Kenya: Chiamata a ricostruire insieme la nazione


Lettera dei Vescovi del  Kenya a tutta la popolazione
12 novembre 2020

“Quanto è bello e delizioso vivere insieme come fratelli e sorelle” (Ps. 133:1)

Preambolo

Noi della Conferenza episcopale del Kenya, riuniti per l’Assemblea plenaria del novembre 2020 presso il Villaggio di Subukia del Santuario di Maria, abbiamo avuto il tempo di riflettere e discutere dello stato della nostra nazione.

In primo luogo, riconosciamo le molte grazie e la protezione che Dio ci ha dato dopo l’annuncio della mortale pandemia di Covid-19. Notiamo con grande preoccupazione l’aumento del numero di persone infettate dal coronavirus, e le molte vite che stiamo perdendo ogni giorno. Inviamo le nostre condoglianze alle famiglie che hanno perso i loro cari per questa pandemia e vi assicuriamo le nostre continue preghiere. Per coloro che sono malati, vi assicuriamo le nostre preghiere per la guarigione.

Siamo molto preoccupati per gli oneri finanziari che ci troviamo di fronte a tutti noi, specialmente per i poveri che non possono permettersi le spese mediche per i malati, e le spese funebri per coloro che sono morti. Ci appelliamo alla generosità dei nostri cari kenioti per raggiungere i bisognosi e contribuire ad alleviare il peso finanziario e psicologico che stanno portando. Dovremmo essere guidati dalla nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo.

Ci appelliamo anche agli ospedali, in particolare a quelli privati, a non sovraccaricare coloro che vengono per cure mediche.

Incoraggiamo il governo a considerare modi più creativi per contenere la diffusione del virus oltre ai protocolli universali raccomandati, tra cui l’uso di maschere, la distanza sociale, il lavaggio delle mani e la sanificazione. Ognuno ha la responsabilità personale di garantire un ambiente sicuro per le persone con cui viviamo, lavoriamo e interagiamo nella nostra vita quotidiana.

Vogliamo ricordare ai leader religiosi e ai fedeli dei protocolli sviluppati dal Consiglio inter religioso (Interfaith Council) che dobbiamo continuare ad essere più vigili e conformi per garantire la sicurezza dei nostri fedeli.

Osservazioni sulla relazione BBI

Cari kenioti, il 26 ottobre 2020 ci è stato presentato il rapporto BBI (Buinding Bridges Initiative), che è stato il prodotto di un lungo processo di stretta di mano.

Come Conferenza episcopale del Kenya, abbiamo accolto con favore la BBI come un’opportunità per tutti i kenioti di impegnarsi in modo costruttivo nel discutere di quelle questioni che riguardano il nostro paese e hanno causato conflitti e divisioni perenni.

La nostra speranza era che la relazione BBI affrontava le quattro principali preoccupazioni che abbiamo sollevato nella plenaria del 20 novembre a Nakuru, vale a dire:

  1. Riconciliazione e guarigione nazionale;
  2. Ripristino dei valori, governance democratica e istituzioni di governo, c) Recupero e ricostruzione dell’economia e dei servizi.
  3. La mancanza di riforme strutturate e redentrici, come è stato sottolineato nei 4 punti dell’Agenda del Dialogo nazionale e processo di riconciliazione del Kenya guidato da Kofi Annan nel 2008.

Come Vescovi, abbiamo seguito con grande processo dal suo inizio fino a questo momento. Come risultato di questo processo, e leggendo la relazione che è stata lanciata al Bomas del Kenya il 26 ottobre 2020, vogliamo fare le nostre osservazioni.

l. Esecutivo ampliato

Guardando alla proposta sull’esecutivo è molto chiaro che il documento BBI dà il potere al presidente di nominare un primo ministro e due vice primo ministro. L’esecutivo ampliato avrebbe dovuto riflettere il volto del Kenya e domare la struttura “winner-takes -it -all” (il vincitore prende tutto). Ma dare al Presidente il potere di nominare il Primo Ministro e i due vice rischia di consolidare più potere intorno al presidente creando così un Presidenza imperiale. Questo emendamento potrebbe creare lo stesso problema che si è proposto di risolvere.

È molto importante attenersi al principio della separazione dei poteri, perché è la spina dorsale della democrazia.

2. Un Parlamento gonfio

L’espansione del Senato a 94 membri e dell’Assemblea nazionale a 363 sarà un enorme onere per i contribuenti di questo paese che già sono oberati da un enorme peso per pagare il salario al numero attuale di legislatori. Non vi è alcun motivo per cui dovremmo avere un numero così elevato di legislatori. Non vogliamo più governo, ma un governo migliore.

3. IEBC politicizzato

La proposta di far nominare membri di partiti politici alla IEBC (Independent Electoral and Boundaries Commission) è pericolosa, poiché politicizzerà l’IEBC compromettendo così la sua indipendenza. Questa proposta trasformerà l’IEBC in un abito politico con interessi di parte. Sorgerà il problema di quanto saranno eque le elezioni.

4. Formazione del Consiglio di Polizia del Kenya

La proposta di formazione di un Consiglio di polizia del Kenya guidato dal Segretario di Gabinetto degli Interni con altri quattro membri, per sostituire l’IPOA (Independent Policing Oversight Authority) è una mossa che probabilmente renderà il Kenya uno stato di polizia e comprometterà l’indipendenza della polizia dall’esecutivo.

Lettura e discernimento della relazione BBI

Noi, vostri Pastori, vogliamo incoraggiare la lettura e la discussione della relazione. È necessario che i keniani abbiano la possibilità di interagire con esso, discuterne in altri ambiti e dare le loro opinioni. La relazione offre ai keniani l’opportunità di riflettere su come possano costruire una solida nazione democratica, giusta, pacifica e inclusiva di tutti. Dà loro la possibilità di vedere come possono far funzionare le istituzioni ed essere al servizio di ogni cittadino, indipendentemente dalla tribù, dall’appartenenza politica o dallo status sociale. È un’occasione per riflettere apertamente e candidamente sulle misure concrete per combattere l’impunità, la corruzione e la politica dell’esclusione.

Dovremmo quindi prestare attenzione quando si discute e si sottolinea come il documento potrebbe essere migliorato,  evitando il rischio di assumere posizioni dure e fare richieste settarie, e porre ultimatum che distruggono il significato e lo spirito stesso della BBI.

Per sua stessa natura la relazione è il prodotto della stretta di mano nata dal dialogo e dalla consultazione. È quindi della massima importanza che questo processo si muova sulla strada del dialogo e della costruzione del consenso, piuttosto che su prese di posizione.

Da parte sua, il governo e tutti gli attori politici non devono dimenticare che lo scopo principale e l’intenzione del processo BBI era quello di mettere insieme tutti i keniani. Si tratta di unità (costruire ponti , buinding bridges initiative BBI, ndr). Tutti devono quindi abbracciare uno spirito di patriottismo, ascoltare le raccomandazioni formulate e adeguare la relazione affinché rifletta il consenso popolare.

Ascoltando ciò che molti cittadini del Kenya stanno dicendo in tutto il paese, è urgente dare loro l’opportunità di rivedere la relazione per quanto riguarda alcune delle questioni sollevate in tutto il paese, vale a dire, l’esecutivo ampliato, l’aumento della rappresentanza dell’assemblea nazionale, la ricostituzione di IEBC, la creazione del Consiglio di polizia del Kenya, la sostituzione dell’IPOA, la rappresentanza delle donne, l’indipendenza della magistratura, persone con disabilità, ecc.

Il nostro intento circa la relazione BBI è quello di incoraggiare tutti i kenioti a leggerla e comprenderne il contenuto in vista della costruzione del consenso. A questo punto, vogliamo ricordare con forza a tutti gli attori, compresi noi stessi come vescovi, che questo processo ha gravi implicazioni per il futuro di questo paese. Le raccomandazioni costituzionali, amministrative e politiche contenute nel documento dovrebbero essere viste alla luce del discernimento. Esortiamo tutti coloro che sono coinvolti in questo processo ad aiutare i kenioti a comprendere in modo semplice il contenuto della relazione, evidenziando chiaramente proposte specifiche e le loro implicazioni. I nostri esperti di diritto sono incoraggiati tradurre la relazione in termini semplici per permettere a tutti di capire.

Il governo dovrebbe facilitare un solido processo di educazione civica per aiutare tutti i kenioti ad apprezzare la relazione al fine di prendere decisioni informate al riguardo.

Cari kenioti, soprattutto i nostri leader politici, non si tratta di competizione politica, non si tratta di pro o contro, SI o NO, non si tratta del 2022. Dovrebbe trattarsi del KENYA, di quale strada vogliamo prendere come kenioti, non solo per noi stessi, ma per i posteri. Si tratta di consenso.

È nostra raccomandazione, in quanto Vescovi cattolici in Kenya, che qualsiasi emendamento per migliorare la relazione sia ancora ascoltato e incluso, ove necessario. Ciò significa che la relazione è ancora un progetto in corso, non ancora inciso nella pietra; e quindi, ogni voce dovrebbe essere ospitata.

Dibattito sul Referendum

Noi Vescovi cattolici, dopo aver esaminato la relazione BBI,  vediamo che affronta le questioni a tre livelli, vale a dire proposte legislative e politiche, amministrative e istituzionali, e  proposte costituzionali. Inoltre, ci sono quelle proposte costituzionali che richiedono un referendum e altre che non lo richiedono.

Mentre c’è una richiesta di referendum, che ha generato opinioni pro e contro, noi vogliamo porci le seguenti domande:

  • Sulla scia degli effetti persistenti della pandemia di Covid-19 che ha colpito le famiglie in tutto il paese, è questo il momento di sottomettere i kenioti ad un’accresciuta attività politica per intraprendere riforme costituzionali fondamentali?
  • Colpito dalla pandemia Covid-19, con l’economia colpita, il paese ha i fondi necessari per effettuare un referendum prima del 2022, 18 mesi prima delle elezioni generalli, un processo che richiede altro denaro? Può il paese permettersi di spendere le sue risorse molto limitate in un referendum quando c’è una lotta nei settori dell’istruzione e della sanità per fornire un sostegno urgentemente necessario a causa degli effetti della pandemia di Covid-19?

Di conseguenza, riteniamo che le proposte legislative o che richiedono modifiche politiche o istituzionali e amministrative debbano essere trattate attraverso gli appropriati organi e  istituzioni di governo già esistenti. Le proposte che richiedono modifiche costituzionali da approvare con un referendum dovrebbero essere separate e gestite come un unico gruppo da approvare dai kenioti con un voto. Questo per evitare il rifiuto di buone idee che sono già state generate nella relazione BBI. Questo è il motivo per cui continuiamo a sottolineare l’importanza di costruire consenso piuttosto che lo schieramento.

Ethos nazionale: formazione della Coscienza

Siamo soddisfatti dell’enfasi posta sull’etica nazionale. Due sono i principali problemi come paese che abbiamo più e più volte evidenziato, questi sono:

  • Agire senza ascoltare la nostra coscienza, e
  • La corruzione rampante che ha permeato ogni settore della società.

La relazione BBI sottolinea questioni che toccano il nostro ruolo di leader religiosi.

Siamo preoccupati che come nazione stiamo perdendo la nostra coscienza collettiva. In Kenya negli ultimi venticinque anni e soprattutto dopo la nuova Costituzione del 2010, l’enfasi è stato sui diritti del popolo. Purtroppo, questo ha talvolta oscurato la coscienza della nazione, oscurando ciò che è giusto in coscienza, a vantaggio del solo diritto di agire. Mentre questa libertà umana intrinseca deve essere difesa, deve essere compresa nel contesto di ciò che è vero e ciò che è giusto. Queste richieste di diritti hanno talvolta offuscato le corrispondenti responsabilità personali e comuni. Lo sfruttamento dei bambini, la tratta di esseri umani, la violazione delle donne e degli uomini, la soluzione delle controversie con al violenza anche tra le coppie in cui il dialogo è sempre più in diminuzione, i litigi tra i leader, dimostrano tutti che un diritto ingannevole ha rimpiazzato la responsabilità di prendere decicioni morali e spirituali, e ha messo a tacere la coscienza.

Per questo, nella nostra lettera pastorale pubblicata lo scorso anno, abbiamo sottolineato la centralità della coscienza individuale per il rinnovamento e la riconciliazione della nostra Nazione.

Tuttavia, quando la coscienza è deformata o disinformata, e quando malizia o vizi guidano la persona, si finisce per scegliere il male rispetto al bene. Quando non ascoltiamo la nostra coscienza, ci immergiamo facilmente nel peccato e nella condotta malvagia, senza preoccuparci delle conseguenze delle nostre azioni sulla nostra vita e del nostro rapporto con Dio. La coscienza può essere deformata da cattive abitudini e vizi. In particolare tutte le azioni di avidità in tutte le sue forme e in gli altri vizi  capitali, il fatalismo e le tendenze suicide indicano tutte una coscienza deformata, fuorviata o disinformata. Il conflitto, la corruzione e l’avidità che vediamo in tutto il paese, nelle famiglie, nelle scuole, nelle comunità e negli affari pubblici nascono dall’ignorare e dal rifiutare la guida della coscienza nel prendere decisioni.

La nostra cultura come africani, kenioti

La relazione BBI mette in risalto il valore della coscienza nel capitolo sull’ethos nazionale. È difficile realizzare le nostre aspirazioni nazionali se non sono ancorate a un’etica fondata. Non siamo un popolo senza cultura, una cultura che ha valori e sistemi per garantirne il successo. Siamo africani, e kenioti in particolare, che vogliono continuare a migliorare la propria vita attraverso sistemi di governo migliori. Ma, questo processo, non dovrebbe in alcun modo allontanarci dalla nostra ricca cultura dell’essere umani, di essere religiosi ed essere persone che apprezzano gli altri, compresi i rifugiati provenienti da vicino e da lontano. La nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo non deve essere inghiottita da una cultura materialistica. L’accumulo di ricchezza deve essere all’interno della nostra cultura di possedere solo ciò per cui hai veramente lavorato. I nostri bisnonni, le bisnonne erano conosciute per la loro generosità soprattutto agli sconosciuti. Ognuno in una famiglia aveva la sua giusta parte.

Riconosciamo quindi le proposte di questa sezione secondo cui gli anziani, i leader religiosi e le istituzioni di apprendimento hanno un ruolo fondamentale nel formare la coscienza, non solo dei bambini, ma anche degli adulti. Nessuna delle proposte avanzate nella relazione o nella Costituzione sarà realizzata se continueremo ad agire in modo da ignorare la nostra coscienza individuale e collettiva. Una coscienza formata si fonda sull’ethos in modo che siamo in grado di ascoltare Dio e noi stessi in ogni momento della nostra vita, sia giovani e che vecchi. Non dobbiamo quindi ingannare noi stessi credendo che bastino i documenti legali da soli a proteggerci dalla caduta in peccato. La migliore legge e la legge di Dio sono iscritte nella nostra coscienza. Come persone che credono Dio abbiamo l’obbligo di fare ciò che è giusto in ogni momento.

Siamo determianti aa intensificare i nostri sforzi per formare una società che abbia coscienza in linea con la relazione BBI. Accogliamo con favore e incoraggiamo la promozione dell’ethos sia nelle nostre istituzioni di apprendimento di base che in quello terziario. Ci impegniamo a sostenere tutte le parti interessate nella formazione dell’ethos nazionale, per il bene di tutti i kenioti.

Conclusione

Cari kenioti, come vostri Pastori, ci appelliamo a ciascuno e a ciascuno di voi a cercare il bene più grande della nostra nazione, a cercare l’unità e a lavorare per la vera riconciliazione. Chiediamo a tutti noi leader, e in particolare ai leader politici, di vedere un quadro più ampio di una nazione unita, resiliente e riconciliata, dove tutti noi siamo custodi dei nostri fratelli e sorelle. Questo è il momento di evitare la politica divisiva, di cercare le vie del dialogo e di condividere i nostri valori.

Rivolgendoci a voi, cari kenioti e a tutte le persone di buona volontà, da questo santuario mariano dove ci riuniamo ogni anno per pregare per la nostra nazione, invocando l’intercessione materna della Madre di Dio, chiediamo unità, amore e riconciliazione e la guarigione da tutti i mali e soprattutto dalla pandemia Covid-19.

Possa la Pace di Cristo rimanere con voi tutti. Dio vi benedica tutti! Dio benedica il Kenya!

Mons Philip Anyolo
presidente della  Conferenza episcopale del Kenya
Arcivescovo Kisumu e Amministratore Apostolico di Homa Bay

Data: giovedì 12 Novembre 2020

(seguono le firme di tutti gli altri vescovi)
[nostra traduzione dall’originale inglese]




Uganda: I nipotini alla riscossa


In Uganda i missionari della Consolata hanno una presenza piccola, ma vivace, che data 34 anni. Il paese è in una posizione strategica, tra i colossi dell’Africa dell’Est e quelli dell’Africa centrale. Oggi soffre a causa di un presidente padrone che ha difficoltà a farsi da parte. Per questo i giovani ugandesi sono in fermento e chiedono leader che «parlino la loro lingua».

Padre Leo Bagenda è un raro missionario della Consolata di nazionalità ugandese. Entrato nell’Istituto nel 1983 frequentando la filosofia a Nairobi (Kenya), è stato ordinato nel 1992. La sua prima missione è stata in Tanzania, paese nel quale ha operato diversi anni. Nel 2003 è tornato in Uganda, dove lavora tuttora. Negli ultimi anni, fino a giugno 2019, è stato parte del consiglio regionale dei missionari della Consolata di Kenya e Uganda come consigliere responsabile per il suo paese.

Padre Leo è vispo e parla un ottimo italiano. Ci racconta la realtà dell’Istituto in Uganda, vivace ma poco conosciuta.

Attualmente lavora nella parrocchia di Bweyogerere, «la prima dei missionari della Consolata in Uganda», tiene a precisare, «fondata nel 1985 da padre Luigi Barbanti (+1999)». Padre Leo offre il suo appoggio alle altre due missioni nel paese, quella di Kapeka, da lui fondata nel 2003, e di Bulugui, la nuovissima missione inaugurata il 30 settembre dello scorso anno. Segno anche questo di vitalità della compagine ugandese. Completa la presenza dell’Istituto nel paese il centro di animazione vocazionale di Kiwanga, non lontano da Kampala, la capitale.

I missionari della Consolata di nazionalità ugandese sono una quindicina e, in questo momento, lavorano in Kenya, Sud Africa, Colombia, Brasile e Stati Uniti, oltre ad alcuni in servizio nel loro paese.

«Uganda mon amour»

Padre Leo ci parla del suo paese e accenna alla guerra civile che lo ha attraversato a partire dagli anni ‘80 e poi fino a metà 2000: «Nel Nord dell’Uganda la guerra è finita, ma ha rovinato la vita sociale. Le popolazioni locali sono nomadi, e molti abitanti sono andati via, lontano, a causa del conflitto. Le famiglie sono state smembrate. Inoltre l’educazione è sempre complessa per questa tipologia di persone, ovvero è difficile per i bambini nomadi andare a scuola. È anche un discorso di mentalità da cambiare. Inoltre la guerra ha rovinato le infrastrutture esistenti».

Nel Nord dell’Uganda imperversava il sanguinario Joseph Kony leader del Lord resistence army, gruppo armato che ha agito nel paese dal 1986 a metà 2000, quando è stato cacciato e si è spostato in altri paesi (vedi MC giugno 2012). «Kony ha ammazzato tanta gente, ha diviso famiglie, arruolato a forza bambini. Per rifare la vita ci vuole tempo. Inoltre la gente ha dei dubbi, vuole capire se la guerra è davvero finita. Psicologicamente il trauma è enorme».

Padre Leo ci spiega che il Nord, al contrario del Sud, è una zona ancora molto missionaria. «Nelle diocesi del Sud c’è molto clero locale, siamo tranquilli con il personale. Al contrario nel Nord, dove, come detto, il livello di scolarità è molto basso, il clero è raro ed è necessario avere sacerdoti stranieri o di altre zone del paese. Anche i vescovi arrivano spesso dall’estero».

Il padre ci racconta della situazione attuale del paese, e in particolare di politica. Qui, Yoweri Museveni, presidente della repubblica dal 1986, non accenna a voler lasciare la poltrona, e si ricandiderà alle elezioni del 2021. Su di lui circolano diverse storie. La più incredibile riguarda la sua età: «Di fatto non si sa con certezza la data di nascita del presidente. Qualche anno fa, ha fatto cambiare la Costituzione che prevedeva il limite massimo dei 75 anni per la candidabilità. Oggi però non sappiamo quanti anni abbia. Ci sono alcuni personaggi, che hanno studiato con lui, quindi suoi coetanei, che hanno oltre 80 anni. Ma lui dichiara di averne almeno sette di meno».

Quanto è difficile lasciare

«Museveni ha lavorato bene come presidente, ma ora non vuole mettersi da parte», è il parere di padre Leo. «È diventato quasi un dittatore, non vuole che altri si presentino come candidati alla presidenza della Repubblica e cerca di screditarli. Inoltre ha nominato diversi famigliari in posti chiave, facendo diventare la gestione della cosa pubblica quasi una cosa di famiglia». È un ex militare, un uomo forte, che si impone. Tuttavia il rischio per il paese è quello tipico dei presidenti che stanno a lungo al potere: «Quando cadono, non c’è nessuno abbastanza forte che li sostituisce, e si scatena una guerra per la successione».

Il missionario lamenta anche una mancanza di diritti di base nel suo paese e fa il confronto con il Kenya, che conosce bene: «Il Kenya ha fatto qualche passo in avanti. Oggi non si può bistrattare l’opposizione e incarcerarne i membri senza ragione. In Uganda è ancora possibile. In Kenya c’è una maggiore libertà di parlare in pubblico, di fare convegni e manifestazioni anche contro il partito al potere. Nel mio paese non è assicurato. Le forze dell’ordine possono intervenire rapidamente, e lo fanno, con lacrimogeni, disperdendo le manifestazioni e arrestando le persone».

Uganda’s President Yoweri Museveni addresses the nation at State House in Entebbe, Uganda, on September 9, 2018. (Photo by Sumy SADURNI / AFP)

I giovani e la politica

«Museveni dice di essere voluto da tutti ma, in realtà, io vedo un desiderio di cambiamento nella gente, e soprattutto nei giovani, che sono la maggioranza della popolazione».

Chi ha oggi 40 anni, non ha visto che lui come capo di stato, che è al potere da 33. Negli ultimi tempi si è creato un movimento intorno al cantante Robert Kyagulanyi Ssentamu, in arte Bobi Wine, 37 anni, che ha iniziato a produrre canzoni politiche. Aumentata la sua popolarità, tre anni fa si è candidato in parlamento ed è stato eletto. Ora punta alla presidenza, con il suo movimento «People Power, our power», che si definisce «un gruppo di resistenza e di pressione, che vuole farla finita con gli abusi dei diritti umani e la corruzione in Uganda». Un movimento giovane, il cui leader, come spesso sta accadendo sul continente, è un cantante che ha veicolato il messaggio politico attraverso la musica. «Bobi parla del presidente Museveni come se fosse suo nonno. Un famoso testo – ricorda padre Leo – recita: “Nonno, è tempo che tu lasci il posto ai tuoi nipotini. Dovevi lasciarlo ai tuoi figli, ma adesso sei in ritardo. Stai tranquillo che tutto sarà sotto controllo”».

Padre Leo continua: «Bobi Wine parla chiaro. Dice che il popolo ugandese è giovane e vuole dei leader che parlino la sua lingua, che lavorino per lo sviluppo del paese. E per questo fa campagne e ha molta gente che lo sostiene. Il presidente Museveni lo teme e lo ha già fatto incarcerare più volte, con svariate scuse. Spesso le sue manifestazioni sono bloccate con il pretesto che non hanno il permesso. Salvo il fatto che quando il permesso viene richiesto è concesso in ritardo. Inoltre quando deve fare un concerto, le autorità cercano d’impedirlo, perché molte canzoni sono a sfondo politico e assembrano masse di giovani. Ad esempio, per la festa dei martiri ugandesi, quando è arrivato Bobi, c’era più di un milione di persone. È diventato pericoloso per il presidente».

Conclude padre Leo speranzoso: «Questo fenomeno ci fa dire che la voglia di cambiamento da parte del popolo giovane c’è, e speriamo che riesca a smuovere qualcosa».

Robert Kyagulanyi / Sumy SADURNI / AFP

Ugandesi social?

I giovani sono aiutati nella mobilitazione, anche politica, dalle nuove tecnologie. In particolare dai social network come Facebook  (Fb) e i programmi di messaggistica come Whatsapp. «Infatti – spiega padre Bagenda -, quando ci sono crisi politiche, lo stato blocca i mezzi di comunicazione, a partire dai social, poi i telefoni. È il fenomeno noto come media blackout. I leader autoritari dicono a se stessi: “Fb e Whatsapp non ci portano da nessuna parte. I casi sono due: o li blocchiamo o li controlliamo”. Ma questo non si può fare, almeno non completamente. Inoltre su Fb la gente dice tutto quello che pensa, e usa anche un cattivo linguaggio. Ma adesso non è possibile tornare indietro, i giovani ovunque hanno il cellulare. In tante scuole, ad esempio, li fanno depositare all’ingresso, perché è un disturbo per le lezioni». Questo vale per le città. Nelle campagne la rete internet è più debole, ci spiega il missionario, e così anche la possibilità di collegarsi.

I cellulari sono anche molto utilizzati per il trasferimento di soldi (money transfer), e per il pagamento diretto di prodotti e servizi, abitudine che invece è ben diffusa nel vicino Kenya.

Il sogno americano

I giovani che vogliono lasciare l’Uganda per cercare una vita migliore altrove sono ancora molti. «Aumentano tutti gli anni – ci conferma il missionario – e oggi si emigra sotto forme diverse. Esiste ad esempio una migrazione organizzata verso i paesi della penisola arabica. Agenzie specializzate selezionano i ragazzi a Kampala e se li trovano idonei per alcuni lavori, di solito di basso livello, come guardiani, ecc., li reclutano e poi organizzano la documentazione necessaria e il viaggio stesso. Il pacchetto completo insomma.

Così all’aeroporto di Entebbe (Kampala) capita di vedere gruppi di ragazzi ugandesi, molto giovani, tutti con la stessa maglietta, che, come fossero in una vacanza studio, si imbarcano per un paese del Golfo. In realtà vanno a lavorare». Padre Leo non lo dice, ma uno dei rischi di chi va in quei paesi, soprattutto per le ragazze, è quello di finire sfruttati o schiavizzati.

Gli altri paesi di attrazione per gli ugandesi sono la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, anche a causa dell’affinità linguistica. In questi ultimi, ci racconta padre Leo, si è diffusa la pratica del matrimonio di comodo: «Ho saputo di donne ugandesi che riescono a recarsi negli Usa con un visto turistico. Qui fanno un accordo con uomini cittadini statunitensi per sposarsi civilmente. In questo modo la donna ottiene il permesso di soggiorno. Nell’accordo la donna si impegna a restituire un debito, di solito 5-10mila dollari, al marito di comodo. La donna lavora e rimborsa a rate. Saldato il debito, e possono passare anni, i due richiedono il divorzio».

Padre Leo ci racconta che molti giovani, anche di classe media, finita l’università, anche se trovano lavoro in Uganda, poi fanno di tutto per migrare negli Usa. Alcuni utilizzano la scusa degli incontri internazionali del Rotary International: «Si iscrivono, passano alcuni anni come soci, poi prendono l’occasione di una convention in Canada o negli Usa. Come Rotary ottengono facilmente i visti. Ma una volta lì, si dileguano, diventando clandestini».

Negli Stati Uniti o in Canada non è detto che si riesca a inserirsi per le competenze che si hanno. Padre Leo ci racconta di un suo parente medico che, da diversi anni, lavorava in Uganda guadagnando poco. Ha voluto seguire l’esempio di un collega che era andato negli Usa. Là il collega, non potendo fare il medico in quanto la sua laurea non è riconosciuta, si era messo a lavorare come assistente in una casa di riposo, con un buon guadagno. Il parente del missionario è partito a sua volta. Ora si è integrato, ha un lavoro, una famiglia, una casa. Ovviamente non fa il medico.

«I giovani continuano a lasciare i nostri paesi perché hanno informazioni su altri e cercano una vita migliore. I ragazzi che muoiono in Libia o nel Mediterraneo sono disperati. Quando sono nel proprio paese sentono dire che la vita è migliore in Europa e decidono di correre il rischio. Secondo me, l’unico modo di evitare questo esodo, è appoggiare i paesi di origine, ma certo non è facile. Voglio dire che un ugandese non è attratto dalla prospettiva di andare a vivere in Kenya, perché il livello di vita è simile, ma in Europa sì. Il problema poi resta l’integrazione».

Marco Bello


Cronologia essenziale

Nel regno incontrastato di Museveni

  • 1962, 9 ottobre – Proclamazione dell’indipendenza. Un anno più tardi l’Uganda diventa Repubblica.
  • 1966, 22 febbraio – Colpo di stato del primo ministro Milton Obote con l’aiuto del generale Idi Amin.
  • 1971, 25 gennaio – Colpo di stato del generale Idi Amin Dada, Obote si rifugia in Tanzania.
  • 1972, settembre – Iniziano le violenze etniche contro Acholi e Lango. Obote cerca di riprendere il potere ma fallisce. Nel ‘74 iniziano campagne di persecuzioni contro etnie rivali di Amin e partigiani di Obote.
  • 1976, 25 giugno – Idi Amin, che si è proclamato maresciallo, si nomina presidente a vita.
  • 1978, ottobre – Inizio della guerra contro la Tanzania. Nell’aprile del 1979 l’esercito tanzaniano conquista Kampala, Idi Amin fugge in esilio. Si susseguono due presidenti (Yusuf Lule e Godfrey Binasa) insediati dal Fronte di liberazione nazionale dell’Uganda (Unlf) e una Commissione militare.
  • 1980, 10 dicembre – Milton Obote vince le elezioni presidenziali.
  • 1981, giugno – Yoweri Museveni fonda l’Esercito di resistenza nazionale (Nra), braccio armato del Movimento di resistenza nazionale. L’Nra si oppone all’esercito governativo.
  • 1986, 25 gennaio – L’Nra conquista la capitale e quattro giorni dopo Yoweri si proclama presidente.
  • 1987, gennaio – Iniziano combattimenti nel Nord del paese a causa dei ribelli dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra) comandato da Joseph Kony.
  • 1993, 5-10 febbraio – Visita di Giovanni Paolo II.
  • 1996, 9 maggio – Yoweri Museveni vince le elezioni presidenziali. Sarà rieletto nel 2001, 2006, 2011 e 2016 (quello attuale è il quinto mandato di 5 anni).
  • 2005, 12 luglio – Il parlamento sopprime la limitazione ai mandati presidenziali.
  • 2005, 6 ottobre – Mandato d’arresto della Corte penale internazionale contro 5 capi dell’Lra, tra i quali Joseph Kony.
  • 2006, 29 giugno – Firma di un accordo di responsabilità e riconciliazione tra governo e Lra. Il 31 luglio Kony incontra i rappresentanti del governo.
  • 2006, 26 agosto – Firma a Juba (Sud Sudan) di un accordo di cessate il fuoco tra Lra e governo.
  • 2010, 11 luglio – Doppio attentato a Kampala rivendicato dagli islamisti di Al Shabaab (76 morti).
  • 2011, 22 novembre – L’Unione africana dichiara l’Lra «gruppo terrorista».
  • 2013, 20 dicembre – Adozione di una legge molto dura nei confronti degli omosessuali.
  • 2015, 3 gennaio – Cattura in Repubblica centrafricana di Dominic Ognwen, uno dei capi dell’Lra.

Ma.Bel.

 


Uganda in cifre

  • Superficie: 241.038 km2 (poco meno dell’Italia)
  • Popolazione: 42,8 milioni (2017)  |  Crescita demografica: 3,3%
  • Speranza di vita: 60 anni  |  Mortalità infantile (0-5 anni): 49‰ (2017)
  • Alfabetizzazione adulti: 73,8%
  • Lingue: ufficiali inglese e swahili, parlate tutte le lingue dei gruppi etnici, tra cui ancholi, kiganda, konjo, lusoga
  • Religioni: cattolici (44,6%), anglicani (39,2%), musulmani (10,5%), altri
  • Pil e crescita del Pil: 26 miliardi di dollari; 3,9% (2017)
  • Pil pro capite: 620 dollari / anno
  • Indice di sviluppo umano: 162° paese su 189 (2017)

Fonti: Banca mondiale, Pnud, Atlante De Agostini

 




Gambia: Piccolo paese, grandi speranze


Testi di ANDREA DE GEORGIO, foto di LUCA PISTONE |


È passato un anno da quando il dittatore Yahya Jammeh è stato costretto a lasciare il paese, il Gambia. Una democrazia quanto mai voluta dal popolo che, per una volta, ha vinto. Ma le sfide di oggi sono tante, tra disoccupazione e ricerca di un futuro, vissute anche dai migranti «politici» che stanno rientrando a casa. Reportage da uno dei paesi più sconosciuti d’Africa.

Banjul, Gambia. Questa è la storia della più giovane democrazia africana. È il 21 gennaio 2017. Le immagini dell’ex presidente Yahya Jammeh che, a testa bassa, sale su un aereo per lasciare il paese fanno il giro del mondo e il Gambia, piccolo stato dell’Africa occidentale rimasto finora anonimo, riempie i titoli dei media internazionali. Il giorno in cui il dittatore viene costretto a lasciare il potere dopo 22 anni di sanguinario regime totalitario è rimasto impresso nella memoria collettiva del Gambia, paese che oggi, a un anno da tale storico evento, cerca a fatica di rinsaldare il patto sociale fra politici e cittadini e rilanciare un’economia disastrata da troppi anni di corruzione e nepotismo.

Il più piccolo stato dell’Africa continentale (vedi box), geograficamente circondato dal Senegal – con cui, dal 1982 al 1989, ha formato il Senegambia – è stato creato da un accordo tra Francia e Inghilterra nel 1889 prima di diventare, cinque anni più tardi, un protettorato inglese a tutti gli effetti. Ottenuta l’indipendenza nel 1965 dalla madrepatria coloniale, il Gambia ha successivamente vissuto decenni di relativa libertà, incarnando per lungo tempo un raro esempio di stabilità nella regione. Nel 1994, però, Yahya Jammeh sale al potere con un colpo di stato militare e sul paese cala una grigia coltre di repressione e terrore. Nel 2013, poi, il satrapo esce dal Commonwealth e due anni più tardi dichiara la nascita della Repubblica islamica per «affrancarsi dal giogo neocoloniale».

Tempi duri per la stampa

Banjul, capitale del Gambia, è oggi una città divisa in due. Da una parte il centro amministrativo del paese, con parlamento, ministeri, tribunali, prigioni e caserme. Dall’altra, collegata da un ponte e una strada, costellata di posti di blocco, che corre lungo l’Oceano, abitazioni, hotel, ristoranti, mercati e negozi. Mentre il cuore politico della capitale si riempie e si svuota di uomini in giacca e cravatta al ritmo degli orari d’ufficio, i quartieri residenziali sono costantemente brulicanti di vita, musica, luci, bambini e traffico.

«Uno dei lasciti tangibili dello stato di polizia è la separazione fra classe politica e persone comuni». Va dritto al sodo Buabacar Ceesay. Questo giornalista sulla quarantina è la miglior guida della città: cappellino da pescatore con visiera alzata, sorriso conciliante e telecamerina sempre in mano. «Più di venti fra i migliori giornalisti gambiani, quelli con maggiore esperienza e spirito critico, sono stati costretti all’esilio in Senegal, Olanda, Germania… io e altri invece, nonostante le minacce e le incarcerazioni subite, abbiamo deciso di restare per cercare di colmare il vuoto di libertà di stampa nel paese». In passato eletto vicepresidente dell’Ordine dei giornalisti gambiani, oggi Ceesay è freelance per scelta. Ha molte collaborazioni nazionali e internazionali. Negli ultimi anni ha scritto anche per Foroyaa, «l’occhio pubblico», giornale più volte chiuso da Yahya Jammeh insieme a molti altri media indipendenti. «Durante il vecchio regime, peggio della censura era l’autocensura che i giornalisti esercitavano su se stessi per evitare problemi», racconta Buabacar mostrando fiero la sua piccola scrivania e il computer nella redazione del quotidiano «sovversivo». «Prima usavamo media stranieri, blog, siti web e social network per aggirare i controlli degli uomini di Jammeh». A quei tempi gli informatori del potere erano dappertutto e bastava una critica per essere arrestati o sparire per sempre.

Social media per la rivolta

Le nuove tecnologie e i social media giocano un ruolo cruciale durante le manifestazioni di aprile 2016 quando il malcontento generale straripa in vista delle elezioni presidenziali. Per la prima volta, infatti, immagini di arresti e torture dei manifestanti vengono mostrate al paese e al mondo intero, creando un inarrestabile effetto domino che porterà, mesi dopo, alla caduta del sovrano. L’uccisione di Solo Sandeng, attivista brutalmente trucidato dagli uomini della National Intelligence Agency (Nia, la polizia segreta) rappresenta il punto di non ritorno. Repressi i moti popolari nel sangue e riempite le carceri, Yahya Jammeh si presenta alle elezioni del dicembre 2016 per il quinto mandato consecutivo, come sempre sicuro di vincere. Le urne invece indicano il 43.33% delle preferenze per il Partito democratico unito (Udp, sigla in inglese), coalizione delle forze socialdemocratiche d’opposizione guidato da Adama Barrow, e solo il 39.6% per l’Alleanza Patriottica per il Riorientamento e la Costruzione (Aprc), partito di Jammeh, per anni unica formazione politica ammessa alle elezioni. Un risultato storico e inaspettato che il padre-padrone del Gambia non accetta. Minacciando di scatenare gli oltre tremila ribelli della Casamance, regione indipendentista del Sud del Senegal con cui il Gambia mantiene da anni relazioni pericolose, il dittatore «fiero di esserlo» – come dichiarò pochi mesi prima delle elezioni in un’intervista alla rivista Jeune Afrique – si rifiuta di lasciare il potere e costringe all’esilio il rivale Adama Barrow. Questo uomo d’affari scelto come capofila della coalizione d’opposizione, si rifugia a Dakar aspettando di poter rientrare nel paese da nuovo legittimo presidente.

Il popolo ha deciso

Il Senegal, potenza regionale che da anni aspettava il pretesto per sconfinare in Gambia, chiede e ottiene dalla Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao) la guida di una missione africana per evitare la degenerazione in una violenta guerra civile. In quei concitati giorni la popolazione di Banjul non smette di protestare, sfidando pacificamente la disperata e spietata repressione di un regime dai giorni contati.

Finalmente il dittatore cede alle pressioni internazionali e lascia il potere e il paese (21 gennaio). Il legittimo presidente Barrow può insediarsi il 26 gennaio.

Simbolo del sollevamento gambiano è l’hashtag #GambiaHasDecided, «Il Gambia ha deciso», frase pronunciata da Adama Barrow e ripresa sulle magliette di migliaia di manifestanti. Quelle magliette, che oggi si vedono persino sulle statue cittadine, sono state stampate clandestinamente da Tidjane Barrow, artista poco conosciuto in Gambia (finora) che porta lo stesso cognome del primo presidente democraticamente eletto. «Erano i primi di gennaio quando, un pomeriggio, degli uomini armati hanno fatto irruzione nel mio laboratorio. Ero solo, per fortuna. I miei amici erano in piazza a regalare le magliette alla gente». Dopo averlo picchiato e arrestato, gli uomini della Nia danno fuoco alla sua piccola stamperia fai-da-te. «Eravamo stanchi di vivere nella paura, così ci siamo ribellati cambiando le cose pacificamente, con mezzi democratici. Questo significa il messaggio sulle magliette: per la prima volta abbiamo deciso liberamente da chi vogliamo essere governati». Mentre parla, questo ragazzo non smette un attimo di montare telai di legno, attaccare scotch, ritagliare carta e spennellare colori su lembi di cotone. Nell’abitazione dei suoi genitori, nido di fortuna della sua arte, risuona musica reggae, il viavai di amici è senza sosta. I nuovi slogan stampati oggi dal giovane Barrow sono segno che i tempi cambiano velocemente: «A new Gambia is possible» (un nuovo Gambia è possibile). Dopo aver scelto, infatti, il Gambia oggi si confronta con i problemi socioeconomici propri di uno stato appena liberato da una cappa totalitaria lunga decenni.

Le sfide di Barrow

Usciti dalla casa dell’artista, Buabacar ha lo sguardo interdetto. «Nonostante molti cittadini gambiani auto-esiliati negli ultimi anni stiano tornando nel paese e nonostante l’impegno infaticabile della nostra gioventù, viviamo ancora molti timori e incertezze». La preoccupazione maggiore dei gambiani resta senza dubbio l’alto tasso di disoccupazione che, attestato al 29%, per i più giovani sfiora oggi il 40%. Il governo Barrow è consapevole del fossato da riempire e dell’urgenza percepita dai suoi elettori, ma stenta a trovare una via d’uscita dal baratro di un debito pubblico schizzato a oltre il 120% del Pil. Riconfermata la fiducia della propria base politica alle elezioni parlamentari del 6 aprile 2017 – 31 seggi all’Udp e 5 alla formazione di Jammeh – il nuovo esecutivo ha partecipato a novembre a importanti forum economici a Londra, Parigi e Dubai in cui ha invocato l’aiuto degli investimenti privati per salvare il Gambia dalla recessione. Accusando l’ex sovrano di aver svuotato le casse pubbliche appena prima di abbandonare il paese (un’inchiesta nazionale è in corso), Adama Barrow appare troppo isolato per poter incidere sul futuro del Gambia. E a Banjul le immagini del nuovo presidente che sui muri accompagnavano le scritte anti Jammeh durante i mesi delle sommosse popolari, cominciano a sbiadire o, peggio, ad essere deturpate dalle stesse mani che le avevano dipinte.

Nella sede centrale del partito di Barrow, una palazzina di due piani in un quartiere residenziale della capitale, le riunioni si susseguono concitate. La nomina dei nuovi parlamentari dell’aprile scorso ha rafforzato la maggioranza al potere, ma fratture interne e litigi restano all’ordine del giorno. Non ne fa mistero Fatoumata Jawara, giovane attivista dell’Udp passata nel giro di pochi mesi dal carcere al Parlamento. «Dobbiamo dare ascolto e risposte concrete ai nostri cittadini e smetterla una volta per tutte con i proclama e la mera teoria politica». Il suo discorso non è cambiato da quando urlava slogan contro il sovrano e, durante i tumulti di aprile 2016, è stata arrestata insieme all’amico Solo Sandeng, martire delle sollevazioni, e a una trentina di altri manifestanti. Violentata e picchiata dietro le sbarre, Fatoumata mantiene intatta la voglia di denunciare. «Non avrei mai accettato incarichi politici durante il vecchio regime, ma da quando Jammeh è partito ho cominciato a credere nel valore della buona politica al servizio delle persone. Per questo ho deciso di presentarmi alle prime elezioni parlamentari libere del nostro paese». Nel nuovo esecutivo di Barrow diverse donne ricoprono incarichi importanti. La vice presidenza, ad esempio, è stata affidata a Fatoumata Jallow Tambajang. «La gente ha scelto facce nuove come la mia per dare un segnale forte alla classe politica. Dobbiamo lottare per i diritti di tutti, compresi quelli delle donne gambiane che ancora piangono in silenzio, dentro e fuori i confini nazionali», chiosa Fatoumata Jawara prima di correre a un’altra riunione del partito. 

Opposizione e nostalgici

Il perdurare di tale malcontento verso la lentezza del nuovo governo è terreno fertile per le forze reazionarie dell’Aprc, ex partito unico che Barrow, per evitare una pericolosa radicalizzazione del conflitto interno, ha deciso di non mettere al bando. Nostalgici sostenitori di Jammeh e ricchi uomini d’affari periodicamente organizzano ritrovi elettorali nei quartieri periferici della capitale. Centinaia di persone vestite di verde – il colore dell’Islam, religione a cui Jammeh si è sempre richiamato – ballano musica sparata da grandi altoparlanti, agitano immagini dell’ex dittatore e ne invocano a gran voce il ritorno dalla Guinea Equatoriale, sede del suo esilio forzato. Persino il suo ex ministro della comunicazione, un giovane diventato a gennaio il portavoce ufficiale di Jammeh nel paese, prende la parola e aizza la folla denunciando «il malgoverno degli amici di Barrow».

Migranti di ritorno

Ceesay sdegnato ferma un taxi per rientrare in città. Nell’abitacolo si abbandona a un pensiero solenne: «Il valore più importante che abbiamo imparato l’anno scorso è che i politici sono al nostro servizio, non il contrario. Si presentano alle elezioni e vengono legittimati dal voto della gente comune, che affida loro il compito di governare lo stato nel proprio interesse. Se questo principio basilare verrà assorbito da tutti gli strati della società, allora in Gambia avremo una vera democrazia che proteggerà la giustizia sociale e non potrà più essere rovesciata da nessun potere autoritario». Il tassista, rimasto finora silente, annuisce dal retrovisore. È un ex migrante rientrato a seguito della fuga del dittatore. «Sono stato dieci anni in Italia. Facevo molti lavoretti, persino illegali, per sopravvivere», confessa. Negli anni del regime, migliaia di giovani come lui hanno tentato la «back way». Così viene chiamata in Gambia l’avventura migratoria verso il «sogno europeo». Solo nel 2016 sono entrati illegalmente in Italia 11.929 migranti provenienti da questo paese che, nonostante una popolazione totale di appena 1.8 milioni di abitanti, da diversi anni occupa i primi posti negli arrivi di subsahariani in Europa. Stando ai dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) del settembre scorso, a fronte di 1.979 gambiani registrati in Libia, 1.119 fra loro sono stati ricondotti a casa. Accordi con l’Unione europea (parte del cosiddetto Fondo Fiduciario) prevedono 13 milioni di euro di aiuti allo sviluppo a patto che il Gambia firmi accordi per il rimpatrio, sempre ufficialmente smentiti dal nuovo governo locale. Proprio come questo tassista, però, sono in molti ad avere volontariamente deciso di tornare a casa nella speranza di un nuovo inizio. «Dopo aver visto quello che stava succedendo nel mio paese ho deciso di rientrare, ma non è facile» taglia corto il giovane.

Guardatevi da lui

Prima di lasciarci, Buabacar Ceesay vuole presentarci un’ultima persona. «Vi farà capire una volta per tutte quanto brutale è stata la repressione di Jammeh». Incontriamo Landing Sanneh sulle imponenti gradinate del centro amministrativo di Banjul costruite per le parate militari del vecchio regime. Appena accesa la telecamera questo discreto signore oltre la cinquantina comincia a raccontare la sua assurda vicenda. Cugino di secondo grado di Jammeh, Sanneh ha ricoperto incarichi di rilievo nella sicurezza, diventando capo della guardia presidenziale. Ma essere troppo vicini a un dittatore schizofrenico può diventare pericoloso. «Un giorno i militari hanno circondato la mia casa. Sono uscito con le mani in alto e mi hanno sparato», dice mostrando il segno della pallottola che gli ha attraversato il braccio destro. Sospettato di un tentato colpo di stato e mai processato, Landing Sanneh passa 15 anni e mezzo nel «Mile 2», blocco speciale della Nia tristemente famoso all’interno del carcere di Banjul. «Mi avevano condannato a 16 anni. Poi “lui” mi ha graziato, risparmiandomi gli ultimi sei mesi di reclusione». Non nomina quasi mai Jammeh e quando lo fa si guarda istintivamente le spalle. È uno dei testimoni chiave della Corte penale internazionale (Cpi) che sta indagando sui crimini dell’ex presidente del Gambia e, per paura di ritorsioni, non aveva mai raccontato la propria storia a dei giornalisti prima d’ora. «Le persone che ancora lo sostengono stanno difendendo un mostro, una persona davvero malvagia», s’indigna alzando la voce. Racconta delle torture: «Mi hanno fatto il waterboarding per diversi giorni consecutivi», mostrandone i segni indelebili su corpo e anima. All’improvviso scoppia a piangere e chiede una pausa. «Anche se credo che Dio mi abbia lasciato in vita per raccontare quello che mi è successo, mi fa male parlarne. Mi tornano alla mente gli incubi del carcere». Poi fissa il vuoto e comincia a recitare una lunga lista di nomi. Sono prigionieri politici, suoi compagni di detenzione scomparsi durante gli ultimi anni, i più violenti della dittatura. Sono i «desaparecidos» del Gambia, secondo lui «decine di persone uccise e fatte sparire, dati in pasto ai coccodrilli per occultare le prove». Le sue parole rompono l’assordante silenzio circostante: «Chi ancora mette in dubbio la natura sanguinaria dello stato di polizia che vigeva in Gambia, parli con le famiglie che non hanno ancora potuto seppellire il corpo dei propri cari». Conclude dicendo: «Il nuovo governo ora deve garantire benessere, giustizia e libertà alla sua gente. Per questo è stato eletto. A noi gambiani non resta che gioire della fine della dittatura e pregare Dio che atrocità come quelle che abbiamo vissuto non si ripetano mai più, né qui né altrove». Quello storico giorno dell’anno scorso, che forse appare già dissolto dalle difficoltà odierne, Landing Sanneh ha alzato gli occhi al cielo del Gambia e, osservando insieme a una folla di cittadini festanti l’aereo che portava lontano Yahya Jammeh, si è sentito finalmente libero.

Andrea De Georgio




Zimbabwe: Mugabe, 93 anni, pronto a ricandidarsi nel 2018


Il più longevo dei governanti africani ha portato il suo paese sull’orlo del baratro. Un tempo granaio d’Africa, lo Zimbabwe soffre oggi continue crisi alimentari. Ma Mugabe, come sostiene sua moglie, «sarebbe rieletto anche da morto». Intanto si prepara, con difficoltà, la sua successione.

Robert Mugabe ha compiuto 93 anni. È il più anziano leader africano ed è in carica dal 1980. Ma, nonostante l’età, non ha alcuna intenzione di cedere il potere. Si ricandiderà alla presidenza nel 2018. E certamente sarà rieletto. Perché, come dice sua moglie Grace: «Robert verrebbe rieletto anche se fosse morto».

In 37 anni di potere pressoché assoluto, Mugabe ha creato un apparato di consenso fortissimo che, come diceva Benito Mussolini, sa usare «il bastone e la carota».

Le mani sulle istituzioni

«È molto abile nel giocare al “divide et impera” – spiega un missionario che da anni opera in Zimbabwe e che, per motivi di sicurezza, vuole rimanere anonimo -. Nella mia ingenuità, nel 1980, quando finì il governo razzista di Ian Smith, pensavo che fosse positivo che Mugabe non avesse una propria corrente nel suo partito, lo Zanu Pf (Zimbabwe african national union). La sorpresa è stata grande quando ci siamo resi conto che lui amava governare mettendo uno contro l’altro sia all’interno del suo partito sia a livello di paese».

Ma il suo non è solo un gioco politico. È qualcosa di più. È in grado di mantenersi al potere attraverso la forza del ricatto. Promuove alle cariche più importanti le persone che sa di poter tenere in pugno. Si racconta che un politico sia stato nominato ministro dopo aver ucciso l’amante di sua moglie. Si narra anche che abbia nominato governatore di una provincia un membro del suo partito che era stato fermato con feticci che utilizzava nelle messe nere. Mugabe conosceva i loro reati e sapeva anche che avrebbe potuto tranquillamente ricattare i due politici se non avessero eseguito pedissequamente i suoi ordini.

D’altra parte, il presidente zimbabweano ha una forte presa su tutto l’apparato statale: polizia, forze armate, servizi segreti, magistrati. La maggior parte dei giudici proviene dalle file del partito di governo. Non tutti, ma se un caso approda di fronte al giudice «sbagliato», il regime è in grado di allungare i tempi delle indagini e dei processi in modo tale che non si giunga mai a un verdetto. È il caso delle cause intentate dall’opposizione per 26 seggi vinti dallo Zanu Pf nelle elezioni del 2002. I giudici avrebbero dovuto esprimersi sulle violenze e sulle intimidazioni delle milizie del partito di governo, ma 15 anni dopo non è stata emessa alcuna sentenza.

Il presidente Robert Mugabe e la sua moglie e first lady Grace Mugabe. / AFP PHOTO / Jekesai NJIKIZANA

La moglie Grace

Da tempo, ormai, a fianco del presidente è comparsa sua moglie Grace. Mugabe l’ha sposata in seconde nozze dopo la morte della prima moglie (Sally Hayfron). Il matrimonio è stato celebrato in pompa magna, ma senza aspettare che Grace avesse divorziato dal primo marito Stanley Goreraza, un pilota militare zimbabweano. Fin da subito, Grace si è rivelata una donna ambiziosa. Come segretaria personale del presidente, lo ha spinto a prendere decisioni al limite del ridicolo. Come quando alla signoraè stato riconosciuto il dottorato in Sociologia due mesi dopo l’iscrizione all’università. L’influenza del marito ha certamente contato più delle ore passate sui libri. Ma, ciò che è più grave, ne ha influenzato e ne influenza le decisioni politiche. Dando al regime quell’impronta radicale che ha assunto a partire dagli anni Novanta. Non è un caso che gli Stati Uniti e l’Unione europea abbiano inserito la signora Mugabe nella lista delle personalità zimbabweane soggette a sanzioni per il loro ruolo assunto nel regime.

Grace Mugabe, che ha 52 anni, però non si ferma. Il suo obiettivo è prendere il posto del marito alla presidenza. Fino ad alcuni anni fa, la candidatura sembrava non avere rivali. Poi, lentamente, i gerarchi dello Zanu-Pf hanno iniziato a mettersi di traverso ostacolando con tutti i mezzi possibili la sua ascesa. Lo stesso Mugabe ha ammesso che all’interno dello Zanu-Pf c’è chi la detesta e fa di tutto per sbarrarle la strada. Tutto ciò fa presagire le tensioni che potranno esserci in Zimbabwe dopo la morte del presidente.

Secondo la studiosa di questioni africane, Teresa Nogueira Pinto, intepellata dal quotidiano francese «Le Monde», si prospettano tre scenari possibili per la successione: l’ascesa del vicepresidente Emmerson Mnangagwa, il quale potrebbe aprire a riforme e, quindi, a una transizione morbida; la vittoria di Grace, che porterebbe a gravi tensioni all’interno del partito e quindi un’instabilità continua; l’implosione dello Zanu-Pf che significherebbe guerra civile, caos e violenze.

Protesta ad Harare. / Tafadzwa Ufumeli / Anadolu Agency

Opposizione in catene

L’opposizione non ha vita facile in Zimbabwe. La principale formazione che lotta contro lo strapotere di Mugabe è il Movement for Democratic Change (Mdc) guidato da Morgan Tsvangirai, ex leader sindacale, per anni Segretario generale dello Zimbabwe Congress of Trades Unions. È un partito di matrice socialdemocratica nato non nelle aree rurali, ma nelle principali città e, in particolare, nella capitale Harare. L’Mdc si è candidato nelle elezioni del 2000, ma solo nel 2008 è riuscito a portare una consistente pattuglia di deputati in parlamento. Lo stesso Mugabe, in una dichiarazione che gli è sfuggita, ha ammesso che Tsvangirai avrebbe il 73% dei consensi in un’elezione presidenziale trasparente e che si svolgesse secondo le regole democratiche.

Ma Tsvangirai non è l’unico oppositore a dar fastidio a Mugabe. Negli ultimi mesi è emersa la figura del pastore battista Evan Mawarire. Il 19 aprile 2016 il religioso ha pubblicato su Facebook un video nel quale, in prima persona e con una bandiera zimbabweana al collo, chiede che il Governo avvii una serie di riforme politiche ed economiche. Quel video è diventato virale e il movimento #ThisFlag, cresciuto a livello nazionale, ha iniziato a promuovere scioperi tra i più partecipati negli ultimi anni in Zimbabwe. Ovviamente, il regime gli si è rivoltato contro. Mawarire, dopo essere stato criticato apertamente dallo stesso Mugabe, è stato arrestato in luglio per incitamento alla violenza pubblica, ma poi è stato rilasciato. Ha deciso così di rifugiarsi negli Stati Uniti, anche per fuggire alle minacce di morte alla moglie e ai figli. Quando il primo febbraio ha deciso di rientrare in patria, ha trovato alla frontiera la polizia che lo ha arrestato di nuovo con l’accusa di voler rovesciare il governo, reato per il quale è prevista una pena di vent’anni di carcere.

La protesta ha fatto altre vittime oltre a Mawarire. La polizia ha incarcerato gli attivisti Linda Masarira, Acie Lumumba, Denford Ngadziore, il giornalista Whatomore Makokoba, l’ex leader studentesco Promise Mkwananzi, il sindacalista Stan Zvorwadza e il pastore Philip Mugadza.

Il pastore Evan Mawarire, leader di un movimento di protesta / AFP PHOTO / Jekesai NJIKIZANA

Cristiani divisi

Le Chiese cristiane non hanno posizioni comuni e sono spaccate al loro interno. Alcune parti della Chiesa cattolica hanno provato a opporsi a Mugabe. Monsignor Pius Aleck Mvundla Ncube, arcivescovo di Bulawayo (la seconda città del paese), per anni è stato uno dei principali oppositori di Mugabe. Le sue invettive colpivano duro il regime. Ha organizzato diverse manifestazioni di protesta e in lui molti vedevano un possibile leader dell’opposizione politica. Uno scandalo sessuale però l’ha travolto e indotto a uscire di scena. Un giornale controllato dal governo ha pubblicato nel 2007 alcune foto che ritraevano un uomo nudo insieme a tre donne. Le immagini erano sfocate, ma il quotidiano affermava che quell’uomo fosse proprio mons. Ncube. Papa Benedetto XVI gli ha così chiesto di rassegnare le dimissioni. Cosa che lui ha fatto l’11 settembre 2007 per poi sparire dalla ribalta mediatica e dalla scena politica zimbabweana.

«Alcune frange della Chiesa cattolica – spiega un altro missionario, anche lui sotto richiesta di anonimato – continuano però a denunciare le ingiustizie del regime. E lo fanno con molta più forza di quanto facessero sotto il regime bianco di Ian Smith. Questo è un segnale positivo. Sarebbe però utile che tutti i cristiani fossero uniti, mentre così non è».

La Chiesa anglicana, molto forte nel paese, ha resistito a un tentativo del presidente Mugabe di prenderne il controllo. Alcuni anni fa, Norbert Kunonga, un religioso fedelissimo di Mugabe, ha provato, istigato dal regime, a creare una Provincia anglicana indipendente in Zimbabwe. Ma è stato sconfessato dalla Comunione anglicana e la maggior parte dei fedeli si sono rifiutati di seguirlo.

«Le Chiese cristiane indipendenti – continua il missionario -, supportano apertamente Mugabe soprattutto quando il presidente si scaglia contro gli omosessuali e invita le donne a “rimanere al proprio posto”, cioè a casa. Queste uscite di Mugabe gli garantiscono un forte supporto. Le Chiese pentecostali invece si proclamano apolitiche e non si interessano in alcun modo della lotta per il potere, promuovendo il successo in campo economico».

Tafadzwa Ufumeli / Anadolu Agency

Quel che resta dell’economia

L’economia è al collasso. Il regime segregazionista di Ian Smith, deprecabile e condannabile sotto il profilo politico e sociale, aveva però lasciato in eredità al paese un’economia funzionante. L’agricoltura era organizzata in modo industriale e riusciva a produrre un surplus che veniva esportato garantendo un’ottima fonte di valuta pregiata. Lo Zimbabwe poi aveva un buon tessuto industriale che creava profitti e occupazione. Le risorse non erano ben distribuite, ma una buona politica economica avrebbe potuto portare una equa redistribuzione dei redditi a vantaggio di tutta la società.

Il primo colpo a questo sistema è stato dato dall’accettazione da parte di Mugabe delle politiche di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale. Queste, negli anni, hanno portato a un progressivo impoverimento industriale. «Oggi le statistiche ufficiali – continua il missionario – parlano di un’industria che funziona al 30% delle sue reali potenzialità. In realtà, non esiste più un’industria zimbabweana. Per comprenderlo è sufficiente fare un giro nelle periferie di Harare e di Bulawayo».

Un secondo e mortale colpo all’economia è stato dato dalla riforma agraria del 2000. Fin dai primi giorni dell’indipendenza, Mugabe aveva parlato della necessità di una redistribuzione ai coltivatori neri delle terre in mano ai latifondisti bianchi. Una politica che non era avversata di principio dai grandi farmer, ma che stentava a decollare. La maggior parte delle terre migliori, alla fine degli anni Novanta, era ancora in mano ai bianchi che, però, solo in parte erano gli eredi dei coloni britannici. Mugabe, cogliendo l’occasione del mancato supporto dei bianchi a un suo progetto di riforma costituzionale (che prevedeva la nomina a presidente a vita dello stesso Mugabe), nel 2000 ha varato una riforma agraria che ha espropriato le terre dei bianchi assegnandole però non ai contadini neri, ma ai fedelissimi del regime (in maggioranza incapaci di gestire una grande tenuta). L’economia è così crollata.

Oggi lo Zimbabwe è un paese che deve importare derrate agricole. Per placare l’inflazione, la valuta locale è stata ritirata e sostituita dal dollaro statunitense. Il 70% della forza lavoro è disoccupata. Ma forse Mugabe si occuperà di questa crisi nel prossimo mandato.

Enrico Casale




Ghana: La democrazia prima di tutto


È il 1957 quando il paese di Kwame Nkrumah diventa indipendente. Tra i primi stati africani. Ma la vera indipendenza è difficile, occorre farcela con le proprie risorse. Il popolo del Ghana è rimasto unito, seppur ricco di diversità, e risolve i problemi con il dialogo. L’alternanza politica è la regola. Un esempio importante per il continente.

Democrazia, stabilità, alternanza e libertà di religione. Su questi elementi si gioca l’immagine positiva di un paese orgoglioso di rappresentare un esempio per tutto il continente. Certo, dietro la facciata si nascondono criticità e disagi sociali ed economici rilevanti, ma il Ghana continua a essere la prova che i paesi africani possono crescere, migliorare e affrontare i problemi senza arrivare a crisi estreme o, peggio, all’uso della forza.

È un paese fiero dei suoi sessant’anni di democrazia appena compiuti. Quell’ex Costa d’Oro che il 6 marzo del 1957 proclamò l’indipendenza dall’impero coloniale britannico, diventando da quel momento ispirazione e fiducia per tutti gli altri che a seguire avrebbero conquistato il diritto di essere indipendenti e sovrani. Da allora è come se il Ghana si fosse assunto una sorta di responsabilità morale nei confronti delle nazioni sorelle che stavano formandosi. Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente, era anche uno dei padri del panafricanismo, cosa che aiutò a guardare la storia anche nella prospettiva del futuro.

Acrobati durante le celebrazioni del 60° di indipendenza il 6/03/2017 a Accra. / AFP PHOTO / CRISTINA ALDEHUELA

Un po’ di storia

Anche il Ghana ha vissuto la sua dose di governi militari – fase conclusasi definitivamente nel ‘93, dopo Rawlings e l’apertura della cosiddetta quarta Repubblica. Né va dimenticato che lo stesso Nkrumah fu vittima di un colpo di stato in cui oltre ai «soliti» poteri occidentali pare fosse implicato il governo canadese di allora. Era un’indipendenza «troppo indipendente» quella vagheggiata dal primo presidente ghanese e il suo sguardo socialista e panafricano non piaceva agli ex colonialisti e alle altre potenze straniere.

La «vera» indipendenza

Il Presidente del Ghana Nana Akufo-Addo. 07/01/2017. Stringer / Anadolu Agency

Nel giorno del sessantesimo anniversario dell’indipendenza (6 marzo 2017), la figlia di Nkrumah, Samia, ha ricordato quello che si sognava fosse la vera indipendenza: emancipazione economica, uso delle proprie risorse e ricchezze, unione panafricana tra tutte le nazioni del continente.

La realtà di questi decenni è stata un po’ diversa: l’opportunismo politico, la voglia di potere, la «svendita» delle terre e delle risorse, il desiderio di arricchirsi alle spalle della popolazione hanno creato i punti deboli della struttura della governance del Ghana. Quello che ancora rimane però – dopo sessant’anni – è appunto la capacità di restare uniti, di risolvere le questioni attraverso il dialogo, di superare ogni tipo di contrasto che possa essere legato alle diverse appartenenze. E il Ghana da questo punto di vista è ricco di diversità.

Oltre venticinque milioni di abitanti appartenenti a nove gruppi etnici principali, tredici lingue e fedi religiose che vanno dal Cristianesimo all’Islam alle diffuse pratiche tradizionali. Con gruppi numerosi anche di buddisti. La differenza vera nel paese non è data da questi aspetti. Quello che conta sono la posizione sociale, l’educazione, il conto in banca. In Ghana, il cui 65% del territorio è agricolo, si sta allargando il gap tra zone rurali e le grandi città e conseguentemente l’accesso ai servizi e così pure al miglioramento delle condizioni economiche. Va detto che dei buoni risultati sono difficili da raggiungere con un gettito fiscale pari solo al 19.9% del Pil. Su questo aspetto manca ancora una soddisfacente politica di gestione e controllo.

L’urbanizzazione è un fenomeno esteso non solo ad Accra, la capitale che arriva a «ospitare» fino a due milioni di pendolari che si vanno ad aggiungere ai circa 4 milioni di abitanti, ma anche a Kumasi, capitale della regione Ashanti, una delle più ricche del paese, e Takoradi, centro in crescita costante dalla fine degli anni 2000 quando furono scoperti i giacimenti di petrolio off shore. A «svuotarsi» sono soprattutto la regione del Volta, che comprende la fascia costiera verso il confine con il Togo e la zona interna salendo lungo il fiume, e il Nord del paese al confine con il Burkina Faso. Zone povere, dall’economia limitata, dove la scarsità di pesce e la siccità costante non offrono alternative. Né grandi opportunità sono state proposte dai governi che si sono finora succeduti. Inoltre, urbanizzazione vuol dire anche sovraffollamento, come dimostrano i numerosi slum che si trovano soprattutto nella capitale Accra.

La grande discarica

La vergogna più grande è Agbogbloshie, meglio nota come Sodoma e Gomorra, la più grande discarica di e-tech (e non solo) di tutta l’Africa Occidentale, probabilmente dell’intero continente. È occupata soprattutto da persone provenienti dal Nord in cerca di fortuna che si sono ritrovate in uno sporco e rischioso «lavoro» di riciclo di materiali elettrici e plastica, computer, frigoriferi, stampanti, etc. I fumi dei roghi che bruciano copertoni, plastica e fili elettrici si alzano ogni giorno dall’area che è un tutt’uno con mercati, strade e abitazioni. Un’emergenza ambientale che si va ad aggiungere a quella sanitaria.

Economia in affanno

Tornando alla situazione economica, che qualcosa sia andato non proprio per il verso giusto in questi anni, lo dimostra il dato dell’inflazione, oggi attestata intorno al 13%, in certi momenti è arrivata anche al 18%. Il Pil pro capite è pari a poco meno di 1.800 dollari annui e una serie di prestiti rinnovati negli anni dal Fondo monetario internazionale ammonta a un totale di 918 milioni di dollari. Eppure gli investitori continuano ad arrivare, la speranza dei cittadini sembra sempre più forte delle critiche mentre le previsioni delle agenzie internazionali sono estremamente ottimiste. Il segreto? Sempre uno: democrazia.

L’alternanza reale

Da decenni vince più che un partito, un concetto, un «patto» non scritto, quello dell’alternanza. Alle ultime elezioni – dicembre 2016 – è stata la volta dell’Npp (New Patriotic Party) con il suo leader Nana Akufo Addo.

Il neo presidente ha centrato la sua campagna elettorale sulle performance negative del governo precedente guidato da John Mahama (Ndc, National Democratic Congress) che pure ha avuto un importante ruolo nel riconoscere la sconfitta e impedire l’accendersi di polemiche o scontri. Ma da subito analisti e cittadini hanno cominciato a essere scettici sulle magnifiche promesse di Akufo Addo per migliorare l’economia del paese, prima fra tutte quella del motto: One discrict, one factory – una industria per ogni distretto. La carenza di industrie, sicuramente al di sotto delle potenzialità del paese, rimane una nota dolente. Solo il 14.4% della popolazione attiva è impegnata in questo settore, mentre il settore dei servizi, spesso informali, occupa il 41%. Come a dire che l’arte di arrangiarsi funziona meglio delle opportunità offerte sia dalle compagnie private sia dallo stato. L’agricoltura occupa invece il 45% della popolazione ed è anche in questo settore che il neo presidente ha promesso di intervenire in modo massiccio, auspicando una produzione che duri tutto il corso dell’anno grazie alla fornitura dell’acqua, soprattutto nelle due regioni del Nord.

Altro elemento problematico riguarda il settore pubblico che, secondo recenti stime, influirebbe addirittura per il 74% sulle spese fisse dello stato. Si tratta di 500.000 persone, solo il 2% della popolazione, a cui però spesso viene attribuita mancanza di esperienza e competenze e assunzioni derivate da legami con l’entourage governativo e giri di mazzette. È quella parte del potere che ai ghanesi non piace e che la stampa libera non manca di denunciare. Una situazione che fa rabbia, soprattutto ai giovani che rientrano in quel 48% di senza lavoro stimati dalla Banca mondiale. Eppure sono proprio i giovani a dimostrare l’energia e la vitalità di questo paese. Giovani che navigano in rete con smartphone di ultima generazione e che hanno capito che il futuro è legato allo studio e alla conoscenza. E non parliamo dei figli dell’establishment che vanno a studiare all’estero, ma di quelli che affollano le Università ghanesi, molte frequentate da studenti che arrivano da altri paesi africani e anche europei, per progetti di scambio. Citiamo ad esempio: la Knust, la Kwame Nkrumah University of Science and Technology, che ogni anno mette sul mercato i migliori talenti nel settore scientifico e della tecnologia, l’Università di Legon e Ashesi University, università privata fondata da un ghanese della diaspora che dopo anni negli Usa al servizio della Microsoft ha deciso di tornare nel suo paese e investire in quella che sarà la futura classe dirigente.

I giovani, motore del Ghana

È proprio parlando con i giovani che si percepisce che il Ghana è in fase di cambiamento, ma nello stesso tempo rischia lo stallo se continua a perpetuare difetti e debolezze che sono diventati intrinseci. «Studio Fashion Design all’Università di Kumasi ma preferisco di gran lunga la vita cittadina di Accra», ci racconta Vera, 22 anni. «La mentalità qui è ancora molto ristretta, avrei voluto fare la modella, ma vuol dire scendere a brutti compromessi ancor prima di cominciare». Vera elenca i pregi e difetti del suo paese: «Amo il fatto che non facciamo guerre, che c’è la pace e sei libero di fare quello che vuoi, però va anche detto che le donne non hanno grande possibilità di esprimersi. Sposarsi e far figli è la loro strada, ma io e molte ragazze della mia età la pensiamo diversamente». «Quello che non sopportiamo più – dice invece Kofi, studente alla Central University – è la corruzione, il sistema delle mazzette. Se cerchi un lavoro, soprattutto nel settore pubblico, devi essere pronto a pagare qualcuno. Questo non è il Ghana che ci hanno promesso». «Il meglio del mio paese è la pace e la stabilità che ci accompagna da circa trent’anni, ma la cosa peggiore è la corruzione, specie nel servizio pubblico», dice Alhassan, trentenne laureato in Business e management, che ha fondato una Charity per sostenere i bambini che vivono nello slum di Agbogbloshie. E la diffidenza nei confronti della politica si manifesta nelle parole di Yaw, ventottenne laureato in cerca di occupazione. «Io sono tra quelli che sono andati a votare e il 6 marzo ho partecipato alle celebrazioni del nostro sessantesimo anniversario dell’indipendenza. Sono orgoglioso di essere ghanese e che siamo stati il primo paese sub sahariano a “liberarci”. Ma i nostri politici non sembrano fare i nostri interessi. Vanno al potere, incolpano il governo precedente di aver fatto male, ma poi loro stessi pensano a come arricchirsi prima di passare l’amministrazione dello stato al prossimo presidente».

Ma allora perché il Ghana continua a rappresentare un esempio? La risposta ce la dà Ama, giovane ragazza di 25 anni che sogna di lavorare nel settore del turismo. «Noi siamo liberi, possiamo dire quello che pensiamo, criticare chi ci governa e votare un nuovo presidente se il precedente non ha fatto quanto ci aspettavamo. Questa è la nostra ricchezza, non ci piace il conflitto. Preferiamo il dialogo. E continuare a sperare nel futuro».

Antonella Sinopoli

AFP PHOTO / CRISTINA ALDEHUELA


Le religioni in Ghana

L’importante è credere

In Ghana il fatto di appartenere a una chiesa è quasi un obbligo. Le cerimonie sono lunghe e il clima mistico. E c’è un grande proliferare di chiese evangeliche. La tolleranza religiosa è più che una tradizione. Anche cristiani e musulmani lavorano insieme e si scambiano visite alle feste comandate.

In Ghana la domenica mattina non è possibile prendere appuntamento con gli amici o programmare nessun genere di incontro. Tutti ti diranno che sono in chiesa. Cerimonie lunghissime che durano anche cinque o sei ore e che hanno poco a che vedere con le liturgie occidentali. Più orientate a una sorta di furore mistico che si manifesta nella ripetizione delle parole della Bibbia o dei Vangeli, nell’ispirazione del pastore e nella partecipazione, urlata e danzata, dei fedeli.

Secondo il World Christian Database in Ghana si contano 700 denominazioni cristiane e almeno 71.000 congregazioni individuali (chiese create da una persona). Il paese ha una grande varietà di appartenenze e soprattutto una lunga tradizione di tolleranza religiosa. La non discriminazione a causa della fede e la totale libertà di professare il proprio credo sono stabiliti dalla Costituzione ghanese, e non sono principi teorici ma radicati fortemente nella popolazione.

Secondo gli ultimi dati, in Ghana il 71,2% si dichiara cristiano. La prevalenza va alla chiesa pentecostale-carismatica con il 28,3%, seguono altre chiese protestanti con il 18,4% e la cattolica con un 13,1%. La religione musulmana è professata dal 17,6% della popolazione, la tradizionale dal 5,2%. Poi ci sono anche altre fedi professate nel paese, come quella buddista.

Persone che vivono insieme, lavorano, vanno a scuola e a volte partecipano alle cerimonie religiose degli altri. A scuola, per esempio, oppure nei grandi eventi pubblici, quando un capo di stato può prendere parte a un’importante celebrazione in moschea anche se è cristiano, o viceversa. A volte capitano dei «disagi». Per esempio recentemente si è investito l’apparato giudiziario per decidere se fosse giusto che nelle scuole gli studenti musulmani dovessero partecipare alle preghiere cristiane di inizio giornata, e non viceversa. Letture e interpretazioni che però non tolgono la capacità di stare insieme e di rispettarsi a vicenda in una contaminazione costante di vite. Il muezzin che chiama alla preghiera è il suono di sottofondo quotidiano, lo sono le preghiere nei mercati all’aperto e così pure i canti che arrivano alti dalle numerosissime chiese sparse in città e nei più remoti villaggi. «La tolleranza religiosa e il rispetto per le altre fedi ci è stato passato come un tesoro da chi ha fondato questo paese e noi lo onoriamo – dice il reverendo Alfred Ahiahornu della Calvary Baptist Curch in un quartiere di Accra -. Non ci facciamo la guerra per motivi religiosi e anche nelle questioni politiche musulmani e cristiani siedono allo stesso tavolo e decidono insieme». Forse qualche parte del mondo potrebbe guardare al Ghana come esempio, in questo senso. Il solo elemento a sfavore di questa libertà proclamata e applicata è la poca capacità di inserire in questa tolleranza una figura come l’ateo. Resta per i ghanesi difficile comprendere che qualcuno possa dichiararsi tale. Qualunque chiesa o moschea va bene, l’importante è appartenere a qualcosa che professi l’esistenza di un dio, possibilmente salvifico, e dell’aldilà.

Antonella Sinopoli




Congo Brazzaville: voci dalla rivolta


Come in Senegal, Burkina Faso e Congo Rd, anche a Brazzaville i giovani si mobilitano. Trascinati dai loro eroi musicali, i rapper, scendono in piazza. Chiedono democrazia e diritti. Con coraggio, rivendicano un futuro diverso da quello dei loro padri. Il movimento di chi «ne ha abbastanza» cerca di svegliare i congolesi.

Martial Pa’nucci si definisce artista-rapper, attivista, autore, compositore e poeta urbano. Di certo è un giovane congolese che si è messo in gioco per il suo paese. Lo abbiamo sentito per il suo ruolo di portavoce del movimento sociale giovanile «Ral-le-bol», che si è opposto alla ricandidatura e rielezione di Denis Sassou Nguesso a presidente della Repubblica. E per questo ne ha subito le conseguenze.

Il suo nome da artista, Martial, lo ha voluto in italiano, «perché – ci dice – sono un fan della cultura italiana». Si tratta di un acronimo, Pa’nucci, il cui significato è: Purista, a’ccro (ovvero: attaccato al rap puro), negro, ultra-rivoluzionario, cosciente e contro l’ingiustizia.

Ral-le-bol, invece, in francese significa letteralmente esasperazione, «en avoir ral-le-bol», vuol dire avee abbastanza. Martial accetta di rispondere alle domande di MC sulla situazione del paese.

Come si caratterizza il vostro movimento e cosa chiedete?

«Ral-le-bol è un movimento pro democrazia che lotta per il risveglio della coscienza cittadina. Quando ancora c’erano le autorità in Congo – adesso non c’è più uno stato legittimo – chiedevamo il rispetto dell’ordine costituzionale. Ma la Costituzione del nostro paese è stata purtroppo violata e oggi chiediamo ancora uguaglianza per tutti, acqua potabile, cibo, casa. Sono problemi di base, ma continuano a porsi con una certa ampiezza in Congo. Noi rivendichiamo la giustizia sociale, il benessere, il rispetto dei diritti umani e della democrazia.

Il movimento Ral-le-bol è nato nel dicembre 2014, ben prima che la situazione precipitasse, ed è stato un “ral-le-bol” di giovani, studenti, artisti, che ne avevano abbastanza di vedere il paese in continua regressione, i diritti umani non rispettati, la gente che non mangia a sazietà, la qualità dell’educazione che non è buona, la mancanza di acqua ed elettricità, la violenza poliziesca continua. Vediamo tutti i momenti delle ingiustizie, il saccheggio dei beni pubblici e dei fondi. Così siamo nati per cercare di portare una soluzione a tutti questi problemi, utilizzando lo strumento della rivendicazione».

Chi sono i membri di Ral-le-bol?

«È un movimento con molti giovani, direi dai 20 ai 30 anni. All’inizio eravamo in maggioranza artisti e studenti, ma poi si sono uniti lavoratori, funzionari, disoccupati. È un movimento che raggruppa tutti. Io sono musicista rapper e scrittore».

Cosa avete fatto per il referendum e per le elezioni e come ha reagito il potere?

«Per lottare contro la modifica della Costituzione, nel 2015 abbiamo iniziato a portare la Carta verso i cittadini, per spiegare loro perché è importante rispettarla. E anche se ci sono delle modifiche da fare, occorre che si prenda il tempo necessario. Il presidente della Repubblica aveva terminato i suoi mandati e il testo gli proibiva di ricandidarsi. Abbiamo cominciato quindi con campagne di sensibilizzazione su tutto il territorio nazionale, in particolare a Brazzaville e Point Noire, le due città principali del paese, dove c’è una forte concentrazione di popolazione.

È stato un “porta a porta” per sensibilizzare, e alla fine abbiamo organizzato, insieme ad altri movimenti, una marcia di protesta pacifica il 9 ottobre 2015. Purtroppo questa manifestazione è stata repressa dalla polizia e dalla gendarmeria che ci hanno dispersi, e hanno arrestato 6 dei nostri attivisti. Questi sono stati giudicati, e condannati a 3 mesi di prigione e a una multa di 150.000 franchi (ca. 228 euro). Intanto, quelli che erano scampati all’arresto non erano tranquilli perché temevano che la polizia volesse prendere tutti. Fortunatamente sono stati risparmiati. Gli arrestati sono stati condannati a torto in quanto esigevamo solo il rispetto della Costituzione e il diritto alla manifestazione».

Sostenitori del presidente Denis Sassou Nguesso
/ AFP PHOTO / MARCO LONGARI

Con voi c’erano altri movimenti sociali?

«Assieme a noi, il 9 ottobre c’era il movimento dei giovani cittadini (Mjc), che purtroppo dopo si è alleato alla maggioranza presidenziale, e ha tradito la causa. Il leader di questo movimento si è poi ritrovato consigliere di uno dei ministri eletti alle elezioni truccate. E c’era l’Amicale nell’organizzazione di questa manifestazione di protesta».

Anche tu sei stato arrestato?

«No, fortunatamente sono riuscito a salvarmi e sono fuggito, quando hanno iniziato a tirare le bombe lacrimogene. Perché sapevo che sarebbe finita con degli arresti. In seguito il mio ruolo è stato capitale nella denuncia della situazione attraverso certi media inteazionali, cosa che ha evitato che i nostri amici fossero accusati di essere ribelli. Infatti i governativi, al loro arresto, per accusarli hanno messo loro in mano delle armi. Trenta minuti dopo abbiamo informato la stampa internazionale, che ha fatto fallire questa messa in scena».

Dopo gli arresti del 2015 avete avuto altri problemi con le autorità?

«Due mesi dopo la marcia è stato arrestato un altro nostro militante, Andy Bemba, che è stato rilasciato solo a fine agosto. Ha passato otto mesi senza processo, poi è stato liberato anche grazie a delle pressioni nazionali e inteazionali. Recentemente, non più tardi di qualche giorno fa, (20 ottobre) abbiamo ancora subito attacchi al nostro movimento, con minacce di arresto per Franck Nzila, un altro militante. Sono andati al suo ristorante, hanno arrestato il suo cuoco perché lui non c’era e poi lo hanno liberato dopo 5 giorni di detenzione. È stato poi liberato con l’aiuto dell’Ocdh (Organizzazione congolese per i diritti umani, ndr)».

Poi ci sono state le elezioni presidenziali anticipate.

«La posizione di Ral-le-bol era quella di rimandare le elezioni, perché secondo noi non c’erano le condizioni affinché si tenessero consultazioni libere, trasparenti e rispettose di tutte le regole democratiche. Abbiamo pubblicato un comunicato su questo, ma il potere, che si manifesta sempre con la forza, ha fatto in modo che si tenessero a tutti i costi il 20 marzo. Avevamo anche messo in piedi un’operazione di prossimità, per dire ai cittadini che eravamo contro queste elezioni, perché il presidente si sarebbe imposto con la forza.

Abbiamo detto alla gente, quando votate, restate sul posto per aspettare i risultati, per mostrare alla comunità nazionale e internazionale come questo signore froderà. Nella notte del 20 marzo tutti sapevano già che Sassou aveva perso le elezioni. E aspettavamo di vedere cosa sarebbe successo. Ma il seguito è stato drammatico.

In effetti tutte le previsioni lo davano perdente. A causa delle condizioni nelle quali ha messo il paese, i congolesi non volevano rieleggerlo. Sassou ha sempre imbrogliato e non ha mai vinto un’elezione in maniera trasparente. La prima votazione libera fu nel 1992, e lui la perse.

Per questo noi di Ral-le-bol, sapevamo che avrebbe perso ma che avrebbe voluto imporsi».

Protesta contro il presidente, giocando sull’assonanza di parole: Sossou/ça suffit – basta! / AFP PHOTO / Laudes Martial Mbon

Parlando della società civile in Repubblica del Congo, oggi a che punto siamo?

«È molto indebolita. Sassou sapeva che è stata proprio la società civile a farlo cadere nel 1992. Così appena è tornato al potere, con le armi, ha fatto di tutto per metterla all’angolo. Oggi in Congo possiamo dire che una parte della società civile è comprata dal potere e parla il suo stesso linguaggio. Poi c’è qualche piattaforma di organizzazioni che riesce ad andare avanti, ma è debole e con il clima di terrore che regna nel paese non riescono a fare grandi cose. Quindi è allo stesso tempo indebolita o asservita al potere. E un paese non può svilupparsi con una società civile di questo tipo.

Posso dire che tra noi c’è collaborazione, perché con certe piattaforme riusciamo a comunicare e anche a collaborare. Parlo ad esempio della fondazione Ebina, che fa parte delle Ful-d (Forze unite per la libertà e la democrazia), dell’Ocdh e dell’Associazione per la promozione della cultura, la pace e la nonviolenza».

Siete in una rete internazionale?

«Abbiamo collegamenti con movimenti di cittadinanza attiva come il nostro in altri paesi africani. Con le tecnologie di oggi possiamo comunicare regolarmente e scambiare idee. Talvolta riusciamo a incontrarci in occasione di qualche festival. Penso a Balai Citoyen del Burkina Faso, Filimbi e Lucha della Rdc e Y en a marre del Senegal, con i quali collaboriamo e scambiamo idee. In particolare ci siamo ispirati ai senegalesi, che sono stati i primi a costituirsi».

Come fate a finanziare le vostre attività, i viaggi, gli incontri?

«Nel rispetto dei testi statutari di Ral-le-bol noi funzioniamo grazie alle quote associative dei membri, ma accettiamo anche doni, aiuti e finanziamenti che possono aiutarci a realizzare le attività. Questo non vuol dire che ne abbiamo già ricevuti, finora abbiamo potuto contare solo sui nostri mezzi.

Come membri attivi siamo un centinaio e come membri con partecipazione saltuaria e simpatizzanti siamo a circa 500».

Cosa sta succedendo nel dipartimento del Pool?

«A livello ufficiale c’è una ribellione che sarebbe ricominciata. Quello che si può dire è che da ottobre 2015 a oggi, Sassou ha iniziato un processo nel quale chiunque si opponga al regime o esiga il rispetto della legge, o chieda giustizia, è sistematicamente arrestato, oppure scompare, o viene torturato. Oggi ci sono circa 100 persone in prigione per questi motivi, di cui diversi oppositori, ma il governo sostiene che non ci sono detenuti politici in Congo.

Il 4 aprile 2016 il potere di Brazzaville ha fomentato un colpo di mano. Lo stesso momento in cui hanno iniziato a sparare, verso le 2 del mattino, si proclamavano i risultati ufficiali delle presidenziali. E gli scontri sono proseguiti fino alle 16. Si sparava nei quartieri Sud di Brazzaville. Questo è stato fatto per evitare che la gente scendesse in strada a protestare contro i risultati. Ma non è stato sufficiente, e allora si è cercato un capro espiatorio per dire che c’era un colpevole. Per questo si è accusato Pasteur Ntumi di essere alla testa di un gruppo di ninja, quando tutti sappiamo che questi sono stati disarmati oltre 15 anni fa. Come hanno avuto le armi per attaccare e fare la guerra? I ninja si nasconderebbero nel Pool e così si è cominciato a bombardare la popolazione civile. Sono i civili innocenti che stanno morendo nel Pool, non sono dei guerriglieri.

In quale paese si può accettare che l’esercito bombardi con elicotteri militari la popolazione disarmata? Non è uno scontro con un altro paese. È terribile quello che sta succedendo».

La comunità internazionale, i cosiddetti «amici del Congo», le potenze come Francia e Usa, cosa fanno?

«Oggi i congolesi sono molto delusi dal comportamento della Francia che appoggia ancora il regime di Brazzaville. Perché non dimentichiamo cosa ha detto Hollande quattro giorni prima del referendum anticostituzionale del 2015. Di fatto ha autorizzato il governo a violare la Costituzione, quando qualche tempo prima all’Assemblea generale della Francofonia (organizzazione mondiale che raggruppa i paesi francofoni, ndr), in Senegal, si era opposto alla ricandidatura di Nguesso.

Sono delusi del comportamento della comunità internazionale, perché tutte le nazioni che si dicono protettrici dei diritti dell’uomo, quando si tratta di altri paesi parlano, ma quando si tratta del Congo tacciono. In Congo continuano a morire cittadini che non hanno nulla a che vedere con la politica. Ed è terribile vedere che si continui a uccidere congolesi senza che la Francia dica qualcosa. Siamo molto delusi da tutti questi paesi che non fanno assolutamente nulla per aiutare il Congo a uscire dalla dittatura».

Pensi sia dovuto agli interessi per il petrolio?

«La Francia e gli altri stati guardano le situazioni dei paesi con gli occhi dei loro interessi. Ovvero se hanno affari in un paese, e questi sono garantiti, allora si possono anche uccidere le persone, tutti i giorni. Non è un loro problema. Ma questo è triste perché sono paesi che si dicono culla dei diritti e delle libertà.

Gli Usa hanno condannato la deriva in atto, ma questo non basta. Occorrono sanzioni, bisogna tagliare gli aiuti e la cooperazione, è così che si può aiutare la popolazione. È necessaria un’inchiesta internazionale, ma non è in agenda.

Inoltre si parla poco della Repubblica del Congo a livello di media inteazionali.

Quando, durante le elezioni, siamo rimasti quasi una settimana isolati dal mondo, poco si è scritto. E dopo un tale black out, Sassou si è imposto con la forza e ha utilizzato l’esercito contro la popolazione. Ma nessuno ne parla. Non lo trovo normale. L’opinione pubblica non capisce perché i congolesi si rivoltano, ma noi sappiamo che questo potere è illegittimo, illegale».

Pa’Nucci concert

Qual è la vostra visione sul futuro del paese?

«Il movimento Ral-le-bol esiste soprattutto per far crescere la coscienza cittadina. Come ci sono problemi oggi, ce ne saranno in futuro. Ma bisogna che tutti i congolesi si alzino in piedi come un solo uomo per dire no all’ingiustizia. E noi continueremo a lavorare su questo terreno. Siamo sicuri che il Congo sarà libero ma occorrerà che tutti i congolesi possano impegnarsi per lottare contro la dittatura e i crimini economici che si stanno perpetrando.

C’è infatti anche una grave crisi economica, la cui causa è il governo. Ma chi detiene il potere crea diversivi, come la presunta guerriglia, in modo da non essere scoperti e continuare a dirigere il paese.

Noi vogliamo che il Congo sia un paese di diritto, giustizia e uguaglianza e che quelli che lo hanno messo in questa situazione siano giudicati e paghino per quanto hanno fatto».

Marco Bello




Congo Brazzaville lo spettro della guerra


Per la gente del Congo Brazzaville l’ultimo anno è stato particolarmente difficile. Ha visto una modifica costituzionale e un’elezione, entrambe fortemente contestate. La coscienza civica e democratica è elevata, ma la risposta del potere è la repressione. E il sistema tende a fagocitare lo stato di diritto.

È il 30 settembre scorso, quando un gruppo di armati assalta il treno che corre tra la capitale, Brazzaville, e Pointe Noire, città costiera, ritenuta la capitale economica della Repubblica del Congo. Quattordici sono i morti. Nello stesso periodo si verificano altri attacchi con vittime, tutti nel dipartimento del Pool, regione da sempre «calda» nel Sud del paese. I media parlano della rinascita di una guerriglia, e il ministro della Giustizia si affretta a dire che si tratta di ex miliziani ninja-nsiloulou, noti dalla guerra civile (1999-2003). Ma la questione resta controversa e i dubbi sono molti.

Intanto i vescovi del Congo Brazzaville, nel loro messaggio conclusivo della 45esima assemblea plenaria (10-16 ottobre) chiedono, tra l’altro: « […] ai nostri responsabili politici di operare nel senso del dialogo, allo scopo di un ritorno definitivo della pace in Congo in generale e nel Pool in particolare. Lo stato prenda le sue responsabilità di garante della pace e dell’unità nazionale».

Ma cosa è successo negli ultimi mesi nella Repubblica del Congo? Si è davvero preparata una nuova guerra? E quali le cause? Occorre fare un passo indietro.

Il paese del presidente

Denis Sassou Nguesso è presidente della Repubblica del Congo dal 1979. Fa eccezione il periodo di presidenza di Pascal Lissouba dal 1992 (tramite elezione) al 1997 anno in cui Nguesso riprende il potere con la forza. È la fine della prima guerra civile. Sarà poi eletto nel 2002 e 2009.

La Costituzione del Congo, nella sua revisione del 2002, prevede due soli mandati presidenziali di sette anni per la stessa persona, e un limite di età di 70 anni. Nguesso, 71 anni, alle elezioni del 2016 ha due impedimenti per succedere a se stesso. Ma è una vecchia volpe, e, come ci dice un giornalista congolese, «un seguace di Machiavelli. È bravo a creare situazioni strane per controllare tutto e tutti».

Fin dal 2013 il presidente trama per organizzare un referendum di modifica costituzionale, che è annunciato nel 2014 e si realizza il 25 ottobre 2015. Le manifestazioni organizzate contro il referendum dai movimenti della società civile e dall’opposizione sono represse nel sangue: almeno quattro i morti e numerosi gli arresti tra i leader dei militanti anti Nguesso.

Diritti umani cercasi

«La situazione dei diritti umani in Congo è da sempre preoccupante ma dal 2013 a oggi assistiamo a un peggioramento totale», ci dice Trèsor Nzila, direttore esecutivo dell’Observatornire Congolais pour les Droits de l’Homme (Ocdh), autorevole organizzazione di difesa dei diritti umani con base a Brazzaville, raggiunto telefonicamente. «Assistiamo a un’intensificazione della repressione delle libertà politiche. Sono finiti in carcere una cinquantina di prigionieri d’opinione, come diversi membri dell’opposizione. I giornalisti che hanno linea editoriale critica rispetto al deficit di democrazia sono sanzionati a più riprese dal Consiglio superiore per la libertà di comunicazione. I difensori dei diritti umani sono minacciati; i movimenti sindacali sono attaccati. La giustizia è strumentalizzata. Le forze di polizia torturano, uccidono e reprimono le manifestazioni pubbliche in totale impunità. Non c’è un settore dei diritti umani in cui si può dire che ci sia un miglioramento».

Il referendum fa il suo corso e il risultato, contestato da opposizione e società civile, introduce una modifica della Costituzione, rendendo il presidente Sassou rieleggibile.

«In Congo la nuova Costituzione è stata imposta con la violenza alla popolazione», ci racconta un altro attivista dei diritti umani, di Pointe Noire. «Questo referendum aveva carattere politico, ma quello di cui il popolo aveva bisogno non era il cambiamento costituzionale affinché il presidente rimanesse lo stesso, quanto piuttosto l’avere dei dirigenti scelti dagli elettori, che governano in modo responsabile, rendendo conto del loro operato. Un governo che risponda alle aspirazioni della popolazione in termini di rispetto delle libertà e in particolare dei diritti economici e sociali», continua la nostra fonte, che chiede l’anonimato. «La Costituzione com’è oggi non è stata votata dalla maggioranza della popolazione. La prova è che i congolesi che si sono opposti a questo processo sono stati repressi nella violenza. È stato un vero colpo di stato istituzionale».

Le elezioni precotte

Il 20 marzo 2016 è il giorno delle elezioni. Denis Sassou Nguesso – chiamato monsieur huit pour cent (signor otto per cento), perché si diceva che non avrebbe avuto più dell’8% – capisce di essere in svantaggio. Come sua abitudine «ha comprato parte dell’opposizione e parte della società civile. Chi resiste riceve intimidazioni. Oggi a Brazza se sei nell’opposizione che il potere chiama “radicale”, vieni arrestato arbitrariamente e imprigionato, o muori in condizioni strane, avvelenato, nella tua casa incendiata. Diversi attivisti sono morti così», ci racconta una giornalista che ora vive in esilio e chiede l’anonimato.

«La gente è andata a votare in massa, sperava nel cambiamento, perché c’era stato un lavoro per sensibilizzare la popolazione alla partecipazione. Era pure addestrata a sorvegliare il proprio voto», ci spiega Christian Mounzeo, presidente del Rencontre pour la paix et les droits de l’homme (Rpdh). Ma il governo impone il black out delle comunicazioni interrompendo collegamenti telefonici, messaggistica e internet per 48 ore per pretese misure di ordine pubblico, in realtà per impedire l’organizzazione di possibili rivolte. Un gruppo di 200 militanti viene disperso dalla polizia a seggi chiusi, perché vuole seguire lo spoglio.

Continua Mounzeo: «Sono rimasti fino a tardi nei pressi dei seggi per tentare di verificare il conteggio. Dalla somma dei risultati delle zone a maggiore densità di popolazione ci si accorge che il presidente non ha vinto. Ad esempio a Point Noire, la seconda città del paese (circa un milione di abitanti, ndr), Nguesso ha avuto una percentuale piuttosto bassa. Come anche a Brazzaville, dove la maggioranza della popolazione ha votato per Guy-Brice Parfait Kolelas (arrivato poi secondo con 15,05% di voti, ndr). Se si fa la somma anche con altre città del Sud, il presidente non può aver vinto a livello nazionale». Ma i risultati ufficiali, proclamati dalla Corte Costituzionale alle 3,30 di notte, il 4 aprile, confermano la vittoria di Nguesso al primo tuo con il 60,39% dei voti. Il terzo arrivato secondo i risultati ufficiali è l’ex generale Jean-Marie Michel Mokoko con quasi il 14% degli scrutini.

L’ex generale e il presidente

Mokoko, nel ‘92, quando era Capo di stato maggiore, si era opposto all’idea di golpe di Nguesso contro Lissuba per difendere la democrazia. Era poi rimasto agli alti livelli dell’esercito, ma la gente lo ricorda per la sua integrità e perché lo considera estraneo ai circuiti di corruzione.

Ricorda la giornalista: «A un certo punto la gente ha cominciato a sollecitare Mokoko, perché voleva un cambio nella gestione del paese, allora lui ha deciso di presentarsi, ma Sassou, non ha apprezzato. Durante la campagna elettorale c’è stato un sentimento di rinnovamento e di speranza per questa candidatura. Pur essendo un uomo del Nord (come il presidente, ndr), la gente lo voleva anche a Point Noire, e lo ha accompagnato ai comizi con molto calore. Quando ha depositato la sua candidatura, il numero di iscrizioni sulle liste elettorali è triplicato».

All’indomani della votazione, mentre a Brazzaville scoppiano disordini, Mokoko e altri esponenti dell’opposizione vengono arrestati. Per Mokoko le accuse sono gravi: attentato alla sicurezza dello stato, detenzione di armi e creazione di disordini. In pratica, secondo il regime, avrebbe tentato un colpo di stato. «Ma il dossier d’accusa è vuoto», sostiene la giornalista.

Toano i ninja?

L’opposizione ritiene che i risultati siano «rubati» e chiama la popolazione alla mobilitazione pacifica subito dopo la votazione.

Il 3 e il 4 aprile nei quartieri Sud di Brazzaville, uomini armati attaccano posizioni governative e si scatena uno scontro armato con le forze dell’ordine. I quartieri Sud, abitati da popolazioni del Sud del paese, sono sempre stati in opposizione al presidente Nguesso. Il governo denuncia subito un ritorno delle milizie ninja, all’epoca della guerriglia comandate da Frédéric Bintsamou, detto pasteur Ntumi.

Ma un altro militante dei diritti umani ci confida: «Non c’erano i ninja. Le ultime elezioni presidenziali dal punto di vista dell’opposizione sono state organizzate in modo civile. Anche alle manifestazioni, la gente era cosciente che qualsiasi sbavatura avrebbe dato adito al potere per dargli addosso. Inoltre, le manifestazioni si svolgevano sotto il controllo dell’esercito, della polizia. Ma ci sono delle milizie (filo governative, ndr) che hanno realizzato la repressione».

La giornalista ci spiega: «Il governo ha detto che erano stati i ninja ad attaccare, ma quando si incrociano le testimonianze, ci si rende conto che non è vero. L’attacco è cominciato la sera stessa della proclamazione ufficiale dei risultati. Delle informazioni dicono che erano milizie vicine al potere che hanno sparato per creare una diversione e poi proclamare la vittoria di Nguesso».

Si chiede Trèsor Nizila: «È una strategia per bloccare la mobilitazione che sarebbe seguita la proclamazione dei risultati?». In effetti oltre ad esercito e polizia, sono presenti diverse milizie che «suppliscono» a certi lavori che i corpi ufficiali non possono fare.

«Il potere compra tutti, a colpi di milioni. È facile comprare dei giovani. Ad esempio c’è un gruppo di ex ninja che aveva fatto alleanza con un deputato vicino al potere. Vengono chiamati il gruppo dei Douze apotres (dodici apostoli, ndr) e sono loro alla base degli attacchi del 4 aprile. Questo gruppo non è sotto Ntumi. E la gente non si riconosce con loro. Ho l’impressione che la popolazione sia presa in ostaggio, non ci sono vere rivendicazioni».

Repressione «scientifica»

È da sottolineare che una repressione selettiva nei quartieri Sud della capitale è iniziata fin dall’indomani del referendum dell’ottobre 2015. Una testimone ci racconta: «Nei quartieri Sud tutte le sere la polizia prelevava dei giovani, e della gente sospettata di militare nell’opposizione. Li bastonava e chiudeva nel commissariato quelli che resistevano, gli altri morivano per le botte e la polizia ha iniziato a gettare corpi nei quartieri o nel fiume. Ma tutti avevano paura e non dicevano niente».

In seguito agli scontri a Brazzaville, il 5 aprile scorso il governo manda gli elicotteri a bombardare la regione del Pool, storicamente contestataria. L’effetto è che almeno 5.000 persone lasciano le proprie case per rifugiarsi nella foresta.

Racconta la giornalista: «Hanno lanciato le operazioni ad aprile, con il pretesto di andare a prendere Ntumi e ucciderlo, ma da allora hanno isolato il Pool e bombardano tutti i giorni. Mons. Portella Mbuyu, vescovo di Kinkala, capoluogo del Pool, ha denunciato queste violenze. Anche se si cercano i ribelli, quando si bombarda è la popolazione che subisce. Hanno poi proibito alle Ong di andare sul posto, in modo da sigillare il dipartimento».

Inoltre, in questa zona passa la via di comunicazione più importante tra le due maggiori città del Congo: Brazzaville e il porto di Pointe Noire. Oggi la strada si può percorrere solo in convogli, mentre la ferrovia è bloccata dall’assalto al treno del 30 settembre. Così rifornire di merce Brazzaville è diventato difficile.

«Il potere dice che ex ninja di Pasteur Ntumi hanno attaccato posizioni dell’esercito. A nostro avviso non è una tesi credibile», sostiene il direttore dell’Ocdh. «Non ci convince perché Ntumi è stato integrato nel potere, come consigliere speciale del capo di stato fino alla vigilia di questi attacchi, dal 2007, quando ha lavorato con il presidente. E Nguesso non era al corrente che il suo collaboratore stava addestrando una milizia e si rifoiva di armi? Inoltre il dipartimento di Pool è un dipartimento sotto controllo totale ed effettivo dello stato. Non si capisce come le forze di sicurezza e i servizi segreti non sapessero cosa si stesse muovendo.

Hanno deciso di bombardare i villaggi per cercare un individuo, costringendo così cittadini poveri e traumatizzati a vivere nella foresta in condizioni difficili. Non sembra credibile per un governo che si rispetti e che si prenda cura della popolazione».

In effetti i ninja sono stati smobilitati dopo il 2007, mentre anche la città di Brazzaville è blindata dalle forze dell’ordine, per cui è difficile spiegare pure gli attacchi del 3 e 4 aprile.

Gli «amici» alla finestra

La Francia, gli Stati Uniti e l’Unione europea non hanno riconosciuto le elezioni. Ma, sempre secondo Nzila, «ho l’impressione che la comunità internazionale non voglia interessarsi alla situazione politica e dei diritti umani in Congo, nonostante sia molto preoccupante. Questo silenzio mi sciocca. È inammissibile che istituzioni come l’Ue e le Nazioni unite che promuovono i diritti umani, i valori democratici, lo stato di diritto, non siano in grado di assistere la popolazione congolese in questo momento difficile, quando i suoi governanti la reprimono».

Parlando di futuro, secondo la giornalista: «Questo è un potere che non scende a patti. Crea le condizioni per rendere precaria la vita della gente. Mette il paese sotto pressione, uccide le contestazioni. Crea la paura, fa tornare la psicosi della guerra nella gente che ha già vissuto le sue atrocità, per poterla quindi controllare».

Uno scenario possibile che Trèsor Nzila vede è: «Il malcontento sociale aumenterà e porterà la gente a esprimersi, a fare scioperi per paralizzare le istituzioni. La prima risposta del potere sarà la repressione. Fino a dove andrà la contestazione e fin dove la repressione, non si sa».

Marco Bello




Cercando la democrazia

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I burkinabè hanno eletto un nuovo presidente dopo 27 anni di potere di Blaise Compaoré. Ma è stato necessario fare un’insurrezione e sventare un colpo di stato. Riuscirà il nuovo regime, figlio del vecchio, a portare il cambiamento chiesto dalla popolazione?

Roch Marc Christian Kabore waves to supporters at party headquarter in Ouagadougou on December 1, 2015 after winning Burkina Faso's presidential election, official results showed, after a year of turmoil that saw the west African country's former leader deposed and the military try to seize power in a coup. AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO / AFP / ISSOUF SANOGO

«Era il 29 ottobre [2014], verso le otto di sera. Decidemmo di dormire nei pressi della rotonda delle Nazioni unite, per essere i primi ad andare, il giorno dopo, all’Assemblea nazionale (Parlamento, nda)». Chi racconta è Daoda Soma, giovane ingegnere informatico burkinabè, ma soprattutto militante di Le Balai Citoyen (la scopa cittadina) tra le associazioni più agguerrite nell’insurrezione popolare del 2014. Il 30 ottobre era previsto che i deputati votassero la modifica costituzionale dell’articolo 37, che avrebbe permesso a Blaise Compaoré, al potere dal 1987, di ricandidarsi alle presidenziali. (cfr. Mc gen-feb 2015). «La polizia è arrivata e ci ha aggrediti con i gas lacrimogeni. Siamo dovuti partire. Ma molto presto, il mattino dopo, siamo tornati. C’era una folla enorme: fare un minuto di ritardo significava restare indietro di un chilometro. C’era di tutto: bambini, adolescenti, giovani e vecchi. Penso sia intervenuta la mano di Dio, perché i militari che erano appostati intorno al palazzo non hanno sparato sulla folla».

Quel giorno, la pacifica gente di Ouagadougou prese d’assalto la sede dell’Assemblea nazionale, il parlamento, mettendola a ferro e fuoco, per impedire ai deputati di votare. Daoda continua il suo racconto: «La maggioranza della gente non voleva questa modifica. Anche se i media e i comunicati ufficiali dicevano l’esatto contrario. Sarebbe stato come subire un colpo di stato. Per questo ci mobilitammo per evitare che succedesse. Voci dicevano che molti deputati erano stati “comprati” dal potere e che la modifica sarebbe passata. Una volta votata la legge, i politici avrebbero potuto fare quello che volevano». Così quel giorno non si votò perché i deputati non poterono riunirsi. Il 31 ottobre Blaise Compaoré fuggì, grazie alla Francia, in Costa d’Avorio, e si aprì una nuova stagione politica per il paese, dopo 27 anni di «regno» incontrastato.

Fu definito dalle forze della nazione un periodo di transizione di 12 mesi, con un governo, un presidente della Repubblica e il Consiglio nazionale di transizione (parlamento). Gli organi della transizione avevano il compito di portare il paese alle elezioni dello scorso 29 novembre.

Elezioni che si sono tenute nella calma, con un grande afflusso. Non le prime elezioni democratiche, come qualcuno ha scritto, ma certo le prime senza lo strapotere di un partito, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso) di Compaoré, in grado di controllare tutto e tutti e assicurarsi la vittoria, anche in parlamento, con percentuali altissime.

L’esito è stata la vittoria del favorito Roch Marc Christian Kaboré, uno dei pilastri del regime Compaoré fin dalle origini, che si era staccato dal Cdp nel gennaio 2014 fondando il suo movimento, l’Mpp (Movimento del popolo per il progresso). Ma vediamo cosa ha portato a questo cambiamento epocale.

L’insurrezione burkinabè

Scrutineers are at work during the counting of Burkina Faso's presidential election votes at a polling station in Ouagadougou on November 29, 2015. After Voters in Burkina Faso cast ballots on November 29 for a new president and parliament, hoping to tu the page on a year of turmoil during which the west African nation's people ousted a veteran ruler and repelled a military coup. AFP / ISSOUF SANOGO / AFP / ISSOUF SANOGO

«L’insurrezione è un concorso di circostanze tra un processo storico e avvenimenti interni ed estei. La società civile non è la sola depositaria dell’insurrezione. Ha giocato un ruolo importante, significativo, ma non sufficiente. Occorrevano altre forze». Ci racconta Antornine Raogo Sawadogo, sociologo, presidente dell’istituto di ricerca Laboratornire Citoyennetés, ed ex ministro dell’Amministrazione territoriale e del decentramento.

«La grande manifestazione che ha cacciato Blaise si è svolta a Ouagadougou, ma c’erano anche i partiti politici, i sindacati, e il cittadino della strada non organizzato. Era una domanda collettiva. Le rivendicazioni dei diversi gruppi che hanno cacciato Compaoré riguardavano un maggiore stato di diritto, la richiesta di uno stato democratico capace di fare una redistribuzione di ricchezze, dei frutti della crescita e di praticare una giustizia uguale per tutti. È questo che ha motivato tutta la comunità nazionale».

«La maggior parte degli attori dell’ottobre 2014 non hanno conosciuto che Blaise Compaoré da quando sono nati. Avevano voglia di cambiare presidente». Ci dice Germain Nama, direttore del giornale burkinabè L’Événement. «Occorre fare un passo indietro. Storicamente i movimenti di contestazione in Burkina si organizzavano dietro ai sindacati. I partiti politici li utilizzavano per portare le loro rivendicazioni.

Ma, in questo modo, i sindacati facevano molta ombra ai partiti politici. E ultimamente si rifiutavano di fare questa parte. I partiti stessi hanno capito che occorreva prendere il proprio destino in mano. Sono così entrati in gioco. Negli anni 2012-13-14 si è vista la crescita dei partiti politici che hanno cominciato a organizzarsi intorno al capo fila dell’opposizione. Sono stati anni di profondo cambiamento e di presa di potere da parte loro. Le imponenti manifestazioni di piazza del 2014 sono state organizzate da loro.

Il 4 gennaio 2014, c’era stata la rottura in seno al partito di Compaoré, il Cdp che aveva portato alla crazione del nuovo partito Mpp».

Continua Nama: «Il 28 ottobre si è tenuta la più grande manifestazione che il Burkina abbia mai visto. Quel giorno, se Blaise Compaoré fosse stato furbo, avrebbe chiamato i partiti politici che lo contestavano per cercare un terreno d’intesa. Avrebbe dovuto capire che il limite era stato passato».

La fuga del dinosauro

«Ero nella piazza della Rivoluzione ricolma di gente, avevo la maglia nera di Le Balai Citoyen – ricorda Daoda -. Sono arrivati dei militari, tra loro Isaac Zida (membro della guardia presidenziale, ha preso il potere alla fuga di Blaise per poi renderlo ai civili. È stato quindi nominato primo ministro di transizione, ndr). Non lo conoscevo. Un militare mi tocca la schiena e mi chiede: “Come fate per far passare la gente?”. Rispondo: “Qui non c’è violenza. Dove volete andare?”. “Il capo deve passare”. E io: “Ok, seguitemi”. Ero davanti e, con il linguaggio del ghetto, della strada, ho detto: “il capo arriva e ci porta buone notizie”. La folla si è allora aperta e Zida, arrivato al centro della piazza, ha iniziato a parlare con il microfono. Quando ha annunciato che Blaise aveva dato le dimissioni l’euforia della gente è stata grande».

Continua Nama: «I partiti politici hanno acquistato molta importanza in questa occasione. Sfortunatamente per loro, però, non avevano previsto la partenza di Compaoré che li ha presi completamente alla sprovvista. Non avevano soluzioni pronte. Ancora una volta i militari si sono precipitati sul potere. L’esercito è sembrata la sola forza con una certa coesione».

Un anno dopo: il fulmine

Soldiers of Burkina Faso's loyalist troops stand guard near the Naba Koom II barracks, the base of the Presidential Security Regiment (RSP) in Ouagadougou on September 30, 2015, within the visit of interim leader Michel Kafando. General Gilbert Diendere, the leader of a failed coup by RSP in Burkina Faso, was in talks on September 30 on handing himself in to the govement that his elite force tried to unseat, after troops stormed the putschists' barracks. AFP PHOTO / SIA KAMBOU / AFP / SIA KAMBOU

Il 16 settembre 2015 i militari del Reggimento di sicurezza presidenziale (Rsp), durante una riunione del Consiglio dei ministri, prendono in ostaggio il presidente di transizione Michel Kafando e alcuni ministri. È golpe. Il generale Gilbert Diéndéré, fedelissimo di Compaoré, già coinvolto in numerosi crimini del regime, si proclama capo di stato. Parte una caccia all’uomo nei confronti dei responsabili dei movimenti che hanno guidato l’insurrezione di ottobre. Gli effettivi del Rsp, circa 1.300 uomini scelti e ben armati, si sparpagliano per la città allo scopo di bloccare ogni possibile reazione. Il pretesto del putsch è che le elezioni, previste l’11 ottobre, non sarebbero inclusive, perché escludono alcuni personaggi troppo vicini a Compaoré. Di fatto da mesi c’erano attriti tra il primo ministro Isaac Zida, lui stesso ex Rsp, e il reggimento. Ed era sul tavolo la dissoluzione stessa del corpo.

I burkinabè sono attoniti, si vedono scippare il cambiamento per cui hanno tanto lottato e alcuni di loro sono morti. «Sì, la notizia ci è arrivata addosso. Ci siamo subito detti: la lotta deve continuare. Era qualcosa davvero di inimmaginabile, anche se qualche preoccupazione in realtà io l’avevo avuta», ricorda Daoda.

«Siamo andati alla rotonda della Patte d’Oie e abbiamo deciso di marciare verso Kosyam (il palazzo presidenziale dove presidente e primo ministro erano agli arresti, ndr) la sera stessa. Andando avanti, abbiamo incontrato uomini del Rsp che hanno cominciato a sparare. Siamo tutti fuggiti allo sbando».

«Abbiamo girato per Ouagadougou per riprendere la mobilitazione. La gente era irritata. I militari entravano nei quartieri e sparavano pallottole reali, facevano togliere le barricate. Ma appena se ne andavano, gli abitanti le rifacevano. I militari del Rsp non erano troppo umani in quel momento. Se li guardavi in faccia, sentivi l’alcornol, la droga, vedevi occhi di gente che non aveva più niente da perdere».

Durante una settimana la capitale del Burkina Faso rimane bloccata. I sindacati proclamano uno sciopero generale su tutto il territorio nazionale che ottiene la massima adesione. Nelle altre città si riescono a fare delle manifestazioni contro i golpisti. La repressione dell’Rsp causa almeno 17 morti e 108 feriti. Molte vittime sono colpite alla schiena.

MC 1-16 Burkina 5

Mediazione insufficiente

Intanto si attiva una mediazione della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), che coinvolge mons. Paul Ouedraogo, vescovo di Bobo-Dioulasso, l’ex presidente Jean-Baptiste Ouedraogo e il capo di stato maggiore dell’esercito Pingrenoma Zagré. Il mediatore principale è il presidente del Senegal, Macky Sall, aiutato dall’omologo del Benin, Boni Yayi. La proposta di accordo che elaborano non piace però ai burkinabè che la respingono. È troppo filo putschisti: prevede l’amnistia per loro e la reintegrazione dei politici pro Compaoré alle elezioni.

La mossa decisiva arriva dall’esercito repubblicano. All’alba del 22 settembre colonne di blindati lasciano le città di Bobo, Kaya, Fada N’Gourma, Koudougou, Ouahigouya acclamati dalla folla lungo le strade. Gli ufficiali a capo di diversi corpi si sono cornordinati e hanno deciso di muovere verso la capitale. Sono momenti di grande tensione perché si teme uno scontro fratricida tra le due fazioni dell’esercito. Viene invece intavolato un negoziato. Molti ufficiali delle due parti si conoscono per aver frequentato i corsi insieme. È presente anche il Mogho Naaba, re dei Mossì, come autorità morale riconosciuta da tutti. L’accordo, prevede il rientro nella caserma del Rsp e l’allontanamento a 50 km dalla capitale delle truppe dell’esercito repubblicano.

Ma circa 300 irriducibili si asserragliano nel campo militare Naaba Koom a ridosso del palazzo presidenziale. L’esercito circonda la caserma, e il 29 mattina si odono colpi di obice. Naaba Koom viene bombardato e gli Rsp finalmente si arrendono. Il generale Diendéré era già fuggito e, rifiutato dalle ambasciate di Francia e Usa, si era rifugiato alla nunziatura, per poi consegnarsi alle autorità.

Nei foitissimi depositi del Naaba Koom si trovano anche armi provenienti dalla Costa d’Avorio e dal Togo.

Nei giorni successivi sono rese note intercettazioni telefoniche tra Guillaume Soro, presidente dell’Assemblea nazionale della Costa d’Avorio, e Djibril Bassolé, generale, già ministro della difesa di Compaoré. La casa di Soro a Ouagadougou viene perquisita mentre Bassolé è arrestato per essere giudicato come complice del golpe. Risulta chiaro un fatto gravissimo: la Costa d’Avorio, dove Compaoré è in esilio, ha appoggiato i golpisti.

Michel Kafando viene rimesso alla testa della transizione, è il governo ripristinato. Nel primo Consiglio dei ministri viene formalizzata la dissoluzione del Rsp. Successivamente è rivista la Costituzione e l’articolo 37 che limita i mandati presidenziali è reso non modificabile.

MC 1-16 Burkina 8Niente più come prima

«C’è una frase su tutte le labbra: “Nulla sarà più come prima”». Ricorda Antornine Sawadogo. «Sono d’accordo con questo, ma può essere in meglio o in peggio. Abbiamo appena evitato il peggio con il colpo di stato del 16 settembre. Se il presidente che è stato eletto non terrà conto di tutto quello che è successo, il paese sarà ingovernabile, perché la gente è abituata a sollevarsi spontaneamente, appena c’è una indelicatezza commessa da un’autorità.

Io penso che il nuovo regime deve dotarsi di una dimensione democratica, giocare il gioco della democrazia, dello stato di diritto. Quando la gente si renderà conto che il figlio del povero ha gli stessi diritti di quello del ricco, quando gli operatori economici vedranno che gli appalti pubblici non vanno sempre agli stessi personaggi, o quando si vedrà che studiare in periferia nelle cittadine offre le stesse opportunità che studiare in Europa, la gente sarà un po’ più tollerante».

Non sembra un’utopia? «Tutto questo non è irreale, perché i burkinabè sanno fare la differenza tra quello che lo stato può fare o no. Il problema in Burkina è l’esclusione massiccia di gran parte della popolazione. Politicamente è necessario trasformare il cittadino insorto in cittadino atto a fare il controllo di cittadinanza, a chiedere conto a chi governa, e organizzarsi per fare una censura quando gli eletti stanno deviando e o esagerando, poter dire “fermatevi”. L’insurrezione non può andare al di là dell’espressione cittadina, ovvero saccheggiare, bruciare l’asfalto, distruggere palazzi istituzionali.

Penso che il nuovo regime debba negoziare un periodo di transizione, di grazia, per fare le riforme essenziali, per arrivare a uno stato di diritto: giustizia, educazione, sanità, esercito».

L’avanguardia

«I responsabili dei partiti politici sono burkinabè, capiscono i problemi della gente. Hanno visto come Blaise è scappato. Penso che abbiano imparato la lezione», ci dice Germain Nama. «Nonostante questo, noi non possiamo incrociare le braccia, bisognerà organizzarsi, come contropotere, per pesare nella bilancia e ottenere i cambiamenti qualitativi necessari. La società civile deve restare vigilante, le organizzazioni del popolo, i partiti politici di opposizione, devono avere un ruolo di risveglio di coscienze».

Per questo i media sono particolarmente importanti: «I media burkinabè sono molto critici. Ci differenziamo dai media africani in generale. Come in Costa d’Avorio, Mali, dove c’è molta corruzione nei media. Un po’ anche in Burkina, ma ci sono dei limiti che non sono stati superati. In maggioranza la stampa burkinabè resta una stampa di qualità, impegnata, cosciente, responsabile, ed è questo che ha contribuito a un livello elevato al cambiamento politico che abbiamo avuto. L’insurrezione di ottobre è stata preceduta da un’insurrezione mediatica. Non abbiamo mai fatto regali a Compaoré. Siamo l’avanguardia della lotta per un cambiamento qualitativo in Burkina. La stampa ha giocato il suo ruolo e continua a farlo».

Marco Bello