Burkina Faso: l’uomo che fermò il deserto


È nato in una regione del mondo dove la natura è avversa. E produrre cibo è molto difficile. Le grandi carestie degli anni ‘80 hanno allontanato gli uomini validi. Ma lui è rimasto e ha studiato un metodo per coltivare nel deserto. Con la sola acqua piovana. Ora a casa sua c’è una foresta con una grande biodiversità.

Ma le sfide non sono terminate.

Alto e secco, indossa l’abbigliamento tipico saheliano delle persone di una certa età e quindi, per l’Africa, autorevolezza sociale: un grand boubou (vedi foto pag. 15) e un cappellino circolare. Sembra un po’ spaesato quando lo incontriamo a Cumiana, cittadina in provincia di Torino, dove l’amministrazione comunale e l’Ong Cisv hanno organizzato il CumianaFest, di cui Yacouba Sawadogo è l’ospite d’onore. Il Festival presenta le esperienze di piccoli agricoltori che hanno fatto del loro lavoro un modo di salvare il pianeta e la sua biodiversità.

Yacouba Sawadogo è un contadino del Nord del Burkina Faso. Non è mai andato in una scuola di tipo «occidentale», per cui non sa leggere né scrivere e parla solo la sua lingua, il moore. Ha invece frequentato una scuola coranica nel vicino Mali, quando era ragazzo.

Originario di Gourga, piccolo villaggio nei pressi di Ouahigouya, quarta città del Burkina Faso, con 70.000 abitanti, vi ha passato tutta la sua vita. La zona è in pieno Sahel, la fascia climatica che taglia l’Africa in senso orizzontale a Sud del Sahara. Una cintura di savana secca e poco arborata, che costituisce il raccordo tra il deserto nel Nord e le zone più umide a Sud. Tecnicamente si considera Sahel la fascia climatica che ha una pluviometria media annuale, misurata in millimetri di pioggia caduti all’anno, tra i 150 e i 600.

Negli ultimi 50 anni la zona ha continuato a deteriorarsi: sono diminuiti gli alberi e gli arbusti, mentre lo strato di terra organica coltivabile si è assottigliato. Un fenomeno causato dall’erosione delle violente piogge, concentrate in poche settimane, ma anche dalla pressione umana (taglio degli alberi e pastorizia) e, a livello più globale, dal cambiamento climatico e diminuzione delle piogge. È come dire che il deserto del Sahara si è impossessato di una striscia mediamente di 100 km, e la banda saheliana si è spostata della stessa distanza verso Sud. Per questo motivo si dice che il Sahara si estende verso il Sud.

A Ouahigouya la pioggia è scarsa e cade in un unico periodo dell’anno, tra giugno e settembre. È in questi mesi che i contadini coltivano il miglio e il sorgo, i cui semi, stoccati in magazzini tradizionali, dovranno nutrire le loro famiglie per l’intero anno successivo. Sempre più accade che le precipitazioni siano scarse e irregolari per cui le piantine non riescono a svilupparsi e le pannocchie ad arrivare a maturazione.

È in questo contesto che periodicamente si verificano fenomeni di siccità e carestia. Ed è proprio durante la grande carestia agli inizi degli anni ’80 (1980-83) che inizia la storia di Yacouba Sawadogo.

I soldi non si mangiano

«Quando rientrai in Burkina dal Mali, dopo aver frequentato la scuola coranica, iniziai un commercio. Conoscevo la meccanica delle moto. Il lavoro andava bene, e i soldi non mi mancavano» ci racconta Yacouba. È la fine degli anni ’70. Poi iniziano i problemi. «Dopo qualche tempo, a causa della grande siccità, la gente iniziava ad andarsene dal Nord per cercare zone in cui poteva trovare da mangiare. Anche io sono andato a lavorare in Costa d’Avorio, ma sono tornato dopo poco tempo». Yacouba prende una decisione, quella di seguire la strada più dura: lavorare la terra. «Quando ho cominciato, non c’era acqua, per cui non solo non si poteva coltivare, ma anche gli animali morivano perché non c’era pascolo. Ho osservato che anche quelli che avevano i soldi, non avevano nulla da comprare. Ho visto commercianti più ricchi di me, che se ne andavano». Yacouba comprende una semplice ma essenziale verità: «In quel periodo ho capito che né i soldi, né la ricchezza delle mandrie dominano il mondo, ma è il cibo la chiave della vita». Così decide: «Invece di scappare, attaccherò il problema».

Yacouba conosce una tecnica ancestrale, che a quelle latitudini ha permesso ai contadini di sopravvivere. Si chiama «Zai» e consiste nello scavare nel terreno delle conchette di una ventina di centimetri di diametro, una accanto all’altra, allineate secondo la pendenza del terreno. In esse si depositano i semi. Le conchette, talvolta riempite di concime, hanno l’effetto di trattenere l’acqua, che le piogge torrenziali e il terreno secco tendono a far scorrere velocemente a valle, non penetrando nel suolo e, anzi, erodendolo.

Il nostro uomo si ingegna e modifica la tecnica dello Zai tradizionale migliorandola. Modifica la zappa utilizzata per scavare le conchette e le scava più grandi e profonde. Fa poi in modo di porvi sempre del concime organico e talvolta altri elementi, come le termiti.

All’inizio è dura: «Ho cominciato da solo sulla mia terra. Quando ho visto che le migliorie funzionavano e riuscivo a produrre miglio e sorgo, ho coinvolto mia moglie e i miei figli. Poi si sono aggiunti i vicini. Siamo arrivati a un lavoro comunitario».

Proprio il lavoro comunitario ha un’importanza fondamentale per Yacouba: «Apporta molte conoscenze a tutti quelli che vi partecipano e aiuta molto il proprietario del campo. È un lavoro che coinvolge anche i più riluttanti che vedono che gli altri lavorano insieme, e imparano. Inoltre essendo in tanti si può fare un lavoro più efficace tutti insieme».

Yacouba ha coinvolto anche villaggi dei dintorni e ha realizzato una specie di credito in natura. A chi lo aiuta fornisce parte dei suoi semi. Questi li utlizzano per coltivare e poi, a loro volta, renderenno a Yacouba parte dei semi raccolti.

Un’oasi di biodiversità

Ma Yacouba non si ferma all’agricoltura di sostentamento e inizia a portare semi di diverse piante nel suo campo. Arriva così a sviluppare, in quasi 40 anni di lavoro continuativo, una vera foresta in una zona altamente desertificata. La foresta di Gourga, su una superficie di 23,5 ettari, è un polmone a elevata biodiversità.

«All’inizio nacquero delle piante spontaneamente perché nel letame usato come concime c’erano i semi dei frutti mangiati dagli animali. Poi iniziai io stesso a portare semi di piante che erano scomparse dalla zona». Senza accorgersene Yacouba realizza un esperimento di agroecologia in anticipo sui tempi.

«L’importanza delle piante e degli alberi è fondamentale: danno ombra all’uomo, fanno da frangi vento, in zone nelle quali il vento è molto forte, trattengono la terra, lottando quindi contro l’erosione, e fertilizzano il suolo. Inoltre alcune loro parti, come foglie, corteccia, radici, semi sono utilizzate per curare gli uomini. Per tutti questi motivi ho piantato gli alberi».

Ci sono anche animali nella foresta di Yacouba: diversi uccelli, tortorelle, lepri, scoiattoli, roditori. Tutti contribuiscono alla rigenerazione della foresta. Perché i volatili possono portare semi da altre zone, i roditori scavano gallerie che aiutano la fertilizzazione del suolo, sono utili per l’uomo, e alcune specie sono commestibili. L’anziano contadino «agroecologista» ha, anche in questo, molto da insegnare: «Io do da mangiare e da bere agli animali della foresta, in particolare gli uccelli. Metto delle ciotole con l’acqua e lascio per terra delle granaglie. Così gli uccelli si fermano e abitano la foresta. Con i benefici che questo crea. Inoltre voglio salvaguardare tutte le specie della foresta, anche quelle più rare nel Sahel».

Esiste un animale molto piccolo fondamentale per la lotta alla progressione del deserto: la termite.

Le termiti contribuiscono alla fertilizzazione dei suoli attraverso i cunicoli e la trasformazione dei microelementi del letame posto nelle conchette. «Ad esempio si possono utilizzare nello Zai migliorato. La tecnica è semplice: quando vedo un posto dove osservo la presenza di termiti, conosco quello che a loro piace mangiare, porto questi alimenti e vedo le termiti uscire per mangiare». Così Yacouba può spostare le termiti in altre zone e diffonderle. «Ci sono dei termitai morti, ovvero disabitati. Io riesco a riportare termiti in questi termitai che non sono più abitati per farli rivivere perché possano dare così il loro contributo all’ecosistema».

In queste attività Yacouba si fa aiutare dai suoi figli: «Quello che fanno è studiare le specie vegetali, entrano nella foresta e verificano se qualche specie locale non è ancora presente. In questo caso viaggiano nella regione per cercare i semi e piantarli nella foresta. Uno dei miei figli è andato fino in Mali per prendere i semi di un’erba specifica e portarli a Ouahigouya».

Dalla terra all’uomo

Ma dietro all’idea – e alla pratica – di salvaguardare l’ambiente, Yacouba Sawadogo ha come obiettivo, sul lungo termine, quello di curare le persone. «Mi ero detto: per 40 anni lavorerò per migliorare la terra e la foresta, producendo piante, portando specie da altre zone, ma dopo mi consacrerò a curare l’umanità».

Così una decina di anni fa, il contadino noto come «colui che ha fermato il deserto», inizia a utilizzare piante medicinali per curare i malati. «Quando ero piccolo, ho visto dei vecchi che curavano le persone con diverse malattie, usando semplicemente delle piante, scorze, fiori, foglie, radici. Ma ho notato che negli anni molte piante sono scomparse. Ecco perché ho iniziato a cercarle per introdurle nella foresta. Poi ho cominciato a usare le piante. Se vedevo qualcuno che aveva bisogno, allora intervenivo. Ma non mi proponevo come curatore. Solo più tardi ho iniziato a ricevere i pazienti come curatore. Ho costruito 10 piccole case nella foresta dove ricevere i malati. Adesso visito almeno un paziente al giorno. Da quando sono in Italia, ricevo telefonate di malati del mio paese che hanno bisogno di me, che mi chiamano per andare a curarli».

Yacouba ottiene poi dal ministero della Sanità un’autorizzazione per curare le malattie. In particolare per raffreddori, bronchiti ed emorroidi.

Ecco perché, da qualche tempo, nella «sua» foresta sono prioritarie le piante medicinali, ma sta seminando anche piante per alimentazione. In particolare essenze che stanno scomparendo nella zona.

Fama internazionale?

Yacouba ha un aspetto tranquillo, quasi dimesso, ma si vede che è una persona autorevole. Non si dilunga in conversazioni inutili, e risponde in modo molto sintetico alle domande.

Circa 10 anni fa l’Ong Oxfam fa in modo di farlo invitare negli Stati Uniti, dove organizza la presentazione del suo lavoro al congresso statunitense. È un’occasione in cui il lavoro dello sconosciuto e riservato contadino burkinabè ha un momento di gloria. Qualche anno dopo, nel 2010, il documentarista britannico Mark Dodd ne fa un documentario: «L’uomo che fermò il deserto».

«Dopo il viaggio sono stato avvicinato da molte persone straniere e burkinabè e in diversi sono venuti a vedere il mio Zai. L’esperienza mi ha galvanizzato e mi ha dato più coraggio per perseverare in questo lavoro. Inoltre mi ha fatto comprendere che quello che faccio in questo angolo della terra è molto utile per l’umanità, a tal punto che la maggiore potenza del mondo mi chiede di spiegarlo».

Yacouba riceve pure un premio negli Usa, ma nessun aiuto materiale o finanziario per migliorare la sua pratica.

Anche in Burkina Faso il governo conosce il suo lavoro straordinario, ma nessuno si impegna ad andare a vedere, aiutarlo finanziariamente o riconoscerlo ufficialmente.

Preservare la foresta

Alcuni anni fa, a causa dell’estensione di Ouahigouya, una fascia intorno alla città viene lottizzata e venduta a privati. In Burkina Faso la terra in ambiente rurale è tutta di proprietà dello stato che la lascia sfruttare a chi ci abita, secondo delle regole di assegnazione attraverso i capi tradizionali. Quando un’area rurale diventa urbana, allora viene venduta e sono rilasciati titoli di proprietà. La terra della famiglia di Yacouba, sulla quale aveva lavorato suo padre e nella quale sono seppelliti lui e gli altri antenati, è proprio nei pressi della città. L’ultima lottizzazione la interessa e la sua casa viene suddivisa su quattro parcelle, la tomba di suo padre su due, un pozzo che lui utilizzava rimane su un’altra parcella ancora. Anche la foresta rischia di venire suddivisa, ma forse grazie al momento di notorietà, il comune la risparmia. «Tutto intorno alla foresta la terra è stata suddivisa e venduta a privati, ma gli alberi non sono stati toccati. Qualcuno ha cercato di costruire all’interno di essa ma lo stato li ha cacciati». Il nostro uomo però non dorme sonni tranquilli, teme che la foresta, se non viene protetta, un giorno scomparirà con tutta la sua biodiversità: «Sto chiedendo al governo che il suo territorio sia demarcato ufficialmente, e quindi protetto, e cerco finanziamenti per realizzare un muro di cinta che la circondi». Operazione non facile, la seconda, visto che si tratta di una superficie vasta, grosso modo, come 32 campi da calcio.

«Ogni giorno – ricorda l’anziano – recevo un visitatore nazionale o internazionale, vengono classi di studenti. Tutti a vedere la foresta e conoscere le mie tecniche. È come una scuola mondiale, un bene comune dell’umanità. Lasciarla distruggere sarebbe un grave errore»

La successione

Yacouba ha oggi 70 anni, un’età veneranda nel Shael, dove la speranza di vita si ferma intorno ai 55. Si preoccupa per la foresta per quando lui non sarà più sulla terra. Per questo ha formato uno dei suoi figli, che poi è andato a vivere vicino agli alberi. Un altro figlio lo ha mandato a studiare come tecnico forestale, affinché si formi meglio per poi tornare.

«Vorrei che questo luogo sia per tutta l’umanità una scuola di agroecologia, dove chiunque possa venire da altre zone della terra a imparare la tecnica dello Zai per rigenerare la natura. Vorrei salvaguardare tutte queste specie di piante e animali selvaggi, una biodiversità saheliana, per l’umanità».

Congedandoci dal questo «grande vecchio» non possiamo che pensare alla saggezza di questo uomo semplice, che ha dedicato tutta la vita per lottare contro la distruzione della natura, per e con il fine ultimo di migliorare le condizioni di vita dei suoi compaesani e dare un segnale a tutta l’umanità.

Marco Bello

 




Papua Nuova Guinea. Deforestazione: la rapina silenziosa


Lo stato di Papua Nuova Guinea divide con l’Indonesia la seconda isola più grande del mondo. Ma soprattutto il terzo polmone verde del pianeta. Un polmone messo in pericolo da una deforestazione incontrollata. Il programma delle Nazioni Unite denominato «Redd» può essere una soluzione?

Fermare la deforestazione che sta devastando il paese e stabilire un piano d’azione concreto per dar vita a un’industria del legname sostenibile, in grado di produrre vantaggi anche per le comunità locali e non solo per le grandi compagnie straniere. È questo l’obiettivo degli incontri del Redd+ in Papua Nuova Guinea, avvenuti ad aprile e agosto 2016 a Kimbe, nella regione della Nuova Britannia.

La sigla Redd+ sta per «Reduction of emissions from deforestation and forest degradation», un programma elaborato nell’ambito della Unfccc, la «Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici», per favorire la riduzione delle emissioni provenienti dalla distruzione delle foreste nei paesi in via di sviluppo. Il meccanismo alla base del progetto prevede l’istituzione di un sistema di pagamenti per quegli stati che riescono a dimostrare la capacità di ridurre le emissioni derivanti dalla deforestazione che, secondo le stesse Nazioni Unite, ammontano al 20 per cento del totale prodotto sul pianeta.

Per una terra verde e in buona parte ancora incontaminata come la Papua Nuova Guinea, che, secondo le stime degli esperti dell’Onu, ospita da sola circa il 5% della biodiversità di tutto il globo ma che da decenni è oggetto di un sistematico e violento saccheggio da parte di società straniere che commerciano in legname, il Redd+ non può essere considerato solo un programma di nicchia per biologi e addetti ai lavori, quanto piuttosto uno strumento da mettere in funzione prima che sia troppo tardi. Vale a dire prima che si superi quella soglia di non ritorno che porterebbe al definitivo collasso del terzo polmone verde più grande della terra, dopo la foresta amazzonica e quella che ricopre la parte meridionale del continente asiatico. Porre un freno alla deforestazione, però, è un’impresa tutt’altro che semplice in uno dei paesi tra i più poveri e arretrati del pianeta, oggetto delle voraci brame dell’industria dei tronchi d’albero.

Tremila alberi per abitante

La Papua Nuova Guinea occupa metà della seconda isola più grande al mondo dopo la Groenlandia e diverse centinaia di piccole isole. Tre quarti dei suoi 462.840 chilometri quadrati sono coperti da foreste, in un chilometro quadrato delle quali crescono circa 70.000 alberi. Partendo da queste premesse è facile calcolare a spanne che il paese ospita più o meno 24,3 miliardi di alberi, 3.037 per ognuno dei suoi 8 milioni di abitanti. Numeri impressionanti, che sembrerebbero mettere al sicuro il territorio da qualsiasi «calvizie» da disboscamento, e che invece devono essere confrontati con le ancora più sconcertanti cifre della deforestazione.

Superando tutti i paesi africani, asiatici e dell’America Latina, la Papua Nuova Guinea è divenuta infatti il primo esportatore mondiale di «taun». Conosciuto nella regione del Sud Est asiatico anche come ahabu, matorna, malugai, kasai, sibu, tava o truong, questo particolare tipo di legno tropicale simile al mogano risponde al nome scientifico di Pometia pinnata ed è ricercato principalmente, ma non solo, per le decorazioni degli interni. Secondo uno studio pubblicato a febbraio dal think tank califoiano Oakland Institute (oaklandinstitute.org), solo nel 2014 dall’isola sono stati esportati quasi 4 milioni di metri cubi di legname, l’80 per cento dei quali è finito sul mercato cinese. Il tutto senza che la disastrata economia locale ne abbia tratto sostanziale giovamento.

Il dossier, significativamente intitolato «The great timber heist» (La grande rapina del legno), sottolinea a questo proposito che attualmente circa un terzo del territorio coperto da foreste del paese è nelle mani di compagnie straniere, e che ogni anno l’isola perde oltre 100 milioni di dollari a causa dell’evasione fiscale perpetrata da queste società. Attraverso complessi sistemi di scatole cinesi e aziende controllate, spiega il documento, le imprese estere riescono a dichiarare prezzi di vendita del legname irrisori, gonfiando parallelamente i costi dei materiali acquistati e arrivando in questo modo a dichiarare profitti quasi nulli, e quindi non tassabili. L’Oakland Institute ha analizzato nel dettaglio il caso della società malese Rimbunan Hijau, le cui 16 consociate attive in Papua Nuova Guinea risultano essere in perdita e non pagano un dollaro di tasse, pur gestendo un quarto di tutte le esportazioni di legname del paese.

«I prezzi all’esportazione dichiarati per il legname dell’isola – si legge nel dossier – sono significativamente più bassi rispetto a quelli degli altri grandi fornitori di tronchi tropicali. Negli ultimi 15 anni il prezzo medio per metro cubo è stato inferiore del 20 per cento rispetto alla media degli altri cinque principali esportatori. Nel 2014, il prezzo medio dei tronchi prodotti da grandi esportatori come il Camerun e la Birmania era di 388 dollari al metro cubo, quasi il doppio del prezzo dei tronchi della Papua Nuova Guinea, che non arrivava ai 210 al metro cubo. Applicati ai volumi di esportazioni del 2014 questo si traduce in una variazione annua di fatturato di 679 milioni di dollari per le industrie del legno». Le autorità forestali del paese sono «inefficienti – prosegue lo studio – e presentano grandi carenze e una corruzione diffusa». In questo contesto «l’industria del legname ottiene in molti casi trattamenti preferenziali, mentre gli abitanti delle zone rurali subiscono le conseguenze sociali e ambientali prodotte da un settore che opera spesso al di fuori delle leggi». Se veramente il commercio del legname è un’attività in perdita, «perché le imprese straniere continuano la loro attività?», si è chiesto Frédéric Mousseau, direttore del think tank califoiano. Una domanda ovviamente retorica, se si considera che, malgrado i bilanci in rosso dichiarati dalle compagnie, le esportazioni sono quasi raddoppiate a partire dal 2009.

Terre in vendita

Il documento si sofferma anche sul problema delle cosiddette Sabl, le Special agriculture and business leases, locazioni a tassi agevolati per agricoltura e commercio concesse dalle autorità alle imprese e pensate teoricamente per attrarre investimenti. Tra il 2003 e il 2012 a causa delle Sabl, 5,5 milioni di ettari di foreste sono passati di fatto sotto il controllo di società del legname nazionali ed estere, mentre la percentuale della terra controllata dalle comunità locali è scesa dal 97 all’85 per cento. Un’inchiesta ufficiale condotta dalle autorità di Port Moresby ha dimostrato come le assegnazioni delle Sabl siano state caratterizzate da «abusi, frodi, assenza di cornordinamento tra le agenzie governative, fallimento e incompetenza dei funzionari governativi nell’assicurare il rispetto, la responsabilità e la trasparenza». Evidenze che hanno portato il primo ministro papuano Peter O’Neill ad ammettere in pubblico che «lo strumento delle Sabl ha fallito miseramente».

L’Oakland Institute aveva provato a portare all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il problema della deforestazione in Papua Nuova Guinea già nel 2014 con il documentario On our land. Un cortometraggio di 36 minuti (è visibile su YouTube, ndr) che racconta il furto subito dalle comunità rurali dell’isola, nonostante la carta costituzionale del paese stabilisca l’autonomia e la sovranità della terra e delle risorse naturali, imponendone un impiego sostenibile e affidandone la gestione a clan e tribù, con l’esclusione quasi completa della proprietà privata. Anche grazie a queste e tante altre iniziative di sensibilizzazione portate avanti da numerosi gruppi e associazioni per la difesa della terra e dell’ambiente, le autorità di Port Moresby hanno iniziato a rendersi conto che lo sfruttamento delle foreste ha ormai raggiunto un livello insostenibile. Il problema, come ha spiegato il professor Simon Saulei del Papua New Guinea Forest research institute all’agenzia Inter press service (Ips), è che gli organismi governativi incaricati di difendere le foreste e l’ecosistema si scontrano con una cronica «carenza di personale e fondi», che blocca le attività avviate e non consente di intraprendere nuove iniziative.

Redd sarà la soluzione?

Una delle strade che l’esecutivo di Port Moresby sta cercando di percorrere per arginare in qualche modo la situazione è l’implementazione del Redd+. Come già ricordato, lo scorso aprile si è svolto a Kimbe il primo Redd+ expert training event, che ha visto la partecipazione di 37 rappresentanti del governo, della società civile e del settore privato. L’evento ha avuto il sostegno dell’Undp, il Programma di sviluppo delle Nazioni unite. «Abbiamo messo insieme esponenti di tutti i settori interessati dal problema della deforestazione – ha spiegato al quotidiano online Papua New Guinea Today Terence Barambi, manager della Climate change and development authority papuana -. Quello che vogliamo fare è individuare le diverse priorità e stabilire una strategia nazionale contro la deforestazione nell’ambito del progetto Redd+». Barambi crede che la massima di Lao Tzu secondo cui «Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce», descriva bene la situazione della Papua Nuova Guinea, dove la deforestazione ha prodotto danni enormi ma a suo avviso non ancora irreparabili.Nel frattempo prosegue un altro importante progetto che vede il National forest monitoring system (Nfms) papuano impegnato nella creazione di un inventario nazionale degli alberi. Un’iniziativa senza precedenti per un paese in via di sviluppo, che coinvolge anche l’Italia, dato che il Nfms si avvarrà della collaborazione di alcuni scienziati dell’Università La Sapienza di Roma. L’archivio comprenderà la misurazione del volume del legname, la stima delle riserve di carbonio immagazzinate dagli alberi e delle emissioni di gas a effetto serra in caso di deforestazione, consentendo di effettuare una valutazione concreta del rapporto costi-opportunità legati al taglio degli alberi. L’obiettivo è mostrare chiaramente i benefici economici collegati alla creazione di un’industria del legname che abbia ritmi di produzione commisurati alle esigenze di tutela dell’ambiente, con vantaggi di lungo periodo sia per le società impiegate nel settore che per le comunità locali.

Paolo Tosatti*
(China Files)

* Paolo Tosatti, giornalista, collabora con China Files dal 2011. Per MC ha già scritto: Timor Est, Piccoli imprenditori crescono, giugno 2016.

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