta, dopo aver pagato il dazio alla cultura visitando il tempio confuciano di Jongmyo che ancora mancava alla mia agenda di turista, ovviamente interessato, in quanto missionario, alle religioni dell’Estremo Oriente. Bighellono per Tapgol Park, dove un anziano mi ferma, mi chiede da dove vengo e con fatica, in un inglese improbabile, mi racconta perché quel luogo è così importante per l’anima coreana: «Independence from Japan». Mi racconta fatti che risalgono all’inizio del secolo scorso, ma che sembrano di millenni fa se si pensa a cosa è successo qui da cento anni a questa parte e alla velocità che la storia ha impresso a questo angolo di mondo. La Corea (ma lo stesso si può dire di Taiwan, altro posto che ho imparato a conoscere in questi anni) è passata dalle stalle alle stelle alla velocità della luce: sulle rovine di un paese frantumato e diviso dalla guerra civile degli anni ’50 si è innestato il turbo di un progresso vertiginoso.

Zigzagando per il centro

Seul è immensa. Venticinque milioni di coreani, dei cinquanta complessivi che compongono la popolazione nazionale, vivono in questa immensa area metropolitana che non dista molti chilometri dal sempre turbolento confine con la Corea del Nord. Tuttavia, almeno in centro, ormai mi oriento senza troppa difficoltà, anche se ogni tanto sono costretto a estrarre la cartina dallo zainetto perché sotto ai grattacieli la città ti può confondere e il fatto di girare a sinistra invece che a destra ti può complicare non poco la vita. Gli isolati sono enormi e, se ci si sbaglia, i percorsi si possono allungare a dismisura prima di rendersi conto che si sta camminando nella direzione errata. Guardo la mappa quasi di nascosto perché il coreano è solitamente persona gentilissima e si avvicina come un falco appena intuisce la benché minima difficoltà del turista. Iniziano allora conversazioni surreali con l’improvvisata guida che non capisce dove tu vuoi andare, ma ti spiega come fare a raggiungere luoghi di cui manco avresti immaginato l’esistenza. Quanto mi piacerebbe poter andare oltre agli stereotipati annyeonghaseyo (buongiorno) o gamsahabnida (grazie), le uniche due parole di coreano che conservo da un viaggio all’altro. Ho provato ad ammucchiae qualcuna in più nel mio improvvisato bagaglio di viaggiatore, ma il coreano è lingua impegnativa, il cui studio esige dedizione costante e pratica. Alla fine mi sono arreso.

Oggi, dopo questi anni di servizio all’Istituto che mi hanno portato a viaggiare più volte in Oriente, mi resta la nostalgia, condita da un pizzico di rammarico, dei passi non fatti, dei libri non letti… dei film non visti, insomma, della Corea che avrei potuto esplorare anche dalla mia camera e che invece è rimasta sconosciuta. In questi anni mi sono accorto che per capire l’Asia (e la Corea non fa certo eccezione) non basta il «mordi e fuggi», occorre immergersi, entrare nel tessuto, accettare la sfida di rimanere ai margini di un mondo che quando inizia ad essere minimamente intellegibile è soltanto perché vuole fuggire di nuovo, inseguito senza concedersi. Percorrendo Insa-dong, la via dei turisti, non posso far altro che strisciare i piedi con fatica in mezzo a gente di ogni dove. Riconosco facilmente alcuni americani – sono ancora parecchi, molti di loro militari – alcuni europei. Ogni tanto, forse, mi pare di riconoscere un accento australiano, che poi magari è neo-zelandese, o canadese, o chi lo sa… Per non parlare delle migliaia di asiatici che intasano i piccoli negozietti di souvenir: cinesi, giapponesi, taiwanesi, vietnamiti, eccetera, eccetera. Insa-dong è una babele orizzontale, una spremuta di mondo in poche centinaia di metri che terminano in Yulgok-ro, la grande arteria che separa il turista dai tesori della Seul reale. A destra il meraviglioso palazzo di Changdeokgung, patrimonio dell’Unesco, costruito originariamente nel 1405 e a tutt’oggi uno degli edifici storici meglio conservati della nazione. Camminando a sinistra, si raggiunge invece il palazzo di Gyeongbokgung, la più grande delle cinque residenze reali che arricchiscono oggi la Seul storica e culturale. Distrutta completamente durante la dominazione giapponese e ricostruita grande e bella per urlare in faccia al mondo che il corpo muore ma l’anima sopravvive e alimenta la fiamma dell’orgoglio nazionale. Come quello del vecchietto di Tapgol Park: «Independence from Japan».

Nel cuore della gente

Evito i palazzi storici e opto per tornare sui miei passi, puntando diritto verso Jogyesa, il più famoso tempio buddhista di Seul e il più frequentato della Corea. Entro nel grande cortile che si apre di fronte al tempio principale e mi fermo a guardare tante persone che arrivano come formiche, lasciano le scarpe davanti agli ingressi ed entrano, piazzandosi in ginocchio di fronte alle tre grandi statue di Buddha, raffigurato nelle principali fasi della vita: giovinezza, età matura e vecchiaia. Chissà cosa portano nel cuore queste persone che si inchinano ritmicamente di fronte all’Illuminato. Che pensieri si celano dietro i mantra con cui ritmicamente recitano le loro preghiere? Non si immaginano neppure che dietro di loro, a pochi metri di distanza e in rispettosa attesa, un missionario cattolico li sta guardando con interesse e timore, chiuso nel suo mutismo ignorante. Vorrei fare tante domande… non consisterebbe anche in questo il dialogo interreligioso?

Mi smarco dalla folla religiosa di Jogyesa e cammino fino a immergermi in quella chiassosa, variopinta e globalizzata di Myeong-dong. Se non fosse per le scritte in coreano potresti pensare di essere a Milano, New York o Rio de Janeiro… luci, musica, colori, persino i vestiti della gente sembrano essere stati fotocopiati ed applicati in serie alle varie persone. E qui che Asia c’è? Cosa vede il missionario, in piedi, in rispettosa e curiosa attesa dietro alle vetrine di uno delle migliaia di negozi di maquillage che intasano i marciapiedi con i loro banchetti promozionali? O di quel negozio di moda giovanile, dove personale bellissimo, frutto di sacrifici non indifferenti in palestra e cosmesi aspetta le frotte di giovani che vi accorrono rapidi. Che Asia è quella che si apre davanti ai miei occhi, così familiare che mi sembra di averla già vissuta altrove, eppure così diversa? Che pensano quei giovani? Che cercano nella vita? Cosa studiano? Andranno al tempio?

Qualcuno di essi forse andrà in Chiesa. Il Cristianesimo si è diffuso moltissimo in Corea, soprattutto quello protestante, diviso in centinaia di chiese dalla diversa denominazione, ma dalla simile architettura. Le grandi croci luminose che squarciano il cielo notturno della capitale con raggi di vario colore confermano che la presenza evangelica è numerosa e appariscente. A Myeong-dong si staglia la cattedrale cattolica, dedicata all’Immacolata Concezione. Costruita originariamente in una piazzetta del vecchio quartiere, conquistando metri quadrati a ristoranti e negozietti, oggi la grande chiesa si è ritagliata una spianata importante e un colpo d’occhio più imponente. Come i cattolici stessi, del resto. Anch’essi hanno guadagnato il loro spazio importante in seno alla società coreana. Oggi, sono circa il 10% della popolazione, ben organizzati, strutturati, con un clero abbondante e efficiente.

Il gruppo dei missionari della Consolata in Asia (Corea, Mongolie e Taiwan) con i membri della direzione generale dell’Istituto.

I missionari e l’Asia

Dentro questa chiesa, dal 1988, siamo anche noi Missionari della Consolata. Ci rifletto un po’ nel lungo viaggio in metropolitana che mi riporta a casa. Penso ai vari confratelli che si sono succeduti in questo angolo di mondo e alle domande che sicuramente devono essersi fatti per confrontarsi con la realtà quotidiana della Corea. Penso ai giovani coreani che hanno intercettato nel loro cammino, al linguaggio che hanno dovuto imparare per confrontarsi con loro. Sette di essi sono oggi Missionari della Consolata e lavorano in varie parti del mondo. Uno, padre Han Pedro, è rientrato in Corea e aiuta i nuovi arrivati a entrare più velocemente nel tessuto della società coreana. Lui per primo sa che non è facile capire la Corea, al punto che lui stesso ha sentito il bisogno, dopo tanti anni passati in Italia e in Brasile, di rimettersi a studiare. La sua sensibilità verso la pace e la giustizia lo ha portato ad avvicinarsi al tema del riavvicinamento fra le due Coree, un campo vastissimo per esercitare il ministero missionario della consolazione.

Altri si sono dedicati al dialogo interreligioso, cercando di comunicare nella vita di tutti i giorni, negli incontri di studio specializzati e nella condivisione di momenti di spiritualità, la ricchezza del proprio essere cristiano, il valore della comunità, la bellezza dell’interculturalità. Altri ancora hanno cercato i poveri, gli scarti di questa società del benessere, e sono andati a vivere con loro, lontani dalle luci del centro e dai grandi schermi digitali che dalle pareti dei grattacieli trasmettono la pubblicità di paradisi artificiali e inni al consumo. Oggi, diversi migranti giunti dall’Africa o dall’America Latina chiedono aiuto a missionari che li capiscono perché ne parlano le lingue e ne hanno conosciuto le culture provenendo dai loro stessi paesi di origine o avendovi lavorato.

A cena racconto il giro che ho fatto. Conto i confratelli intorno alla tavola. Ci sono tutti perché si sono riuniti per salutarmi visto che presto ripartirò per l’Italia. Seul è proprio immensa, mi dico, e loro sono così pochi. Mentalmente allargo lo sguardo oltre la Corea per cogliere anche il saluto dei tre missionari che vivono a Taiwan e dei quattro confratelli della Mongolia. La Consolata in Asia è tutta racchiusa in quel pensiero che subito diventa preghiera: 18 missionari provenienti da 11 paesi diversi, persi fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore di questo grande continente.

Ugo Pozzoli
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Già direttore di MC, ora consigliere generale dell’istituto con responsabilità per l’Europa e l’Asia.




Haiti


Nel Nord Ovest di Haiti, un braccio di mare cristallino separa la terraferma dall’isola dei bucanieri. Siamo a Port-de-Paix, il capoluogo del dipartimento più povero e arido del paese. A capo della diocesi omologa c’è un vescovo molto impegnato per la pace sociale, anche a livello nazionale.

Monsignor Pierre-Antornine Paulo, haitiano, è un religioso degli oblati di Maria Immacolata. Ha studiato negli Stati Uniti e a Roma ed è poi stato formatore di futuri missionari nel suo paese. Nato nel 1944, dal 2001 è vescovo coadiutore della diocesi di Port-de-Paix (dipartimento del Nord Ovest) e titolare dal 2008. È stato superiore regionale del suo ordine e dal 2011 è vice presidente della Conferenza episcopale haitiana (Ceh). Un fisico alto e asciutto, mons. Paulo ha un’agenda fitta d’impegni, ma è sempre molto disponibile. Arriviamo da lui un po’ all’improvviso, nella nuova sede del vescovado che deve ancora essere ultimata.

Ricostruzione?

Sono passati più di sei anni dal disastroso terremoto del 12 gennaio 2010, che non ha toccato il Nord del paese, ma la zona della capitale e parte del Sud. Monsignor Paulo ci parla della ricostruzione e ne evidenzia alcuni aspetti: «Positivo è stato l’interesse generale, mondiale, che l’umanità ha manifestato per Haiti. Le chiese in particolare. Interesse in parte finalizzato alla ricostruzione degli edifici, ma più in generale a tutto quanto concee le vittime, ovvero l’assistenza, l’apertura delle frontiere per i profughi, ecc.». C’è stata una grande generosità: molti paesi hanno contribuito e i loro popoli hanno dato denaro, ricorda il prelato, che però è critico: «Ma di tutto quello che è stato raccolto è arrivato ad Haiti, direi, un quarto. Gli altri tre quarti sono andati a degli intermediari, che hanno intercettato questi soldi prima che arrivassero sul terreno. Dei fondi, inoltre, gli attori haitiani, religiosi o politici, a seconda dei casi, non hanno avuto la gestione».

Anche i fondi per la chiesa non sono stati gestiti dalla Conferenza episcopale locale, ma dalle chiese sorelle di Usa, Francia e Germania tramite la struttura Proximité Catholique avec Haiti et son église, «Proche», in sigla, che in francese significa «vicino». In questo modo i tempi delle realizzazioni sono diventati molto lunghi, perché per qualsiasi operazione occorre l’approvazione delle conferenze episcopali straniere. «Quello che si sarebbe dovuto fare secondo me sarebbe stato porsi la domanda: perché c’è stato un così grande crollo di case? Forse c’è qualche problema nel modo in cui costruiamo. La mia idea era quella di formare i professionisti della costruzione, dai muratori agli ingegneri, nei metodi della costruzione antisismica». Il vescovo sta infatti lavorando per mettere in piedi nella sua diocesi una cellula di persone con competenze nella costruzione antisismica.

Un altro aspetto importante, che solo in parte è stato realizzato è il decentramento dei servizi, dalla capitale Port-au-Prince ai dipartimenti.

«A livello educativo il ministero dell’Educazione ha fondato università pubbliche in molti dipartimenti. E questo aiuta il decentramento accademico. Lo stato ha utilizzato le risorse della chiesa, perché molto spesso i rettori di queste università sono preti. È successo a Port-de-Paix, Gonaives, Les Cayes».

Ma purtroppo alcune misure importanti non sono state prese, a cominciare dalla creazione di possibilità abitative in provincia. «Costruire villaggi nei dipartimenti avrebbe aiutato la gente a fermarsi nei luoghi in cui era sfollata. Ma purtroppo è successo il contrario. Sono stati fatti annunci di ricostruzioni a Port-au-Prince. Così chi aveva lasciato la capitale vi è tornato in cerca di abitazione, e addirittura chi non ci viveva prima ci è andato in cerca di fortuna. Il terremoto ha quindi contribuito a sovrappopolare ancora di più Port-au-Prince. E questo per mancanza di visione dei politici. Costruire in provincia avrebbe anche creato lavoro».

Una chiesa «mediatrice»

La chiesa cattolica ha avuto un ruolo molto importante per fare uscire il paese dalla crisi politica del 2013 e accompagnarlo verso le elezioni del 2015, seppure queste non siano andate poi a buon fine ed è oggi in corso una transizione verso nuove elezioni (cfr. MC aprile 16).

Monsignor Paulo, in veste di vice presidente della Ceh, ha partecipato agli incontri sul dialogo inter haitiano detti di «El Rancho», dal nome dell’hotel dove si sono tenuti nel gennaio 2014. «C’è qualcosa di fondamentale nelle relazioni tra haitiani – ci spiega il monsignore -, sia tra governanti e governati, sia tra gli stessi partiti politici, che ci impedisce di andare avanti: una mancanza profonda di fiducia. È la storia di un popolo che è sempre stato deluso da chi lo governava».

La chiesa, cosciente del problema, ha voluto provare a mettere gli haitiani uno di fronte all’altro, per sanare tutti i rancori, con un’«operazione verità». «Per gestire il nostro paese, cosa si deve fare? Si sente che c’è qualcosa che non va. Tutti chiedono il cosiddetto dialogo, sedersi intorno a un tavolo e dire le cose come stanno tra di noi haitiani. Ma se non ci sarà l’occasione di fare questo chiarimento, i problemi saranno sempre gli stessi. Lo abbiamo visto sotto i regimi precedenti e poi con Aristide, Préval, Martelly e ancora con Privert. Questi è il presidente provvisorio appena nominato, con il quale ci sono già dei problemi. Sono questioni ricorrenti, strutturali, non congiunturali».

A inizio 2014 la chiesa ha dunque accettato di giocare il ruolo di mediatrice. Si trattava di sbloccare la creazione del Consiglio elettorale provvisorio e di organizzare le elezioni generali, in ritardo di anni. Le consultazioni avvenute il 9 agosto e poi il 25 ottobre 2015, si sono nuovamente incagliate in quanto contestate da una parte dei partiti.

Mons. Paulo ricorda: «È stato straordinario lo spirito che si era creato, molto positivo, entusiasta. Cosa che ci dice che possiamo sederci e prendere decisioni per andare lontano. Ma poi si sono verificate delle complicazioni che non siamo riusciti a controllare e hanno fatto sì che il processo fallisse. Un aspetto molto positivo è stato vedere che c’era la volontà di conoscersi meglio, condividere le nostre idee».

Ma fuori dalla sala, poi, qualcosa non ha funzionato: «Altre idee hanno condizionato la situazione, con i supporter di certi partiti esclusi dall’incontro. Anche alcuni responsabili di partito, presenti al dialogo si sono chiesti: come possiamo concretizzare quello che abbiamo detto?

A mio parere il successo è stato quello di avere iniziato questo dialogo inter haitiano, di aver vissuto un certo spirito, che fa desiderare di rivivere momenti simili, ma con la volontà di realizzare sul terreno tutto quello che si decide nella sala dell’incontro».

Un dialogo necessario

Si parla di dialogo nazionale, ma ad Haiti la comunità internazionale, in particolare Stati Uniti, Canada e, in misura minore, Francia, e ora anche il Brasile, hanno sempre esercitato una grande influenza. «Il paese si è messo nella condizione di dovere utilizzare l’aiuto della comunità internazionale. Se gli haitiani non arrivano a capirsi tra di loro, su chi ha torto e chi ha ragione, accettandosi, si ha sempre bisogno dell’arbitraggio internazionale. Questo interviene per portare gli haitiani a regolare i conflitti tra di loro».

Se l’incontro di El Rancho era focalizzato sulle elezioni, è stato un incubatore di quello che monsignor Paulo vede come lavoro più approfondito da realizzare, un dialogo inter haitiano. «Avevo sperato che nel corso della transizione in atto, prima di arrivare alle elezioni presidenziali, si fosse potuto istituire un dialogo nazionale, anche prolungando nel periodo della transizione. Un dialogo più allargato, che coinvolgesse più settori della società. È il momento opportuno».

L’impunità è uno dei grandi problemi, così come la corruzione. «Ne abbiamo parlato a El Ranchio. Sono grandi sfide. Tutti noi ne siamo coinvolti; è una questione profonda, radicata nel nostro sistema politico-sociale. Dobbiamo bonificare il tessuto sociale».

Una società civile in difficoltà

La società civile ha avuto nella storia recente di Haiti una grande importanza. Ha però subito attacchi dai diversi regimi ed è molto divisa. Il vescovo di Port-de-Paix è noto per essere vicino ai movimenti contadini della sua diocesi. Durante le elezioni presidenziali e legislative di ottobre 2015 la partecipazione al voto è stata scarsa, e poi manifestazioni di piazza, a volte violente, hanno fatto rimandare e infine annullare il secondo tuo. Da questo impasse è nato l’attuale periodo, con presidente e governo provvisori. «Per quanto riguarda la reazione alle elezioni del mese di ottobre, posso dire che c’è stata una manipolazione di certi partiti politici. Non erano manifestazioni spontanee del popolo. Anche se è vero che la gente non è contenta. Ma osservo l’assenza di una società civile ben strutturata e motivata. Sarebbe il ruolo della società civile quello di fare il contrappeso alla politica. Va bene manifestare per far capire agli attori politici certe posizioni. È giusto gridare e rivendicare, ma senza scivolare nella violenza». E continua: «La società civile ad Haiti è molto debole, quando non è assente del tutto. È un punto sul quale occorre lavorare molto, per attivarla dappertutto, in tutti i dipartimenti. È un bisogno urgente. Abbiamo, inoltre, una certa tendenza che porta ad avere troppi partiti politici: un centinaio hanno corso per la presidenza. È anormale. Ci sono associazioni che si trasformano in movimenti politici e poi candidano qualcuno. Tutto ciò avviene senza preparazione, organizzazione e strutturazione. Credo che quello che ci vorrebbe per i partiti politici è che possano organizzarsi e federarsi, per avee 5 anziché 50, in rappresentanza delle diverse tendenze. Così il popolo avrà più facilità a scegliere».

Scuole «di fede»

La diocesi di Port-de-Paix coincide con il territorio amministrativo del Dipartimento Nord Ovest di Haiti. È l’area più povera del paese, e meno collegata con la capitale, in quanto le due strade di accesso sono sterrate e impervie. La parte più a Ovest viene anche definita Far West sia a causa della difficoltà di accesso, sia del paesaggio semidesertico e punteggiato di enormi cactus. Qui la malnutrizione infantile è una realtà.

«Ho partecipato all’incontro di Aparecida nel 2007 (V Conferenza dell’episcopato latinoamericano, 13-31 maggio), dove ci siamo resi conto di alcuni aspetti, sul piano pastorale. La fede, per noi cattolici, necessita di un approfondimento continuo, affinché diventi adulta. Ci sono cattolici coraggiosi, ma con una fede non molto profonda. È una delle ragioni che portano alcuni a scivolare verso altre religioni, o altre confessioni cristiane. Questo fatto è anche associato a una mancanza di formazione. La dottrina cristiana è una delle più complicate. Abbiamo la trinità, l’incarnazione, l’immacolata concezione, l’assunzione, la redenzione, cose difficili da spiegare. Ero a Miami recentemente, e ho incontrato dei latinoamericani molto attratti dall’islam, perché è una religione facile. Da qui sorge la domanda: come dare una formazione ai nostri cristiani, in modo umano e diretto?

Nella mia diocesi, in tutte le parrocchie, abbiamo creato quello che in creolo chiamiamo scuole “konnessans lafwa” (conoscenza della fede). Otto moduli di formazione, per conoscere la fede: da dove viene, come viverla, le grandi verità. Se fosse stato un uomo a fondare la religione sarebbe a taglia umana, e più facile da spiegare. Gesù è venuto per salvarci, per portare una buona notizia, non per fondare una religione. Ma questa, se è rivelata, diventa difficile abbordarla umanamente».

Un altro aspetto molto caro al prelato è la «chiesa comunità»: «Promuoviamo le cellule parrocchiali di evangelizzazione. Ce ne sono in Italia, a Milano. Papa Francesco ne ha parlato. Si tratta di una replica delle comunità ecclesiali di base (Ceb) dell’America Latina. Io ci credo molto, perché rispondono a una grande questione: tra i cattolici abbiamo una pastorale più funzionale che relazionale. Voglio dire: si va in chiesa ma poi nella comunità non ci si conosce, non c’è una condivisione di fede. È funzionale, nel senso che il prete ha la sua funzione, ci sono i sacramenti, ma poi la relazione di fede tra vicini non c’è.

La pastorale relazionale è qualcosa della chiesa primitiva. Si va a messa e si crea un gruppo che continua a incontrarsi dopo. Queste vogliono essere le cellule, una nuova espressione delle ceb, che noi chiamiamo in creolo «ti fanmi legliz» (piccola famiglia della chiesa). In questo modo vogliamo rinforzare la fede dei nostri cattolici qui nel Nord Ovest».

Marco Bello