Mongolia. Un ospite imbarazzante

 

Vladimir Putin, presidente russo e criminale di guerra, è arrivato a Ulaanbaatar, capitale della Mongolia, il 3 settembre, formalmente per una commemorazione storica. Accolto nella grande piazza Sükhbaatar da un picchetto di guardie in eleganti uniformi rosse e blu (a somiglianza di quelle indossate ai tempi di Genghis Khan, il fondatore dell’impero mongolo), il leader russo è apparso impettito e tirato a lucido come la propaganda richiede.

Si è trattato del suo primo viaggio in un paese aderente alla Corte penale internazionale. In quanto tale, la Mongolia avrebbe dovuto procedere all’arresto dell’ospite, considerato che, da marzo 2023, sul capo di Putin pende un mandato di cattura per crimini di guerra emesso dalla Corte. Circostanza che, come ampiamente prevedibile (e, a onor del vero, comprensibile), non si è verificata.

Comunista per quasi settant’anni, dal 1990 la Mongolia è uno stato democratico con regolari elezioni (le ultime si sono tenute a fine giugno) e un’economia di mercato. Tuttavia, dal punto di vista economico, Ulaanbaatar dipende per larga parte dai due regimi autoritari che lo schiacciano come un sandwich: a Nord la Russia, a Sud ed Est la Cina.

Mappa della Mongolia, paese asiatico senza sbocco al mare e schiacciato tra due regimi autoritari, a Nord la Russia, a Sud e ad Est la Cina.

Stando all’agenzia mongola Montsame, Putin ha incontrato nell’ordine il presidente Khurelsukh Ukhnaa, il primo ministro Oyun-Erdene Luvsannamsrai e Amarbayasgalan Dashzegve, responsabile del Parlamento (il cosiddetto Grande Khural). Gli incontri – si legge – sono serviti per rafforzare i rapporti di cooperazione economica tra i due stati. Occorre ricordare che Mosca fornisce al Paese (ricco di risorse minerarie, ma privo di uno sbocco al mare) la maggior parte del suo carburante e una notevole quantità di elettricità. Esiste, inoltre, un altro elemento che favorisce le relazioni tra i due stati: dal 1940, la Mongolia ha adottato l’alfabeto cirillico russo.

Due sono le indicazioni generali che la visita di Putin nel Paese asiatico ha posto in evidenzia: la prima è la conferma della volontà russa di insistere senza soluzione di continuità sulla polarizzazione della politica mondiale, la seconda è l’intrinseca debolezza di un’istituzione quale la Corte penale internazionale la cui efficacia è, al momento, praticamente pari a zero.

Paolo Moiola




Mondo. La geometria variabile dei diritti umani

La Dichiarazione universale dei diritti umani risale al 1948. La realtà è però diversa dalla teoria. Oggi più che mai.

«Siete dalla parte giusta della storia», si sono sentiti dire gli universitari americani per la loro difesa della causa palestinese. Parole pronunciate dall’ayatollah Khamenei, guida suprema della teocrazia iraniana che lo scorso 30 maggio – tramite X – si è rivolto direttamente a loro. Il complimento si è immediatamente trasformato in un palese imbarazzo visto che proveniva da un grande violatore dei diritti umani, leader di un Paese dove non esiste libertà.

Il fatto ha riproposto all’attenzione pubblica internazionale molti interrogativi. Uno di essi può trovare una sintesi nella seguente domanda: al di là delle dichiarazioni teoriche (la principale è quella del 1948), nella realtà esiste una definizione universale dei diritti umani?

In un momento storico come l’attuale, caratterizzato da divisioni e guerre, la risposta è «no, non esiste». Ogni stato – sia esso una democrazia o una dittatura – è convinto di rispettare i diritti umani, convinzione che spesso assume aspetti grotteschi. Prendiamo, ad esempio, la Cina di Xi.

Il complimento dell’ayatollah Kamenei, guida suprema della teocrazia iraniana, agli studenti statunitensi.

Lo scorso marzo un dipartimento del Comitato centrale del Partito comunista cinese ha organizzato – anche se pare impossibile – il terzo Forum internazionale sulla democrazia, come ha raccontato anche il «China Daily», il principale quotidiano in lingua inglese di Pechino. La democrazia – è stato detto durante il Forum – può assumere forme diverse a causa delle diverse situazioni dei paesi. Per parte sua, la Cina è un campione di democrazia. Infatti, afferma l’articolo, «pratica la “democrazia popolare integrale”, che consiste nel rendere la democrazia presente in tutti gli aspetti» (economia, politica, cultura, società, ecologia).

Difficile capire come la democrazia declinata alla cinese spieghi la mancanza di libertà in Tibet o nello Xinjiang o la repressione in atto a Hong Kong o tutto il potere concentrato nelle mani del Partito comunista e del suo leader Xi Jin Ping. Meglio allora – avrà pensato il presidente cinese – giocare d’attacco. A maggio è, quindi, uscito «The Report on Human Rights Violations in the United States in 2023», un rapporto sulle violazioni dei diritti umani negli Usa stilato dallo State council information office (Scio), l’ufficio informazioni del consiglio di stato cinese.

«La situazione dei diritti umani negli Stati Uniti – si legge nell’incipit – ha continuato a peggiorare nel 2023. Negli Stati Uniti, i diritti umani stanno diventando sempre più polarizzati. Mentre una minoranza al potere detiene il dominio politico, economico e sociale, la maggioranza della gente comune è sempre più emarginata e i suoi diritti e le sue libertà fondamentali vengono ignorati. Uno sconcertante 76% degli americani ritiene che la propria nazione vada nella direzione sbagliata».

John Lee, ex poliziotto, è il «chief executive» che Pechino ha messo alla guida di Hong Kong. (Foto GovHK)

Negli Usa i problemi certamente non mancano, ma che i diritti umani vengano ignorati è pura propaganda di Pechino per distrarre l’opinione pubblica dai problemi cinesi. A fine maggio, a Hong Kong, 14 esponenti del locale movimento per la democrazia sono stati condannati in base alla legge sulla sicurezza nazionale (nota come «Articolo 23 della Legge fondamentale»), imposta da Pechino e firmata lo scorso 23 marzo dal governatore John Lee (un ex poliziotto, vincitore di un’«elezione» in cui era il solo candidato). Probabilmente la triste esperienza di Hong Kong fa sì che anche gli abitanti di Taiwan guardino con terrore a una eventuale riunificazione con la Cina.

A ulteriore riprova della distanza esistente tra la seconda potenza mondiale e il modello democratico, c’è la Conferenza internazionale per la pace in Ucraina, prevista a Bürgenstock (Canton Nidvaldo, Svizzera) per il 15 e 16 giugno. Nonostante sia stata invitata, la Cina non vi parteciperà, prendendo a pretesto l’assenza della Russia ma confermando – una volta di più – di stare dalla parte dell’aggressore e, in generale, dei sistemi anti democratici. Da ultimo, lo scorso 4 giugno è stato il 35.mo anniversario della repressione di piazza Tiananmen (4 giugno 1989), che a Pechino è passato sotto il silenzio più assordante. E chi se ne importa dei diritti umani.

Paolo Moiola