Papa Francesco in Iraq: Sui fiumi di Babilonia

testo di Luca Lorusso |


 

Sui fiumi di Babilonia

Un viaggio in sospeso fino all’ultimo, in una terra gravida di violenze, in dialogo con leader religiosi, politici e civili, e con le ferite di un popolo. La fratellanza umana cercata nella culla della civiltà. Il papa in Iraq secondo due esperti del paese.

«Se Dio è il Dio della vita, e lo è, a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome. Se Dio è il Dio della pace, e lo è, a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome. Se Dio è il Dio dell’amore, e lo è, a noi non è lecito odiare i fratelli». L’appello di papa Francesco alla pace, al dialogo e alla fratellanza umana, non è nuovo. Ma ha avuto una forza speciale durante il suo viaggio in Iraq dal 5 all’8 marzo scorso.

Già da tempo il pontefice voleva visitare il paese dei due fiumi, la terra di Ur dei Caldei dove nacque Abramo, padre della fede per ebrei, cristiani e musulmani, e finalmente ci è riuscito.

In mezzo alla tempesta della pandemia, il suo primo viaggio dopo più di un anno, papa Bergoglio l’ha compiuto là, dove la tradizione colloca l’Eden, il giardino bello e fertile della prima coppia umana, oggi mosaico di etnie e religioni e campo di battaglia bagnato dal sangue di troppi conflitti.

La terra di Ur dei caldei

«Dopo la prima guerra del Golfo del 1991, e la seconda del 2003, sull’Iraq c’è stato il silenzio per troppo tempo, fino all’arrivo dell’Isis nel 2014». Don Renato Sacco, parroco di Cesara (Vb), è coordinatore di Pax Christi Italia, legato all’Iraq e amico del cardinale Louis Raphaël I Sako, dal 2013 patriarca della chiesa caldea a Baghdad, fautore del viaggio apostolico e in particolare dell’incontro tra Francesco e il grande ayatollah ʿAlī al-Husaynī al-Sīstānī a Najaf, città santa dell’islam sciita.

«L’Iraq è la mezza luna fertile, il paradiso terrestre della Genesi, la terra dei monasteri del Nord, dove c’è Mosul, l’antica Ninive convertita da Giona. È anche la terra di Nabucodonosor e dell’esilio: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion” (Sal 137). Infine, è la terra di Ur dei Caldei, di Abramo.

In un paese che ha visto guerre coperte da motivazioni religiose, sancire un dialogo di religione e non una guerra di religione è stato estremamente importante».

Photo by – / VATICAN MEDIA / AFP

Terra di persecuzione

Francesco è stato il primo papa a visitare l’Iraq. Ha realizzato un sogno che era stato già di Giovanni Paolo II, che sarebbe voluto andarci nel 2000. Centro del suo viaggio è stato l’incontro con i musulmani sunniti e sciiti, e con le minoranze etniche e religiose del paese, come gli yazidi e i mandeisti, ma altrettanto centrale è stato l’incontro con le chiese cristiane, eredi di alcune delle comunità più antiche.

A inizio Novecento i cristiani in Iraq rappresentavano il 6,4% della popolazione (vedi box), nel 2005 erano il 2%, e oggi circa lo 0,6%. Se nel 2003 erano 1,4 milioni, oggi sono circa 250mila.

«La chiesa irachena fonda le sue origini sulla predicazione dell’apostolo Tommaso. È sempre stata una chiesa di testimonianza e di martirio, e lo è anche adesso. Quando Sako è diventato patriarca, ha chiesto ai cristiani di non lasciare il paese. Anche perché, come dicono pure i musulmani, l’Iraq sarebbe più povero senza di loro.

Il papa è stato a Mosul, nella piana di Ninive, e a Qaraqosh, una delle rare cittadine irachene a maggioranza cristiana, per incoraggiare quelle comunità. Io ci sono stato. È una chiesa viva che non ha perso la speranza».

Forte simbolismo

Nei tre giorni di visita, le tappe del papa sono state molteplici, tutte fortemente simboliche. Ha incontrato i governanti a Baghdad e le autorità civili del Kurdistan iracheno a Erbil, ha visitato il grande ayatollah ʿAlī al-Sīstānī, punto di riferimento dell’islam sciita a Najaf, e ha partecipato all’incontro interreligioso nella piana di Ur, infine ha portato il suo sostegno ai cristiani di Mosul, di Quaraqosh e di tutto l’Iraq.

«Il papa ha incontrato le autorità, alle quali fa bene sentirsi dire che devono essere al servizio del popolo e non della corruzione o di poteri esterni; i capi religiosi; poi le vittime dell’Isis e, più in generale, le vittime della guerra, perché ricordiamoci che prima dell’Isis ci sono state le due guerre del Golfo.

L’America nel 2003 ha tolto tutte le responsabilità politiche, militari, amministrative a chi era stato legato a Saddam Hussein, e il paese è rimasto sguarnito.

Il silenzio sull’Iraq non si è rotto nemmeno con il rapimento e l’uccisione nel 2008 dell’arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Paulos Faraj Rahho. Io ero stato da lui pochi giorni prima del rapimento. Lo hanno fatto poi trovare morto in una discarica. Però di tutto questo non si è parlato, così, quando nel 2014 è arrivato l’Isis, molti lo hanno interpretato come un fungo nato all’improvviso, ma l’Isis non è un fungo, è il frutto di una gestione economica, politica, militare che ha alimentato rabbia e odio».

al-Sīstānī, Sako e il papa

Nella prima bozza di programma del viaggio, la tappa di Najaf per l’incontro con il novantenne leader sciita non era prevista.

Fin da subito, il cardinal Sako si è speso perché venisse inserita. Il suo auspicio era quello che i due leader firmassero il documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi, firmato il 4 febbraio 2019 da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, punto di riferimento per l’islam sunnita. Il papa avrebbe così avuto, in qualche modo, anche un ruolo di mediazione tra l’islam sciita e l’islam sunnita.

Il tempo a disposizione per maturare un passo così importante, però, non era sufficiente. Ciò non toglie che l’incontro sia stato un evento fruttuoso con possibili risvolti futuri: «Presto ci recheremo in Vaticano per assicurarci che questo dialogo continui, si sviluppi e non si fermi qui», ha detto, infatti, dopo la visita papale Sayyed Jawad Mohammed Taqi Al-Khoei, uno degli esponenti di spicco del mondo sciita iracheno, segretario generale dell’Istituto Al-Khoei di Najaf.

Don Renato Sacco ci racconta che lo stesso Sako si trova a svolgere quotidianamente un ruolo di mediazione tra le diverse fedi ed etnie irachene: «Da sempre, fin da quando era parroco a Mosul, Sako crede nel dialogo. Ricordo che una volta a Kirkuk, dove è stato vescovo, mi sono trovato a una cena di Sako con tutti i capi religiosi e politici della zona. Tutti erano venuti con la scorta, con tanto di kalashnikov. A un certo punto nel salone è andata via la luce. Al buio, con tutti questi capi l’uno contro l’altro armati, ho avuto paura. Ma non è successo niente.

Sako mi aveva detto che quei capi sarebbero andati volentieri alla cena da lui, perché da soli non sarebbero mai riusciti a incontrarsi. Sako faceva da mediatore, da punto di riferimento.

L’incontro del papa con al-Sīstānī è conseguenza di questo cammino. È un messaggio per l’Iraq e per il mondo: i capi dialogano».

Il viaggio e la pandemia

In un suo intervento su «La Civiltà cattolica», Antonio Spadaro dà un’interpretazione forte a questo primo viaggio del papa dopo i mesi di stop dovuti alla pandemia. Scrive: «Il viaggio in Iraq si deve inquadrare in questa emergenza sanitaria dello spirito come missione della Chiesa in quanto “ospedale da campo”. Il luogo ideale per porre la tenda di questo ospedale è la piana di Ninive». E prosegue: «Il Pontefice ha identificato in questi mesi […] un chiaro punto focale della sua missione: la fratellanza umana, per la costruzione della quale le religioni possono offrire un “prezioso apporto” […]. Per questo ha deciso di ripartire da Baghdad». La chiesa «ospedale da campo» trova nella lotta alla pandemia il simbolo di una possibile lotta delle fedi religiose unite per il bene comune nella fratellanza umana.

«Condivido molto quello che scrive Spadaro», dice il coordinatore nazionale di Pax Christi. «Il motto del viaggio in Iraq era il versetto di Matteo che dice “Voi siete tutti fratelli”, scritto in caldeo, arabo, inglese e curdo.

Andare in Iraq accanto alle vittime, recitare l’angelus a Qaraqosh, un luogo di sofferenza e di speranza, ha voluto dire scegliere da che parte stare.

Il viaggio poi è stato un sostegno anche per chi lavora lì nel silenzio accanto ai profughi, alle vittime della violenza, a chi ritorna nelle proprie case e le trova distrutte, e continua a farlo, a chi lotta per la pace».

Luca Lorusso


Le chiese irachene

In Medio Oriente si stima che vivano circa 15 milioni di cristiani. In alcuni paesi crescono di numero grazie alle migrazioni, soprattutto nella penisola arabica; in altri, come la Siria e l’Iraq, diminuiscono in modo drastico svuotando alcune tra le comunità più antiche del mondo. Se in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, nel 1900 i cristiani erano prossimi allo 0% della popolazione, oggi rappresentano il 4% e il 13%. Al contrario, se in Siria e Iraq nel 1900, i cristiani erano rispettivamente il 18% e il 6,4%, oggi sono il 2% e lo 0,6%. Con un calo esponenziale a partire dal 2010 in Siria e dal 2003 in Iraq.

Il rapporto di Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre), I cristiani in Iraq, pubblicato a gennaio e scaricabile dal sito acs-italia.org, parla di un esodo provocato soprattutto negli ultimi 20 anni dai conflitti, dalla povertà e dalle persecuzioni.

Pluralità di confessioni

In Iraq i cristiani sono concentrati soprattutto nel Nord (Erbil, Dohuk, Sulaymaniyah, Kirkuk e nella provincia di Ninive). Dagli anni 70, molti sono emigrati a Baghdad e a Bassora, ma dopo il 2003 si è registrato un corposo fenomeno di ritorno.

Una delle caratteristiche più vistose dei cristiani iracheni è la pluralità di confessioni alle quali appartengono. La più consistente è la chiesa cattolica caldea, il cui patriarca, dal 2013, è il card. Louis Raphaël I Sako. Essa raduna il 67,5% dei cristiani del paese. Le altre chiese cattoliche sono quella cattolica siriaca (6,5%), la cattolica armena (0,5%) e la cattolica latina (0,5%). Le chiese ortodosse sono invece quella assira orientale (13%), l’ortodossa siriaca (6%), l’apostolica armena (4%) e la greco ortodossa (0,5%). Mentre gli evangelici contano circa l’1,5% dei cristiani.

Esodo e timori

Il rapporto di Acs, ripercorrendo le varie fasi dell’esodo, ricorda che all’arrivo dell’Isis a Mosul e nella piana di Ninive nell’estate 2014, 120mila cristiani sono fuggiti in pochi giorni nelle zone curde. Negli anni tra il 2014 e il 2019, le persone uccise a causa della guerra sono state in totale 73mila, solo nella zona di Mosul si sono contati 384mila sfollati.

E riguardo ai timori che i cristiani della piana di Ninive hanno ancora oggi, Acs scrive: «Sconfiggendo [l’Isis], il paese ha piegato il peggior nemico della libertà religiosa […]. La minaccia però non è annientata perché molti dei suoi combattenti […] si sono dati alla clandestinità, attaccando occasionalmente le minoranze religiose anche negli ultimi anni». Riguardo alle milizie sciite: «La preoccupazione più immediata per la sicurezza nella Piana di Ninive è rappresentata dalle milizie sostenute dall’Iran che […] hanno aiutato a sconfiggere l’Isis. Tuttavia, alcuni cristiani le accusano di corruzione e di violazioni dei diritti umani». Infine, riguardo alla Turchia: «Gli interventi turchi nel Nord dell’Iraq diretti contro i militanti del Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, nda) stanno colpendo diverse minoranze religiose tra cui cristiani e yazidi. Dall’inizio del 2020 almeno 25 villaggi cristiani nel Nord del paese sono stati svuotati […]».

L.L.


Mosaico di religioni

Dei circa 40 milioni di abitanti iracheni, si stima che gli arabi siano il 75-80%, i curdi il 15-20%, e che un restante 5% sia costituito da una pluralità di minoranze etniche come turkmeni, assiri, persiani.

La stragrande maggioranza della popolazione è di fede musulmana, il 98% circa. Tra le fedi minoritarie che formano il restante 2%, la cristiana, la mandeista, la yazida.

All’interno della vasta maggioranza musulmana vanno distinti poi tre gruppi principali: gli arabi sciiti che rappresentano la maggioranza, circa il 64%, concentrati soprattutto nella parte Sud orientale del paese, gli arabi sunniti, 17%, nell’Iraq centro meridionale, e i curdi sunniti, 17%, nella zona Nord, l’area maggiormente abitata dalle minoranze (vedi cartina pag. 30).

Gli sciiti

All’interno dell’islam, gli sciiti si caratterizzano per il ruolo speciale assegnato ad Ali, cugino e genero del profeta Muhammad, e alla sua discendenza attraverso Fatima, figlia del profeta.

Gli sciiti rappresentano il 10-15% di tutti i musulmani del mondo (circa 130-195 milioni), e rappresentano l’80% della popolazione che vive sui giacimenti di petrolio del golfo.

Le tre principali etnie che compongono l’islam sciita sono l’araba, l’iraniana persofona, e l’azera turcofona.

Gli sciiti arabi iracheni sono la più grande comunità sciita del mondo arabo. Le altre si trovano in Libano (20% della popolazione), Siria (10-12%), Kuwait (20-25%), Arabia Saudita (10-15%), Bahrain (50-70%), Yemen (35%), Turchia (20%).

In Iran, gli sciiti persiani e azeri costituiscono oltre il 90% del paese. In Azerbaigian gli sciiti sono il 75-80%, in Afghanistan il 20-25%, in Pakistan il 20%.

I santuari

I luoghi nei quali la tradizione colloca le sepolture di alcuni dei membri della famiglia del profeta Maometto, sono quelli nei quali sorgono i più importanti santuari che svolgono un ruolo centrale nella fede sciita.

Il santuario di Najaf, dove riposano le spoglie di ‛Alī ibn Abī Ṭālib, cugino a genero del profeta, è considerato il più importante, e sede della più prestigiosa scuola teologica sciita. Suo «rivale» in Iran è il santuario di Qom, dove è seppellita Fa’ṭima, sorella dell’ottavo imām ‛Alī ibn Mūsā ar-Riḍā, anch’esso sede di un’importante scuola teologica secondo i caratteri iraniani.

L.L.


Lo sciismo dialogante di ʿAlī al-Sīstānī

Il grande ayatollah di Najaf è il massimo interprete di una lettura «quietista» dell’Islam sciita, rifiutando l’interferenza religiosa nella politica. Nonostante ciò, ha oggi un ruolo centrale nello scenario iracheno, ed è considerato un fattore di stabilità nel suo paese. È per questo che il cardinale Sako guarda a lui come un punto di riferimento nel dialogo, e che la «visita di cortesia» del papa a Najaf è stata uno dei momenti più significativi del suo viaggio in Iraq.

Abbiamo sentito Andrea Plebani, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Associate research fellow all’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), vicedirettore scientifico del Centro studi internazionali di geopolitica. I suoi interessi di ricerca sono concentrati sull’evoluzione dello scenario geopolitico mediorientale, con particolare attenzione a Iraq, Siria ed Egitto, e sulle dinamiche interne alla galassia islamista.

Photo by – / Ayatollah Sistani’s Media Office / AFP

Qual è il ruolo del grande ayatollah al-Sīstānī?

«‘Alī al-Husaynī al-Sīstānī è il massimo rappresentante del quietismo sciita che riconosce la centralità del ruolo dei giurisperiti (esperti di diritto islamico, nda), ma prevede un loro non coinvolgimento diretto nell’ambito politico. L’opposto dello sciismo khomeinista che in Iran si è affermato dalla rivoluzione del ’79.

Questa diversità si riflette in una competizione tra i due santuari chiave dello sciismo: quello di Najaf, e quello di Qom in Iran.

Ciò detto, c’è anche da dire che l’impostazione quietista di al-Sīstānī non gli ha impedito negli ultimi decenni di giocare comunque un ruolo chiave sul piano politico. Ad esempio, nel 2014, quando l’Isis è entrato a Mosul, ha emanato una fatwa per chiamare gli iracheni (non solo gli sciiti, ma tutti, e questo è significativo) a imbracciare le armi. Cosa che ha contribuito non poco alla vittoria contro i terroristi.

La sua centralità informale sul piano politico è sempre stata segnata da un ruolo di mediatore, dall’appello al dialogo, al rispetto delle minoranze. Consideriamo che l’Iraq post 2003 è un paese che ha subito dei cambi di equilibri interni fortissimi che l’hanno destabilizzato sotto molti profili.

In questa realtà così frammentata e dilaniata, al-Sīstānī ha giocato un ruolo di moderatore, invitando, ad esempio, a non rispondere alla violenza con altra violenza anche in tempi difficili come gli anni dal 2004 al 2006 nei quali gli attacchi colpivano in modo sempre più duro la popolazione civile.

Da sempre, poi, non esita a far sentire la sua voce in favore dei diritti dei più deboli. Penso alle manifestazioni di protesta che sono esplose nel 2019: quando i manifestanti hanno chiesto il suo intervento, lui, mentre il governo reprimeva anche nel sangue le proteste, ha risposto chiedendo che i loro diritti venissero tutelati.

Al-Sīstānī ha una statura unica nel sistema iracheno: in un paese destabilizzato, negli ultimi decenni lui è stato una costante che è riuscita a tenerlo assieme».

La visita del papa ad al-Sīstānī può aver irritato l’Iran?

«Non penso. Ho parlato di competizione tra le due visioni sciite, ma la competizione non implica necessariamente ostilità. Il papa, con la sua visita ad Al-Sīstānī gli ha voluto anche riconoscere il fatto che si è speso molto per creare un clima non ostile alle minoranze, un clima di dialogo. Questo non vuol dire che le minoranze siano tranquille in Iraq, ma il tentativo di al-Sīstānī va evidenziato».

Riguardo alle proteste, quali erano, e sono, le loro istanze?

«Sono proteste molto frammentate, senza una leadership univoca, che hanno riunito anime diverse: dagli studenti, anche giovanissimi, ai giovani disoccupati (il 57% della popolazione in Iraq ha meno di 24 anni, l’età media è di 21, nda). Non sono manifestazioni settarie, di una componente che mira ad affermare la sua centralità.

Uno dei loro slogan più significativi è: “Noi vogliamo una patria”. Cioè, da un lato, che il paese sia realmente indipendente, non soggetto all’influenza degli Usa, dell’Iran, ma anche che l’Iraq non sia ostaggio di una cricca di politici i cui interessi sono diversi da quelli della collettività.

L’Iraq è un paese potenzialmente ricchissimo, non solo per gli idrocarburi. È una terra fertile. Ha uno sbocco sul Golfo Persico, ha buone capacità industriali.

Anche sulla base di queste considerazioni, le proteste chiedono risposte a istanze basilari: che i diritti degli individui vengano tutelati, che ci siano opportunità lavorative, che sia garantita la dignità. Si chiede un netto cambiamento. E che vengano realizzate le aspettative generate dalla caduta del regime di Saddam».

Una delle problematiche è anche la suddivisione «settaria» delle cariche istituzionali.

«Il sistema iracheno non è consociativista come quello libanese nel quale è previsto che alcune cariche vengano affidate a esponenti di specifiche comunità. Nel sistema iracheno la costituzione non dice nulla in tal senso, però di fatto, sul piano sostanziale, dal 2005 il primo ministro è un arabo sciita, il presidente è curdo, lo speaker del parlamento è arabo sunnita, il ministro dell’Interno è un arabo sciita, quello della difesa è un arabo sunnita, e così via. È anche questo uno degli aspetti contro i quali i manifestanti si scagliano: il settarismo è rifiutato da sempre dalla popolazione irachena».

Un ulteriore elemento di complessità nel quadro iracheno è aggiunto dalla regione autonoma del Kurdistan.

«Nell’autunno 2017, quando la lotta contro l’Isis volgeva al termine, la classe dirigente del Kurdistan iracheno ha indetto un referendum sull’indipendenza. Questo anche alla luce del notevole credito internazionale acquisito grazie agli sforzi nella lotta all’Isis.

Il Kurdistan porta avanti almeno dal 2003 una campagna che tende a rappresentarlo come una realtà diversa dal resto dell’Iraq. Nella prima decade del 2000 c’era una campagna pubblicitaria che presentava il Kurdistan come l’altro Iraq, quello che funziona, che cresce, si sviluppa, dove si rispettano i diritti, ecc.

Con il ritiro delle forze di sicurezza irachene nel 2014 da Mosul, le forze curde, ex peshmerga, avevano occupato molti dei territori contesi da tempo tra Baghdad ed Erbil, territori chiave dal punto di vista sociale, culturale, storico, ma anche economico. In particolare la città di Kirkuk attorno alla quale ci sono giacimenti che avrebbero garantito le basi economiche del Kurdistan iracheno indipendente.

Il problema è che la questione non è solo tra Baghdad ed Erbil. Ci sono comunità curde in Siria, ma soprattutto in Turchia e Iran. La Turchia ha da sempre una linea di opposizione nei confronti di un Kurdistan indipendente, e questi si è di fatto trovato circondato dall’opposizione di Ankara, Teheran e Baghdad, e abbandonato dagli Usa».

Fino all’ultimo, il viaggio del papa è stato in bilico. I timori per la sicurezza erano forti.

«Anche io ero molto preoccupato, perché l’Iraq è un paese con problemi di sicurezza enormi. Sono felice che sia andato tutto bene. La visita di un’autorità come il papa ha restituito all’Iraq la centralità che dovrebbe sempre avere. È stata, oltre che uno strordinario atto di coraggio personale e di amore nei confronti della popolazione irachena, non solo cristiana, l’occasione per dare centralità a chi spesso è stato dimenticato».

L.L.


Archivio MC:

Valentina Tamborra, Iraq: la rivolta e la speranza, agosto 2020.
Angelo Calianno, I sopravvissuti (alla follia dell’Isis). Reportage da Kirkuk, maggio 2019.
Angelo Calianno, Le bombe non conoscono religione. Reportage da Mosul, aprile 2019.
Marta Petrosillo, Ricostruire dopo l’Isis. Il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive, aprile 2019.
Simone Zoppellaro, Kurdistan: Orgoglio Kurdo. Reportage dal Kurdistan iracheno, dossier, luglio 2017.
Simone Zoppellaro e Paolo Moiola, Popolazioni perseguitate: Yazidi, dossier, marzo 2017.




Il ponte più lungo

testo di Giorgio Marengo |


Il 13 novembre scorso, nella sala Congregazioni del comune di Torino, è stato rinnovato il «Patto di collaborazione» tra la capitale subalpina e Kharkhorin, cittadina della Mongolia che sorge sul sito di quella che, nel XIII secolo, fu la capitale del più esteso impero (di terra) della storia.

Fu lo stesso Gengis Khan, nel 1220, a dare disposizioni perché a Kharkhorin si stabilisse il cuore dell’impero, anche se la capitale prese forma solo nel 1235 con suo figlio Ögodei Khan e rimase tale fino a quando Kubilai Khan (noto in Occidente soprattutto per il rapporto con Marco Polo) nel 1264 la spostò più a Est, fondando l’odierna città di Pechino.

Torino Palazzo Civico, Sala della Convenzioni, rinnovo del patto di collaborazione tra la città di Torino e la Mongolia (© AfMC/Gigi Anataloni)

I come e i perché

Il «Patto di collaborazione» tra Torino e Kharkhorin, siglato nel 2016 e rinnovato nella sede del comune di Torino il 13 novembre scorso, è un atto formale che consente alle due parti, nei rispettivi paesi, di intraprendere e consolidare percorsi di collaborazione nei settori della cultura, della ricerca scientifica, del turismo e del commercio.

Questo accordo è stato possibile perché noi missionari e missionarie della Consolata abbiamo fatto da ponte affinché queste due realtà si potessero incontrare, nell’interesse delle cittadinanze che esse rappresentano. Furono le autorità locali della regione mongola di Uvurkhangai – all’interno della quale sorge la nostra missione di Arvaiheer – a chiederci, ormai sei anni fa, se fossimo disposti a favorire un’intesa ad ampio raggio con una realtà europea, in vista di una collaborazione internazionale sempre più necessaria per ottimizzare i servizi ai cittadini e anche per promuovere una maggiore apertura ai temi della interculturalità e della pace.

Pensare a Torino fu spontaneo, sia per il legame con le nostre origini di Istituti missionari sia per le curiose similitudini che cominciammo a scoprire; a partire dai nomi stessi delle due regioni. Se il nome «Piemonte» richiama immediatamente la conformazione geofisica del territorio, situato appunto ai piedi dell’arco alpino occidentale, «Uvurkhangai» significa letteralmente «a sud dei monti Khangai». I Khangai sono un’importante catena montuosa che attraversa tutta la Mongolia. Inoltre, se Kharkhorin fu la capitale dell’impero mongolo, Torino lo fu per il Regno d’Italia.

Insomma, ci sembrava che le due realtà, seppur diverse sotto alcuni profili, potessero considerarsi accomunate da interessanti analogie storiche e territoriali.

Torino Palazzo Civico, Sala della Convenzioni, rinnovo del patto di collaborazione tra la città di Torino e la Mongolia. Padre Giorgio Marengo traduttore ufficiale. – Con la sindaca Appendino. (© AfMC/Gigi Anataloni)

Torino e Kharkhorin

Così iniziammo a sondare il terreno delle relazioni internazionali e grazie all’impegno di entrambe le parti e alla collaborazione di molte persone fummo in grado di favorire questo incontro, finora rivelatosi molto positivo. Da tre anni ormai il museo storico di Kharkhorin ospita le attività formative del «Centro ricerche archeologiche e scavi» (Crast) dell’Università di Torino. Il Mao (Museo d’arte orientale) di Torino ha ospitato due mostre fotografiche dedicate al patrimonio culturale e religioso dell’antica capitale. In più, anche altri specialisti e istituzioni sono stati coinvolti nelle iniziative di ricerca, incluso il «Museo della ceramica» di Mondovì che ha accolto una mostra multimediale su Kharkhorin. In questi anni si è inoltre firmato un protocollo d’intesa tra il Centro scavi di Torino, il Museo di Kharkhorin e l’Università di Ulaanbaatar, sempre volto a favorire la ricerca scientifica su questo sito di grandissimo interesse storico e culturale.

Mebri del «Centro ricerche archeologiche e scavi» (Crast) dell’Università di Torino a Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)


La «Casa dell’Amicizia»

Come missionari e missionarie della Consolata già agli inizi della nostra missione in Mongolia ci era sembrato che una presenza a Kharkhorin sarebbe stata molto importante.

Casa dell”Amicizia – Friendship house nei pressi dell’area archeologica di Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)

La cittadella che nel XIII secolo accoglieva al suo interno edifici di culto di Buddhismo, Islam e Cristianesimo nestoriano rappresenta un unicum nella storia antica, un modello da conoscere e ripresentare in chiave contemporanea; fu proprio a Kharkhorin che personaggi come fra Giovanni di Pian del Carpine e fra Guglielmo di Rubruk misero piede intorno al 1240, primi ambasciatori occidentali a entrare in relazione con gli imperatori mongoli. Inoltre, Kharkhorin ospita il più antico complesso monastico buddista del paese, dunque è considerata la patria del Buddhismo mongolo. Quale migliore collocazione per un centro dedicato al dialogo interreligioso e alla ricerca culturale?

Il progetto sta prendendo forma e ora siamo felici di avere a Kharkhorin la «Casa dell’Amicizia» come punto d’incontro, scambio e ricerca, ambiti imprescindibili per la missione in Mongolia.

L’interesse che aveva mosso papa Innocenzo IV a stringere relazioni con i dominatori dell’Eurasia di quel tempo è diventato oggi coesistenza pacifica e attiva collaborazione, sotto la nostra grande ger (la tradizionale tenda mongola) di Kharkhorin.

La Chiesa Cattolica non è estranea alla storia di questo grande paese dell’Asia centro orientale e da quando vi è stata nuovamente accolta nel 1992 è diventata un partner consolidato per promuovere una cultura di rispetto, dialogo e fratellanza universale. Siamo felici che il «Patto di collaborazione» tra le due città sia stato rinnovato e ci auguriamo possa continuare ad offrire valide occasioni di scambio e cooperazione.

Giorgio Marengo

10 luglio 2018 inaugurazione delal Casa dell’Amicizia a Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)

800 anni di storia

È iniziato con i migliori auspici l’anno celebrativo dell’ottocentesimo anniversario della fondazione della capitale dell’impero mongolo, Karakhorum (1220-1260, letteralmente Montagne nere, oggi Kharkhorin). Com’è giusto e prevedibile per un paese che dà sempre molta importanza alle ricorrenze storiche, è stato pianificato un ricco programma ufficiale di iniziative, patrocinato dal presidente Khaltmaagiin Battulga, nel quale è prevista anche la partecipazione dell’Unesco (che nella riunione plenaria del novembre 2019 ha dato particolare rilievo a tale anniversario).

Lo stato che per primo ha dimostrato interesse e concreta volontà di collaborazione è stato il Vaticano. A inizio gennaio l’ambasciatore mongolo presso la Santa Sede e rappresentante permanente presso l’Onu, L. Purevsuren, ha incontrato in Vaticano il segretario per i rapporti con gli stati, mons. Paul Richard Gallagher. I due alti funzionari hanno parlato degli 800 anni di Karakhorum, dove uno dei primi diplomatici a recarsi per incontrare il Khan fu proprio un ambasciatore del papa, il frate Giovanni di Pian del Carpine, che raggiunse la «capitale delle steppe» nel lontano 1246.

Con il suo diario di viaggio il frate umbro contribuì in maniera decisiva a far conoscere in Occidente questo popolo, fino ad allora soltanto temuto per le sue incursioni bellicose in Europa orientale.

A lui fece seguito pochi anni dopo un altro francescano, Guglielmo di Rubruk, questa volta inviato dal re di Francia.

Il Vaticano ospiterà a maggio una mostra fotografica e una conferenza scientifica sugli ottocento anni dell’antica capitale mongola.
In vista di tale evento, il diplomatico mongolo ha anche incontrato mons. Indunil Kodithuwakku, segretario del «Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso» e il prof. Laurent Basanese dell’Università Gregoriana di Roma.

È una storia lunga quella che lega la Chiesa Cattolica al popolo mongolo, anche se non è abbastanza conosciuta.

Proprio per valorizzare questi antichi rapporti – grazie ai quali si ebbe notizia della cristianità nestoriana (oggi si direbbe siriaca) esistente nei territori mongoli già dal X secolo – e attualizzarli, i missionari e le missionarie della Consolata hanno stabilito a Kharkhorin (così si chiama oggi il comune che sorge presso le rovine dell’antica capitale) un piccolo centro per la ricerca culturale e il dialogo interreligioso.

Ed è precisamente alla convivenza pacifica e allo scambio fruttuoso tra diverse tradizioni religiose che è legato il nome dell’antica capitale: i due frati medievali e molti altri testimoni dell’epoca hanno descritto la cittadella come cosmopolita e multi religiosa, con luoghi di culto buddhisti, islamici, cristiani e taoisti. Un esempio straordinario che vale la pena riscoprire e di cui fare tesoro per l’oggi.

La città di Torino è legata a Kharkhorin per il Patto di collaborazione tra le due «capitali» (di cui abbiamo scritto in queste pagine), che ha già prodotto molti scambi culturali e significative iniziative di ricerca scientifica e divulgazione. Oltre alle due mostre fotografiche ospitate dal Mao di
Torino e alla mostra laboratorio allestita nel 2018 al Museo della Ceramica di Mondovì, vanno ricordati i laboratori
didattici offerti in questi anni dagli archeologi del Centro
ricerche archeologiche e scavi di Torino (Crast) al Museo storico archeologico di Kharkhorin.

Gio. Ma.

Casa dell”Amicizia – Friendship house nei pressi dell’area archeologica di Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)

 




Attraverso il Niger, Africa «coast to coast»

Testo e foto di Marco Bello |


Il Niger è un paese di origine ma soprattutto di transito di migranti. Molti sono quelli che passano di qui per tentare la traversata del Sahara. Succede che non ci riescano, oppure che vengano respinti e riportati alla frontiera. Il flusso dei «ritornati» è in aumento. La chiesa cattolica del Niger si è organizzata per dare loro un’assistenza più «umana» possibile.

Niamey. La capitale sabbiosa del Niger sta cambiando volto. Nella sua zona centrale sono ben visibili alcuni grandi cantieri. Enormi edifici in costruzione, hotel e palazzi governativi di un’altezza mai vista qui, e poi il terzo ponte sul fiume Niger.

Guardando bene vediamo molti cinesi al lavoro sotto i caschetti gialli, e in alcuni cantieri sventolano bandiere turche. Sono questi i due sponsor ufficiali della speculazione edilizia a Niamey.

Ma in altre zone della capitale ci sono ancora quartieri con le case di mattoni in fango e paglia essiccati (banko), quasi «edifici storici», si direbbe da noi. Case da villaggio si dice in Niger.

Ci spingiamo nella periferia Est. In questa zona relativamente recente ci sono case basse e qualche edificio più alto, di banche o compagnie telefoniche. Noi cerchiamo i locali della parrocchia San Gabriel Garbado, della chiesa cattolica, minoritaria nel paese a grande maggioranza musulmana. A San Gabriel, l’arcidiocesi di Niamey – una delle due del paese, l’altra è la diocesi di Maradi – ha concentrato le attività di accoglienza e ascolto per i migranti.

Entriamo nella bassa costruzione in colore ocra, quasi mimetica, e nel cortile interno incontriamo Laurent Tindano, l’animatore principale della pastorale migranti. Laurent è un migrante lui stesso, perché burkinabè, ma vive qui da decenni e si sente nigerino a tutti gli effetti.

Un centro di ascolto

«Questo è un piccolo centro di accoglienza. Con pochi mezzi facciamo un accompagnamento dei migranti.

Ci occupiamo di coloro che stanno ritornando, dopo aver attraversato il deserto e tentato di passare il mare, senza successo, e ora vorrebbero rientrare nei loro paesi. Arrivano a Niamey sfiniti, privati di qualsiasi mezzo, smarriti e traumatizzati dell’esperienza durissima. Noi li accogliamo, ma non facciamo un lavoro amministrativo.

Parliamo con loro, li riceviamo come fratelli, non come stranieri, dando loro valore umano. Lasciamo tutto il tempo per parlare e cerchiamo di creare un rapporto di fiducia. Così ci raccontano il loro vissuto.

Li compatiamo nella loro sofferenza.

Quando un essere umano sente che lo capite, vi dà fiducia, e accetta di aprirvi il suo cuore e vi dirà molte cose. È diverso dal fargli delle domande per compilare un formulario».

Al centro di Garbado viene dato ai migranti anche un piccolo aiuto materiale «per facilitare il loro passaggio»: qualche soldo, una coperta, un kit igienico. Una volta la settimana un medico volontario visita le persone di passaggio. E, grazie alla convenzione con una farmacia e una clinica, si riescono a dare farmaci e far visitare i casi più gravi.

Un fenomeno nuovo

Laurent ci racconta che tutto è iniziato intorno all’anno 2011: «Con gli avvenimenti della Libia, del Mali e della Costa d’Avorio, alcuni sbandati arrivavano a Niamey e cercavano una parrocchia, perché è noto che dove c’è la chiesa è probabile ricevere un aiuto. Il fenomeno era nuovo e creammo dei comitati in ogni parrocchia. Ma poi ci rendemmo conto che c’erano migranti che facevano il giro. Si decise di concentrare l’attività a Garbado, che è in un luogo logisticamente vicino alle stazioni degli autobus di lunga percorrenza».

Gli chiediamo perché l’accoglienza è in prevalenza a chi torna dal tentativo di traversata. «Quelli che partono verso il deserto di solito sono in forma e hanno ancora il morale alto e mezzi economici. Hanno meno bisogno di noi. Inoltre noi siamo per la libertà di circolazione. Se ci chiedono informazioni sulla strada, diamo loro almeno qualche indicazione sui pericoli della traversata».

Seduto su una panca, poco più in là, sotto la tettoia di lamiera che ora ripara dal sole implacabile e per (soli) tre mesi all’anno dalla pioggia torrenziale, sta Micheal Johnson. Liberiano, di 37 anni, Michael è un vero globe trotter dell’Africa. Ma non per turismo.

Michael il «globe trotter»

Durante gli anni ‘90 in Liberia infuria una cruenta guerra civile (dall’89 al 2003 con una pausa nel ‘97-‘98). Come molti suoi connazionali Michael fugge e si ritrova in Costa d’Avorio, in un campo profughi. Nel paese lavora per dieci anni. Parla molto bene anche il francese. «Finita la guerra sono tornato nel mio paese, ma ho visto che la situazione era pessima. Volevo qualcosa di meglio dalla vita. Allora sono ripartito».

Michael passa da Guinea, Senegal, Mali, Burkina Faso e poi Niger. Da qui arriva in Ciad e si dirige verso il Sudan. «A questo punto è stato molto difficile. Ad Abéché ho trovato molti altri migranti che facevano il mio stesso viaggio. Siamo partiti insieme con un camion, ma passata la frontiera, verso le tre di notte, ci hanno assalito i ribelli Janjawid». Michael si trova nel Darfur. I ribelli sparano ai pneumatici del camion, fanno scendere tutti e puntano un’arma alla testa dell’autista. «Ci hanno fatti sdraiare nel deserto, hanno iniziato a torturarci e ci hanno preso tutto». Poi compare una pattuglia di caschi blu della missione di pace Onu, Unamid, che, sparando in aria, mette in fuga i Janjawid. Michael e gli altri sono salvi.

I caschi blu recuperano i malcapitati e li portano alla città di Al Fasher. «Hanno visto che non avevo nulla e mi hanno pagato il biglietto dell’autobus per Khartum. Il mio obiettivo era andare in Arabia Saudita».

A Khartum Michael non conosce nessuno, però da viaggiatore ormai esperto, si infiltra nel campus universitario, dove si riesce a vivere con poco e si trova sempre qualcuno che ti aiuta. «Sapevo dell’esistenza dell’università Jama Africa. Ci sono rimasto qualche tempo, intanto ho cercato un lavoro perché avevo finito i soldi». Appena ha abbastanza soldi Michael si rimette in viaggio e è arriva a Port Sudan, città sul Mar Rosso.

Ultimo passaggio

«C’erano delle barche che attraversavano il mare per andare in Arabia Saudita. Le barche erano sovraccariche. Ho visto gente di Etiopia, Eritrea, Nigeria, Camerun, Mali, Liberia. Ho pagato 1.500 dollari e mi hanno portato in un luogo nel deserto, dove molti altri erano in attesa. Ho così scoperto che c’erano molti migranti clandestini. Ci hanno detto di non farci vedere in città. Dovevamo aspettare di essere 150 per riempire una barca e i trafficanti sarebbero venuti a cercarci. Nel frattempo ci portavano cibo e acqua acquistata in città. Sono rimasto in quel luogo circa un mese».

Poi finalmente una mattina all’una, all’improvviso i trafficanti vanno a cercarli per partire. Ma Michael non ha fortuna. Una motovedetta della guardia costiera saudita blocca la sua nave. Non li fa attraccare e li rimanda in Sudan. Da allora Michael diventa come un pacchetto, espulso dai diversi paesi che ha attraversato. Lo portano a Nguigmi, in Niger al confine con il Ciad.

Ma lui non si arrende. «Allora mi sono detto, passerò dall’Algeria per andare in Francia». Dopo aver lavorato riesce ad attraversare il Sahara e arrivare a Oran, città algerina sulla costa. Qui trova un lavoro per mettere insieme un po’ di soldi ma «una sera, uscito dal lavoro, mi ferma una pattuglia della polizia. Io non avevo i documenti. Mi hanno portato all’ufficio immigrazione. Chiesi che cosa avevo fatto, ma mi dissero che dovevo partire. Volevo passare da casa a prendere le mie cose, ma non lo consentirono». Rinchiuso in un locale con altri clandestini, dopo alcuni giorni Michael viene messo su un camion «quelli che portano fino a 150 persone», e trasferito verso Sud. I migranti respinti sono quindi scaricati in Niger, nei pressi della frontiera. In qualche modo arriva poi a Niamey. «Qui la situazione è peggiorata, non riesco a trovare lavoro. Ho deciso di tornare in Liberia ma non posso arrivare senza un soldo. Nel mio paese la guerra ha rovinato tutto, ha ucciso i miei genitori. Anche per questo me ne sono andato».

Famiglia migrante

Nella parrocchia di Garbado, questa mattina ci sono una decina di persone. Tutti uomini o ragazzi. Unica eccezione è una famiglia, padre, madre e bimba piccola. Accettano di parlarci.

Biko (nome di fantasia) parla un ottimo francese. Lui e la famiglia vengono dal Ciad, in particolare da Ndjamena, anche se, ci tiene a precisare, sono originari del Sud, Doba, dove ci sono i pozzi di petrolio. Lui ha tentato più volte di studiare giurisprudenza all’università, nel vicino Camerun. Prima nel 2007, poi dieci anni dopo. In entrambi i casi ha dovuto lasciare a causa delle cattive condizioni di sicurezza.

Biko è molto critico con il suo paese: «Sono nato nella guerra, cresciuto nella guerra e le conseguenze sono nefaste, non mi hanno permesso di studiare». La famiglia è composta anche da altri tre figli, ci raccontano entrambi, di 10, 6 e 4 anni. L’ultima, qui con loro, ne ha 2. «Sappiamo che è un rischio lanciarsi in una migrazione con una grande famiglia. Ma ci ha spinto il fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in mezzo a conflitti armati, intercomunitari, c’è la repressione dei governi, la cattiva gestione. Le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne beneficino per vivere in pace».

La moglie, Evelyn, in un francese più impacciato, aggiunge: «Abbiamo lasciato il Ciad per cercare una vita migliore per noi e i nostri figli. Il nostro obiettivo è cercare fortuna in Marocco». E continua raccontando il loro viaggio, iniziato quasi un anno fa: «Siamo partiti da Ndjamena con un camion e siamo arrivati in Nigeria. Poi da lì è stato complicato, anche a causa della polizia. Abbiamo spesso dovuto negoziare e alla fine abbiamo pure perso i documenti». Entrati in Niger si sono diretti a Nord, fino ad Agadez, la città nigerina alle porte del Sahara, nella quale tutti i flussi dei migranti s’incontrano: da Est, da Sud e da Ovest. E dalla quale si parte per l’Algeria o la Libia. Qui, qualcuno in «uniforme» ha avuto compassione della famiglia e ha sconsigliato loro di proseguire: «Con questi bambini farai la loro tomba nel deserto», hanno detto. E poi li ha aiutati a tornare a Niamey.

Tra l’incudine e il martello

«Siamo qui da quasi otto mesi – dice Biko -, i bambini non vanno a scuola, e non abbiamo neppure una casa. Viviamo all’aperto. Quando piove ci lasciano mettere sotto una tettoia adibita a moschea, poi però dobbiamo sloggiare. Non abbiamo provato a fare i visti per il Marocco, perché non so come fare e non ho soldi. Non abbiamo più nulla».

Chiediamo alla coppia se non pensano sia meglio tornare in Ciad. Risponde Biko: «Sì, ma abbiamo paura di quello che succede nel nostro paese, in particolare il terrorismo. Inoltre mi hanno detto che se sei stato all’estero più di tre mesi, quando ritorni ti sospettano di terrorismo. Devi giustificare cosa hai fatto, altrimenti ti sospettano di essere con Boko Haram. Siamo tra l’incudine e il martello».

Il Ciad fa parte della coalizione militare con Niger, Nigeria e Camerun, che combatte i terroristi di Boko Haram (Cfr. MC ottobre 2016). La capitale Ndjamena è molto vicina al Nord Est della Nigeria, zona storica di questo gruppo che ormai interviene nei quattro paesi nei pressi del lago Ciad.

L’amaro in bocca

Dopo aver parlato con diversi ragazzi, ascoltato le loro storie incredibili, di viaggi e di atrocità subite, prendiamo la nostra telecamera e li salutiamo. Sono contenti di aver condiviso la loro storia con noi, nonostante all’inizio ci fosse una certa diffidenza. Ce ne andiamo con l’amaro in bocca, per non potere far nulla di più che scambiare gli indirizzi mail. Biko ci scriverà una mail qualche tempo dopo. Alla fine sono rientrati in Ciad attraverso l’aiuto dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Ora stanno aspettando degli aiuti per la «reintegrazione».

Epilogo

Torino, due settimane dopo.

È sera. Sto rincasando, quando sul bordo della strada scorgo un ragazzo africano che fa l’autostop. Mi fermo e lo carico.

Mi ringrazia. Subito un odore dolciastro invade l’abitacolo. Deve essere qualche profumo che utilizza. È un ragazzo molto giovane, con lo smartphone e le cuffiette. Come tutti i giovani ascolta musica. Dopo i primi minuti di silenzio gli chiedo come si chiama e da dove viene. «Vengo dalla Sierra Leone e mi chiamo Jo».

«Freetown?», chiedo io. Il nome della capitale del suo paese lo fa sussultare: «Sì – risponde sorridente – la conosci?».

Ammetto: «Non ci sono mai stato, ma conosco dov’è. Io ho vissuto in West Africa, in Burkina Faso». Il giovane si scioglie, nel tempo di un istante si crea una sorta d’intesa. Mi racconta che è in Italia da due anni e due mesi, e lo dice con precisione. Ha fatto il viaggio del deserto e poi del Mediterraneo. Ce l’ha fatta, lui. «Mi trovo bene qui», garantisce in un italiano mediocre.

Le nostre strade si dividono e lo deposito sul marciapiede. È molto contento e non fa che ringraziare. Lo saluto e vado via veloce nella notte. Ma subito penso a Michael, Biko, Evelyn e gli altri. I suoi conterranei che meno di due settimane fa ho incontrato a Niamey. Infognati in una terra di mezzo, senza più soldi e senza speranza. Con il sogno di una vita migliore infranto e nessuna voglia di tornare a casa a mani vuote. Loro non ce l’hanno fatta.

Marco Bello
con la collaborazione di Sante Altizio


Incontro con l’arcivescovo di Niamey

Essere luce nella società

La piccola ma vivace chiesa cattolica del Niger ha due pastori: monsignor Laurent Lompo e mons. Ambroise Ouedraogo. Il rapporto con l’islam è vitale, così come la comunione con le chiese protestanti. L’insegnamento è un canale importante per diffondere i valori della pace e della tolleranza, mentre la Caritas interviene in aiuto di tutti.

Incontriamo monsignor Laurent Lompo nei suoi uffici dell’arcidiocesi di Niamey. Lo avevamo conosciuto nel 2015, fresco di nomina. Lui è il primo vescovo nigerino del Niger (MC dicembre 2015).

Da quando hanno rapito padre Pierluigi Maccalli nella sua parrocchia nei pressi del confine con il Burkina Faso, il 17 settembre scorso, le preoccupazioni sono aumentate. E le riunioni di coordinamento pure. Ha poco tempo, ma accetta di parlare con noi. Notizie del missionario non ce ne sono. O meglio, il silenzio stampa è d’obbligo, per non disturbare eventuali trattative per il rilascio.

Rispetto alla problematica migratoria, cosa fa la chiesa del Niger?

«Sia nella diocesi di Niamey che in quella di Maradi abbiamo creato delle “cellule di ascolto”, per i migranti che passano. Perché il Niger è un paese di passaggio. Molti sono rimandati indietro da Algeria e Libia, tornano qui in capitale ma vogliono ripartire. Noi facciamo la pastorale dell’ascolto. Perché sono persone ferite, e credevano che migrando qualcosa sarebbe cambiato. Ritornano e sono scoraggiati. Il primo aspetto è dunque ascoltarli e ridare loro il gusto della vita e la dignità di persone. Non è perché siamo migranti che non siamo persone. Siamo pellegrini sulla terra e ognuno è chiamato ad andare all’incontro dell’altro. Il fenomeno migratorio che aumenta nei nostri paesi è il segno che le difficoltà portano la gente a cercare qualcosa in più. Ma sarà la migrazione a dare questo di più? Dobbiamo mettere il focus sui nostri paesi e su come fare in modo tale che la vita delle persone sia decente. Affinché il viaggio sia deciso effettivamente perché vogliono partire e non perché non hanno nulla e sono costretti a spostarsi.

Dobbiamo prendere la migrazione in questo doppio senso: chiunque ha diritto di viaggiare, ma se partiamo perché siamo costretti, perché non abbiamo nulla per vivere, forse dovremmo restare, qualunque sia la condizione. La maggior parte della gente che parte non ha mezzi e non sa dove andare. Molti ritornano. È con loro che lavoriamo cercando, con i mezzi che abbiamo, di ascoltarli, aiutarli a ritornare ai loro paesi. Alcuni trovano del lavoro qui, ma in Niger c’è disoccupazione, è difficile. In ogni caso noi cerchiamo di accompagnarli, soprattutto per fare in modo che ritrovino il loro equilibrio come esseri umani».

Come Chiesa, in un paese islamico, cosa fate per il dialogo interreligioso?

«Facciamo molto per il dialogo, soprattutto a partire dalla base, non solo a livello dei grandi leader. Ovvero partiamo dalle persone comuni affinché la coabitazione tra cristiani e musulmani sia buona, si abbia conoscenza di se stessi e dell’altro e ci sia mutuo rispetto. E facciamo molto attraverso una Commissione per il dialogo interreligioso e intra religioso, che ha intensificato i lavori in questi ultimi anni. Nella commissione ci sono cristiani evangelici e cattolici, e lo facciamo in direzione dei fratelli musulmani, che sono più forti. Abbiamo bisogno di stare insieme, perché siamo tutti figli di questo paese e più ci rispettiamo, più la pace avviene nel cuore, più viene nella società nigerina.

Abbiamo fatto diversi seminari su questi temi, uno nel 2016 sul dialogo, e un altro a novembre scorso concentrandoci sulla gioventù, che è uno strato sociale fragile, e manipolabile a tutti i livelli. Diciamo che se i giovani sono integrati, capiscono la propria fede, se hanno un’apertura verso il dialogo, allora noi costruiamo la pace nel nostro paese».

Lavorate molto con i musulmani, e frequentano le vostre scuole?

«Nelle nostre scuole la maggioranza degli insegnanti è musulmana, e non abbiamo avuto mai difficoltà. Tramite l’insegnamento cerchiamo di educare a dei valori che ci permettono di rispettarci gli uni gli altri, e a valori della vita che permettano a questi bambini, finita la scuola, di avere questa apertura.

A livello della Caritas del Niger, lavoriamo molto con i musulmani e i nostri aiuti sono indirizzati a tutta la popolazione senza alcuna distinzione etnica e religiosa. Operiamo per il bene di tutti. E tutti apprezzano questo nostro lavoro ancora di più, perché non facciamo proselitismo».

C’è anche l’islam radicale che si diffonde nella regione. In Niger ci sono stati episodi di violenza anticristiana nel 2015, quando alcune chiese furono date alle fiamme. Cosa fare?

«Sentiamo che un certo islam si sta radicalizzando. La gran parte sono persone che vengono da fuori, legate a certe scuole coraniche. Ma sia da parte del governo che della chiesa, lottiamo affinché l’islam nella sua generalità non prenda la forma dell’islam radicale, per evitare che ci siano dei conflitti. Facciamo questo sforzo. Negli avvenimenti del 16 e 17 gennaio 2015, non abbiamo accusato la comunità musulmana. I responsabili erano persone manipolate. Noi lavoriamo affinché questo non accada, sia da parte dei cristiani, sia dei musulmani, perché il radicalismo si può vivere in tutte le religioni. È la comprensione estremista delle nostre religioni che chiude le porte all’apertura all’altro. La negazione dell’altro rispetto a noi: è questo che porta conflitto. Noi facciamo di tutto affinché questo non capiti, non raggiunga i diversi strati sociali. E vegliamo, nelle nostre due diocesi, che si mantenga tra i cristiani uno spirito aperto e non si generalizzi rispetto all’islam. Il radicalismo, qualsiasi sia il gruppo da cui nasce, diventa un qualcosa che interroga e inquieta».

Mons. Laurent, lei è il primo vescovo del Niger di nazionalità nigerina. Chi sono i cattolici in questo paese?

 

«I cattolici sono presenti in Niger dal 1932 e penso che essi abbiano contribuito molto all’educazione in questo paese. Attraverso l’insegnamento, attraverso il dialogo della vita, la vicinanza alla popolazione. E continuiamo, malgrado il nostro numero limitato, a essere luce in questa società attraverso il lavoro ben fatto, il rispetto e l’accoglienza dell’altro senza pretese di convertire. Proclamiamo la nostra fede in Gesù Cristo che è il centro della nostra vita. Noi cerchiamo di imitarlo vivendo come lui ha vissuto, stando vicini alla gente come faceva lui.

Collaboriamo molto con le altre chiese, le chiese protestanti evangeliche, da qualche anno sentiamo un certo ecumenismo. Questo è importante per noi, perché siamo minoranze in un periodo difficile, allora ci uniamo per proclamare la nostra fede, restando aperti al popolo nigerino. Facciamo questo sforzo e siamo molto contenti della collaborazione con gli evangelici.

Realizziamo diverse attività insieme. Vogliamo che la nostra unità interroghi, in modo da essere portatori della buona notizia in questo popolo».

Che rapporti avete con le chiese vicine?

«Siamo in Conferenza episcopale con il Burkina quindi collaboriamo molto con loro. Abbiamo rapporti con la chiesa della Nigeria. Ci hanno chiesto come fare per vivere ancora più vicini ai nostri fratelli musulmani. Siamo stati io e monsignor Ambroise Ouedraogo (vescovo di Maradi) nella diocesi di Jos e siamo stati meravigliati nel vedere il lavoro che fanno i vescovi. Continuiamo nella stessa linea per essere anche noi portatori di pace nel nostro paese. Collaboreremo, perché condividiamo le stesse esperienze. Abbiamo avuto contatti anche con la chiesa algerina per le questioni della migrazione. Perché loro lavorano sul tema, e il passaggio di migranti in Algeria è importante».

Marco Bello


Archivio MC – Niger

• Marco Bello, «Ci legavano con corde e catene», aprile 2018.
• Marco Bello, Niger, frontiera d’Europa, marzo 2018.
• Marco Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, dicembre 2015.




Penisola Arabica:

(Cristiani) Come ospiti tollerati (ma speranzosi)

Nella veste di responsabile del vicariato apostolico dell’Arabia
meridionale, monsignor Paul Hinder conosce le difficoltà di vivere in paesi
dove l’islam è religione di stato e la sharia fonte del diritto. Emirati Arabi,
Oman e Yemen, quest’ultimo devastato dalla guerra civile, sono i paesi dove il
vescovo svizzero si muove. Paesi nei quali l’Arabia Saudita, nazione egemone dell’area,
non fa mancare la propria influenza. Con i soldi o con le armi.

I slam, sharia, petrolio, immigrati. Sono alcuni degli
elementi che hanno in comune i sette paesi che compongono la penisola arabica.
Tutti a parte lo Yemen, che non ha né petrolio né immigrati e che, per di più,
da oltre quattro anni è devastato da una cruenta quanto misconosciuta guerra
civile.

In quest’area domina l’Arabia Saudita, monarchia oscura (e
oscurantista) verso la quale quasi tutti i paesi – in primis, gli Stati Uniti di
Donald Trump – mostrano una deferenza spiegabile soltanto con le enormi
ricchezze di cui essa può disporre. È Riad che guida la coalizione che combatte
in Yemen. È Riad che ha imposto un duro embargo contro il riottoso (ma
altrettanto ricco) Qatar. È Riad che ha fatto assassinare il giornalista
dissidente Jamal Khashoggi. È Riad che, dietro le quinte, trama nella guerra di
Siria e per l’isolamento dell’Iran sciita.
Nella penisola arabica, dal 2011 opera monsignor Paul Hinder, vescovo svizzero
di 76 anni. Il suo ruolo è quello di vicario apostolico dell’Arabia
meridionale, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen. Lo abbiamo incontrato
prima dell’annuncio della visita di papa Francesco negli Emirati (3-5 febbraio
2019).

© Paolo Moiola

Convivere con la sharia

Monsignor Hinder, in quali paesi della penisola arabica lei sta operando?

«Oggi
sono vicario apostolico degli Emirati Arabi Uniti (nella cui capitale, Abu
Dhabi, risiedo), del sultanato di Oman e della repubblica dello Yemen. Dal 2005
al 2011 ero vicario anche di Arabia Saudita, Bahrein e Qatar. Poi la Santa Sede
ha fatto una riorganizzazione territoriale di tutta la penisola per avere una
suddivisione più ragionevole».

Come si vive in paesi dove la sharia è la principale fonte del diritto?

«Tutto
dipende da come essa è applicata nella pratica. È chiaro che ci sono vari modi
di interpretarla e applicarla. La sharia non è soltanto tagliare le mani o la
testa. Anche se capita ancora. Per esempio, in Arabia Saudita».

Non si tratta quindi di una esagerazione giornalistica?

«Non
lo è, ma questo non significa che sia l’atteggiamento generale. La sharia è
tutto quello che noi consideriamo diritto civile, quello che regola le cose
della famiglia, della proprietà, eccetera. Anche io sono andato alla “Corte
della sharia” per delle firme. Non è una cosa di cui avere paura: è il modo per
regolare i rapporti in una società musulmana. Chiaro che, per noi cristiani, ci
sono dei limiti nella libertà religiosa che, in questi paesi, non è
riconosciuta come una libertà propria della persona. E poi la libertà del
culto, di svolgere cioè le liturgie, è limitata. Come in Arabia Saudita dove
non esistono chiese, che invece esistono in tutti gli altri stati».

Intende dire che, a tutt’oggi, in?Arabia Saudita non esistono strutture
adibite a chiese?

«No,
anche dopo la visita del cardinale maronita (nel novembre 2017 il cardinale
Bechara Rai, patriarca dei maroniti, ha incontrato re Salman a Riad, ndr). Forse un domani, ma personalmente
nutro ancora dubbi. Ci sono – va precisato – delle comunità, formalmente rette
dal vescovo incaricato. Informalmente esistevano anche quando ero ancora
vescovo io. Ci sono messe celebrate in case private in modo discreto. Questo è
tollerato in quanto non disturba altri».

Oman, Emirati Arabi, Yemen sono paesi in cui esistono le chiese intese come
costruzioni?

«Esistono
ma per esempio senza campanili, senza croci esterne visibili dalla strada. Poi
all’interno sono come le chiese di qui, anche se non della stessa qualità
estetica e culturale. La chiesa di St. Mary di Dubai ha posto per 2mila fedeli
ed è ancora troppo piccola. Quella in Qatar, che avevo costruito io quando ero
vescovo, può ospitare 2.700 persone sedute. Nello Yemen, a causa della guerra,
le chiese sono in gran parte o parzialmente distrutte. In questo momento
inoltre non ci sono sacerdoti, e comunque non sono posti sicuri per i fedeli.
Quindi, la vita comunitaria dei pochi cristiani che stanno nello Yemen è
sospesa. C’è una comunità di suore di Madre Teresa che continua a lavorare, a
dare testimonianza a Sanaa in un modo veramente ammirevole».

Monsignore lei ha accennato allo Yemen, un paese dove è in atto una guerra
molto cruenta, anche se ignorata dai media internazionali. Dal suo punto di
vista, come può descrivere la situazione del paese?
Il presidente dello Yemen © UN Photo / Cia Pak

«Anch’io
non so tutto perché è molto difficile avere delle informazioni affidabili di
quella zona. Ovviamente la gente al telefono non parla e anche quelli che
vivono nel paese non conoscono bene la realtà. Da una parte c’è la guerra e
dall’altra una pace relativa o almeno senza guerra. Dobbiamo considerare che lo
Yemen è sempre stato un paese in conflitto in questi ultimi decenni. Ricordo
che se ne parlava già quando io ero ragazzo. Il conflitto attuale si è
complicato dopo l’intervento del 2015 da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi
alleati. Un intervento che ha esteso la guerra e che ha fatto cadere sulle
spalle della popolazione yemenita questa contrapposizione con l’Iran, anche se
quest’ultimo non è coinvolto nello stesso modo, cioè in maniera diretta.

Cosa
fare? Io credo che il problema basilare, a parte i conflitti interni, manca la
capacità di arrivare a un compromesso: nella cultura del mondo arabo, o vinci o
hai perso. Questa mentalità impedisce molto spesso di incontrarsi a metà strada
e così si continua pensando di avere la meglio. Nel caso dello Yemen penso che
nessuna delle parti arriverà alla vittoria. Credo che sia necessaria una
soluzione che si elabori a livello di Nazioni Unite, se i grandi poteri vogliono.
Il problema è che finora è mancata la volontà. Lasciano proseguire la guerra.
Mancano le informazioni. I belligeranti non vogliono sia conosciuto troppo bene
ciò che capita nel paese. A questo scopo non è consentita l’entrata dei
giornalisti. Anche se sappiamo che oggi circa 5 milioni di bambini sono a
rischio di morte per fame. Se capitasse che il porto di Al-Hudaydah (il
principale porto sul Mar Rosso, ndr)
dovesse essere chiuso, questa sarebbe la conseguenza. Poi non possiamo
dimenticare le malattie. Le strutture sanitarie sono in parte distrutte. Ci
sono rifugiati all’interno del paese, mentre sono relativamente pochi gli
yemeniti che riescono a espatriare. Una “fortuna” per l’Europa che di certo non
vuole questa gente».

Parliamo di una guerra che riguarda milioni di persone.

«Certo.
Lo Yemen non è un piccolo paese: conta circa gli stessi abitanti dell’Arabia
Saudita (circa 28 milioni, ndr) che però è molto più grande come superficie».

Monsignore, come mai si parla tantissimo della guerra in Siria e, al
contrario, si parla pochissimo di quella in Yemen? C’è una ragione particolare?

«Particolare
non lo so. Di sicuro la Siria è culturalmente più vicina a noi. Molti l’hanno
conosciuta come turisti. Anch’io, quando ero consigliere generale dei
cappuccini, ho frequentato molto la Siria. I poteri inoltre vedono la Siria
come una zona di conflitto più importante. Anche se, a lunga scadenza, lo Yemen
non sarà da meno».

(Photo by Bandar AL-JALOUD / Saudi Royal Palace / AFP)
Monsignore, torniamo sull’Arabia Saudita, il paese più potente della
regione. Ci può dire qualcosa sulla situazione attuale di quel paese? Le
aperture democratiche di cui si è parlato sono reali oppure sono soltanto un
maquillage pensato dai reali?

«Democratiche
non è il termine giusto, perché questa è una monarchia che prende le decisioni
in modo assoluto. Ora stanno avvenendo dei cambiamenti, ma – questo è un mio
giudizio – sono per la facciata, anche per dare l’impressione, a livello
internazionale, di una relativa apertura. Il fatto che le donne possano guidare
l’auto è stato considerato in Occidente come un miracolo. E lo è, ma non cambia
la vita della società. Ci sono delle donne saudite che lottano per una società
più aperta che sono messe in prigione. Una cosa che non possiamo dimenticare è
che c’è un matrimonio tra il wahhabismo (che è l’interpretazione più severa
dell’islam) e la famiglia Saud. È quasi impossibile che arrivino a un divorzio
altrimenti l’Arabia Saudita, nelle forme attuali, avrà grandi problemi. Per
questo non penso che il principe ereditario Mohammad bin Salman, che sembra
essere l’uomo forte, possa andare avanti troppo veloce. Vedremo cosa capiterà.
Piccoli cambiamenti ci sono, che riguardano anche i cristiani. Il potere della
polizia religiosa è stato limitato. Non sono più frequenti le sanzioni che
c’erano prima. Piccoli passi che rendono un po’ meno problematica la vita dei
cristiani. Sarebbe però sbagliato che l’Occidente pensasse che i cambiamenti
avverranno presto. Come accaduto ai tempi della primavera araba quando si pensò
che, nel giro di qualche mese, ci sarebbe stata la democrazia per tutti. Non è
possibile. Diamo il tempo a queste realtà della penisola arabica (come di altre
parti del mondo musulmano) di sviluppare a modo loro il sistema politico».

Monarchie inamovibili

La benevolenza degli Stati Uniti di Trump verso l’Arabia Saudita deriva da
questioni di business, da questioni geopolitiche, o da che altro secondo lei?

«Alla radice secondo me ci sono due cose
principali, una è sicuramente l’economia. Chiaro che essendo il petrolio sotto
il suolo dell’Arabia Saudita (e degli altri stati vicini), c’è un interesse
economico. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno sempre visto nell’Arabia
Saudita un fattore di stabilità, non guardando se il regime garantisce o meno i
diritti umani. Quando ci sono di mezzo politica e business, gli stati
occidentali non guardano molto alla morale. Non voglio dare un giudizio ma fare
una constatazione che vale non soltanto per gli?Stati Uniti ma anche per i
paesi europei».

A suo personale giudizio, in questi paesi, il concetto di democrazia
nell’accezione che se ne dà in Occidente potrà mai esistere?

«Non
direi mai, ma sicuramente non in tempo breve. In questi paesi tutta la
struttura, anche tribale, è un impedimento. Senza dimenticare che queste
monarchie non vogliono perdere il potere. Ci saranno dei passi verso elementi
democratici della Shura, il parlamento islamico, che comunque non rappresenta
tutta la popolazione (i migranti ad esempio sono esclusi). Io mi aspetto una
condivisione più grande da parte della popolazione indigena e cittadina, questo
sì. Non a breve comunque, e come lo faranno non lo so. Non sarà una democrazia
come la conosciamo noi. C’è poi un altro elemento da non dimenticare: loro
guardano quello che succede negli Stati Uniti e in Europa o in altri posti e
non sono necessariamente entusiasti di ripetere quello che ci sta capitando.
Forse anche noi in Occidente dobbiamo riscoprire cosa vuol dire essere
democratici con responsabilità».

Questo discorso che ha fatto vale per tutti i paesi dell’area arabica o
soprattutto per l’Arabia Saudita?

«Direi
per tutti gli stati, ricordando che lo Yemen formalmente è una repubblica e non
una monarchia. Però abbiamo visto che non funziona se non rispettano certi
elementi della tradizione. Dovrebbero trovare il modo di combinare tradizioni
antiche con una modernizzazione nella condivisione del potere».

© Werner Bayer

Prove di dialogo con l’islam

Monsignore lei crede che con l’islam sia possibile dialogare?

«Penso di sì e comunque non c’è altra scelta. Quando si
arriva ai contenuti delle nostre fedi diverse sicuramente si hanno dei problemi
enormi da superare, perché un dialogo comporta le competenze che io per esempio
non ho, dato che non sono esperto in islamologia. Sono capace di fare un
dialogo umano perché vivo in questa situazione, ho delle persone che conosco
che possono discutere su questo, ma non è un approfondimento delle posizioni
ideologiche che posso fare. Ci sono dei tentativi. Prima di tutto ci vuole la
conoscenza propria e dell’altro.?E poi trovare dei campi dove andare avanti
insieme, come la pacificazione in questi paesi che è una preoccupazione di
tutti. Ci saranno possibilità sul campo caritativo dove c’è una certa
collaborazione e dialogo. Poi c’è la questione di avere rispetto per l’altro,
rispettare l’altra religione nella sua qualità malgrado le debolezze che noi
notiamo o pensiamo di notare. Sono 15 anni che sono qui e il vedere come
vivono, come si forma la vita, mi ha fatto crescere il rispetto verso gli
altri, e spero sia viceversa, quando loro vedono come noi viviamo. Ciò può
aiutare a superare pregiudizi e anche elementi di conflittualità. Quando io
conosco qualcuno nella sua diversità e lo rispetto, c’è meno rischio che ci
attacchiamo fisicamente come è successo nel passato».

Sono migranti (non immigrati)

© Andreas Gebert / DPA / dpa Picture-Alliance / AFP

Risponde al vero che la maggioranza dei fedeli cattolici
proviene dalle larghissime fila degli immigrati in questi paesi?

«Dobbiamo essere chiari nella terminologia:
non sono immigrati nel senso stretto, ma migranti. Ci hanno detto questo gli
stessi governi. Non siamo immigrati perché non possiamo rimanere e non possiamo
diventare cittadini. Non esiste possibilità di naturalizzazione, neppure per
quelli che parlano arabo. Pertanto, si parla di migranti che stanno in questi
paesi per un tempo limitato. Tra essi ci sono alcuni di classe media che
potranno rimanere praticamente per la vita, ma che non saranno naturalizzati.
Possono restare se sono in grado di pagarsi il soggiorno che è concesso per 2 o
3 anni. Se poi qualcuno perde il lavoro, deve andarsene. Anche la Chiesa deve
essere molto cauta perché non può promettere ai propri preti di farli restare
per tutta la vita. Essere migranti rimane la nostra sorte. Come ho detto tante
volte, siamo “una Chiesa di migranti per migranti”. Dal vescovo, fino
all’ultimo arrivato a Dubai o ad Abu Dhabi».

Migranti, dunque. Ma da dove provengono?

«Per
quanto riguarda gli Emirati, vengono soprattutto dalle Filippine e dall’India,
ma anche da altri paesi arabi (Siria, Libano, Palestina) e dall’Africa, sempre
di più. E poi dalla Corea e dall’America Latina. Insomma, dal mondo intero.
Nella nostra chiesa abbiamo più di 100 nazionalità diverse».

Queste persone che tipo di professionalità hanno?

«C’è
un po’ di tutto, ma in particolare si tratta di lavoratori del settore delle
costruzioni. Nel 2020 a Dubai ci sarà l’esposizione mondiale, nel 2022 nel
Qatar il campionato mondiale di calcio: c’è e ci sarà bisogno di tanti operai
per due progetti mastodontici. Vivono in zone residenziali a parte. La mattina
sono trasportati con il bus al lavoro per tornare alla sera. Questi non possono
partecipare pienamente alla vita parrocchiale anche se facciamo degli sforzi
per aiutarli un po’. Per esempio, organizzando il venerdì il trasporto alla
chiesa. Poi ci sono le impiegate domestiche che sono legalmente più deboli e
meno protette, anche se dipende molto dal datore di lavoro. Ci sono alcuni che
portano i loro impiegati alla messa, e poi aspettano per riportarli indietro.
Altri invece le trattano come vere e proprie schiave».

Per esempio, un lavoratore dell’edilizia ha uno stipendio adeguato?

«Cosa vuol dire
adeguato? Anche qui ci sono leggi sul salario minimo. Sicuramente rispetto a
quello che guadagnano o potrebbero guadagnare a casa loro è molto di più. Il
grande problema è cosa fare quando non sono pagati o lo sono ma in ritardo di
mesi. Qui iniziano i problemi e un giro legale. Un governo dovrebbe controllare
di più affinché queste cose non capitino. In questi ultimi 15 anni hanno fatto
dei grandi progressi, ma questo rimane un problema serio. Può così accadere che
alcuni partano poveri e ritornino ancora più poveri. Altri che hanno visto la
loro situazione sbloccarsi quando erano già tornati al loro paese lasciando
indietro gli stipendi che per legge gli spettavano. Alle nazioni che esportano
manodopera nei paesi del golfo dovremmo dire: non aspettatevi di arrivare in un
paradiso. Molto spesso è una vita dura o durissima, anche quando le cose vanno
normalmente. Qui si guadagna di più ma questo ha un prezzo umano. Molte
famiglie si sfasciano. Per questo cerchiamo di aiutare i nostri fedeli con la
pastorale».

Se io sono un migrante, in questi paesi ho diritto all’istruzione, alla
sanità, insomma a usufruire dei servizi pubblici?

«Dipende dove sono.
Ad esempio, ad Abu Dhabi l’assicurazione sanitaria è obbligatoria. Quindi, un
datore di lavoro non può fare un contratto di lavoro senza. Anche noi come
Chiesa siamo obbligati. L’accesso alle strutture sanitarie c’è, anche se alcune
strutture sono soltanto per i locali. Spesso gli indiani preferiscono andare a
casa propria dove la sanità è meno cara ed è buona. Quanto alla scuola, è
essenzialmente privata ed è un problema per le famiglie meno abbienti a causa
delle rette. Come Vicariato abbiamo scuole aperte a tutti (anche ai musulmani)
e a prezzi accessibili. Questa è la nostra missione, perché per i ricchi ci
sono scuole sufficienti».

Monsignore, dopo quasi 15 anni nella Penisola Arabica, come giudica questa
sua esperienza?

«Io
sono andato in?Arabia con una certa reticenza. Avevo paura ad accettare la
nomina. Una volta arrivato mi sono dato completamente a questo compito,
nonostante tutti i problemi. I fedeli mi hanno dato gioia, vedendo una Chiesa
non perfetta ma molto attiva, impegnata, motivata, che mi ha aiutato ad
approfondire me stesso e la mia fede. Mi sento felice qui anche se è un mondo
diverso che mi rimarrà sempre un po’ straniero, ma ho imparato molto da questa
cultura e non vorrei mi mancasse. Forse vent’anni fa avrei risposto
diversamente a una simile domanda».

Paolo Moiola

La guerra nello Yemen

(Photo by – / AFP)

Un’arma chiamata indifferenza

Ci sono paesi dove si combattono guerre evidenti e cruente eppure
dimenticate da tutti (comunità internazionale, media, opinione pubblica). Lo
Yemen è uno di essi.

Sono sempre esistite le cosiddette «guerre
dimenticate», conflitti evidenti e cruenti ma che, per una serie di ragioni,
non arrivano o arrivano sporadicamente e parzialmente all’attenzione
dell’opinione pubblica mondiale. In questa situazione l’indifferenza diventa
un’arma micidiale. La guerra civile nello Yemen, paese tra i più poveri del
Medio Oriente, rientra a pieno titolo nella categoria. Una guerra civile
iniziata sulla fine del 2014 quando gli Huthi – un gruppo islamico sciita (di
una variante nota come zaydismo) – prendono gran parte della
capitale Sanaa. Nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione
di 10 paesi (9 dopo il ritiro del Qatar), interviene nel conflitto a fianco del
deposto presidente Hadi, nel frattempo fuggito. Il paese è smembrato: una parte
(quella ad Ovest) in mano agli Huthi, una parte nelle mani della coalizione
saudita e una parte divisa tra al-Qaeda e Stato islamico. A dicembre 2018 le
Nazioni Unite sono finalmente riuscite ad aprire colloqui di pace a Stoccolma.

A oggi la guerra avrebbe già fatto oltre 12mila morti e
milioni di profughi, come milioni sarebbero le persone a rischio carestia. In
tutto questo s’inserisce anche una storia nella storia che riguarda l’Italia e
in generale l’Unione europea. Secondo il New
York Times
, la Rheinmetall Defence,
una industria d’armi di passaporto tedesco ma con stabilimento in Italia (a
Domusnovas, in Sardegna), è tra i fornitori di bombe dell’Arabia Saudita. La
cosa sarebbe però vietata dalla legge italiana n. 185 del 1990 che vieta
l’esportazione di armi verso paesi in conflitto. Senza dire che, nel settembre
2013, l’Italia ha sottoscritto il Trattato internazionale sul commercio delle armi
(Arms Trade Treaty, Att) che limita
fortemente la compravendita di armi. Nel frattempo, lo scorso 25 ottobre 2018
l’Europarlamento ha approvato una risoluzione che chiede agli stati membri di
imporre un embargo sulla fornitura di armi a Riad, dopo l’omicidio del
giornalista Jamal Khashoggi (un critico dell’intervento saudita in Yemen). La
risoluzione comunitaria non è però vincolante, probabilmente perché Francia e
soprattutto la Gran Bretagna sono importanti fornitori d’armi di Riad. Proprio
come gli Stati Uniti, di gran lunga in testa nelle vendite all’Arabia Saudita (fonte: Sipri).

Nessun conflitto meriterebbe
indifferenza. Visto il coinvolgimento di molti paesi occidentali, la guerra
civile in Yemen la merita ancora meno. 

Paolo Moiola

L’assassinio del giornalista saudita

© al-Jazeera

L’affaire Jamal Khashoggi

Forse il coinvolgimento del principe ereditario non sarà mai provato.
Tuttavia, l’assassinio del dissidente ha messo in grande imbarazzo Riad. E il
presidente Trump.

Il 2 ottobre 2018 il giornalista
saudita Jamal Khashoggi entra nel consolato del suo paese a Istanbul per
sbrigare una questione burocratica relativa al matrimonio con la sua fidanzata
turca. Da quel momento si perdono le sue tracce. Qualche giorno dopo la sua
scomparsa si scopre che è stato ucciso da funzionari sauditi e – pare –
smembrato. Tutto sembra indicare Mohammed bin Salman (Mbs) come mandante
dell’omicidio.

Nato a Medina nel 1958, Khashoggi
era un giornalista moderato ma critico verso il proprio paese e in particolare
verso il principe ereditario Mbs, da molti (frettolosamente) eletto al ruolo di
riformatore della monarchia saudita. Costretto al silenzio, nel 2017 Khashoggi
aveva deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove collaborava come
opinionista al Washington Post.

Qualsiasi sarà l’evoluzione della
vicenda (le accuse della Turchia, della Cia, del senato Usa, ecc.) per il
principe ereditario saudita non ci dovrebbero essere conseguenze. Lo si è visto
anche al summit del G20 di Buenos Aires, all’inizio di dicembre, quando Mbs?ha
stretto mani e dispensato sorrisi. L’assassinio di Khashoggi non potrà certo
fermare l’ascesa del giovane e ambizioso rampollo di re Salman.

Paolo Moiola

© al-Jazeera

I sette paesi islamici

La penisola dell’Arabia Saudita

Nella penisola arabica la Chiesa cattolica è presente con due Vicariati,
uno retto da mons. Camillo Ballin e uno da mons. Paul Hinder.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Settentrionale:

Vicario:
 mons. Camillo Ballin

? Arabia Saudita:

monarchia assoluta, dal 1926 governata dalla famiglia al-Saud,
il paese più importante della penisola arabica è al centro dell’interesse
mondiale per le ricchezze petrolifere, le ambiguità sul terrorismo islamista e
l’alleanza con gli Stati Uniti. Da giugno 2017 è attraversata da faide
familiari a causa della nomina del giovane Muhammad bin Salman (Mbs) come
successore di re Salman. Attualmente capeggia la rivolta contro il Qatar e la
guerra in Yemen.

? Kuwait:

è una monarchia della famiglia al-Sabah; la maggioranza
della sua popolazione è immigrata. 

? Bahrein:

il piccolo arcipelago è una monarchia retta dalla famiglia
sunnita al-Khalifa. Da 2011 è teatro di proteste della maggioranza sciita, il
cui leader, lo sceicco Ali Salman, è in prigione, condannato a vita nel
novembre 2018.

? Qatar:

monarchia ereditaria della famiglia al-Thani, è una penisola
vasta quanto metà della Lombardia, paese ricchissimo e molto attivo sulla scena
internazionale (anche con il network mediatico al-Jazeera), dal giugno 2017
subisce l’embargo diplomatico ed economico da parte di Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. Il 3 dicembre 2018 ha annunciato l’uscita
dall’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio di cui era membro
dal 1961.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale:

Vicario:
mons. Paul Hinder

? Emirati Arabi:

è uno stato federale composto da 7
emirati; i 2 più importanti sono Abu Dhabi e Dubai.

? Oman:

con meno risorse petrolifere degli
altri (Yemen escluso) il sultanato dell’Oman è il più tranquillo tra i paesi
della penisola arabica; il sultano Qabus è al potere dal 1970.

? Yemen:

il paese più povero della regione
è in guerra dal settembre del 2014; si fronteggiano i ribelli conosciuti come
Huthi (musulmani sciiti legati all’Iran) e una coalizione islamista guidata
dall’Arabia Saudita.




Un’India per soli indù.

Il nazionalismo induista contro le minoranze

Dopo dieci anni dagli assalti anticristiani avvenuti nello stato di Orissa,
la situazione non è migliorata. Anzi. L’ideologia nazionalista indù, al potere
dal 2014, sembra voler soffiare sul fuoco. E le minoranze, non solo quella cristiana,
hanno sempre più paura.

Il 23
agosto del 2008, nello stato dell’Orissa, nell’India orientale, scoppiò la
peggiore persecuzione contro i cristiani della storia del paese. Sono passati
più di dieci anni da allora, eppure continua a essere forte la difficoltà
indiana di mantenere l’equilibrio tra il progresso, il particolarismo e i suoi
ideali di convivenza e nonviolenza.

In quei giorni di violenza che costrinsero alla fuga 50mila
individui e provocarono un centinaio di morti, la devastazione delle abitazioni
dei cristiani e dei loro luoghi di preghiera, l’esproprio delle loro terre e la
confisca dei loro beni dimostrarono che le forze di ispirazione religiosa induista,
connesse anche a interessi economici e di potere, erano in grado di operare
nell’impunità. Infatti, non solo mancò un’opera di prevenzione da parte delle
istituzioni, ma ci fu anche un intervento tardivo e parziale delle forze
dell’ordine per fermare le folle di indù che, in diversi casi, provenivano da
altri distretti e persino da altri stati dell’India.

(Photo by DESHAKALYAN CHOWDHURY / AFP)

Impunità e paura

Sul piano della giustizia, l’impunità su ampia scala ha segnato
finora le decine di processi avviati contro presunti esecutori e organizzatori
delle violenze del 2008. La propaganda induista descrive quegli eventi come
reazione spontanea all’uccisione del leader estremista indù Swami Laxmanananda
Saraswati, della quale peraltro si erano da subito dichiarati autori i
guerriglieri maoisti attivi nella regione.

Per gli avvocati e gli attivisti che ancora oggi si occupano di
sostenere le vittime, la maggioranza dei crimini non sarebbe registrata
correttamente dalla polizia e quelli già passati in giudicato si sono risolti
perlopiù in mancate condanne.

Il sistema di tribunali speciali che giudicano con rito abbreviato
ha registrato qualche successo, ma l’isolamento geografico della zona, il clima
di paura diffusa, le intimidazioni e minacce, le manifestazioni organizzate
addirittura all’esterno del tribunale, hanno spinto molti testimoni al silenzio
o a una verità parziale e a un basso profilo giudici e legali.

La situazione di rancori e di sospetto e il rischio sempre
presente di nuove violenze rendono l’impegno per la giustizia assai difficile.
D’altra parte, quando su dodici giudizi per omicidio, solo uno si è chiuso con
una condanna, pace e riconciliazione restano obiettivi lontani.

Vecchie e nuove logiche di sottomissione

Come sottolinea John Dayal, attivista cattolico tra i più accesi
nel contrastare l’offensiva dei radicali indù, «l’impegno settario degli
estremisti in Orissa è vecchio di quarant’anni, e il distretto di Kandhamal è
stato da loro scelto per il suo isolamento e per il significato che ha per la
popolazione cristiana.

Obiettivo immediato di quelle violenze era di estendere
l’esperienza di sottomissione del Kandhamal ad altri distretti, quello finale
di rimuovere ogni traccia del cristianesimo tra le comunità indigene per
poterle così del tutto asservire alle vecchie logiche castali e alle nuove
logiche del potere economico e politico».

Nonostante l’attenzione della comunità internazionale e della
Chiesa non siano mai mancate, nulla mostra, a distanza di dieci anni, che la
situazione si sia modificata, se non di facciata.

Ancor più dopo la vittoria dei nazionalisti induisti nel maggio
2014 sotto la guida di Narendra Modi, leader del Bharatitya Janata Party
(Bjp). I nuovi attori istituzionali hanno portato maggiore impunità per gli
estremisti e legittimazione ufficiale a iniziative come la riconversione
all’induismo, la proibizione della commercializzazione e del consumo di carne
bovina, il rafforzamento dei tradizionali consigli di villaggio e altro,
rafforzando il grande progetto di un’India per soli indù.

www.flickr.com/photos/adamcohn/45461015822/

Induità e discriminazioni

La dottrina dell’hinduttva (induità) è al centro degli
interessi e delle azioni della maggioranza politica che guida, da oltre quattro
anni, il governo centrale e sempre più stati e territori dell’immenso paese
asiatico, vasto dieci volte l’Italia e con una popolazione di 1,35 miliardi di
individui all’80 per cento di fede indù.

Dopo decenni di governo pressoché ininterrotto del Partito del
Congresso, ispirato dagli ideali indipendentisti e gandhiani, ora, il partito
confessionale filoinduista Bjp propone una cittadinanza piena ai soli indù,
lasciando alle altre comunità religiose la scelta tra conversione,
discriminazione ed esilio.

Difficile valutare i risultati delle campagne
di conversione che hanno interessato e ancora interessano milioni di indiani.
Per molti di essi si tratta di una «riconversione»: storicamente il
cristianesimo e, in misura minore, l’islam e il buddhismo, sono rifugio di indù
che sfuggono ai limiti e agli abusi del sistema castale, centrale
nell’induismo.

L’induizzazione procede erodendo la
consistenza delle fedi che nei secoli sono nate per scissione dall’induismo,
usando incentivi e pressioni per promuovere l’identità indù, mentre le leggi
anticonversione e la tolleranza verso i gruppi radicali e xenofobi che si
appoggiano all’induismo per ottenere benefici e potere, rendono difficoltose la
pratica e l’esistenza stessa sul territorio indiano delle religioni considerate
«straniere» come l’islam e il cristianesimo.

I discorsi d’odio dei leader

A confermare il ruolo della politica filoinduista in una
situazione di crescente tensione, ci sono i dati diffusi qualche mese fa da New
Delhi Television (Ndtv), dai quali emerge che i responsabili di «discorsi
d’odio» registrati dall’inizio della legislatura che si avvia al termine il
prossimo anno, sono stati per il 77 per cento esponenti del Bjp.

Nessun provvedimento è stato preso nei loro confronti. Ad esempio,
contro la ministra per le Industrie agroalimentari Niranjan Jyoti, già abituata
a proclami sopra le righe, che in una dichiarazione pubblica ha affermato che
gli indù sono da considerarsi discendenti del dio Rama, mentre gli altri –
musulmani, cristiani, sikh, jain, buddhisti, parsi, atei – sarebbero dei «bastardi».

Che dire poi di Yogi Adityanath, ora capo del governo nel più
popoloso stato indiano, l’Uttar Pradesh, secondo il quale per ciascuna donna
indiana sposata a un musulmano e convertita all’islam, gli indù dovrebbero
sposare con la forza cento donne musulmane e convertirle come ritorsione?

© Un photo / Mark Garten

Dal divieto di conversione alle «guerre delle mucche»

Preoccupa che questioni un tempo considerate anacronistiche e
innocue dalle stesse minoranze, siano oggi diventate strumenti di dominio
dell’induismo estremista.

L’accusa di proselitismo nei confronti dei cristiani ha alimentato
l’ondata di provvedimenti legislativi per proibire ogni iniziativa che
incentivi o forzi gli indù a un cambio di fede. Anche l’attività di sacerdoti,
religiosi, pastori nelle chiese è stata limitata fortemente, e addirittura nelle
scuole e nelle istituzioni socioassistenziali avviate o gestite da cristiani.

Pesa invece sui musulmani l’accusa induista di «jihad matrimoniale»,
ovvero di perseguire una strategia di matrimoni con donne indù al fine della
conversione e di avere una prole ampia allo scopo di arrivare al sorpasso
demografico dei musulmani sugli indù.

Soprattutto tra i musulmani si contano le vittime della «guerra
delle mucche» dichiarata dai leader indù contro chi macelli i bovini, animali
legati alla tradizione religiosa indù, ne utilizzi pelli e altre parti e ne
consumi le carni, attività appannaggio nei secoli di islamici, dalit e
cristiani.

Significative le esternazioni di Subramanian Swami, parlamentare
del Bjp, che lo scorso anno ha chiesto una legge per condannare a morte chi
uccida le mucche. Il tentativo non è andato in porto, ma questo non ha fermato
in diversi stati l’approvazione di provvedimenti che vietano la macellazione e
il trasporto di carni bovine. Non senza ricadute cruente, come dimostrano le
aggressioni di gruppo registrate, a volte i linciaggi di musulmani e dalit («esclusi»,
un tempo noti come «intoccabili») motivati dalla loro dipendenza dall’uso
commerciale e alimentare di questi animali.

© Deshakalyan Chowdhury / Afp

I dalit e le prossime elezioni

In questo quadriennio di controllo nazionalista sul paese e di
quasi annichilimento del Partito del Congresso, le violenze ispirate,
ammesse o non sanzionate degli estremisti sono state una realtà preoccupante
per le minoranze. «Siamo ormai al crollo dello stato di diritto. Ogni giorno i
mass media riportano notizie di atrocità compiute contro le minoranze
religiose, i dalit e i tribali», ha sottolineato Jignesh Mewani, leader dalit e
parlamentare nello stato del Gujarat, roccaforte di Narendra Modi.

Lo scorso aprile è stato segnato da scontri tra polizia e
manifestanti dalit: roghi, posti di blocco, coprifuoco, morti e feriti si sono
registrati in varie zone dell’India mettendo in rilievo il disagio profondo di
questi gruppi meno favoriti della comunità indù.

La loro rabbia si è espressa con la dichiarazione di un «Bharat
bandh» (blocco dell’India) dopo che la Corte suprema si era opposta all’arresto
di chi violi la legge vigente sulla tutela della loro dignità. Le tensioni
hanno coinvolto la maggior parte dei grandi stati settentrionali, incluso il
territorio della capitale, che ospitano la maggioranza dei 250 milioni di
dalit. La Legge sulla prevenzione delle atrocità verso le caste e tribù
registrate
è del 1989, e rappresenta uno dei paradossi dell’India odierna,
la cui Costituzione proibisce le caste, già vietate in precedenza dai
colonizzatori britannici.

Per certi aspetti, le tensioni della scorsa primavera hanno
anticipato alcuni temi della campagna elettorale verso il voto per il rinnovo
del parlamento nazionale del maggio 2019. L’opposizione guidata dal Partito
del Congresso
, infatti, ha sostenuto le proteste «di migliaia di fratelli e
sorelle dalit che chiedono la tutela dei loro diritti», mentre il governo
nazionalista, dal canto suo, ha chiesto, da un lato ai partiti di non accentuare
le tensioni sociali, e dall’altro alla Corte suprema di ripensare la sua
posizione. Riguardo a queste ultime, è difficile non rilevare il paradosso del
sostegno ai fuoricasta da parte di un governo che esprime l’ideologia che ha
nei secoli contribuito alla loro subordinazione.

Cristiani perseguitati

La comunità cristiana, che conta circa 30 milioni di fedeli (il
2,3 per cento degli indiani), è pure sotto attacco. Negli ultimi anni si sono
moltiplicati drammaticamente gli assalti a chiese, incontri di preghiera e
istituzioni culturali e caritative. Secondo segnalazioni di attivisti
cristiani, le autorità tendono a ignorare le denunce e a minimizzare i fatti e,
quando arrestano presunti colpevoli, li indicano nei rapporti come «individui
affetti da disturbi mentali».

A documentare questa situazione sono vari studi e rapporti. Tra i
più recenti quello della Commissione statunitense per la Libertà religiosa
internazionale
(Uscirf), che ha messo apertamente sotto accusa il governo
indiano per lo scarso impegno nel prevenire «una pressione diffusa contro le
minoranze religiose e contro i dalit che raggruppano fuoricasta, tribali e
aborigeni e che totalizzano il 20 per cento degli 1,35 miliardi di indiani».

Il rapporto ha registrato che «nel 2017 le condizioni della libertà
religiosa hanno visto proseguire la tendenza al peggioramento» e che «la realtà
di una società multiculturale e multireligiosa come quella indiana è minacciata
da una crescente concezione esclusivista di identità nazionale basata sulla religione».

A confermare un incremento della persecuzione ci sono anche dati
governativi diffusi a febbraio: 111 uccisi e almeno 2.398 feriti in 822 episodi
di violenza settaria nel 2017, contro 86 morti e 2.321 di 703 eventi nel 2016.

Stefano Vecchia




Sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia


Dall’esperienza mongola una riflessione sul vangelo in Asia:
Essere prima che fare

Essere cristiani in Asia significa fare i conti con un contesto nel quale si è minoranza. Chiamati a comunicare il Vangelo, lo si fa più con un sussurro discreto all’orecchio che con un annuncio gridato dai tetti delle case. È lo stile del seme che cade nella terra affidandosi e fidandosi.

È il più grande mosaico di culture, popoli e tradizioni religiose. L’Asia è il continente meno cristiano del mondo, ed è, per questo, un campo d’azione naturale per la missione ad gentes. È la sfida che i missionari della Consolata hanno raccolto 30 anni fa aprendo le loro presenze nel 1988 in Corea del Sud, poi in Mongolia nel 2003 e a Taiwan nel 2014.

Da allora la sfida asiatica regala prospettive nuove alla missione dell’Imc, tanto da spingere i missionari a scrivere a chiare lettere nel loro «progetto Asia» presentato e approvato un anno fa al loro XIII Capitolo Generale tenutosi a Roma: «L’Asia, con la ricchezza del suo bagaglio storico e culturale, potrà forse non sentire il bisogno dell’Imc, ma l’Imc ha bisogno oggi dell’Asia per rinnovarsi ed esplorare orizzonti nuovi della missione».

Il continente e gli orizzonti nuovi che esso regala alla missione ce li racconta padre Giorgio Marengo, torinese di 44 anni, arrivato quindici anni fa nella capitale della Mongolia, Ulaanbaatar, con il primissimo gruppo di missionari e missionarie della Consolata, e ora parroco ad Arvaiheer, un piccolo centro nel cuore della steppa dove i cattolici sono 37.

Profondità, prossimità, essenzialità

Prendendo a riferimento un’espressione dell’arcivescovo emerito di Guwahati, India, Thomas Menamparampil, padre Giorgio ci introduce alla missione in Asia descrivendola come un «sussurrare il Vangelo al cuore» del continente. Sussurrare, cioè comunicare con discrezione qualcosa di intimo e di profondo in una condizione di vicinanza fisica e di fiducia, in una relazione personale che rispetta i tempi lunghi della maturazione, quando avviene.

Prossimità, amicizia, umiltà, rispetto, profondità. La missione della Chiesa in una situazione di minoranza, a volte di discriminazione o di persecuzione, spesso di irrilevanza, è interpretata da padre Marengo come una grazia. Essere minoranza dona maggiore libertà, conduce all’essenzialità, restituisce il missionario alla centralità dell’azione di Dio, più che alla sua, essendo la sua caratterizzata da povertà di mezzi e di efficacia. Il missionario in Asia si riscopre fragile, piccolo. E così ha la possibilità di assomigliare di più al seme che cade in terra e muore, dando (forse) poco frutto dal punto di vista umano, molto frutto dal punto di vista del Regno.

Con lo stile della Consolata

I missionari della Consolata a giugno ricordano e celebrano la loro fondatrice, Maria Consolata. In Asia, sussurrare il Vangelo significa sussurrarlo con lei, per tramite suo, nel suo stile. Anche la Consolata sussurra al cuore. Sta vicina come una madre che consola indicando il senso e il centro della vita di ciascuno: suo figlio Gesù.

Luca Lorussso


Uno sguardo a volo d’uccello sul continente più grande:

Asia, culla delle grandi religioni

È il continente più grande del mondo. Ospita il 60% della popolazione mondiale. È anche quello più bisognoso dell’annuncio del Vangelo. Tentare una sua descrizione in poche pagine è impossibile. Ma qualche carattere asiatico, forse, possiamo scovarlo. I missionari partono da lì.

Presentare uno qualsiasi dei cinque continenti è un compito difficile, tanto più se si tratta dell’Asia1, continente che occupa il 30% delle terre emerse con i suoi 49 paesi e nel quale risiede il 60% della popolazione mondiale. In Asia convivono, in un affascinante intreccio, le tradizioni più antiche e le società più avanzate. È il continente di nascita delle principali religioni mondiali (Induismo, Buddhismo, Ebraismo, Cristianesimo, Islam) e di molte altre. Di fronte a una realtà così ampia e complessa, qualsiasi tentativo di renderne un’immagine sintetica ha il difetto dell’approssimazione e della generalizzazione. Tuttavia, ci vogliamo provare.

Territori e lingue

Data la vastità del suo territorio, le Nazioni unite suddividono l’Asia in cinque macroregioni (più una): Asia occidentale, centrale, meridionale, orientale e Sud Est asiatico, a cui si aggiunge la parte asiatica della Federazione Russa, la Siberia.

Nel continente si contano ben undici famiglie linguistiche delle quali fanno parte centinaia di idiomi. Le ricche ed elaborate lingue asiatiche (e le rispettive scritture) testimoniano uno «spessore» culturale davvero impressionante, che non si può trascurare. E ne sanno qualcosa i missionari non asiatici che si trovano nel continente.

Mosaico religioso

Per entrare in empatia con i popoli che abitano l’Asia è necessario, innanzitutto, provare a individuare le tendenze di pensiero che li attraversano, spesso intrecciandosi tra loro.

Tra le fonti autorevoli c’è l’Ecclesia in Asia, l’esortazione apostolica postsinodale di Giovanni Paolo II, pubblicata nel 1999, che ci autorizza a spingerci in questa direzione: «I popoli dell’Asia sono fieri dei propri valori religiosi e culturali tipici, come ad esempio l’amore per il silenzio e la contemplazione, la semplicità, l’armonia, il distacco, la non violenza, lo spirito di duro lavoro, di disciplina, di vita frugale, la sete di conoscenza e di ricerca filosofica. Essi hanno cari i valori del rispetto per la vita, della compassione per ogni essere vivente, della vicinanza alla natura, del filiale rispetto per i genitori, per gli anziani e per gli antenati, ed un senso della comunità altamente sviluppato. In modo tutto particolare, considerano la famiglia come una sorgente vitale di forza, come una comunità strettamente intrecciata, che possiede un forte senso della solidarietà. I popoli dell’Asia sono conosciuti per il loro spirito di tolleranza religiosa e di coesistenza pacifica». Più avanti il testo chiama in causa «un innato intuito spirituale e una saggezza morale tipica dell’animo asiatico, che costituisce il nucleo attorno al quale si edifica una crescente coscienza di “essere abitante dell’Asia”».

Entrare in questo «intuito spirituale» è di fondamentale importanza per noi missionari. Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India), asiatico ed esperto del settore, con una visione d’insieme ampia e allo stesso tempo dettagliata della vita religiosa del suo continente, ne propone quattro caratteristiche peculiari: il senso del sacro; l’intensità della ricerca di Dio e del divino; la semplicità di vita; l’aspirazione a propagare gli insegnamenti religiosi.

Il senso del sacro

Il sacro e il divino fanno parte essenziale della psicologia collettiva asiatica. In molte parti del continente, i ritmi del vivere comune sono ancora oggi scanditi dalle pratiche religiose di svariate tradizioni (Induismo, Buddhismo, Islam, Giainismo, Taoismo, Shintornismo e altre ancora), senza che questo rappresenti in sé una stravaganza o una minaccia alla società regolata dai governi statali.

In alcuni paesi, anzi, sono tutt’ora in vigore forme di governo intimamente associate al potere religioso. In ogni caso, il sacro è qualcosa che non si discute neanche, perché appartiene all’evidenza del vissuto.

Altrove l’impatto con la modernità di stampo occidentale ha cambiato radicalmente l’atmosfera, imponendo stili e ritmi più secolari e apparentemente neutrali rispetto al dato religioso. Ma anche in tali contesti il riferimento religioso fondamentale resta un dato indiscusso, magari più relegato alla sfera privata, ma mai dimenticato o trascurabile. In Asia di solito non ci s’imbatte nell’affermazione «Dio è morto», bensì nella domanda «Quale Dio seguire?».

Intensa ricerca di Dio e del divino

C’è un’aspettativa nel cuore di chi appartiene alle tradizioni religiose dell’Asia: il maestro, a qualunque gruppo appartenga, deve essere capace di indicare Dio, di parlare di lui e del suo piano per il bene del suo popolo. Questa è l’area in cui le persone religiose sono chiamate a essere competenti.

Il misticismo non è la scelta di una élite, ma una dimensione della vita che, se non tutti possono praticare (in molte tradizioni è riservata ai monaci), appartiene comunque all’immaginario collettivo come ideale da raggiungere.

Un’altra parola chiave della religiosità orientale è profondità. Una proposta spirituale che mancasse di questo carattere, apparirebbe inaffidabile, ingannevole. Profondo è ciò su cui si può costruire, ciò che sostiene anche se non si vede, è ciò che resta quando finiscono le parole; ciò che s’intuisce durante una cerimonia sacra o nell’armonia dell’arte religiosa; ciò che dura nel tempo, perché ha già attraversato tante generazioni e si è sedimentato in una letteratura, in testi sacri da maneggiare con rispetto.

Il passo dalla profondità alla preghiera è molto breve, anzi spontaneo. Preghiera e devozione sono un altro aspetto della medesima ricerca di Dio e del divino che in Asia ha prodotto esperienze tra le più ricche. La dimensione della preghiera, del culto e dei riti non si è mai offuscata (come invece è successo in Occidente), ha conosciuto un percorso storico in cui è rimasta viva e articolata. Pregare è la norma, non l’eccezione. Non va giustificata la preghiera, semmai va spiegata la sua originalità che la distingue da quella praticata in un’altra religione. In ogni caso l’esperienza di preghiera appartiene al cuore del cammino spirituale e costituisce il contesto più adatto alla comprensione e diffusione del messaggio religioso. Un aspetto strettamente collegato alla dimensione orante della vita è la ricerca di solitudine, di raccoglimento. In tutte le forme religiose sviluppatesi in Asia esiste un anelito all’intimità con il divino che solo una certa dose di isolamento e silenzio sembrano favorire. L’esercizio delle pratiche ascetiche richiede un contatto con se stessi che esige attenzione all’interiorità e distacco, almeno temporaneo.

Semplicità di vita

Un altro aspetto della religiosità asiatica è il convergere di tante fedi sulla necessità e sul valore di uno stile di vita sobrio. La semplicità riflette un’attitudine molto apprezzata nella persona religiosa in Asia: il giusto distacco dalla materialità delle cose.

Semplicità e sobrietà favoriscono una vita centrata sull’essenziale, identificato quasi sempre con la ricerca spirituale. Una vita che si lasci sommergere da preoccupazioni mondane di ricchezza, accumulo e competizione tiene il praticante lontano dal raggiungimento dei suoi ideali.

Propagazione degli insegnamenti religiosi

Il concetto di «missione» è maturato in ambito cristiano e dunque gode di una sua originalità che l’Occidente postmoderno fa fatica a comprendere e accettare. In Asia invece la tendenza di una dottrina religiosa a diffondersi e quella dei suoi fedeli a propagarla è un dato pacificamente accettato, anzi ne testimonia la validità. Mentre in Occidente si manifesta resistenza (sensi di colpa storici, timore d’ingerenza nella libertà altrui, ecc.) nel panorama religioso asiatico non desta stupore il fatto che una dottrina o una via di sapienza cerchi di diffondersi.

Cristiani esigua minoranza

In questa terra vasta e complessa, trova il suo spazio anche la fede cristiana, benché sia praticata per lo più in condizioni di minoranza e talvolta di discriminazione (o di aperta persecuzione; cfr Cristian Nani, Una fede pericolosa, MC maggio 2018). Negli ambienti missionari si parla di ad gentes per indicare lo specifico della missione in contesti in cui essa rappresenta per gli interlocutori il venire in contatto per la prima volta con il Vangelo e la persona di Gesù Cristo, dal momento che altre tradizioni religiose e culturali hanno plasmato quelle società. Ebbene, in Asia l’ad gentes è una realtà evidente. Non v’è dubbio che i non cristiani sono gli interlocutori principali della Chiesa in Asia. Per questo motivo il magistero missionario del postconcilio ha più volte richiamato l’attenzione proprio sul continente asiatico descrivendolo come il più bisognoso di evangelizzazione2.

A questo riguardo Ecclesia in Asia, al n.1 dice: «Dato che Gesù è nato, vissuto, morto e risorto in Terra Santa, questa piccola porzione dell’Asia occidentale è diventata terra di promessa e di speranza per tutto il genere umano. Gesù conobbe ed amò quella terra, facendo sue la storia, le sofferenze e le speranze di quel popolo; ne ebbe cara la gente». Soffermiamoci su queste ultime parole: anche noi siamo chiamati a entrare in questo movimento di amore per i popoli dell’Asia. È la legge dell’incarnazione che ci spinge a entrare in profonda sintonia con le persone a cui siamo mandati, e quindi con le loro culture, la loro storia, le loro tradizioni religiose e filosofiche, la loro sapienza, la loro psicologia.

Giorgio Marengo

Note:

1  M. De Giorgi, Missione e culture in Asia. Tra passato e presente, in «Quaderni del Centro Studi Asiatico», 11 (2016).
2  Giovanni Paolo II indicava il continente asiatico come quello «verso cui dovrebbe orientarsi principalmente la missione ad gentes» (Redemptoris Missio, 37).


Il cristianesimo in Asia

Il Cristianesimo ha conosciuto una sua diffusione in Asia già dai primi secoli. C’è un dato storico che a molti sfugge: all’indomani della Pentecoste, la prima generazione di credenti si spinse in due direzioni, nel bacino del Mediterraneo, giungendo fino al cuore dell’Impero romano, e in direzione Est, verso l’Asia appunto.

I cristiani d’Oriente avevano centri di eccellenza teologica, monasteri e biblioteche nella zona dell’attuale Turchia e Iran. Questa cristianità assunse ben presto dei tratti peculiari, arrivando anche a dissentire su questioni teologiche ai concili ecumenici, come testimoniato dal caso del patriarca di Costantinopoli Nestorio a Calcedonia (451).

Fu proprio grazie ai credenti delle prime generazioni, soprattutto attraverso le vie del commercio che già attraversavano il continente (come la via della seta), che il Vangelo giunse alle popolazioni asiatiche.

La storiografia tende a identificare questi cristiani con l’appellativo di Nestoriani. Occorrerebbe precisare questo titolo e il suo significato; in ogni caso, accettando convenzionalmente la dicitura, dobbiamo riconoscere che già intorno al VII secolo la fede cristiana era attestata in Cina e quasi contemporaneamente nelle zone centrali del continente. Per non parlare dell’India, con la sua tradizione sull’apostolo Tommaso.

Furono poi gli ordini mendicanti del XIII secolo a prendere il testimone dell’evangelizzazione del continente, dopo l’avanzata dell’Islam e il consolidarsi del Buddhismo in gran parte dei territori.

Quando i Gesuiti arrivarono in Cina e Giappone nel XVI secolo iniziò una nuova fase. Il dato è che, per vari fattori storico culturali, a quel tempo il Cristianesimo era rimasto ai margini delle società in cui era penetrato e, in alcuni casi, del tutto perduto.

Eventi storici non favorevoli? Errori di strategia missionaria? Mancanze e debolezze dei missionari stessi? Incidenti diplomatici?

Tutto va certamente analizzato, però a me piace pensare che la situazione di minoranza in cui versa la fede cristiana anche oggi in Asia non sia da ascriversi solamente a una congiuntura storico sociale, e che ci riveli qualcosa di profondo e, in qualche modo, di provvidenziale: non necessariamente il cristianesimo è destinato a diventare cristianità, a plasmare cioè società intere, al punto di diventare la religione principale (e dominante).

Se in occidente questa è stata l’evoluzione, non è detto che essa sia l’unica possibile e neanche la più auspicabile. È importante rendersi conto che non esiste solo il modello Europeo, come se le società dovessero in qualche modo attestarsi tutte in modo naturale sulle stesse posizioni.

Il nostro punto di riferimento deve sempre rimanere il Vangelo, la logica del Regno di Dio che Gesù ha sempre descritto in termini di piccolezza, sproporzione, inferiorità, seme che cade in terra e muore, lievito nella pasta, lume di una candela che illumina la stanza.

Il primo Asian Mission Congress, tenutosi in Thailandia nel 2006, tirava queste conclusioni, guardando alla storia del Cristianesimo nel continente: la Chiesa Cattolica in Asia ha dato il più alto numero di martiri. Dovunque ci sono missionari o cristiani locali che sopportano fatiche per la loro fede, facendo della loro vita un dono per gli altri, la Chiesa cresce. La testimonianza vivente di molti cristiani in Asia è un miracolo degno di essere celebrato.

G.M.

A d essi vanno aggiunti i circa 2 milioni di cristiani del Libano (ca. 345 della popolazione che al 2016 era di 6 milioni)


Una missione fatta di forza interiore e discrezione:

Comunicare prossimità

Prendendo in prestito l’espressione di un arcivescovo indiano cara alla riflessione missionaria del continente asiatico, «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia», possiamo introdurci nel mistero di una missione fatta di forza e fragilità, profondità, fiducia e prossimità. Completamente nelle mani di Dio.

Il parlare cristiano di Dio è percepito nell’Occidente postmoderno come qualcosa di «antipatico». Forse è per questo che viene spontaneo concentrarsi più sui mezzi per farlo che sui contenuti. Come se dovessimo ottenere un lasciapassare, un’autorizzazione che ci verrebbe concessa, appunto, per il semplice fatto di usare tecniche comunemente riconosciute.

Se questo fosse vero, il rischio grave sarebbe quello di perdere l’originalità del messaggio cristiano che sta proprio nel suo essere scandaloso. Parla, infatti, dell’irruzione nel mondo di Dio fattosi carne, di Dio che abita la nostra umanità allargandola al cielo.

Il dire cristiano su Dio e la missione, stanno in questo paradosso: del Dio ineffabile non si può parlare e, allo stesso tempo, non si può tacere.

Sussurrare il Vangelo

La missione sta nel mettere in comunicazione il «cuore» con il Vangelo e nell’innescare quel delicato processo di dialogo e crescita nel quale nessuno dei due interlocutori rimane indifferente all’altro. Ecco perché vorrei parlare della missione come di un «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia», prendendo in prestito l’espressione usata al sinodo per l’Asia del 1999 da Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India): perché ritengo che per parlare del mistero di quest’incontro, sia più efficace un’espressione evocativa, un’immagine, piuttosto che una teoria o un «paradigma» missionario.

Quest’espressione sta avendo, con sorpresa dello stesso Menamparampil, un grande impatto nella riflessione missiologica del continente. Egli la usa come una sorta di bilancio dei suoi 80 anni spesi ad annunciare il Vangelo nel mondo indiano e nelle tante parti d’Asia nelle quali la Provvidenza lo ha chiamato. Allo stesso tempo ritiene che sia in qualche modo la «formula» per il futuro del lavoro missionario nel suo continente. E, io aggiungerei, anche negli altri.

Prossimità, fiducia, profondità

Il verbo «sussurrare» allude a una relazione. Nel nostro caso, una relazione con Dio ricevuta come dono e coltivata come scelta d’intimità, preghiera, dialogo vitale. Noi missionari siamo chiamati a sussurrare al cuore di Dio e a lasciare che Colui che ci manda a essere sue epifanie presso i popoli asiatici sussurri al nostro cuore. Siamo chiamati a metterci in relazione con le persone alle quali siamo inviati, alla vicinanza, all’immersione nel loro mondo.

Due persone si sussurrano a vicenda qualcosa solo quando sono in confidenza. Non si sussurra all’orecchio del primo che capita. E quello che si comunica nel sussurro è qualcosa di profondo, di vitale, che esige un certo pudore, un’aura di mistero, oltre che di rispetto.

Da quando mons. Menamparampil ha usato quest’espressione, essa è rimasta impressa in molti. Alcuni gli hanno fatto notare che suonava come una posizione troppo timida, quasi in contrasto con il coraggio che proprio in quegli anni Giovanni Paolo II chiedeva alla chiesa missionaria. In realtà l’espressione non invita al timore o al calcolo («se sussurriamo forse evitiamo conflitti»), ma alla necessità di mettere al centro dello stile missionario prossimità, fiducia e profondità.

Non sono forse questi gli strumenti con cui il Signore introdusse progressivamente i suoi amici al mistero della sua persona? Vengono in mente le scene dell’incontro di Gesù con la samaritana, con Nicodemo e, soprattutto, con i discepoli al cenacolo. Gesù si consegna ai suoi, versa il suo cuore proprio nel contesto di un incontro intimo, che anticipa il suo sacrificio.

Dire a voce bassa in modo personale

Il verbo «sussurrare» è evocativo già nella sua pronuncia: è musicale, produce un suono leggero e gradevole per l’orecchio. Ha il significato di «dire a voce bassa e sommessa, perché senta solo chi è vicino, o la persona a cui ci si rivolge»3. Esso indica, quindi, una modalità di comunicazione personale, che avviene nell’ambito di una relazione di amicizia, confidenzialità e sintonia, in un clima di empatia, discrezione e pacatezza. Torna alla mente l’immagine del servo del Signore che «non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce» (Is 42,2), scelta da Gesù per descrivere il suo ministero (cfr. Mt 12).

In Asia ci sono insegnamenti sacri nelle sue numerose tradizioni religiose che vanno trasmessi in confidenzialità: i sutra, ad esempio, ma anche i mantra, parole sacre recitate spesso sottovoce.

Così la Parola evangelica: per la sua qualità di essere allo stesso tempo rivelata e ineffabile, perché appartenente a Dio Altissimo, rifugge i toni chiassosi e gli slogan. Pensiamo a colui che è padre di noi missionari della Consolata nella sequela e nella missione, il beato Giuseppe Allamano, e alla sua attenzione alla persona, alla sua riservatezza, al suo stile discreto. La consegna della Parola sembra più adeguata quando a sussurrarla sono persone diventate segno di quel mistero che essa significa e a cui rimanda.

L’Asia dona la preghiera alla missione

La missione in Asia ci spinge oggi a riaprirci a dimensioni che forse non eravamo più abituati a considerare come specifiche della nostra vocazione. Una di esse è la preghiera. Normalmente, infatti, si associa alla missione prima di tutto l’idea della promozione umana, della lotta alla povertà, all’ingiustizia. C’è stato un tempo in cui lo slancio per le grandi cause dell’umanità ci aveva quasi fatto mettere da parte la preghiera, considerata una caratteristica adatta più ai contemplativi che a noi. «Noi – si diceva – siamo missionari, quindi…». Quindi? Pensiamo veramente che la missione sia esclusivamente un «fare»? E cos’è che davvero qualifica il nostro fare? La preghiera è solo una sorta di dovere da adempiere per essere dei bravi missionari, ma che «accadrebbe» separatamente dalla missione? Prima o dopo, ma non contemporaneamente? Devo a tutti i costi «fare qualcosa» per sentirmi missionario o posso prendermi del tempo per capire quali siano le «cose» più richieste dalla realtà in cui vivo?

Non esiste un solo modo di essere missionari; è invece importante che le nostre scelte siano in piena sintonia con il carisma del Beato Allamano.

Non si tratta di rinunciare all’azione per ritirarsi in una contemplazione staccata dalla realtà, ma di cogliere la sfida che l’Asia ci lancia per (ri)scoprire tutta la fecondità della dimensione contemplativa della missione.

Sembra, infatti, che nei nostri ambienti si faccia ancora fatica a comprendere che facciamo missione nell’atto stesso del nostro darci a Dio nella preghiera. Nonostante l’esempio di alcuni grandi missionari degli ultimi decenni: Charles de Foucauld, i monaci martiri dell’Algeria, madre Teresa di Calcutta, per non parlare del nostro Fondatore.

Mons. Menamparampil lo dice così: «La necessità di penetrare il mondo interiore di una società e di capire il suo funzionamento e la conformazione dei suoi ritmi emozionali è estremamente importante quando si tratta di condividere la propria fede. Più la si condivide in maniera casuale, più essa rimane superficiale. L’aspetto della profondità è importante come la qualità dell’intimità. Gli Asiatici stimano la profondità al di là di quale sia la fede a cui uno appartiene. Essa indica anche l’intimità che la persona ha con il suo “sé” reale. Nella spiritualità indiana, la ricerca del “sé” è uno degli obiettivi più alti. Se il comunicatore è vicino al suo “sé superficiale”, anche il contenuto e lo stile della sua comunicazione lo rifletteranno. Ma se egli è spesso con il suo “sé più profondo”, quando comunica un messaggio attrae l’attenzione»4. Oggi, anche grazie all’esperienza della missione in Asia, siamo più consapevoli che la preghiera è essa stessa via di evangelizzazione.

Una Parola ospitale, nel rischio del rifiuto

Tornando all’immagine del «sussurrare», è importante sottolineare che è il Vangelo a essere sussurrato e nient’altro, tanto meno qualcosa che appartenga solo all’evangelizzatore. Ad accogliere (o rifiutare) il Vangelo, poi, è niente meno che il cuore dell’altro, quel luogo nel quale risiede il suo mondo, la sua cultura, il suo orizzonte.

«Parlare di Dio non può essere come far calare una cappa di piombo sulle cose – scrive Fabrice Hadjadj, scrittore e filosofo francese -. Prima di tutto è un’alba che sorge. […] Ecco l’ineffabile: sta di casa sotto le parole di tutti i giorni. […] Non possiamo parlarne come si parla di una cosa fra le tante, ma non possiamo neppure parlare delle cose della vita se taciamo di Lui che è il loro principio e il loro fine. Portare il suo Nome non vuol dire farlo cadere dall’alto, ma lasciarlo salire dal fondo di ogni realtà. In questo modo la domanda “come parlare di Dio?”, rinvia non tanto a un argomento di conversazione, ma a una modalità ospitale di uso della parola»5.

Il carattere «ospitale» è proprio quello che vorrei descrivere per la missione in Asia: un’ospitalità evangelica restituita a chi ha accolto a casa sua i missionari del Vangelo. E quanto impegno devono profondere i missionari per farsi accogliere davvero dai popoli asiatici. Spesso è forte la sensazione di essere appena tollerati. In questo impegno di empatia, ascolto, studio, inculturazione, non dobbiamo mai perdere di vista il carattere scandaloso del Vangelo: infatti non è raro che la libertà altrui, rispettata e fattivamente accolta, comporti il rifiuto. Scrive ancora Hadjadj: «L’efficacia della proclamazione genera sempre la possibilità di un rifiuto ancora più violento di quello prodotto da una proclamazione meno efficace. […] Sarebbe un errore credere che, se perfetta, la comunicazione evangelica otterrebbe un consenso necessario»6.

Amicizia, parola, sacramento

Tra le varie figure di spicco che nel secolo scorso hanno saputo andare in profondità nell’esplorare (e vivere) la missione e che ci pare utile citare, c’è Catherine Doherty (1896 – 1985). Ispirandosi a uno scritto di Jacques Loew, l’attivista russa emigrata in America riassumeva l’attività missionaria in tre fasi: un tempo di amicizia, un tempo della Parola e un tempo del sacramento. La prima fase, quella dell’amicizia, è per lei fondamentale: non è semplicemente una preparazione, destinata a scomparire in uno stadio successivo, ma la costante che accompagna sempre la vita missionaria. È da seguire con pazienza, senza fretta. Questo tempo di amicizia è il tempo più lungo, la dimensione principale che caratterizza l’azione missionaria. Nella vita dell’evangelizzatore è il risvolto esistenziale, pratico, dell’incarnazione di Dio: assumere la condizione umana, entrare nella trama del tempo e dello spazio e, dunque, della cultura, della storia, della terra così come si presenta nel luogo specifico nel quale ci si trova.

C’è poi la seconda fase, quella della parola. Essa si realizza solo quando l’amicizia ha messo radici profonde. Solo allora si è in grado di esternare la «notizia bella» che si è stati inviati ad annunciare.

Anche qui l’insistenza di Catherine Doherty è sulla delicatezza, la prudenza: «Lo facciamo lentamente, con gentilezza, cambiando la fraseologia e la semantica, in modo che siano adatte ad ogni persona e ad ogni contesto».

È in questo momento che si fa esperienza di tutta l’inadeguatezza strutturale che ci si porta addosso. Per gli evangelizzatori che hanno abbandonato la loro terra per inserirsi in un’altra, questa è l’esperienza più radicale: lingua, riferimenti socio-culturali, storia, tradizioni, religioni sono altri rispetto ai propri, e ci si rende conto che questo incide non poco sulla comunicazione e l’annuncio. È allora che si diventa veri strumenti di chi invia, perché si apre la bocca «in suo nome», non confidando nelle proprie strategie e risorse. S’impara a riconoscere chi si è veramente: un seme che deve morire se vuol portare frutto. In questa impotenza consegnata si apre il solco perché la Parola venga sussurrata, cada e porti frutto.

La terza fase infine è quella del sacramento. È il passaggio cruciale, anzi cruciforme. È il vivere in prima persona la Pasqua, il passaggio dal predominio del proprio io a quello della Grazia. Questo rende liberi, come lo era san Paolo al termine del suo pellegrinaggio terreno. Non si dipende più dalla realizzazione di un qualche proposito o dal giudizio altrui (positivo o negativo che sia), ma unicamente dallo Spirito che cristifica, che porta l’immagine alla somiglianza.

Conformarsi a Cristo crocifisso

Una riflessione missionaria che non tenga conto di questo mistero di conformazione al Cristo crocifisso e risorto si ferma sulla soglia. Le tre fasi descritte dalla Doherty non sono altro che gli stadi attraversati da Cristo stesso. E la proporzione tra di essi dice qualcosa d’importante al modo di concepire e vivere la missione: trent’anni spesi nel tempo dell’amicizia, tre anni di Parola (il suo ministero pubblico) e pochi giorni nel compimento del mistero pasquale.

Raccontare il Vangelo, anzi, sussurrarlo, trasmette la fede – o, meglio, genera alla fede – solo dentro una particolare vicinanza, quella che si crea in relazioni di prossimità discreta che possono diventare autentica fraternità.

Far fiorire è il mestiere di Dio. All’evangelizzatore è riservato il lavoro sul terreno.

Giorgio Marengo

Note:

3  Cfr. la voce «sussurrare» in Treccani 2014 – Dizionario della Lingua Italiana, Giunti Scuola, Firenze 2013.
4  Citazione da un testo inedito di T. Menamparampil, condivisomi di recente da lui stesso.
5  F. Hadjadj, Come parlare di Dio oggi? Antimanuale di evangelizzazione, Edizioni Messaggero, Padova 2013, 56-57.
6  Come parlare di Dio oggi?, cit., 101.


Sussurrare la Consolata

Siamo nel mese del quale celebriamo la Consolata. In tutto il mondo, decine di comunità la ricordano e festeggiano. Cosa succederebbe se sostituissimo la parola «Vangelo» con il nome di Maria nell’espressione di mons. Menamparampil, «Sussurrare la Consolata al cuore dell’Asia»?

Sarebbe forse suggestivo, ci dice padre Giorgio Marengo, autore di questo dossier, ma si arriverebbe allo stesso punto. Perché sussurrare la Consolata all’orecchio di qualcuno vorrebbe comunque dire indicare Maria che, a sua volta, indica suo Figlio.

«Penso che “sussurrare la Consolata” si possa dire nel senso di aiutare le persone a riferirsi a lei in una maniera esperienziale, confidenziale. Cosa che tra l’altro in qualche modo gli asiatici già fanno.

Se noi sussurriamo Gesù, dentro quel sussurro c’è anche lei. Ogni volta che invitiamo qualcuno ad aprirsi al Signore, in questa dinamica c’è la presenza di Maria. Viceversa, più si sta con lei, più si va verso Gesù».

Immagine della Consolata in stile coreano, opera della pittrice Shim Sun-hwa Caterina

Nel processo di sussurrare il Vangelo, la Madonna è quella dalla quale i missionari imparano, perché la vicinanza, la discrezione, l’ascolto, la profondità sono tutte caratteristiche di Maria che, con la sua presenza discreta che non attira a sé ma a suo figlio, indica lo stile giusto. «Sussurriamo suo figlio e allo stesso tempo imitiamo lei, che è schiva ma anche presente».

Oltre alla figura di Maria Consolata, anche il tema della consolazione è in sintonia con lo stile del sussurro. «L’aspetto della Consolazione credo che sia una delle nostre caratteristiche che meglio si sposa con l’Asia, con alcune delle componenti della sua spiritualità. Ad esempio uno dei pilastri forti della spiritualità buddhista è la compassione», ci conferma padre Ugo Pozzoli, fino a un anno fa membro del consiglio Generale dell’Imc con l’incarico speciale di seguire l’Europa e l’Asia. «Per dire consolazione in mongolo – aggiunge padre Giorgio – ci sono almeno tre espressioni: la prima si riferisce all’azione di calmare un dolore fisico. Si trova ad esempio nei bugiardini delle medicine: sollievo da una pena. Poi c’è una seconda espressione che ha un significato più ampio, simile a quello che intendiamo noi per consolare. Infine la terza espressione può essere tradotta letteralmente con “aggiustare il cuore”, nel senso di riparare, sistemare, come fa un meccanico con un motore. Effettivamente Maria aggiusta il nostro cuore, lo sintonizza con il cuore di Dio. Lo purifica, lo cura».

Sussurrare il Vangelo con la Consolata, quindi, sapendo che il contenuto del sussurro rimane Gesù.

Luca Lorusso

Missionari della Consolata in Asia in assemblea precapitolare a fine 2016


L’IMC in Asia

Il sogno asiatico dell’Istituto è antico. Un primo tentativo di «sbarcare» in Asia avviene tra il 1928 e il ‘29, quando quattro missionari della Consolata giungonoi in India, nella provincia del Madhia Pradesh. L’esperienza dura solo tre mesi, interrotta dalle decisioni della Visita Apostolica che l’Istituto subisce in quegli anni.

Quando si apre la prima stabile presenza Imc in Corea del Sud nel 1988, si realizza un desiderio che è appartenuto già al beato Giuseppe Allamano: «Io non vedrò, ma un giorno andrete in Cina, India, Giappone, Tibet…». Nel gennaio di quell’anno arrivano nel paese asiatico i primi quattro missionari della Consolata. Le altre due aperture avvengono nel 2003 in Mongolia e nel 2014 a Taiwan. In Mongolia, i primi missionari, arrivati assieme alle missionarie della Consolata, entrano nell’estate del 2003, si stabiliscono nella capitale, Ulaanbaatar, con l’intento di «fare missione insieme, in comunione». A Taiwan si inizia nel settembre 2014.

Il mandato dell’ultimo Capitolo Generale è quello di rafforzare le presenze attuali in modo da consolidarle e dare all’Imc in Asia una prospettiva concreta di permanenza e sviluppo.

Luca Lorusso


L’ad gentes in Asia: Con lo stile del seme

Poca visibilità e, molto spesso, pura insignificanza. La condizione di minoranza della Chiesa in Asia potrebbe essere letta come un ostacolo insormontabile, oppure come una posizione privilegiata per purificare la missione e rimanere ancorati all’essenziale.

L’ambiente umano in cui la Chiesa si trova a vivere e testimoniare la propria fede in Asia è per lo più di vero ad gentes, nel senso che trova i propri riferimenti e identità al di fuori del Cristianesimo.

Questo dato è di notevole importanza, perché indica che la presenza e l’operato della Chiesa si confrontano quotidianamente con la poca visibilità e, molto spesso, la pura insignificanza. Siamo lontani da realtà in cui la Chiesa rappresenta una forza trainante della società e un’istituzione riconosciuta e stimata (o criticata).

Il confronto storico forse più pregnante è quello con le prime comunità cristiane diffusesi a Est del fiume Eufrate nell’età postapostolica. Esse dovettero misurarsi da subito con culture e tradizioni religiose preesistenti e con i più diversi sistemi politici, quasi sempre non benevoli nei loro confronti.

La libertà dell’essenziale

Proprio questo carattere minoritario, defilato, quasi nascosto è, però, altamente significativo e può rappresentare una grande risorsa. La Chiesa è più simile al seme caduto in terra. Cresce nel nascondimento e può dedicarsi più liberamente all’essenziale. Si regge sull’oblatività dei suoi membri ed è scevra da protagonismi e tentazioni mediatiche. Niente a che vedere con una mentalità da ghetto o da rifugio esclusivista, al contrario, la povertà di immagine e di influenza sociale permette una maggiore trasparenza al messaggio evangelico.

Questa condizione di minoritarietà può allora diventare scelta consapevole di un’evangelizzazione portata avanti con la testimonianza personale, i contatti fraterni, l’impegno non rumoroso per una società più giusta e accogliente.

Stupore, incomprensione, testimonianza

È interessante constatare come anche nell’Occidente postmoderno questa dimensione della testimonianza sembra aprire spazi di luce sul tema della missione. «L’annuncio si trasforma in testimonianza vissuta; testimonianza che, appunto, presuppone una mancanza di dimostrazione e di evidenza, ma che unica può trasformare il linguaggio verbale in un linguaggio pratico ed etico. In questa maniera la missionarietà non indirizza le sue energie nel raccapezzare un senso ormai disperso, ma tenta di evangelizzare il frammento diventando in sé stessa richiamo agapico. […] La testimonianza lascia spazio alla meraviglia, allo stupore, all’incomprensione, cioè a quegli atteggiamenti che trasportano il soggetto postmoderno “al di fuori di sé” nell’attimo di un incontro»7.

La fede chiamata a ricomprendersi

L’Ecclesia in Asia lo ha detto chiaramente al n. 23: «Un fuoco non può essere acceso che mediante qualcosa che sia esso stesso infiammato». Non sentiamo qui riecheggiare le parole del nostro fondatore il beato Giuseppe Allamano? Dovremmo forse fermarci a considerare più a lungo il suo insegnamento: la sua è una vera e propria «mistica dell’annuncio missionario», come l’ha sviscerata e portata in luce il troppo poco conosciuto studio del domenicano padre Ceslao Pera8.

L’originalità di una missione veramente ad gentes è anche questa: il missionario vive in un ambiente privo di riferimenti (almeno espliciti) al Cristianesimo. L’impegno per comprendere e decifrare tale ambiente apporta conoscenze nuove, fa scoprire modi altri di vedere la vita e la relazione con il divino e, dunque, provoca la fede a una ricomprensione radicale di se stessa.

Il dialogo diventa allora una scuola di studio e di riflessione che, oltre ad arricchire il missionario di conoscenze su altre tradizioni, l’aiuta a dischiudere la profondità del mistero cristiano in un modo forse più determinante di quanto non avvenga all’interno di una società «cristiana».

Veglia pasquale ad Arvaiheer con battesimi dei neofiti.

Paura, presunzione, evasione

L’aveva capito molto bene san Francesco Saverio nel XVI secolo: nelle sue lettere rivolte a chi lo avrebbe seguito in India e in Giappone egli insisteva molto sulla virtù apostolica dell’umiltà interiore. In una lettera del 1549 da Kagoshima (Giappone) avvisava i candidati alla missione asiatica che avrebbero dovuto affrontare una triplice tentazione: il pericolo della paura, il rischio della presunzione e la possibilità di evasione dal reale.

L’impatto con culture, religioni, società, situazioni ambientali e umane così altre mette paura, provoca un inaspettato contatto con la parte più fragile di noi stessi. Ecco allora il primo grande vantaggio: dalle ceneri del nostro io andato in frantumi può nascere una nuova fiducia in Dio: «Vi scongiuro pertanto, in tutte le vostre cose fondatevi totalmente in Dio, senza confidare nel vostro potere o sapere od opinione umana»9.

La seconda tentazione è quella della presunzione: a volte, il missionario è tentato di giudicare le cose  non a partire dal Vangelo, ma dai propri riferimenti culturali, rasentando il complesso di superiorità. Il contatto con le ricche tradizioni asiatiche può stemperare questo rischio: «Credetemi, voi che verrete in questo paese, avrete l’occasione di provare quanto valete. Per quanta diligenza voi mettiate per guadagnare ed ottenere molte virtù, siate certi che non ne avrete mai abbastanza»10. Anche questa è una grazia.

Ma c’è una terza prova a cui i missionari sono sottoposti in Asia: il rischio di evadere continuamente dalle sfide del quotidiano rifugiandosi in una realtà creata da loro stessi. Oggi, con l’aiuto di social network e nuove tecnologie, rischiamo di essere fisicamente in un posto e col cuore in un altro: «Stanno nelle Indie, ma vivono col desiderio in Portogallo»11. Anche in questo caso l’unica medicina è l’umiltà di affidarsi a Dio in quel presente che magari vorremmo diverso, ma che è l’unico orizzonte in cui possiamo davvero incontrare il Signore.

Missionari come «paralitici guariti»

Mettendo in guardia i suoi confratelli gesuiti, san Francesco li conduce al cuore dell’esperienza apostolica. Lo stesso fa papa Francesco quando ci dice che siamo testimoni del Risorto in mezzo ai popoli proprio perché abbiamo toccato con mano la nostra povertà e l’abbiamo consegnata a Lui, confidando nella sua misericordia. Siamo «paralitici guariti». Questa fiducia ci abilita a chinarci sulle ferite del prossimo per versarvi l’olio della consolazione. È questa l’esperienza fontale dell’apostolo, e noi in Asia siamo chiamati a viverla ogni giorno, accompagnando persone che, con il loro cammino di fede, ci aiutano a fare verità in noi stessi e a percorrere insieme a loro lo stesso sentiero di rinascita12.

La resistenza delle tenebre

Da san Francesco Saverio impariamo poi un aspetto della prima evangelizzazione che talvolta viene taciuto o mal interpretato. Il grande missionario ritorna spesso a considerare come il male si opponga all’avanzata del Regno di Dio. La missione ad gentes deve trovarci attenti a questo scontro, quello che san Giovanni nel suo Vangelo descrive come la resistenza delle tenebre ad accettare la luce. Con questo non si vuol dire che il mondo non ancora raggiunto dall’annuncio evangelico sia in sé compromesso dal male, anzi, con il libro della Sapienza, noi crediamo che «le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra» (Sap 1,14), ma allo stesso tempo crediamo anche che forze nemiche alla luce di Cristo operino per contrastarla. A cominciare dal nostro io, spesso diviso, e dai tanti interessi mondani che spesso opprimono la coscienza di interi gruppi umani.

Queste forze negative sono un motivo in più per prendere sul serio la dimensione orante della missione. Per poter stare in piedi, dobbiamo saper stare in ginocchio.

Nulla da dimostrare, solo Gesù da mostrare

Prima e al di là di qualsiasi atto pratico (il progetto, l’iniziativa di sviluppo, ecc.), la missione è manifestazione umana, relazionale, della misericordia divina che Gesù ha incarnato. L’esperienza missionaria in Asia ci insegna molto, aiutandoci ad andare all’essenziale: un annuncio che si fa sussurro confidenziale, condivisione sincera, umile servizio offerto senza aspettarsi nulla in cambio. Non abbiamo nulla da dimostrare, ma «solo» Gesù da mostrare con la vita e, se necessario, con la parola.

Padre Gabriele Ferrari, già padre generale dei missionari Saveriani, parla addirittura di «esposizione di Gesù», che «sarà tanto più efficace quanto più semplice, povero e disarmato sarà lo stile di missione»13. L’esposizione del Santissimo Sacramento sui nostri altari diventi allora la sua esposizione in vite trasfigurate dalla sua bellezza: la notizia non è solo «buona», ma principalmente «bella». Il bello sconvolgente dell’amore crocifisso di Gesù attirerà le persone in mezzo alle quali noi viviamo in semplicità, non in case piene di regole, porte e strutture, ma in umili dimore accoglienti, povere e belle, dove l’armonia esteriore sarà un richiamo al fatto che un altro mondo è possibile, la vita non è solo miseria e stenti, la vita in Cristo è luminosa e vale la pena di essere vissuta.

Giorgio Marengo

Note:

7  T. Tosolini, Dire Dio nel tramonto. Per una teologia della missione nel postmoderno, Emi, Bologna 1999, 15.
8  Ceslao Pera O.P., La spiritualità missionaria nel pensiero del Servo di Dio Giuseppe Allamano, Edizioni Missioni Consolata, Torino, 1973.
9  F. X. Léon-Dufour, Francesco Saverio. Vita avventurosa e dimensione mistica dell’apostolo delle Indie, primo missionario gesuita, Piemme, Casale Monferrato 1995.
10  Id, 83.
11  Id, 88.
12  Da più di un anno seguiamo ad Arvaiheer un gruppo di Alcolisti Anonimi; il primo dei 12 passi che costituiscono il loro percorso di guarigione è riconoscere di averne bisogno. Mi sembra il punto di partenza di ogni vera conversione.
13  G. Ferrari, È proprio impossibile uscirne?, in «Testimoni», 2/2017, 12-16.




Malaysia: Allah… ma non per tutti


Un paese ricco di diversità, diviso tra il continente asiatico e l’isola del Borneo. Un tempo ponte tra Occidente e Oriente. Da oltre due secoli vi convivono tre principali gruppi etnici e quattro grandi religioni. Non senza problemi. Abbiamo incontrato il direttore del settimanale cattolico nazionale che ci ha raccontato le nuove sfide della Malaysia.

Kuala Lumpur. Padre Lawrence Andrews, gesuita malese, nel 1994 ha fondato il settimanale cattolico «Herald» (www.heraldmalaysia.com). Con una tiratura di 16.000 copie, il periodico è distribuito in tutta la Malaysia. Il giornale pubblica articoli in diverse lingue, le principali parlate nel paese: malay (lingua malese), cinese mandarino, indiano tamil e inglese. Il paese è infatti un mosaico di popoli e culture. Le etnie principali, oltre ai nativi (malesi o malay, che si dividono a loro volta in diverse etnie locali, molte delle quali vivono nel Borneo), i cinesi (migrati qui a partire da inizio 1800) e gli indiani tamil.

La Malaysia è una federazione di monarchie costituzionali, e riunisce 11 stati della Malesia continentale (o peninsulare) e gli stati Sabah e Sarawak sull’isola del Borneo. Oltre il 61% della popolazione è musulmana (l’islam è pure religione ufficiale), seguono i buddhisti (19,8%), i cristiani (9,2%) e gli induisti (6,3%), oltre altre religioni.

«La maggioranza dei cattolici parla malese e vive in Borneo. Qui invece, nella Malaysia occidentale, c’è una grande mescolanza di lingue e quella più comune è l’inglese», ci racconta padre Lawrence che incontriamo nel suo ufficio, alla parrocchia Saint Francis Xavier, a Petaling Jaya, comune periferico di Kuala Lumpur, la capitale.

«È importante sottolineare che i nativi cattolici che parlino malay vivono in Borneo. Su questioni linguistico-religiose abbiamo avuto un contenzioso con il governo. Il termine “Allah” in malay significa “Dio” ed è un nome generico, ma lo stato ha proibito a noi cattolici di usarlo, in particolare a mezzo stampa, perché lo possono utilizzare solo i musulmani. Per secoli abbiamo detto e scritto “Allah” anche noi per indicare Dio, ecco perché mi sono impuntato. Ma abbiamo perso. Adesso dobbiamo scrivere nomi come la traduzione di “Lord” (Signore) che è “Tuan”, che però non è la stessa cosa. Si dovrebbero usare entrambi».

Le comunità etniche

Il giornale cattolico è dunque indirizzato a tutte le comunità etniche del paese. Padre Andrews ci racconta l’evoluzione del multiculturalismo in Malesia.

«A partire dagli anni ’80 c’è stata una progressiva sistematica polarizzazione su base etnica. La gente è diventata più cosciente del proprio background culturale e quindi è andata nella direzione di una maggiore divisione tra un gruppo e un altro. Se negli anni ’50 e ’60 i gruppi non erano un problema, c’era una grande mescolanza, le persone di comunità etniche diverse erano amiche tra loro, si invitavano a casa una con l’altra, oggi assistiamo a maggiore divisione. In particolare si sta verificando un’avanzata del fondamentalismo islamico a causa di un’influenza che viene dal Medio Oriente. Le donne hanno iniziato a coprirsi con l’hijab (velo semplice che lascia scoperto il volto, ndr), e a ritirarsi nel proprio gruppo. Prima si dava la mano anche alle donne, adesso non più, o almeno è sconsigliato. Oggi se un musulmano va nella casa di un non musulmano non mangia, perché ha paura che ci sia carne di maiale. Questo processo si è molto accentuato negli ultimi anni».

Malesi per Costituzione

In Sarawak, Borneo, un testimone ci aveva raccontato: «Ci sono molte differenze tra Malaysia peninsulare e Borneo per quello che riguarda l’integrazione tra le comunità. Nella penisola i gruppi etnici sono molto più divisi, ovvero si frequentano persone dello stesso gruppo. In Borneo invece è molto comune la frequentazione interetnica, ad esempio tra musulmani e cristiani o tra cinesi e malay».

Continua padre Lawrence: «I gruppi etnici e le religioni stanno diventando una cosa sola, mentre prima non era così. In Malaysia vivono cinesi di differenti dialetti, indiani e diversi gruppi etnici e nativi, di cui i malay sono la maggioranza. Questi ultimi sono in gran parte musulmani (soprattutto nella zona peninsulare, ndr). Questo è l’unico paese al mondo in cui le etnie sono definite nella Costituzione. Essere malay è definito nella carta fondamentale».

La Costituzione federale malese definisce come malay colui che è nato localmente, abitualmente parla malay, segue i costumi malay e professa l’islam (art. 160). Cinesi e indiani sono definiti come discendenti di immigrati di questi due gruppi. L’articolo 153, inoltre, conferisce particolari privilegi ai malay. Un malay che si converte e non è più musulmano, non è più considerato malay per la legge e perde tali privilegi.

«Gli indiani qui sono maggioritariamente indu, ma ci sono anche musulmani. Il 60% dei cattolici vivono nel Borneo (Sabah e Sarawak) e sono anche malay. In Malaysia occidentale, invece, i cattolici non sono mai malay, ma solo cinesi e indiani. I malay sono musulmani. Qui in territorio peninsulare se un malay vuole diventare cattolico, può essere arrestato. Ecco perché non possiamo usare il nome Allah, perché i musulmani temono che si possa creare confusione (e quindi conversioni)». Di fatto legalmente un malese deve essere musulmano. Le corti islamiche, hanno deciso che i malesi etnici devono rimanere musulmani e non è loro consentito cambiare religione. Questo è valido anche per una persona di altra etnia convertita all’islam. «In tutto siamo circa 3 milioni di cattolici su una popolazione totale della Malaysia di 30 milioni. In penisola siamo circa 300.000 cattolici».

In Malaysia l’islam è religione ufficiale di stato e, questioni linguistiche a parte, le relazioni tra chiesa cattolica e governo sono passabili. «Sono ok – ci dice padre Lawrence, ripetendo più volte l’ok -, non possiamo dire buone, ma va bene. Occorre avere permessi per qualsiasi cosa. Per costruire una chiesa devi avere il permesso e a volte non te lo danno. Tutto ciò crea ritardi. Se non chiedi troppo puoi vivere in pace, nessun problema. Non siamo al livello dell’Indonesia, a grande maggioranza musulmana, dove gli islamici possono andare in una chiesa e chiedere che si fermino le funzioni. Qui non lo hanno ancora fatto, almeno fino ad ora.

Con la polizia, inoltre, abbiamo buoni rapporti, possiamo parlare con loro. Ci danno protezione durante le grandi feste. In questo periodo storico è importante, con l’avanzata del terrorismo e dell’Isis».

Non è terra di missione

La chiesa cattolica in Malaysia storicamente ha avuto l’appannaggio dell’educazione. Tramite istituti religiosi, come i fratelli delle Scuole cristiane (di La Salle) e le suore canossiane, ma anche le francescane, da Italia, Francia e Irlanda, furono fondate scuole di ogni grado. «Oggi la maggior parte delle scuole sono però gestite dal governo. Il numero di religiosi è sceso, per cui le risorse umane sono diminuite. Molte delle nostre scuole sono ora gestite da islamici e hanno professori musulmani. Le migliori scuole sono quelle in lingua cinese, ma non ci sono religiosi. Cerchiamo di assumere professori cinesi, ma difficilmente sono cattolici. E non saremo sorpresi se una volta ritirati, saranno sostituiti da musulmani».

In Malaysia sono presenti diverse congregazioni religiose anche di origine europea, ma non ci sono quasi più missionari. «La chiesa locale è forte e inoltre non possono più venire gli stranieri a causa di una legge del 1970 che ostacola l’arrivo di nuovi missionari. Quelli che vivevano già nel paese, potevano stare ma al massimo otto anni. Alcuni sono diventati residenti per cui sono riusciti a prolungare la loro permanenza, ma in generale non abbiamo possibilità di avere altri missionari. Le congregazioni sono tutte costituite da persone locali, il che è un bene. Non siamo più un paese di missione», dichiara con un certo orgoglio. In Malaysia, non si vedono appariscenti casi di povertà, neppure nelle grandi città, come invece capita in tante capitali nel mondo. La povertà è presente ma circoscritta, ci ricorda padre Andrews. Secondo la Banca mondiale la Malaysia è quasi riuscita a eradicare la povertà, portando il numero di famiglie che vivono sotto la soglia di 8,50 dollari al giorno dal 50% degli anni ‘60 al 1% di oggi. Secono padre Andrews «si tratta di statistiche un po’ esagerate. Il Borneo è più povero, soprattutto nelle zone rurali. Anche qui a Kuala Lumpur ci sono quartieri poveri. Se in una famiglia entrano 1.500 ringgit al mese (320 euro) e ne servono 500 per l’affitto, quello che resta non basta».

Occhio alle conversioni!

I cattolici non sono gli unici cristiani. Sono presenti anglicani e gli altri protestanti. «Con gli altri cristiani, anglicani, luterani, metodisti, evangelici, partecipiamo alla Christian federation of Malaysia, Cfm. È una piattaforma che ci permette di parlarci e confrontarci quando ci sono difficoltà. Ad esempio adesso non possiamo più stampare bibbie in malese. Una legge ce lo proibisce. Stiamo negoziando con il governo per cambiare le cose. Ci sono le vecchie bibbie ma non possiamo averne di nuove. Gli evangelici sono piuttosto duri, per cui a volte hanno avuto problemi. Ad esempio quando cercano di battezzare dei musulmani. Due pastori sono scomparsi per questo motivo. Noi cerchiamo di metterli in guardia».

Chiediamo a padre Andrews qual è, secondo lui, la sfida per il futuro. «Ne abbiamo due: una all’esterno della comunità cristiana e l’altra all’interno. Quella all’esterno è la sfida dell’islam, sempre più presente. I musulmani cercano di convertire i fedeli di altre religioni. Noi, invece, dobbiamo lavorare per costruire ponti ovunque con altre comunità e religioni, come dice papa Francesco. Dobbiamo cambiare la nostra mentalità e non guardare solo noi stessi. Se non riusciamo a lavorare con le altre religioni non ci sarà pace in questo paese, perché una religione dominerà sulle altre. Lo chiamiamo dialogo interreligioso. Il papa sta spingendo su questo e ha creato un nuovo dicastero su questo tema. In particolare lui parla ai musulmani, affinché non ci sia scontro, ma amicizia. L’altra sfida che abbiamo è non perdere i nostri fedeli, in quanto siamo una minoranza».

Marco Bello
(fine prima parte – continua)


Cronologia essenziale

Dalla via delle spezie alla Petronas

  • 1402 – Il principe pirata hindu Parameswara, giunto da Sumatra, fonda quello che sarà il grande porto commerciale di Melaka (a Sud dell’attuale Kuala Lumpur), cerniera tra India e Cina. Negli anni successivi viene adottata la religione musulmana (la penisola era buddhista e hindu) e Melaka diventa centro nevralgico per la diffusione della fede e della lingua malese.
  • 1509-11 – Arrivano i primi commercianti portoghesi in cerca di spezie. Melaka viene poi conquistata dai portoghesi che la controllano per 130 anni.
  • 1641 – Gli olandesi, in concorrenza con i portoghesi per il commercio delle spezie dall’Asia all’Europa, si fanno aiutare dal sultano di Johor e conquistano Melaka, che gestiranno per 150 anni. Inizia il declino della città. Gli olandesi potenziano Batavia, l’attuale Jakarta (Indonesia).
  • 1786 – Anche gli inglesi, con la loro Compagnia delle Indie Orientali, si rendono conto dell’importanza di una base commerciale sulla penisola malese, tra India e Cina. Il britannico Francis Light ottiene l’isola di Penang (a Nord di Kuala Lumpur) per un primo insediamento.
  • 1819 – Stamford Raffles, governatore inglese di Java, sbarca sull’isola di Singapore e negozia un accordo con il sultano: la Compagnia delle Indie ottiene l’isola in cambio di denaro e ne fa un importante porto.
  • 1824 – Gran Bretagna e Paesi bassi firmano un trattato per dividere la regione in due distinte zone d’influenza: agli olandesi l’Indonesia e ai britannici i territori sulla penisola.
  • 1839 – L’avventuriero inglese James Brook sbarca nel Borneo Nord orientale, dove aiuta il sultano del Brunei a sedare una rivolta. Nel 1841 riceve l’incarico di governare sulla regione (Sarawak), che si allargherà e sarà prospera sotto di lui e suoi discendenti (i rajah bianchi) per 100 anni, fino all’invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale e poi al protettorato britannico.
  • 1865 – Il console statunitense del Brunei (impero potente in passato) approfitta della malattia del sultano per farsi affidare il Nord (l’attuale Sabah) che poi passerà agli inglesi diventando British North Borneo company (1881). Nel 1888 il Brunei diventa protettorato britannico.
  • 1941 – I giapponesi conquistano la Malaysia peninsulare e il Borneo. Reprimono il movimento comunista cinese. Si crea una guerriglia nella giungla che si oppone all’invasore. Nel 1945 i giapponesi si arrendono e i britannici riprendono il controllo della penisola.
  • 1946 – I britannici convincono i sultani a creare Malay Union controllato dall’Inghilterra. I malesi protestano e viene creato il primo partito malese: United Malays National Organization (Umno). Questo porta alla creazione della Federazione della Malesia e apre la via per l’indipendenza.
  • 1953 – L’Umno stringe un’alleanza con la Malayan chinese association (i cinesi) e il Malayan indian congress (gli indiani). Nasce il Parti Perikatan guidato da Tunku Abdul Rahman, che vince le prime elezioni nazionali nel 1955 e guida il paese verso la Merdeka (indipendenza).
  • 1957 – Dichiarata l’indipendenza della Malesia peninsulare. Rahman diventa primo ministro.
  • 1963 – Sabah e Sarawak (Borneo sotto controllo britannico) si uniscono a Malesia e Singapore formando la moderna Malaysia. Singapore ne esce due anni dopo per problemi interetnici cinesi – malesi.
  • 1969 – La Federazione vive frizioni tra le comunità etniche. I malesi nativi (detti bumiputra) sono più poveri di cinesi e indiani, ma hanno privilegi politici. Le tensioni sfociano in disordini in capitale che fanno 198 vittime. Il governo a prevalenza malese, vara un programma economico a favore dei nativi (1971), che continua ancora oggi. In venti anni di programma sono aumentate le aziende gestite dai nativi ed è cresciuta una classe media dei malesi.
  • 1970 – oggi – Grazie ai numerosi giacimenti di petrolio e gas naturale (getiti dalla Petronas, compagnia di stato), ma anche alla diversificazione industriale, la Malysia è riuscita a mantenere tassi di crescita vicini al 7% per 25 anni (Banca mondiale). Anche durante la crisi finanziaria asitica (‘97-’98) e quella mondiale (dal 2008), i livelli di crescita si sono mantenuti intorno al 5,5%. La crescita ha agito nel senso della riduzione delle disuguaglianze, con l’effetto di eradicare la povertà estrema, passata da oltre il 50% della popolazione negli anni ‘60, all’1% di oggi, secondo dati ufficiali.

Ma.Bel.




Isis, il terrore come spettacolo


Prima puntata: Comprendere (tra paure e diffidenze)


La nostra inchiesta sul radicalismo islamico e le sue cause si sposta in Italia. A Ravenna abbiamo incontrato Marisa Iannucci, musulmana e islamologa. Con lei, autrice del saggio «Contro l’Isis», abbiamo parlato della posizione degli studiosi islamici e delle comunità dei fedeli rispetto all’ideologia e al terrorismo delle milizie del califfo al-Baghdadi. Ma anche della compatibilità tra islam e democrazia e del (timido) femminismo musulmano.

Marisa Iannucci è musulmana e islamologa, nonché ricercatrice e autrice del saggio «Contro l’Isis».

Impegnata a livello sociale, culturale e politico (anche come presidente dell’associazione «Life Onlus»), Marisa Iannucci ha affrontato, e vinto, diverse battaglie, tra cui quella giudiziaria a seguito di una sua dichiarazione sulla scarsa trasparenza nella gestione contabile di una moschea di Ravenna, e quella contro le intimidazioni e discriminazioni nei confronti delle donne da parte di alcune realtà islamiche italiane. Lei, donna musulmana, aveva osato sfidare «poteri forti» all’interno dell’islam nazionale ed era stata attaccata da persone e entità abituate a vincere sugli altri, a intimorirli, a imporre il proprio diktat e ad avere, da anni (dalle «primavere arabe»), la simpatia di politici e dei media mainstream. In questa prospettiva di coraggio e lucidità di pensiero e di azione, non poteva mancare il suo impegno nella denuncia di ciò che è e rappresenta il Daesh per l’islam mondiale e per l’umanità.

Le strategie comunicative del Daesh

Secondo lei, cos’è e quali sono le «cause» del Daesh?

«La guerra d’Iraq del 2003 è il terreno su cui nasce il Daesh, che è apparso per molti versi come un fenomeno nuovo, ma non lo è affatto. Ha saputo caratterizzarsi come tale grazie a una intensa strategia comunicativa, e un uso attento del web e delle tecnologie mediatiche che hanno creato nell’opinione pubblica il fenomeno del terrore come spettacolo. Ma vi sono elementi di continuità tra Isis/Daesh e al-Qa‘ida e i gruppi a essa affiliati, da cui il Daesh nasce per poi rendersi autonomo, conquistare e controllare territori soprattutto inserendosi in fratture esistenti e facilitato anche dalla guerra civile siriana. La leadership e parte dei combattenti del Daesh provengono da formazioni già esistenti, e lo stesso nucleo di al-Baghdadi è un ramo di al-Qa‘ida ribellatosi all’autorità dei capi. Anche dal punto di vista ideologico non vi sono grandi novità. L’organizzazione ha i suoi riferimenti politici e religiosi in un pensiero di tipo neo salafita wahabita come al-Qa‘ida e altri gruppi che utilizzano il terrorismo internazionale, oltre alla guerriglia, e veicola tra i musulmani una lettura letteralista dei testi per convincerli a prendere le armi per realizzare un nuovo ordine politico e sociale di tipo salafita. Il cosiddetto «califfato» di al-Baghdadi non si differenzia in questo, né nella legittimazione della violenza, né nei riferimenti teologici, dalla dottrina di Ibn Taymiyya o altri, che pure sono ampiamente distorti per la loro causa. Nonostante questo il Daesh rifiuta l’autorità di altri gruppi e ha sempre rifiutato l’arbitrato di altri esponenti islamici, perseguendo un atteggiamento assolutamente “takfirista”, ovvero escludendo e tacciando di miscredenza chiunque non sia a loro sottomesso. L’ostilità non è diretta solo contro i non musulmani (cristiani o yazidi), ma all’interno del mondo islamico contro gli sciiti (ad esempio, contro alawiti, ismailiti, drusi e altri). Va ricordato che anche i sunniti che si rifiutano di aderire alla visione del Daesh e alla sua causa sono considerati miscredenti e quindi nemici. Il Daesh è cresciuto sull’instabilità territoriale, politica e sociale, sulle macerie della guerra dell’Iraq e del governo di stampo sciita di al-Maliki (appoggiato da Usa e Iran), sotto il quale i sunniti iracheni sono stati penalizzati. Le profonde divisioni tra sciiti, sunniti e curdi hanno favorito un gruppo che senz’altro proponeva una strada per la possibile rivalsa sunnita nell’area. Ma il Daesh ha stretto alleanze con altre realtà locali in Nordafrica e in Africa – prima di tutto con Boko Haram -, e ha allargato il campo al terrorismo internazionale».

Senza dimenticare la guerra in Siria…

«La Siria è il campo di battaglia per Arabia Saudita e Iran e per chi li supporta nei loro progetti. La comunità internazionale si è trovata di fronte a una scelta: sostenere il regime siriano contro il Daesh legittimando Bashar al-Assad, dittatore che si è macchiato di crimini contro l’umanità, oppure sostenere la sua variegata opposizione, che ha numerose infiltrazioni e ciò comporta il rischio di rafforzare gruppi che un domani potrebbero costituire un’ulteriore minaccia per l’equilibrio dell’area e il futuro della Siria. Ciò che non si è stati in grado di fare è proteggere i civili da ogni fazione, e creare le condizioni per garantire il soccorso umanitario, questo è molto grave. Era necessario creare dei corridoi umanitari per garantire l’intervento delle agenzie internazionali in favore della popolazione civile: non si è fatto abbastanza in questo senso».

Mosul, Iraq, gennaio 2017 / Yunus Keles / Anadolu Agency

Il mondo islamico davanti al Daesh

Che cosa possono fare le comunità islamiche?

«Le comunità islamiche possono fare molto soprattutto fuori dai contesti di guerra, per impedire la radicalizzazione e isolare l’ideologia fondamentalista. È, tuttavia, un lavoro molto difficile, considerando che un’altra “guerra” (quella della propaganda) viene combattuta senza armi, ma con grandi somme di denaro, che arrivano anche in Europa, e con le quali si controllano centri islamici e moschee. Lo fanno anche gli stati a maggioranza musulmani come l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iran. Ognuno gioca la sua parte.

È importante che i musulmani in Occidente lavorino per l’integrazione, e agiscano attraverso la partecipazione politica alle società in cui vivono e la cittadinanza attiva. L’emarginazione e la povertà culturale in cui versano molti immigrati provenienti da paesi a maggioranza musulmana, in particolare Nordafrica, fornisce materiale per le attività di radicalizzazione. Grandi responsabilità hanno i governi europei e le loro politiche sull’immigrazione. Probabilmente ci sono molti mercenari nei “foreign fighters” arruolati nel Daesh, e non mancano certo gli apporti dei vari servizi segreti, ma non si può ignorare che l’indottrinamento esiste, ed è rivolto alle fasce più vulnerabili tra cui gli emarginati, disagiati anche psichici e con dipendenze da sostanze, detenuti, persone che passano dall’essere lontanissimi dalla religione al fanatismo. Si fa leva sul bisogno di riscatto, e sul risentimento di questi giovani, che non è poca cosa. Inoltre, bisogna saper dare delle risposte teologiche e politiche alle esigenze dei musulmani in epoca moderna, che siano un’alternativa al salafismo o all’islamismo dei Fratelli Musulmani».

Dal suo libro emerge che molte voci islamiche autorevoli si sono sollevate contro il cosiddetto jihadismo, dal 2014, quando ormai la situazione era diventata drammatica. Secondo lei, come mai nei tre anni precedenti, in coincidenza con lo scoppio della guerra civile in Libia (2011) e in Siria (2012), c’è stato silenzio o addirittura appoggio ad alcune organizzazioni o gruppi?

«Noi abbiamo considerato le dichiarazioni emesse a partire dal giugno 2014, ovvero dalla proclamazione del cosiddetto califfato da parte di al-Baghdadi. Volevamo fare emergere l’aspetto teologico e la delegittimazione religiosa del califfato, poiché abbiamo concepito il volume come uno strumento, nel suo piccolo, contro il radicalismo, da fare circolare anche nelle moschee. Condivido che l’appoggio di alcuni sapienti salafiti alle organizzazioni o, in misura maggiore, il silenzio di fronte al loro operato, è grave. L’idea che la profonda ingiustizia politica e sociale presente nel mondo arabo e musulmano e le ferite della storia possano essere guarite con le armi o, peggio, con il terrorismo o l’odio verso l’Occidente è presente e va isolata e contrastata dagli stessi salafiti.

Un dibattito c’è tra gli studiosi e c’è una presa di coscienza di questo, abbiamo riportato anche nel libro alcune riflessioni di esponenti del neo salafismo che fanno autocritica. Segnalo però che un grande numero di fatwa, sentenze giuridiche islamiche, sono state emesse in tutto il mondo contro i gruppi che compiono attentati terroristici e uccidono civili, e in generale contro il terrorismo di matrice religiosa. Nel libro diamo anche indicazioni per accedere ad archivi online di questi documenti, almeno dal 2001, dall’attentato alle Torri Gemelle. Al-Qa‘ida è stata oggetto di molte prese di posizione forti».

Dalle fatwa emerge che alcuni professori e scienziati islamici condannano il Daesh ma non altri gruppi jihadisti qaedisti, come Jabhat al-Nusra. Perché?

«Nel libro abbiamo preso in considerazione le opinioni dei sapienti solo sul Daesh, ma ci sono state molte fatwa anche contro al Qa‘ida e affiliati, anche all’epoca di Bin Laden. In alcuni testi tradotti nel volume emerge che il Fronte al-Nusra è stato visto inizialmente come una importante forza anti Assad, mentre il Daesh è un’organizzazione che ha contrastato e indebolito l’opposizione ad Assad. La condanna delle azioni terroristiche, però, è un punto fermo, indipendentemente dai gruppi».

Alcuni studiosi occidentali, come Massimo Campanini e Bruno Étienne, vedono nel «fondamentalismo» islamico una sorta di «potere costituente», cioè rivoluzionario, contro l’oppressione sia interna sia esterna al mondo islamico. Cosa ne pensa?

«Il pensiero politico islamico, l’islamismo nelle sue varie forme, è una importante eredità del Novecento e non va demonizzato. Il mondo musulmano ha elaborato teorie politiche diverse per risolvere i problemi dovuti al colonialismo, al sionismo, agli autoritarismi nati dalla decolonizzazione, mai avvenuta in realtà. Io credo che il pensiero di Sayyid Qutb, o di Ali Shari‘ati, ma anche di Hassan al-Banna abbia avuto un ruolo fondamentale nell’acquisizione di consapevolezza della propria condizione rispetto a queste questioni. Anche pensatori più recenti come Ghannushi hanno elaborato teorie che possiamo inserire nel quadro del costituzionalismo islamico. Ma il terreno è pieno di insidie, come abbiamo visto dopo le cosiddette primavere arabe. Si può vedere però anche in positivo. L’islamismo militante degli ultimi decenni è anche un segnale della rinascita del mondo islamico e del rialzarsi delle società civili nonostante i governi, e può essere letto come l’affermazione di una potenza costituente dell’islam. Le correnti che si rifanno alla “teologia islamica della liberazione”, e anche il femminismo musulmano, che è emerso negli ultimi decenni del secolo scorso, sono degli esempi. Nell’elaborazione politica di un potere islamico entrano discorsi complessi, come la sovranità – di Dio e del popolo – i diritti umani e la tutela delle minoranze, la forma di governo dei musulmani, lo stato e le sue fonti di legge, la shari‘a.

La questione della forma di governo, così attuale dopo il fallimento delle primavere arabe e il fanta-califfato siriano, è divenuta centrale già nel 1924, dopo la caduta dell’ultimo califfato».

Islam e democrazia

Hukûmatu-l-lah, «il governo di Dio», e hakimiyya, «la sovranità di Dio», concetti chiave dell’islamismo politico, sono contrapposti alla visione occidentale della democrazia. Che risposte danno gli intellettuali musulmani?

«Il nodo attorno cui hanno discusso e discutono ancora i teorici musulmani è la liceità per i credenti di dotarsi di un governo che abbia le caratteristiche del costituzionalismo occidentale. In particolare, può una concezione democratica, che richiede la sovranità popolare, realizzarsi in paesi dove i popoli scelgono la sovranità di Dio e quindi lo stato è confessionale, oppure indica nella costituzione il riferimento all’islam come religione di stato e alla shari‘a come fonte primaria della legge? Al momento non vi è risposta a una domanda così complessa, e il mondo musulmano sembra lontano dal trovare una soluzione: il dibattito è aperto. Diversi intellettuali musulmani contemporanei hanno elaborato teorie sia di ispirazione islamista che liberale, cercando di affrontare la problematica che, soprattutto dopo le cosiddette primavere del 2011, si è concretizzata in difficili processi di transizione democratica e, ad eccezione della Tunisia, in tragici fallimenti. Gli studiosi riformisti musulmani oggi mettono costantemente in rapporto l’islam e la democrazia, perché i progetti politici dei partiti islamisti, che, seppur si siano inseriti con successo nella competizione elettorale, hanno dimostrato grandi difficoltà alla prova di governo, prevedono, sì, la confessionalità dello stato ma non ignorano che vi sia una richiesta dalle società di maggiore partecipazione politica, tutela delle libertà, e delle minoranze. La democrazia non è una, ma ha preso nella storia forme e percorsi differenti. Non vi è ragione di credere che ciò non possa accadere anche nel mondo musulmano, che potrebbe aprirsi a nuove esperienze politiche, a meno che non si sostenga la teoria dell’incompatibilità tra islam e democrazia. Una sfida per il mondo musulmano nel XXI secolo, in cui oggi si combattono – nel Vicino Oriente – la maggior parte delle guerre in atto, è proprio l’autodeterminazione nella forma di governo.

Si tratta di elaborare una teologia islamica che tenga presente la realtà attuale, le esigenze dei nostri tempi».

Per un femminismo islamico

Marisa, cosa fa la Onlus (lifeonlus.net) di cui è presidente?

«L’associazione Life Onlus è un’associazione culturale e di volontariato fondata nel 2000 a Ravenna da un gruppo di donne musulmane di varia nazionalità. Si occupa di tutela dei diritti, con particolare attenzione alle donne e ai bambini; mediazione interculturale, per la prevenzione dei conflitti e l’educazione alle differenze, contro razzismo e discriminazione, dialogo interreligioso, solidarietà, cultura.

Io mi occupo principalmente di diritti umani e di questioni di genere, e in particolare studio i femminismi musulmani. Ritengo che la questione dell’equità di genere sia fondamentale per l’islam del XXI secolo. Le donne possono dare un grande contributo attraverso le loro battaglie di liberazione, per svegliare la coscienza dei musulmani su molti temi e per vivere questi tempi in maniera autonoma affrancandosi dal colonialismo culturale, e non solo, da cui non si sono mai liberati davvero».

Angela Lano
(seconda puntata – continua)




La Costa d’Avorio in ostaggio /1


Reportage dalla Costa d’Avorio. Dall’arrivo ad Abidjan, capitale economica e culturale del paese, proprio nella settimana dell’ammutinamento dell’esercito e dello sciopero dei dipendenti pubblici, alla visita alle missioni di Marandallah e Dianra, nel Nord del paese dove operano i missionari della Consolata.

«Sei stata in Costa d’Avorio dieci anni fa? La troverai molto cambiata, allora. Abidjan ad esempio: ora ha strade nuove, un nuovo ponte con il pedaggio ed è molto, molto più pulita». Così mi dice durante il volo una trentenne ivoriana che vive da vent’anni in Germania, dove lavora in proprio come parrucchiera. Di Costa d’Avorio, in realtà, sa poco o nulla, ormai: torna una volta all’anno per vedere i fratelli e per godersi il buon cibo ivoriano: il foutou, una sorta di polenta fatta con la banana, la manioca o l’igname a seconda della zona e il pesce cotto al vapore dentro una foglia di banano.

Ammutinamento dei militari

All’uscita dell’aeroporto della capitale ivoriana, però, le notizie che raccogliamo non riguardano i passi avanti nell’urbanistica di Abidjan, ma l’ammutinamento dei militari del Nord del paese, in particolare a Bouaké. Non di tutti i militari, bensì degli anciens combattants, cioè i ribelli integrati nell’esercito che avevano sostenuto, nella fase di uscita dalla crisi, la corsa alla presidenza dell’attuale capo di Stato ivoriano, Alassane Dramane Ouattara, detto Ado. L’attuale insubordinazione in seno all’esercito altro non è che il batter cassa degli ex ribelli, ai quali la compagine politica di Ado aveva promesso premi in denaro e privilegi in cambio del loro sostegno. Nel novembre 2014 c’era stata un’avvisaglia, ma si trattò di una semplice protesta; quello di oggi, gennaio 2017, è un vero e proprio ammutinamento iniziato la settimana successiva all’Epifania dalle città del Nord ed esteso poi agli ex ribelli nell’esercito di stanza in tutto il paese.

La richiesta al governo era chiara: soldi, miglioramento delle condizioni delle caserme e case per le famiglie dei soldati. Ouattara era in Ghana alla cerimonia di insediamento del suo omologo dopo le elezioni nel vicino anglofono. È rientrato in tutta fretta per convocare un Consiglio dei ministri e reagire all’emergenza. Dopo momenti di grande tensione culminati nel sequestro del ministro della Difesa inviato a Bouaké a trattare, un accordo è stato raggiunto e i militari sono rientrati nelle caserme. Ma il 13 gennaio, giudicando insufficienti i gesti del governo in direzione del rispetto degli accordi, i soldati hanno ricominciato a protestare creando disordini, stavolta più violenti.

Proteste e disordini

«Padre Alexander Likono, uno dei nostri confratelli, era a Bouaké per delle commissioni», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio. «All’entrata in città ha trovato una cinquantina di militari: abbiamo preso Bouaké, dicevano, e prenderemo tutta la Costa d’Avorio. Poi gli hanno ordinato di scendere dalla macchina e di cederla a loro. Al suo rifiuto, lo hanno minacciato. Dopo una serie di negoziazioni e dopo avergli estorto denaro lo hanno lasciato andare, ma la paura è stata davvero tanta». I giornali hanno scritto che non ci sono stati incidenti seri, ma chi era a Bouaké parla di due morti e diversi casi di stupro.

«La situazione è grave», continua padre Ramón, «perché la popolazione, esasperata da una settimana di blocco delle attività economiche, si è ribellata ai militari, e questi hanno aperto il fuoco sulla folla. È un miracolo che non ci siano decine di morti».

Anche dopo i fatti del 13 gennaio governo e militari hanno siglato un accordo, ma il 17 gennaio c’è stata una terza ondata di disordini che ha causato quattro morti. A protestare non sono stati stavolta gli ex ribelli integrati nell’esercito, ma quelli entrati in forze alla gendarmerie e alla polizia, intenzionati a ottenere lo stesso trattamento dei «fratelli» militari. A peggiorare ulteriormente il clima è stato lo sciopero dei dipendenti pubblici a partire dal 9 gennaio, che ha portato, fra le altre cose, alla chiusura delle scuole per tre settimane.

La tensione sociale è alta: il governo avrebbe accettato, almeno sulla carta, l’esorbitante richiesta dei circa 8.500 militari ribelli, equivalente a circa 7.500 euro a testa (ma secondo altre fonti a questi si aggiungerebbero altri 10 mila euro da corrispondere in sette mesi), creando malumore in tutto il paese. I dipendenti pubblici, ad esempio, vivono la resa del governo come un’ingiustizia che aggrava l’inadeguatezza dei loro salari.

Il 7 febbraio le Forze speciali dell’esercito si sono ammutinate a Adiaké, città di confine con il Ghana. Reclamano pure loro premi economici come quelli accordati ai commilitoni.

Malumore popolare

Ma, ricorda ancora padre Ramón, il malcontento è diffuso soprattutto nella fascia più ampia della popolazione, quella che non può far valere le sue ragioni attraverso le armi né far sentire la propria voce con uno sciopero. Si tratta della gente comune, che un salario non lo ha mai visto e che vive di agricoltura e commercio. «Con quali soldi il governo pagherà i ribelli?», si chiede la gente. «Userà denaro pubblico sottraendolo agli investimenti in infrastrutture, sanità e scuola?».

La popolazione è disgustata dai militari che, riconvertendo i blocchi stradali del tempo di guerra in improvvisate frontiere interne, non hanno mai smesso di estorcere denaro a chi passa per trasportare cacao, anacardi, cotone o per andare a coltivare i campi. È stufa di non poter mandare i figli a scuola e di avere i servizi sanitari ridotti al minimo a causa dello sciopero. È, infine, spaventata dalla possibilità di ricadere in un conflitto – logorante, estenuante – come quello che solo dieci anni fa aveva trasformato il Paese modello dell’Africa Occidentale in una discarica di odio interetnico, di macerie di interi settori economici e di detriti di servizi pubblici e infrastrutture, sbriciolati dai tarli della corruzione. Alla data di chiusura di questo articolo la situazione sembra essersi stabilizzata, ma sono tanti a temere che il ritorno della tensione sia dietro l’angolo.

Marandallah, la missione del dialogo

Marandallah è una sottoprefettura nel Nord Ovest della Costa d’Avorio a poco meno di 500 chilometri da Abidjan. Siamo in piena zona koro, gruppo mandé presente in tutto il Nord ivoriano. Il 72 per cento della popolazione è musulmano, seguito da un 25 per cento che pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento. I cattolici sono 912 su un totale di 42mila abitanti.

«Date queste premesse», dice padre Alexander Likono, keniano missionario della Consolata che lavora a Marandallah (quello scampato al posto di blocco di Bouaké), «è facile capire come il dialogo interreligioso sia al centro del nostro lavoro qui. Al servizio del dialogo è anche il nostro impegno nel campo della sanità e dell’istruzione e formazione».

Le attività economiche principali della zona sono le coltivazioni dell’anacardo e del cotone. «I campi hanno un’estensione di un ettaro o due per famiglia», spiegano John Baptist Ominde Odunga, confratello e connazionale di padre Alexander. «A lavorare la terra sono, insieme agli adulti, anche i bambini, che spesso per questo smettono di frequentare la scuola primaria o addirittura non iniziano nemmeno il percorso scolastico.

La scuola secondaria conta circa 450 allievi, ma i professori – assegnati a settembre – hanno iniziato ad arrivare solo a gennaio. «È un luogo troppo isolato», continuano i due missionari, «qui gli insegnanti non ci vogliono venire. Per questo abbiamo proposto una soluzione temporanea ispirandoci a quel già avviene nel paese dal 2002 a causa della crisi: abbiamo coinvolto i giovani che hanno finito la secondaria chiedendo loro di darci una mano». A partire da novembre questi giovani sono impegnati come insegnanti volontari. Le famiglie degli studenti si auto tassano e riescono a dare ai volontari un piccolo rimborso di trentamila franchi al mese, pari a circa 45 euro, un quinto del salario di un insegnante statale. «Io stesso ho insegnato inglese», racconta Alexander. «Certo non può essere una soluzione definitiva, ma l’alternativa era lasciare 450 ragazzi senza scuola».

Il dialogo interreligioso e, più in generale, la reciproca conoscenza e cooperazione con la popolazione di Marandallah ha come luogo simbolo il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’amicizia), una sorta di parco poco fuori dal villaggio. Nel Jardin, ideato e curato da padre João Nascimento, missionario portoghese attivo a Marandallah fino a dicembre 2016, si svolgono, oltre alle celebrazioni cattoliche, momenti di aggregazione ai quali partecipano tutti gli abitanti del villaggio. Altro luogo di aggregazione è il centro per le attività sociali di fronte alla missione, che ha sale per la formazione, un piccolo ristorante, un campo da gioco. Vi è poi l’alfabetizzazione, che si svolge sia a Marandallah che nei villaggi intorno all’interno degli appatames, strutture aperte simili a paillotte (tettornie circolari aperte, con tetto di paglia).

Altra attività fondamentale dei missionari a Marandallah è il centro di salute Notre Dame de la Consolata. Il centro ha un dispensario, una maternità che segue fra le quaranta e le sessanta donne per mese, un laboratorio utilizzato anche per la diagnosi e il monitoraggio dei casi di Hiv. Dalla fine dello scorso anno, poi, la maternità dispone anche dell’ecografia. Il centro è una struttura di riferimento per la diagnosi e cura dell’Hiv/Aids in collaborazione con Sev-Ci, Ong ivoriana specializzata in questo campo. «La difficoltà maggiore», spiega ancora padre Likono, «è far capire alle persone quanto sia importante venire tempestivamente al centro di salute quando hanno un problema. Spesso tentano di curarsi con i metodi tradizionali e si trascinano per mesi malattie guaribili in pochi giorni. Lo stesso vale per quelle donne incinte che non vengono a farsi visitare durante la gravidanza e che, in caso di parti problematici, arrivano qui in condizioni terribili, a volte troppo tardi». Portare i pazienti all’ospedale più vicino, se il caso è troppo complicato per essere risolto al centro, significa far loro affrontare ore di viaggio in ambulanza su piste difficili, specialmente con le piogge, per un costo fra i 60 e i 90 euro.

Dianra. Salute, alfabetizzazione e microcredito

Ottanta chilometri di pista più a Nord – l’asfalto finisce una quarantina di minuti prima di arrivare a Marandallah ed è praticamente assente in tutto il Nord – si trova Dianra. Un bambino di una decina d’anni attraversa il cortile della missione nel buio della sera, ha in mano una busta di plastica con dentro penna, matita, quaderno e lavagnetta. Raggiunge gli altri circa 160 bambini e adulti che si intravedono nei quadrati luminosi di porte e finestre delle aule della missione, le teste chine sui banchi o protese verso la lavagna.

«Questi sono i corsi di alfabetizzazione, sono cominciati quindici anni fa», spiega padre Raphael Njoroge Ndirangu, un altro missionario keniano che lavora a Dianra. «Non sono decollati subito, ma poi piano piano le persone hanno cominciato a vederne l’utilità nel loro quotidiano». Hanno capito, ad esempio, che saper leggere e scrivere permette loro di gestire direttamente la vendita del cotone o degli anacardi che producono invece di mettersi nelle mani di intermediari che barano sul peso e si accordano con i compratori per spartirsi il maltolto. Oppure hanno visto tre loro colleghi degli anni passati superare l’esame di stato che riconosce il livello scolastico raggiunto e trovare così lavori che altrimenti non avrebbero potuto avere. «Certo, non è facile per loro rimanere concentrati dopo una giornata nei campi, ma sono motivati e in questo gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale». Altra attività che riesce a influire sul quotidiano delle persone è il microcredito, cornordinato da padre Manolo Grau, missionario spagnolo con all’attivo parecchi anni di Congo, poi approdato in Costa d’Avorio. «A oggi abbiamo 165 donne che partecipano al programma di microcredito, che è un’iniziativa stabile e, anzi, in crescita». A gestire le donne, suddivise in gruppi di cinque, sono sei responsabili, una delle quali è musulmana, a riprova che anche la missione di Dianra, come Marandallah, ha nel dialogo con le altre religioni uno dei suoi punti fermi. «Finora i vari gruppi di donne hanno semplicemente completato i cicli triennali di microcredito con percentuali di rimborso che non sono scese mai sotto il 98 per cento. Ora, dato il consolidamento dell’iniziativa, padre Manolo e le sei responsabili cominciano a pensare a un salto di qualità. «Potrebbe essere una cornoperativa, un orto comunitario, un’attività generatrice di reddito che riunisca alcune di queste donne in un progetto comune. Ma un’iniziativa del genere può funzionare solo se viene da loro. Il nostro lavoro è quello di accompagnarle nella riflessione e nell’eventuale formalizzazione di una proposta».

Un salto di qualità, invece, lo ha fatto nel 2016 il Centro di Salute Giuseppe Allamano a Dianra Village, località a 22 chilometri da Dianra. Padre Matteo Pettinari, missionario italiano e responsabile del centro, ha radunato tutto il personale nell’atrio del dispensario e Victor, infermiere recentemente entrato in forze al centro, guida la visita alla maternità, al laboratorio, allo studio dentistico terminati nel febbraio 2016. Questi completano il dispensario e la farmacia, che esistevano già; il centro così ampliato riceve crescenti richieste da parte di nuovi pazienti. I parti sono arrivati a circa 28 al mese.

«Grazie al sostegno di Amico, di Mco e di una parrocchia di Pesaro», spiega padre Matteo, «abbiamo inoltre costruito le cases de santé nei villaggi intorno a Dianra Village. Si tratta di piccole strutture presso le quali facciamo sanità di base e portiamo avanti il programma sulla lotta alla malnutrizione». «In quattro degli undici villaggi che serviamo», afferma Suzanne, ausiliaria responsabile con Victor del programma malnutrizione e membro dell’équipe mobile del Centro, «seguiamo 152 bambini malnutriti, ma prevediamo di ampliare progressivamente il programma anche agli altri piccoli che abbiamo individuato nei restanti villaggi».

Chiara Giovetti – [continua]




Islam religione radicale?



Introduzione / Gli obiettivi della serie

Il nostro viaggio nel mondo islamico
(con molte domande in cerca di risposte)

A sei anni dalla cosiddetta «primavera araba», trasformatasi in un inverno di caos, guerre e instabilità dal Nordafrica al Medioriente, con gruppi e milizie di al-Qa‘ida e del Daesh (l’Isis)1 che occupano regioni intere, con attacchi terroristici in Europa e in vari paesi islamici e il coinvolgimento delle potenze mondiali nello scenario siriano, una parte del pianeta sembra sull’orlo di un conflitto globale dagli esiti imprevedibili.

Dalla un tempo prospera Libia devastata dalla rivolta – pilotata da agenzie di intelligence inteazionali (Usa, Gran Bretagna, Francia e Qatar), insieme a combattenti islamisti giunti da Europa e mondo islamico -, e dalla guerra Nato, e ora ridotta a un cumulo di macerie e violenza, le bande armate scorrazzano per l’Africa subsahariana, alimentando tensioni e caos e giustificando la presenza in quelle zone di truppe dell’Africom2. Nell’area di Sirte, il Daesh ha creato la propria roccaforte e invita tutti i musulmani a fare la hijra, emigrazione, nello «Stato islamico» di Libia. Anche la Tunisia post primavera araba è entrata nella nebulosa di attentati terroristici e del reclutamento di combattenti islamici; in Algeria, al-Qa‘ida (Aqi) e il Daesh si contendono territori e militanti; l’Egitto, paese chiave tra Africa e Asia islamiche, è preda di gravi problemi economici e instabilità politica (mentre chiudiamo questo numero un attentato dell’Isis ha fatto almeno 25 morti in una chiesa cristiano-copta de Il Cairo, 11 dicembre 2016, ndr).

In questo scenario drammatico, i già complicati rapporti tra «occidente» e «mondo arabo e islamico», sembrano ingarbugliarsi ulteriormente, con accuse reciproche di ingerenze, violenze e destabilizzazioni. I fedeli musulmani, come quelli cristiani, ripetono che la loro religione è pace e tolleranza, e che l’islam affonda le proprie radici nel concetto di sottomissione a Dio. Ma è vero? Oppure esistono dottrine, all’interno del mondo islamico, che predicano la guerra permanente contro tutti coloro che non le seguono (musulmani compresi)? E da dove derivano la propria «autorità» e dottrina formazioni terroristiche come al-Qa‘ida e il Daesh? Queste dottrine hanno trovato spazio tra le comunità musulmane europee e in che modo? Questi network del terrore sono utili alle agende occidentali e mediorientali?

In questo e nei prossimi articoli discuteremo di tutti i temi accennati sopra con studiosi, ricercatori e rappresentanti del mondo musulmano, per tentare di trovare spiegazioni ed eventuali strade di pacifica convivenza in un mondo dilaniato dai conflitti.

Angela Lano

Note dell’Introduzione:

(1) Daesh (D?’ish): acronimo di «al-Dawla al-Isl?miyya f? al-‘Ir?qi wa sh-Sh?m» (in cui «al» è l’articolo), Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Islamic State of Iraq and Syria, ovvero Isis nell’acronimo inglese), chiamato anche Stato islamico, Is.

(2) Africom: US Africa Command. Il contingente di soldati e contractor statunitensi in Africa (www.africom.mil).


L’articolo

Comprendere (tra paure e diffidenze)

Con il salafismo si è affermata un’interpretazione letterale, dogmatica, atemporale e astorica dei principi religiosi islamici. Con il Daesh – lo Stato islamico – si è giunti al limite estremo, arrivando a costruire un «islam fai da te» con cui i «jihadisti» giustificano il proprio comportamento. Compresi ovviamente gli atti di terrorismo che, con il sangue e i morti, hanno fatto dilagare paure e diffidenze. Il salafismo si è diffuso in gran parte del mondo islamico sulla spinta dei capitali dell’Arabia Saudita e del Kuwait. Solo il Marocco è riuscito – per il momento – a fermare l’infezione.

Cominciamo il nostro viaggio nell’islam contemporaneo dal Marocco. Negli ultimi anni, il paese nordafricano ha conosciuto attentati – Casablanca nel 2003, e Marrakech nel 2011 -, e il reclutamento di terroristi. Recentemente circa 400 suoi cittadini si sono uniti al Daesh per combattere in Siria.

Molti di questi appartengono a classi medie, benestanti ma scarsamente istruite. Avevano iniziato a frequentare moschee e centri islamici di orientamento salafita, che hanno modificato la loro visione della vita, della religione e i loro comportamenti sia in famiglia sia in società.

In Marocco, come in altre regioni del Nordafrica e dell’Africa subsahariana, il salafismo wahhabita1, sponsorizzato da Ong saudite e kuwaitiane, si sta diffondendo, grazie a ingenti capitali, strutture e predicatori indottrinati in Arabia Saudita.

Il regno del Marocco, che segue il sufismo2 della confrateita tijaniyya3, contrasta questo fenomeno con centri islamici e istituzioni controllate dal governo e indirizzate verso l’islam ortodosso lontano dagli estremismi salafiti. Polizia e intelligence fanno il resto, non perdendo di vista gli esaltati.

La resistenza del Marocco

Medina di Fez, agosto del 2016. Incontriamo Mohammad Boukili, docente e studioso marocchino, laureato in filosofia islamica.

Prof. Boukili, lei ha conosciuto personalmente alcune delle persone che si sono unite al Daesh?

«Sì, alcune erano conoscenti di lunga data. Quattrocento jihadisti è un numero importante, ma non è così grande come in altri paesi.

Si tratta di individui con scarsa istruzione, hanno seguito le predicazioni dei seguaci del Daesh, che a loro volta vengono indottrinati da persone più competenti e sostenute economicamente.

In molti casi non si tratta di poveri: quelli che conoscevo avevano ereditato beni, case; erano sposati. Erano poveri a livello culturale, questo sì. Ricordo uno in particolare (chiamiamolo Ahmad), perché la sua visione ideologica emergeva anche nelle discussioni in famiglia. Odiava il sufismo e, qui in Marocco, la maggior parte della popolazione segue questa dottrina, anche se da qualche anno in parlamento siede come partito di maggioranza “Giustizia e Sviluppo”4, ideologicamente vicino alla Fratellanza musulmana, quindi a un islam più politico.

Il mio conoscente che si è unito al Daesh aveva iniziato a imporre alla sua famiglia, a sua madre, atteggiamenti e scelte che non facevano parte della tradizione familiare e locale. Alla vecchia mamma ha strappato via il rosario islamico con cui ella pregava e l’ha costretta a non frequentare più la zawiya5, in quanto luogo di kufr, miscredenza. Per i salafiti, il sufismo è, appunto, una forma di miscredenza e va perseguitato.

Prima della “conversione” radicale, Ahmad era molto occidentalizzato, beveva vino… Dopo essersi sposato, aveva deciso di farsi crescere la barba, aveva cambiato modo di discutere. Aveva iniziato a citare Ibn Taymiyya6. Quando parlava con me recitava frasi per le quali sarebbe stato necessario riflettere accuratamente. Ognuna aveva un certo peso, invece lui le lasciava uscire così, con leggerezza. La situazione è andata peggiorando, finché è partito per la Siria.

È rimasto coinvolto in questo giro di fanatismo anche un nipote di Ahmad, figlio del fratello: riceveva foto dello zio, dalla Siria, sul suo cellulare, e i servizi di intelligence, che evidentemente controllavano tutta la famiglia e i parenti, lo hanno arrestato in quanto simpatizzante; probabilmente l’hanno preso prima che si unisse al gruppo. Durante il processo ha detto al giudice che non voleva andare in Siria ma che “loro hanno ragione”. Sua moglie indossava il neqab, il velo nero integrale che copre anche il volto, anche quando andava a trovarlo in carcere. Dal punto di vista ideologico era uno di loro. È stato condannato a due anni di carcere, come è previsto dalla legge».

In Marocco i salafiti sono tenuti d’occhio, dunque.

«Sì. Dopo gli attentati del 2003 sono molto controllati. La polizia fa retate periodiche. Qui a Fez i salafiti hanno aperto una scuola coranica dove offrono scolarizzazione, ma anche propaganda. Per fortuna, con i giovani marocchini il loro proselitismo non ha successo: i ragazzi vanno su internet, sono informati, amano certe cose e non è facile manipolarli con idee che li farebbero tornare indietro di mille anni.

Gli stessi figli di questi salafiti o dei jihadisti non condividono le visioni dei padri, come è avvenuto per i ragazzi di Ahmad: non lo seguivano nei suoi discorsi. Dicevano che il padre aveva la testa troppo chiusa. Un altro elemento importante è che il nostro Re ha sempre lottato contro questa dottrina».

Interpretazioni atemporali e astoriche: l’islam-fai-da-te

Lei considera il salafismo wahhabita una dottrina deviata?

«Il salafismo ha introdotto molte novità, bid‘a, proibite nell’islam. Un tempo esisteva la dialettica, animata dalla filosofia. Poi, a un certo punto della storia del mondo islamico, questa è stata ritenuta pericolosa. La ragione, la logica, sono morte, e ha prevalso il letteralismo dogmatico e pieno di regole, legato a un’interpretazione fissa, atemporale e astorica dei principi religiosi.

Pensiamo solo a quando governavano i turchi, cioè l’Impero Ottomano, cosa facevano gli ‘ulema, gli scienziati musulmani? Facevano dimenticare alla gente la sofferenza, la riempivano di regole… Tutta questa esteriorità ha lo scopo di far allontanare i credenti dalla vera spiritualità».

Il Daesh, in quanto emanazione della dottrina salafita wahhabita, è dunque un’ideologia deviata del sunnismo?

«Certo, l’islam non è questo. Nel Daesh danno un’interpretazione restrittiva e letteralista, basata su certi hadith. Di hadith ce ne sono così tanti che ognuno potrebbe scegliere ciò che più giustifica il proprio comportamento. Così fanno loro: scelgono un hadith e si autorizzano da soli. È l’islam-fai-da-te».

In Europa ci sono giovani che seguono il Daesh, che si fanno indottrinare da predicatori e poi si uniscono allo “Stato islamico”. Come lo spiega?

«Ho vissuto dieci anni in Italia, dove insegnavo nelle università. Mio padre viveva tra Francia e Italia, e faceva l’imam. In Francia lo chiamavano per fare scuola coranica ai giovani nei centri islamici. I suoi allievi erano figli di arabi, ragazzini emarginati e spesso violenti delle periferie. Seguivano – perché vi erano costretti dalle famiglie – le sue lezioni, dove venivano insegnati i principi etico-morali dell’islam, ma usciti di lì continuavano a comportarsi male.

È da quelle sacche di emarginazione sociale giovanile, con integrazione mancata, che arriva il terrorismo islamico in Europa. Questi giovani, a un certo punto incontrano predicatori salafiti che li indottrinano, dando all’Occidente tutte le colpe della loro situazione. Dunque, su una base di odio sociale si inserisce la dottrina del takfir7, e il resto è fatto».

I (finti) misteri del Daesh

Fez, medina al-Jadid (città nuova), sede del «Consiglio superiore degli ulamâ», gli scienziati musulmani, un’organizzazione nazionale che fa capo al Re e al ministero dell’Educazione del Marocco.

È un’ampia costruzione con giardino interno da cui si diramano varie sale. Il centro forma imam e murshidun e murshidat (guide religiose), uomini e donne. Qui incontriamo uno dei responsabili, che preferisce non rivelarci il proprio nome.

Il Daesh sta creando problemi in Africa e Medio Oriente, e in Occidente. Come lo considerate?

«Il Daesh non fa parte dell’islam. Hanno capito l’islam molto male. Il terrorismo non fa parte di questa religione. Né l’Occidente né il mondo islamico hanno capito cos’è veramente l’islam. Bisogna tornare al Corano, alla sunnah. L’islam è tolleranza, non estremismo».

Allora il Daesh su cosa basa la propria legittimità?

«Sulla propria cattiva comprensione dell’islam. Prendiamo il termine jihad8 nella sua accezione di sforzo militare: ci sono norme che lo regolano. Non è possibile che un gruppo decida per conto proprio. Daesh ha trasformato l’obbligo collettivo (fard al-kifaya) in individuale (fard el-‘ayn) soggetto, cioè, alla decisione del singolo e non più dell’intera comunità, e questo non è corretto».

Allora, qui ci si chiede, il Daesh chi è? Chi l’ha creato?

«Chiunque riceva soldi e armi può creare un’organizzazione come questa.

Sono dei delinquenti che interpretano i testi a modo loro. L’islam non accetta l’assassinio.

Chi ha creato il Daesh sono gli stati o le persone che beneficiano dei proventi del petrolio e chi soffre a causa di questa organizzazione sono soprattutto i musulmani stessi. Infatti, la maggior parte delle persone uccise dal Daesh sono musulmane. Tutti noi siamo responsabili e dobbiamo difendere i nostri valori.

Chi dà le armi al Daesh? L’Europa e gli Usa; l’Arabia Saudita è un’intermediaria. L’Iraq, per esempio, dove il Daesh ha una parte dei suoi domini, è un laboratorio per sperimentare tali armi.

Poi arriviamo al paradosso di un al-Baghdadi che si dichiara “Am?r al-Mu’min?n”, principe dei credenti. Ma non è possibile! Non ha alcuna autorità e potere per dichiararsi tale».

Gli imam vanno formati

Il Marocco cosa fa per contrastare il proselitismo del Daesh?

«Il punto di forza del Marocco è che forma imam. Lo stato ha deciso di formare imam e guide religiose – murshidun – sia uomini sia donne: devono essere laureati e sottoporsi a un anno di formazione specialistica. Il loro ruolo è quello di dare lezioni nelle moschee e anche di controllarle. Controllare, cioè, che non vengano diffusi insegnamenti errati che incoraggiano lo sviluppo del radicalismo. Inoltre, danno consigli scientifici e religiosi. In ogni prefettura c’è un centro come il nostro, che si occupa della formazione di queste guide. Sono 80 in tutto, i centri formativi in Marocco.

In ciascuna sede ci sono sale di conferenza che ospitano 600 persone. Siamo una realtà statale e dipendiamo direttamente dal Re in quanto Am?r al-Mu’min?n. Lui è il presidente del Consiglio scientifico religioso e ha rapporti diretti con il ministero dell’Educazione per indicare le vie corrette nelle scuole e nei libri didattici».

Angela Lano

NOTE

(1) Il salafismo è una scuola di pensiero (un metodo) dell’Islam sunnita che si rifà ai «salaf al-?ali??n» («i pii antenati», «precedessori»), ovvero le prime tre generazioni di musulmani (VII-VIII secolo), che vengono considerate modelli da seguire. Dal salafismo ha avuto origine il neosalafismo: un’ideologia rivolta sia alle masse arabe diseredate sia alle classi medie (e alte, in certi casi), trasformandosi in movimento «anti-intellettuale» e reazionario, divenendo espressione di forme di fondamentalismo, fino alle estreme conseguenze del salafismo jihadista attuale. Wahhabismo: movimento fondato nel 1700 da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, teologo arabo della scuola giuridica hanbalita. Attualmente è la dottrina di stato in Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Kuwayt e in altri paesi.

(2) Sul sufismo MC ha pubblicato una serie di articoli usciti ad agosto 2015, novembre 2015 e gennaio-febbraio 2016, tutti reperibili sul sito della rivista.

(3) Tijannyya. Si tratta di un ordine sufi sunnita, originario del Nordafrica, diffusosi poi nell’Africa occidentale. È presente in Marocco – la Casa reale e la maggior parte della popolazione -, in Senegal, in Mauritania, Niger, Chad, nord Nigeria, parte del Sudan, e altri stati.

(4) «Hizb ‘adâla wa tanmia». È stato riconfermato partito di governo nelle elezioni marocchine del 2016.

(5) Zâwiya (oppure ribat in arabo e tekke in turco): è il luogo dove vivono o si riuniscono i musulmani che appartengono alle confrateite sufi. Sono anche locali che assolvono compiti di istruzione, accoglienza o sanitari.

(6) Ibn Taymmyya. Teologo e giurista musulmano, vissuto a Damasco tra il XIII e il XIV secolo e appartenente alla scuola hanbalita, la più severa delle madhhab sunnite. È il teologo-icona del radicalismo islamico, dai movimenti salafiti più moderati fino al Daesh.

(7) Takf?r: dichiarare un musulmano miscredente. Il takfirismo è un «movimento» fondamentalista di musulmani che fanno dell’accusa di miscredenza rivolta ad altri correligionari una delle basi portanti della loro ideologia. È emerso soprattutto con la guerra civile in Siria e la diffusione di organizzazioni come il Daesh e al-Nusra, che hanno diviso drammaticamente il mondo islamico, costringendolo a un conflitto e spaccando precedenti alleanze e cornoperazioni.

(8) Jihâd: sforzo. Nella maggior parte dei casi in Occidente è tradotto come «guerra santa», ma è una generalizzazione. La radice «jhd» ha il significato di sforzo, compromesso, lotta interiore, applicazione con zelo. La forma verbale «jâhada» significa «lottare contro qualcuno», ma «al-jihâd fî sabîl Allâh» è «lo sforzo/lotta sul cammino di Dio», uno «sforzo sacro». L’Islam distingue due tipi di jihâd: il «grande jihâd», che è contro le proprie passioni, contro l’anima che si perde (nafs ammâra bi-s-sû’: l’ego che indirizza verso il male o ordina il male), è lo sforzo nel cammino del bene, sociale o personale; è la perseveranza nella fede e nelle avversità della vita;  il jihâd minore, o «piccolo jihâd» (jih?d al-as?aru): sforzo militare difensivo, che deve essere fatto con le armi per la difesa della comunità, la ummah e il Dâr al-Islâm, il territorio dell’Islam, quando è minacciato dai nemici. Ciò non ha nulla a che vedere con la guerra indiscriminata, con i genocidi di popolazioni, le torture, i cadaveri fatti a pezzi, gli organi interni mangiati, gli stupri. Il jihad come sforzo militare è un concetto che si presta a interpretazioni e utilizzi differenti, a seconda delle scuole giuridiche e delle correnti.


L’approfondimento

Le «murshidat», predicatrici islamiche
(che non sono imam)

Da oltre dieci anni, il governo del Marocco forma le murshidat, predicatrici, donne laureate, per insegnare e tenere conferenze nelle moschee e nei centri islamici del Regno e all’estero. Tra queste ci sono teologhe islamiche con dottorati in università prestigiose. «Il nostro compito è insegnare i principi islamici – ci spiegano – come la compassione, la tolleranza, la pace, e tenere lontani dal fondamentalismo».

Periodicamente, alcune di loro sono inviate nei paesi europei dove vivono molte donne musulmane immigrate, per aiutarle nei vari ambiti della religione e della vita quotidiana.

Le murshidad lavorano anche per diffondere l’istruzione, l’educazione e aiutare le donne ad allevare i propri figli. Esse rappresentano un aspetto della svolta al «femminile», iniziata nel 2004 con la riforma del codice di famiglia marocchino, la moudawana, che ha portato all’introduzione di più diritti e tutele nei confronti delle donne.

Tali figure rappresentano un insieme di «religiose» e «assistenti sociali», e dipendono dal ministero marocchino degli Affari islamici. Hanno un livello culturale e accademico elevato. Si occupano di islam, ma anche di problemi sociali e psicologici.

Prima di iniziare a svolgere il loro compito, si preparano per un anno in centri ad hoc (si veda l’articolo) e, una volta diplomate, sono inviate nelle varie regioni del Marocco a predicare un islam moderato e rispettoso dei diritti civili e femminili.

Il curriculum delle predicatrici annovera un’ampia cultura generale – storia, religione, geografia, sociologia, psicologia, management, legge, codice di famiglia, lingua araba – e la conoscenza di almeno metà del Corano, studiato a memoria.

Le murshidat sostengono le varie attività nelle moschee e affiancano gli imam. Ma l’obiettivo privilegiato, sottolineano, è il sostegno alle donne, alle giovani generazioni, alle famiglie. Sono tutte concordi sul fatto che il Corano e il profeta Muhammad abbiano garantito rispetto e diritti alle donne, ma che i musulmani, nel corso dei secoli, se ne siano dimenticati e che il testo sacro islamico sia stato spesso «frainteso».

Una delle loro missioni fondamentali è quella di educare a una fede non politica o ideologica, lontano dagli eccessi radicali. Infatti, dopo gli attentati terroristici a Casablanca, nel 2003, il governo marocchino pensò che fosse importante e necessario promuovere una visione della religione tollerante e non aggressiva per combattere le tendenze estremiste.

È bene chiarire, tuttavia, che le murshidat non sono delle «imam al femminile», in quanto a loro non è permesso guidare la preghiera in moschea.

Angela Lano

Seconda puntata: Isis, il terrore come spettacolo