Foresta pluviale e fiumi, ma anche 2,5 milioni di specie animali, 40mila specie floreali, almeno 375 popoli indigeni e 35 milioni di persone che vivono in aree rurali e urbane. Questa è l’Amazzonia che nove paesi del Sud America hanno la fortuna e l’onere di condividere.
Un mondo in pericolo. Anzi, secondo gli scienziati molto vicino a un punto di non ritorno. Per parlare di questo dal di dentro, nel 2001 è stato creato il Foro social panamazonico (Fospa), che dal 12 al 15 giugno si è riunito per l’undicesima volta, quest’anno a Rurrenabaque e San Buenaventura, in Bolivia.
Nei quattro giorni del convegno si sono affrontati i principali problemi che affliggono l’Amazzonia.
Il dettagliato comunicato finale ha un lungo preambolo politico che può essere riassunto in tre imperativi: la lotta per il futuro si fa ora; non ci sono soluzioni se non si consultano i popoli indigeni; nessun governo può rivendicare il diritto di parlare a nome dei popoli. Date queste premesse, il Fospa elenca 46 punti programmatici e rivendicativi per quattro grandi aree tematiche: popoli indigeni e popolazioni amazzoniche, Madre terra, estrattivismo (attività di prelievo di risorse naturali, ndr) e alternative, resistenza delle donne.
Le comunità native (popoli indigeni, ma anche afrodiscendenti e comunità tradizionali dei fiumi), radicate nel territorio, vogliono esercitare l’autonomia secondo le proprie regole e procedure, separandosi dalla tutela statale che ha finora segnato la storia. La ricerca dell’autogoverno e dell’autodeterminazione per intraprendere la strada di uno sviluppo autonomo è, dunque, un obiettivo prioritario.
L’Amazzonia – viene affermato nel comunicato – ha raggiunto il punto di non ritorno e si trova in emergenza climatica. Il collasso che deriva dalla deforestazione e dall’estrattivismo mette a rischio la sua sopravvivenza, quella delle comunità che lo abitano e la vita dell’intero pianeta. I paesi responsabili del riscaldamento globale dovrebbero assumersi la responsabilità del loro debito ecologico contribuendo alla rigenerazione dell’Amazzonia mentre tutti i paesi panamazzonici dovrebbero adottare il paradigma sociale del «Buen vivir».
Il Fospa elenca poi quelle che, a suo giudizio, sono false soluzioni alla crisi climatica: i crediti di carbonio, i meccanismi di compensazione della biodiversità, i megaprogetti di transizione energetica, la geoingegneria, l’energia nucleare e altre proposte basate sulla logica della compensazione e della mercificazione della natura. Si tratta – viene spiegato – di meccanismi commerciali per le grandi aziende e gli Stati storicamente responsabili della crisi climatica globale.
Il punto 26 è una richiesta tanto fondamentale quanto di difficilissima realizzazione: viene richiesto un accordo internazionale per dichiarare la regione amazzonica zona vietata a tutte le forme di estrattivismo minerario.
Gli ultimi punti del documento sono dedicati alle donne panamazzoniche perché esse sono in prima linea nella lotta e nella difesa della sovranità dei propri corpi, della Madre natura e dei territori. Contro il patriarcato, il colonialismo, il capitalismo e l’estrattivismo.
Gran parte delle prese di posizione del Foro social panamazonico appaiono totalmente giustificate e condivisibili. Occorre capire quanto le sue affermazioni di principio possano tradursi in applicazioni pratiche in una realtà complessa qual è l’Amazzonia. E, soprattutto, in quanto tempo visto che la variabile temporale è determinante.
Paolo Moiola
L’ultimo polmone del pianeta
La foresta del fiume Congo è la sola al mondo in grado di assorbire più anidride carbonica di quella che produce. È un ecosistema unico, messo a rischio costante dalle risorse naturali che contiene. Alcuni paesi la tutelano, ma in molti altri lo sfruttamento è fuori controllo.
Il bacino del fiume Congo ospita la seconda foresta tropicale più estesa al mondo dopo l’Amazzonia: oltre due milioni di chilometri quadrati che toccano sei Paesi (Camerun, Gabon, Guinea equatoriale, Repubblica centrafricana, Repubblica del Congo e Repubblica democratica del Congo).
A oggi, è l’unica foresta al mondo ancora in grado di assorbire una quantità di anidride carbonica (CO₂) maggiore di quella che produce. Secondo il think tank indipendente Center for global development, la foresta assorbe ogni anno 1,1 miliardi di tonnellate di CO₂ a fronte di emissioni pari a 530 milioni di tonnellate.
Una foresta unica
La foresta del fiume Congo è un ecosistema unico. I suoi 202 milioni di ettari ospitano 10mila tipologie differenti di piante tropicali (di cui il 30% è endemico della regione), oltre a innumerevoli specie di mammiferi (400), uccelli (mille) e pesci (700). Tra essi, molti animali in via d’estinzione come l’elefante della foresta, lo scimpanzé, il bonobo e i gorilla di pianura e montagna.
La foresta è fondamentale per gli equilibri meteorologici di buona parte del continente.
Studi hanno dimostrato che quando l’aria passa sopra ad aree coperte da vegetazione tropicale intensa porta maggiore pioggia. Man mano che la deforestazione procede, quindi, si riducono le precipitazioni – in particolare nel Sahel e nel Corno d’Africa – e aumentano i periodi di siccità.
Molte popolazioni indigene dell’Africa centrale vivono nella foresta, che fornisce loro cibo, acqua e mezzi per la sopravvivenza quotidiana. Sono circa 75 milioni di persone, appartenenti a 150 gruppi etnici. Tra essi spiccano i pigmei, cacciatori e raccoglitori con una conoscenza estremamente approfondita dell’ambiente naturale che li circonda, degli animali che vi vivono e delle piante medicinali (cfr MC ottobre 2019).
Le minacce
La sopravvivenza della selva del Congo è minacciata dalla deforestazione, trainata dall’abbondanza di risorse naturali (legname, minerali e idrocarburi), spesso sfruttate con metodi insostenibili. Secondo Global forest watch (una piattaforma per il monitoraggio delle foreste), tra il 1990 e il 2000, i livelli di deforestazione in Africa centrale erano tra i più bassi al mondo. Poi hanno iniziato a crescere pericolosamente. In particolare, tra il 2002 e il 2021, sono andati persi 17 milioni di ettari. Tra questi, 5,82 erano foreste primarie, aree che non erano mai state toccate dalle attività umane.
Ampie porzioni di foresta sono sfruttate sia da singoli individui sia da grandi compagnie internazionali con obiettivi che vanno dalla sopravvivenza quotidiana all’ottenimento del maggior profitto economico possibile.
La crescita della domanda internazionale di legname, idrocarburi e minerali spesso spinge le multinazionali a progetti di sfruttamento incontrollato. La costruzione di infrastrutture di servizio a queste attività – come dighe e strade – costituisce un danno ambientale considerevole e forza le popolazioni indigene a spostarsi in aree sempre più remote.
Lo sviluppo di reti stradali permette anche ai bracconieri di inoltrarsi sempre più a fondo nella foresta. Con la crescita della domanda di carne di selvaggina – secondo il Wwf, nella sola Rdc ogni anno viene consumato più di un milione di capi -, ne aumenta anche il commercio, spesso illegale. E così è sempre più a rischio la biodiversità: scimmie, antilopi, gorilla e bonobi sono ormai in via di estinzione. Mentre la richiesta internazionale di avorio ha ridotto la popolazione di elefanti della foresta a poche migliaia.
Dunque, la tensione tra conservazione di un ecosistema eccezionale e possibilità di trarre profitto dalle sue risorse si sta ponendo sempre più come elemento cruciale nella gestione futura dell’area.
Il legno in Gabon
L’88% del territorio gabonese è coperto dalla foresta: 22 milioni di ettari nei quali vivono più di 200 specie animali e vegetali a rischio. Tra cui il 60% degli elefanti della foresta ancora esistenti.
Negli ultimi anni, una serie di considerazioni economiche, sociali e ambientali ha fatto sì che tutelare questo ecosistema diventasse sempre più importante per il Paese. Nel 2002, il Gabon ha istituito, sull’11% del territorio nazionale, tredici aree protette (tra cui il Parco Lopé-Okanda, patrimonio Unesco) nelle quali è vietata qualsiasi attività economica.
Al contempo, il Paese ha introdotto una serie di politiche per contrastare le pratiche illegali (soprattutto taglio di legname) e sviluppare un settore del legno sostenibile. Grazie all’utilizzo di immagini satellitari, gli esperti ambientali monitorano lo stato della foresta e individuano aree oggetto di deforestazione sospetta. Il taglio di alberi è strettamente regolamentato: è possibile abbattere una o due piante per ettaro ogni 25 anni, così da permettere una riforestazione naturale. Mentre il percorso dei tronchi – dalla foresta ai porti – è attentamente tracciato.
Sforzi che si inseriscono in una politica di sviluppo economico più ampia: il Gabon è un importante produttore di petrolio, ma nei prossimi anni il settore (che attualmente rappresenta il 40% del Pil nazionale e il 70% delle entrate) è destinato al declino. Sviluppare un’industria del legname sostenibile e al contempo redditizia è quindi diventata la sfida per il futuro economico del Paese.
Per farlo, nel 2010, Libreville ha vietato le esportazioni di legname grezzo per incoraggiare le aziende a sviluppare centri di lavorazione nel Paese. Inizialmente, la produzione è rallentata, ma poi centinaia di compagnie hanno cominciato a spostare le proprie attività in Gabon. Attualmente, il parco industriale di Libreville si estende su 1.200 ettari e ospita 150 aziende, le cui attività spaziano dalla produzione di compensato a quella di mobili di alta qualità.
Già oggi il Gabon è un importante produttore mondiale di rivestimenti e compensato (nel 2019, il giro d’affari ammontava a 500 milioni di dollari l’anno). In dieci anni, l’obiettivo è arrivare a un’industria da 10 miliardi di dollari e 300mila posti di lavoro. Il tutto tutelando l’ambiente: entro il 2025, le compagnie che operano nel Paese hanno l’obbligo di essere certificate da Fsc, uno standard globale sulla gestione etica della foresta che assicura la produzione del legno in modo sostenibile.
Foresta ed emissioni
Tra il 1990 e il 2010, il Gabon aveva perso 10mila ettari di foresta all’anno. Nei dieci anni successivi, invece, sono stati abbattuti solo 12mila ettari e molte aree, che all’inizio degli anni Duemila erano in degrado, sono state rigenerate, anche grazie alla decisione di ripiantare alberi.
Nel 2021, il Gabon è diventato il primo Paese africano a ricevere una ricompensa in denaro per aver ridotto la deforestazione e le emissioni di anidride carbonica derivanti dal degrado dell’ambiente forestale. Sulla base di un accordo siglato due anni prima, la Central african forest initiative (Cafi) – un’intesa tra donatori occidentali e Paesi del Sud globale per la protezione delle foreste – ha erogato al Gabon 17 milioni di dollari. Ogni dollaro corrisponde a una tonnellata di CO₂ non emessa (rispetto alla media del Paese tra il 2005 e il 2014) per un massimo di 150 milioni di dollari in dieci anni.
I fondi saranno destinati a progetti per la protezione della foresta e la ricerca scientifica. Il Gabon infatti è sempre più centrale nella lotta ai cambiamenti climatici: in media, la sua foresta assorbe 140 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno (mentre il Paese ne produce solo 40). A catturare così tanta CO₂ sono specie vegetali molto vecchie, con una capacità di trattenimento superiore a quella degli alberi dell’Amazzonia.
Rdc, campione di deforestazione
Il 53% della foresta del fiume Congo (107 milioni di ettari) si trova nella Rdc, lo Stato dove la deforestazione si manifesta con maggiore forza: dal 2002 a oggi, sono andati persi il 35% della superficie coperta da alberi e il 5,6% della foresta primaria. Particolarmente colpite sono le foreste della pianura Nordoccidentale, della costa e, soprattutto, della zona montuosa orientale.
Quest’ultima è una delle regioni africane più ricche di biodiversità tanto che vi si trovano aree protette come il Parco Virunga, il Parco nazionale dei monti Rwenzori e il Parco nazionale dei vulcani. Ma, nonostante la loro presenza, bracconaggio, taglio abusivo di legname e deforestazione per agricoltura di sussistenza e attività estrattive sono molto diffusi. Pratiche spesso illegali, frequentemente controllate dagli attori armati attivi nell’Est della Rdc (vedi MC 03/2024) e incentivate dalla situazione di conflittualità perenne e dalla mancanza di istituzioni statali solide e servizi adeguati.
Produrre legname è molto redditizio e per molte famiglie costituisce una fonte fondamentale di sostentamento: in un Paese dove la rete elettrica è limitata e i prezzi di gas e petrolio sono elevati, il legno fornisce energia al 90% della popolazione. Così come importanti sono anche l’estrazione mineraria artigianale e l’agricoltura di sussistenza, la quale, soprattutto quando è itinerante, comporta alti tassi di deforestazione.
Senza dimenticare le multinazionali che, grazie alla corruzione di agenti statali, si aggiudicano (spesso in aree protette) vaste concessioni per taglio di legname o estrazione mineraria. Nel nome del massimo profitto possibile, si curano ben poco della tutela dell’ambiente naturale e dei suoi abitanti.
Petrolio e gas
Alla deforestazione nella Rdc contribuiscono anche politiche governative confuse e poco interessate alla conservazione ambientale. Nel 2021, anche il governo congolese aveva siglato un accordo con la Cafi: 500 milioni di dollari se la Rdc avesse rigenerato otto milioni di ettari di foresta in degrado e istituito aree protette sul 30% della sua superficie.
Ma lo stesso anno, la ministra dell’Ambiente, Eve Bazaiba, aveva annunciato la fine di una moratoria del 2002 che impediva l’assegnazione di nuove concessioni per il taglio di legname. Non che fosse realmente necessario: secondo Greenpeace (Ong per la tutela dell’ambiente), la disposizione era già stata violata più volte persino dal precedente ministro dell’Ambiente, Claude Nyamugabo. Mentre il governo aveva aperto il 40% del Parco nazionale di Salonga all’esplorazione petrolifera.
Alla fine di luglio 2022 poi l’esecutivo ha indetto un’asta: in palio c’erano 27 aree per lo sfruttamento di petrolio e tre per il gas. Molte si collocano in ecosistemi critici come il Parco Virunga o in zone coperte dalla torbiera tropicale più grande al mondo. Mentre le concessioni di gas si trovano nel lago Kivu.
Si stima che le risorse estraibili ammontino a 600 miliardi di dollari, ma devastazione ambientale, inquinamento e impatto sulle popolazioni locali (che non sono state consultate) rischiano di essere incalcolabili.
A giustificare la decisione è stata la ministra dell’Ambiente: «Abbiamo le risorse di suolo e sottosuolo: è su questo che tratteremo con il resto del mondo». La tutela della foresta può aspettare.
Aurora Guainazzi
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Il sogno dello sciamano
Il sogno è difendere l’Amazzonia e i suoi popoli nativi. Senza farsi illusioni: cambiare una condizione sedimentata nei secoli e portata avanti dal potere dei bianchi è una lotta lunga, complicata e lastricata di speranze e sconfitte. Eppure, Davi Kopenawa Yanomami non si arrende.
Pian del Cansiglio (Belluno). La nebbia mattutina d’inizio aprile viene dissipata dai primi raggi del sole. Poco dopo, l’altopiano si mostra nella sua veste migliore: aria fresca, colori e il silenzio della natura. Attorno si apre la foresta – dicono sia la seconda d’Italia per estensione – e in lontananza si stagliano le montagne ancora innevate. L’ospite – Davi Kopenawa Yanomami – apprezzerà?
Lui arriva al tavolo della colazione preparata dalla signora Franca, la gestrice del rifugio Vallorch, indossando jeans, felpa blu e scarpe da ginnastica. Un abbigliamento che ci aiuta subito a vedere le cose nella giusta prospettiva. Troppo spesso, infatti, nella nostra testa ecomiti e stereotipi occidentali resistono come licheni sulla roccia. Mai dimenticare che un indigeno rimane tale anche se usa il cellulare, il computer o se gioca a calcio, come ricorda una preziosa campagna di sensibilizzazione – Menos preconceito mais índio (Meno preconcetti, più indigeni) – dell’Instituto socioambiental (Isa), trent’anni compiuti proprio quest’anno.
Al suo quarto viaggio in Italia, Davi è arrivato assieme a Carlo Zacquini, missionario della Consolata che con lui ha attraversato oltre mezzo secolo di lotte indigene condividendo speranze, vittorie e sconfitte.
Ovviamente, quella del Cansiglio non è la foresta amazzonica, e il rifugio Vallorch non è la casa comune di Watoriki, l’aldeia di Davi. Premesso questo, il leader degli Yanomami ha trovato qui un ambiente più familiare al suo e, comunque, certamente migliore rispetto a quello offerto da una città e da un albergo. Un’idea originale – oltre che un simbolico gemellaggio tra due foreste – uscita dal cappello degli organizzatori de «Il Mondo di Tommaso», la vitalissima associazione di Vittorio Veneto che ha portato in Italia i due ospiti.
Raccontare gli Yanomami: da Cannes al Giappone
A tavola chiediamo a Davi se sia contento di viaggiare, di essere qui. «Più o meno», risponde con disarmante sincerità e con il suo consueto, tranquillo sorriso. Precisa: «Lo faccio per la causa del mio popolo».
Il suo libro A queda do ceu (La caduta del cielo) è stato tradotto in più lingue e adottato in molte facoltà universitarie. Da esso è stato tratto un documentario selezionato per il festival di Cannes 2024. Eppure, tutto ciò non basta: la realtà rimane complicata, drammaticamente complicata. Gli Yanomami del Brasile (ma la situazione è identica anche per quelli del Venezuela) stanno conoscendo anni molto difficili che possono mettere a rischio la loro stessa sopravvivenza come popolo indigeno autonomo e orgoglioso.
È una crisi dalle molte facce, tutte feroci e tutte tra loro collegate: sociale, sanitaria, ambientale, climatica. Per questo Davi non vuole tirarsi indietro. Pur avendo una moglie (Fatima) e cinque figli (Dario, Guiomar, Denisi, Tuila e Vitorio), continua a girare il mondo – dopo questo viaggio in Italia (con il clou di un incontro privato con papa Francesco) partirà subito per il Giappone – per perorare la causa degli Yanomami e dell’Amazzonia.
La maledizione dell’oro
Dopo colazione, ci incamminiamo verso il massiccio del monte Cavallo, ancora innevato (la cima supera di poco i 2.200 metri). La cosa che più attrae Davi è proprio la neve, l’unico elemento veramente nuovo rispetto all’ambiente amazzonico dal quale lui proviene.
«Mi piace questa foresta – dice mentre camminiamo lungo i sentieri -. Io non sono nato in casa, sono nato in foresta. Per questo è mia sorella».
Nulla di strano in queste parole: nella visione indigena, la foresta è viva, gli alberi sono vivi. E gli sciamani sono il tramite tra gli uomini e gli spiriti della foresta.
«Sì, mi piace – ripete Davi -. Anche se, a differenza della nostra, non è nativa ma piantata. Anche gli alberi sono differenti». E, vedendo gli abeti, aggiunge: «Pure le foglie sono diverse. Queste sembrano capelli» (riferendosi agli aghi). Quando passiamo a camminare su un tratto di sentiero pavimentato, Davi osserva con un sorriso: «Questo è il vostro “garimpo”».
Da tempo garimpos (miniere) e garimpeiros (minatori) sono l’ossessione di Davi Kopenawa. Perché rappresentano – con ragione – il peggio dell’uomo bianco: la violenza verso madre natura e i popoli indigeni.
L’invasione è dovuta alla ricerca dell’oro, che – purtroppo – è presente in abbondanza come già avevano scoperto i conquistatori spagnoli e portoghesi.
I garimpeiros cominciarono ad arrivare negli anni Settanta, quando iniziò la costruzione della Perimetral Norte (o strada federale Br-210, mai completata) e Davi era un bambino.
Con il ritorno di Lula alla presidenza del paese, gli invasori sono diminuiti di oltre il 60 per cento, ma ne rimangono almeno altri settemila (e molti altri sono pronti a entrare o rientrare nel territorio yanomami). L’ultima operazione militare allestita per cacciarli – chiamata Operação Catrimani II – ha avuto luogo in aprile.
Davi riconosce il ruolo positivo del presidente: «Lula è una buona persona, però è solo». La solitudine è dovuta a un Congresso brasiliano dominato da uomini dell’ex presidente Jair Bolsonaro, nemico dichiarato dell’Amazzonia e dei popoli indigeni.
Oggi il mercurio si acquista su internet
Lo sciamano yanomami amplia il concetto di garimpeiros. Spiega: «Io considero garimpeiro anche chi compra l’oro dai garimpeiros e chi nei paesi dei bianchi lo vende». Purtroppo, la realtà racconta che la domanda di oro non pare destinata a ridursi visto che è considerato un bene rifugio e il prezzo dello stesso rimane molto alto (attualmente, oltre 70 euro al grammo).
Davi passa a elencarci tutto ciò che il garimpo porta con sé: «Si mettono sui fiumi con draghe e motori. Poi hanno bisogno di combustibile, cibo e alcol, mezzi di trasporto, armi da fuoco per sparare agli indigeni. Hanno schermi televisivi e soprattutto hanno internet».
Non sono esagerazioni di una vittima arrabbiata. Risponde al vero che i satelliti di Starlink – la società di telecomunicazioni di Elon Musk (tra l’altro, molto vicino all’ex presidente Bolsonaro) – hanno favorito soprattutto i garimpeiros che possono comunicare con tutto il mondo anche dalle zone amazzoniche più isolate. Tramite internet gli invasori possono interloquire con i propri referenti e acquistare tutto ciò che serve alla loro attività.
Per esempio, Infoamazonia ha scoperto che sulle piattaforme brasiliane Olx e Mercado livre si possono tranquillamente comprare balsas (draghe), mercurio liquido e ogni tipo di attrezzatura mineraria.
Chiediamo a Davi del mercurio e lui smette di camminare per mostrarci anche a gesti come viene utilizzato dagli invasori per ripulire l’oro dagli altri sedimenti. Mercurio che poi si disperde nei fiumi contaminando l’ecosistema: un avvelenamento grave e confermato da vari studi. Due degli ultimi sono quelli firmati dalla rivista Toxics (settembre 2023) e dalla prestigiosa Fundación Oswaldo Cruz (aprile 2024): secondo la rivista a Roraima il 40 per cento dei pesci contiene livelli di mercurio superiori alla norma, mentre secondo una ricerca della fondazione nello stesso stato l’inquinamento da mercurio colpisce quasi tutta la popolazione di nove villaggi yanomami.
Bianchi e garimpeiros
Davi va oltre nelle sue accuse. Il maggior pericolo viene da chi sta dietro i garimpeiros, anche grandi imprese di altri stati. Davi non fa nomi, ma l’affermazione trova riscontro nelle cronache giornalistiche che, per esempio, riportano i problemi causati dalle compagnie minerarie canadesi – tra esse Cabral gold, Equinox gold, Belo sun – operanti in Brasile. Tonnellate di oro illegale si confondono con quello legale originando un commercio internazionale dai contorni sempre opachi.
Davi è molto duro nei confronti dei bianchi («napëpë» in lingua indigena, ovvero non Yanomami, stranieri, nemici), che etichetta come «popolo della merce». Tuttavia, è magnanimo nei confronti dei garimpeiros. «Spesso gli invasori – precisa infatti – vengono in terra indigena perché non hanno una loro terra, un loro lavoro. A questo dovrebbe porre rimedio il governo federale».
A Watoriki – Davi ricorda sempre con nostalgia il suo villaggio in foresta – non ci sono garimpeiros: i suoi centocinquanta abitanti vivono ancora come la cultura yanomami insegna.
La mancanza di contatti con gli invasori ha tenuto lontano il pericolo della corruzione. Che, per esempio, è arrivata per una parte dei Kayapó (nel Pará).
Chiediamo a Davi se, al di fuori di Watoriki, ci siano Yanomami che sono diventati garimpeiros. «No», risponde secco, salvo poi precisare: «Una minoranza, soprattutto tra coloro che si trovano a vivere accanto ai garimpos. Si sono fatti convincere da qualche grammo di oro o semplicemente da forniture di alimenti».
Malattie e denutrizione
I garimpeiros sono anche responsabili primi del peggioramento delle condizioni di salute della popolazione indigena, che è molto vulnerabile e priva di vaccinazioni. La prima emergenza è data dalla diffusione della malaria, ma ci sono anche influenze, tubercolosi, patologie intestinali e i molteplici problemi di salute (anche neurologici) prodotti dal mercurio.
Con le malattie è arrivata anche la fame. «Perché – spiega David – gli Yanomami malati non hanno la forza per alzarsi, per andare a caccia, per preparare il cibo.
Personalmente, non ho mai sofferto la fame. Ho avuto la malaria ma non sono morto. Purtroppo, anche in materia di salute il governo è stato assente. Con Bolsonaro siamo stati abbandonati per quattro anni. Con Lula è diverso, ma lui non ha abbastanza appoggio per risolvere la situazione. La stessa Onu parla tanto, ma non fa nulla».
Nell’aprile 2021, una pubblicazione dell’Igarapé institute – noto istituto di ricerca con sede a Rio de Janeiro – ha calcolato il «prezzo della devastazione»: all’epoca, l’estrazione di un chilo di oro produceva danni ambientali pari a dieci volte il suo valore. Quel calcolo però non includeva gli incommensurabili danni umani subiti dai popoli indigeni.
Abbracciare gli alberi
Al rifugio Vallorch è arrivata molta gente per ascoltare Davi e Carlo. Il leader yanomami ha indossato un «cocar», il copricapo di sgargianti piume di pappagallo ara (così anche la classica iconografia dell’indiano è salva).
Il pomeriggio sarà dedicato a una passeggiata comune tra i boschi di faggi del Cansiglio. Accanto agli ospiti brasiliani, a guidare il gruppo è Toio de Savorgnani, alpinista, scrittore e ambientalista di Mountain wilderness, la combattiva associazione per la difesa delle montagne.
La passeggiata tra i boschi del Cansiglio ritempra il fisico e la testa. Toio propone di chiudere l’immersione nella foresta con quella che i bianchi hanno chiamato «silvoterapia» (con le sue varianti forest bathing e tree hugging). Non basta respirare a pieni polmoni, occorre tornare al contatto fisico tra viventi abbracciando – sì, abbracciando – gli alberi. Pochi minuti per sentire e ascoltare la natura.
Dopo l’abbraccio, alcuni dei presenti si avvicinano a Davi con il suo libro tra le mani. Glielo porgono per un autografo e lui, quasi a giustificarsi, dice: «I bianchi non ascoltano. Per questo ho dovuto scrivere».
Chissà se basterà. Il sogno dello sciamano yanomami – un’Amazzonia senza invasori e il ripristino dell’equilibrio simbiotico tra uomo e natura – dovrebbe essere il sogno di tutti. Dovrebbe, ma purtroppo non è.
Venezia. Dopo la foresta, l’acqua. E cosa meglio di una città che sull’acqua è nata e vive? Questo probabilmente hanno pensato Claudio Corazza (Il mondo di Tommaso) e Raffaele Luise (scrittore e vaticanista) nell’organizzare il convegno sull’Amazzonia a Venezia, nella splendida e affollata cornice del chiostro del Convento San Francesco della Vigna.
Al tavolo dei relatori Davi Kopenawa ricorda il suo ruolo e la sua battaglia, ma Carlo Zacquini detto Hokosi è senza voce. Altri possono tradurre le parole dello sciamano yanomami, ma soltanto lui può tradurne i concetti. Per questo Claudio e Raffaele gli vengono in soccorso dando la parola agli altri ospiti.
Come Marco Tobon, antropologo colombiano che insegna a Leticia, sulla triplice frontiera amazzonica tra Colombia, Brasile e Perù. Il professore parla di interazione tra esseri umani e ambiente, ma soprattutto della sfida che occorrerebbe affrontare: quella del passaggio dall’attuale «antropocentrismo» (l’uomo come centro dell’universo) a un auspicabile «biocentrismo» (al centro c’è la vita di uomini, animali e vegetali).
Verso la fine, si torna a Carlo Zacquini e al «Centro di documentazione indigena» (Cdi), il suo sogno realizzato ma oggi in pericolo. Occorre costruire una nuova sede che metta al riparo il materiale raccolto – settemila libri, riviste, ritagli di giornali, foto, un archivio digitale – da termiti, blatte, umidità, polvere. In questi anni il suo lavoro è stato indirettamente premiato con la progressiva presa di coscienza degli indigeni. Dopo tante umiliazioni, essi hanno finalmente scoperto che possono e devono essere orgogliosi di appartenere a un popolo indigeno. Nel parlare fratel Carlo si commuove: da tempo sostiene di avere un enorme debito di riconoscenza nei confronti degli indigeni. Il Cdi è la sua maniera di ripagarli per quanto ricevuto in quasi sessant’anni di missione in Amazzonia.
Pa.Mo.
Un film, una mostra
CONOSCERE L’AMAZZONIA
Torino. Conoscere l’Amazzonia è fondamentale per poter difendere i suoi popoli, le sue ricchezze, il suo essere patrimonio dell’umanità. Per questo, ogni iniziativa che vada in questa direzione va sostenuta. A Torino ne sono in corso due. La prima è stata organizzata da «CinemAmbiente», il più importante festival italiano di tematiche ambientali giunto all’edizione numero 27 (4-9 giugno). Gli organizzatori hanno reso disponibile un vecchio documentario – girato nel lontano 1918, considerato perduto nel 1930, ritrovato nel 2023 – sull’Amazzonia: un film in bianco e nero di grande interesse storico ritrovato dalla Cineteca di Praga e restaurato.
La seconda iniziativa è l’esposizione «Mater Amazonia», allestita presso «Cultures and mission» (Cam), il polo culturale dei Missionari della Consolata, nella nuova sala chiamata Urihi. La casa della terra. Si tratta di una parte della mostra ospitata dai Musei Vaticani durante il Sinodo amazzonico dell’ottobre 2019. La mostra si sviluppa attraverso oggetti, foto e filmati di tre ambienti amazzonici: la foresta, il fiume e la maloca. Inaugurata lo scorso 17 maggio, Mater Amazonia rimarrà aperta fino al 31 ottobre.
Come negli altri paesi, anche in Venezuela nulla sembra fermare la distruzione dell’Amazzonia per mano dell’uomo. È l’attività mineraria illegale a produrre i danni maggiori. Il governo Maduro sembra non avere né la forza né la volontà per cambiare la situazione. Il prezzo di quest’anarchia lo pagano l’ambiente, i popoli indigeni e un esercito di disperati.
Il buco è una voragine gigantesca, profondissima e larga. Una decina di uomini, legati alle corde ma vestiti in modo del tutto inadeguato, sono abbarbicati alle pareti di terra rossa e lavorano di pala per scavare dei gradoni. L’intenzione è di costruire una sorta di via d’accesso alla voragine: non sia mai detto che la natura risulti vincitrice.
La voragine è quello che resta della miniera d’oro a cielo aperto conosciuta con il nome di Bulla Loca («giacimento matto»).
Siamo in località La Paragua, stato Bolívar, Amazzonia venezuelana (conosciuta anche come Guayana). Lo scorso 20 febbraio la miniera è franata facendo una trentina di morti tra le centinaia di minatori che vi lavoravano. Minatori illegali di una miniera illegale come moltissime altre. E gli incidenti sul lavoro sono una tragica consuetudine, come quello che il 3 giugno 2023 ha fatto 12 morti a El Callao, sempre nello stato di Bolívar. El Callao è un villaggio la cui vita gira attorno all’estrazione dell’oro: la maggioranza dei suoi 30mila abitanti partecipa direttamente o indirettamente a questa attività. La località è salita alla ribalta delle cronache anche per l’impiego di bambini (addirittura di soli sei anni) nelle sue miniere.
Un’invasione senza fine
Dell’Amazzonia venezuelana si parla poco. Eppure, è importante tanto quanto le Amazzonie più conosciute: quelle del Brasile, del Perù, dell’Ecuador, per esempio. Purtroppo, è anche afflitta dai loro stessi problemi: oltre che dalle attività minerarie, da deforestazione, incendi, inquinamento da mercurio, diffusione della malaria, violazione dei diritti dei popoli indigeni residenti, sfruttamento del lavoro minorile, presenza di gruppi armati.
La regione amazzonica del Venezuela si estende nel Sud del paese attorno al corso del fiume Orinoco (inclusi i suoi affluenti, escluso il delta) e copre quasi interamente gli stati Bolívar e Amazonas più alcune porzioni di altri due (Delta Amacuro e Apure) per un totale di circa 490mila chilometri quadrati (circa metà del Paese, una volta e mezzo la superficie dell’Italia). È abitata da oltre venti popoli indigeni. Secondo il censimento del 2011, gli indigeni sarebbero 54mila in Bolívar e 76mila in Amazonas. Le etnie principali sono i Pemón (30mila), i Uwottüja o Piaroa (20mila), gli Yanomami (15mila) e i Kariña (10mila).
La corsa all’oro uccide
La sfortuna vuole che nel sottosuolo dell’Amazzonia venezuelana si trovino minerali come ferro, bauxite e rame, ma soprattutto oro, diamanti e coltan. Sono questi ultimi tre ad aver scatenato una vera corsa all’attività mineraria, soprattutto quella illegale. Non da oggi, in verità. Da resoconti e cronache dei missionari Cappuccini e dei funzionari dell’epoca, si sa che l’oro venezuelano veniva estratto – con il lavoro forzato degli indigeni – già prima del 1800, e portato in Spagna. Oggi tutti parlano di una presenza di minatori illegali in crescita continua (le stime variano da 50mila a 300mila persone). Una parte importante sono garimpeiros (minatori) brasiliani, soprattutto nell’Alto Orinoco-Casiquiare, straordinaria regione che ospita la Riserva della biosfera dell’Unesco e il Parco nazionale Parima Tapirapeco. Tra l’altro proprio ai minatori brasiliani si deve il massacro di Haximú compiuto nel giugno del 1993 ai danni di un gruppo di Yanomami (anziani, donne e anche bambini) nativi del luogo.
Secondo un rapporto dell’organizzazione ambientalista «Sos Orinoco», molti garimpeiros entrano nella zona con elicotteri e piccoli aerei e – ultima novità – hanno iniziato a utilizzare droni per filmare il territorio. Gli invasori distruggono la foresta per costruire piste di atterraggio e basi operative. In cambio della complicità, la Guardia nazionale venezuelana riceverebbe una parte dei profitti.
«Horonami», l’organizzazione degli Yanomami del Venezuela (162 comunità), ha denunciato che membri della sua popolazione sono stati costretti a lavorare come schiavi dai garimpeiros, che, inoltre, hanno violentato e prostituito donne e ucciso membri delle comunità. Nella loro strategia per arrivare al controllo del territorio rientrano i regali alle comunità indigene: cibo, armi, fucili, machete. Alla gravità della situazione si aggiunge l’indifferenza dello Stato centrale e la complicità dei suoi organi locali, che può anche trasformarsi in violenza diretta.
Nel mese di marzo 2022 c’è stata una disputa tra i militari della base area B7 di Parima e membri della locale comunità indigena, che chiedevano l’accesso al servizio internet. L’alterco si è concluso con la morte di quattro Yanomami. Il tragico episodio riflette tensioni e problemi di una difficile convivenza tra indigeni e non indigeni. A due anni di distanza, la richiesta di giustizia da parte della comunità non ha trovato ancora alcuna risposta da parte delle autorità venezuelane.
Nella vasta regione amazzonica la violenza non è un’eccezione, ma una consuetudine sempre più diffusa. A fine giugno 2022, Virgilio Trujillo Arana, un indigeno Uwottüja di 38 anni, è stato ammazzato con tre spari alla testa a Puerto Ayacucho, capitale dello stato di Amazonas. L’uomo era un attivista ambientale. Nel municipio di Autana era, infatti, coordinatore di un gruppo di difesa indigeno contro le invasioni territoriali e le attività minerarie illegali.
Secondo l’Observatorio para la defensa de la vida (Odevida), «tra il 2013 e il 2021, 32 leader indigeni e ambientalisti sono stati assassinati, 21 dei quali da sicari minerari o membri di organizzazioni di guerriglia colombiane, e 11 da membri delle Forze armate nazionali bolivariane (Fanb)».
Tuttavia, non tutti i popoli indigeni dell’Amazzonia venezuelana affrontano il problema delle minerie allo stesso modo.
I Pemónes, il maggiore gruppo indigeno della regione, vivono nei territori di Sud Est dello stato Bolívar, a ridosso del confine con Brasile e Guyana. Il loro territorio è annoverato tra i più ricchi di oro al mondo e per questo estremamente attrattivo. Già un certo numero di indigeni lavora nelle miniere aurifere, altri chiedono al governo centrale di porre fine allo sfruttamento illegale del loro territorio e di istituire miniere legali sotto controllo Pemón.
Dall’anarchia all’«Amo»
Dopo la scomparsa di Hugo Chávez (2013), con la presidenza di Nicolás Maduro il Venezuela è precipitato in una crisi infinita. Anche per far fronte alla perdita di gran parte delle entrate petrolifere, nel 2016 il governo di Caracas ha varato il progetto «Arco minero del Orinoco», noto con l’acronimo di Amo. L’Arco minerario occupa un’area di 111.843 chilometri quadrati di territorio nel Nord e nell’Est dello stato di Bolívar, più grande del Portogallo o di Cuba, 12% della superficie del Venezuela.
Sul sito del ministero (dal nome altisonante: Ministerio del poder popular de desarrollo minero ecológico), gli obiettivi propagandati sono «pace, protezione ambientale e prosperità economica» da raggiungere attraverso il «controllo della catena produttiva mineraria» con «una delimitazione delle aree minerarie e la protezione delle zone sacre ancestrali».
A questa narrazione edificante si contrappone una realtà molto diversa. Come riassume «Sos Orinoco»: «I risultati sono stati catastrofici sia per la regione che per la sua popolazione e gli ecosistemi. Avrà effetti tragici e duraturi – forse irreversibili – in Venezuela e oltre i suoi confini». Se è vero che queste critiche sono fatte da un’organizzazione antigovernativa, è altrettanto vero che altri arrivano alle stesse identiche conclusioni. In particolare, Wataniba, gruppo socioambientale venezuelano, la Chiesa cattolica e la Repam (Red eclesial pan amazónica).
A oggi, nell’Amazzonia venezuelana vige l’anarchia con le mafie e i gruppi armati illegali a dettare legge. Gli investitori stranieri millantati da Maduro («35 paesi sono interessati», aveva assicurato il presidente) sono rimasti lontani. Anche la Cina – specialista in business strategici – e sempre privilegiata dal governo di Caracas è rimasta cauta. In compenso, la distruzione ambientale e l’avvelenamento da mercurio si sono diffusi andando ben oltre i confini teorici dell’Arco minero.
Oggi tutti i parchi e le aree protette dell’Amazzonia venezuelana sono sotto attacco. Come il Parque nacional cerro Yapacana (Amazonas) che, a fine 2023, è stato oggetto di una propagandata operazione – nota come Operación Autana – da parte delle Forze armate bolivariane con questi risultati ufficiali: 86 miniere sotterranee chiuse, 241 imbarcazioni sequestrate, 4.450 villaggi improvvisati distrutti, 14mila persone espulse. Tuttavia, come fossero vasi comunicanti, liberata una zona, il problema si ripresenta in un’altra, passando – ad esempio – dal Parco Yacapana a quello di Canaima (Bolívar).
Come quasi sempre accade, la ricchezza di un luogo naturale è anche la sua dannazione perché attrae appetiti umani senza limiti ed eserciti di poveri disposti a tutto pur di cambiare la propria esistenza. Succede in tutta l’Amazzonia e quella del Venezuela non fa eccezione.
Paolo Moiola
Gli incendi bruciano anche il nostro futuro
In Italia, ogni anno, migliaia di ettari di aree boschive sono perse a causa del fuoco. Sei incendi su dieci sono di origine dolosa e criminale. In Siberia e Brasile la situazione è ancora peggiore.
Ogni anno, durante il periodo estivo, sono molte le regioni italiane nelle quali vaste aree boschive sono colpite da incendi. E la situazione sta rapidamente peggiorando. Nell’estate 2021, tra le regioni più interessate da incendi ci sono state la Sardegna, la Sicilia e la Calabria, che hanno registrato il maggior numero di danni, ma anche la Campania, la Basilicata, l’Abruzzo, le Marche, il Molise e la Toscana. Secondo il report di Europa Verde Incendi e desertificazioni, in Italia, dall’inizio dello scorso anno, sono bruciati circa 158mila ettari di boschi e di macchia mediterranea e questo ha ovviamente comportato la morte di migliaia di animali selvatici, nonché la perdita di oliveti e di pascoli. Nel 2021 l’Italia ha detenuto in Europa il record estivo d’incendi, che sono cresciuti del 256%, rispetto alla media storica 2008-2020, secondo i dati Effis (European forest fire information system). Secondo la Coldiretti, 6 incendi su 10 sono di origine dolosa.
Meno agricoltori e zero forestali
La situazione è aggravata dalla dismissione di parecchie aziende agricole, quindi dalla cospicua riduzione del numero di agricoltori, che hanno sempre esercitato un’azione di vigilanza e di gestione del patrimonio boschivo, che in Italia rappresenta un terzo della superficie, per un totale di 11,4 milioni di ettari (di cui il 32% fa parte di aree protette).
Un altro colpo alla sorveglianza e alla salvaguardia delle aree boschive in Italia è stato dato dalla riforma Madia del 2016, durante il governo Renzi, che ha riformato il Corpo forestale dello stato, sotto la spinta della spending review e sostanzialmente privatizzato la flotta dei canadair. Purtroppo in Italia, secondo il «Rapporto ecomafie 2020» di Legambiente, gli incendi scoppiano più frequentemente nelle regioni a forte presenza della criminalità organizzata, che spesso colpisce le aree naturalistiche sotto vincolo, come è avvenuto nella riserva dello Zingaro, in provincia di Trapani, nel Metapontino in Basilicata, nella riserva di Punta Aderci e nelle colline intorno a Pescara, nelle aree protette del Lazio, sulla costiera amalfitana, nella Sila e in provincia di Olbia. In Italia, la situazione è aggravata da due fattori: da un lato l’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni, che hanno caratterizzato gli ultimi anni con conseguente siccità sulle foreste, che risultano quindi meno resilienti nei confronti degli incendi; dall’altro gli errori nella scelta delle piante nelle attività di forestazione. Talora, infatti, vengono scelte, per la piantumazione di aree verdi, specie che soddisfano solo le ragioni estetiche, ma sono inadatte a resistere all’impatto climatico. Come capitò nel 2017 quando un incendio colpì le pendici del Vesuvio, dove erano stati piantati dei pini, che nulla avevano a che fare con la flora del territorio, cioè la macchia mediterranea, la quale ha una maggiore capacità di resistere alle temperature locali. In Italia, il pericolo d’incendi ha un andamento stagionale legato al fattore climatico, che influenza il grado di umidità della vegetazione, in particolare di quella erbacea del sottobosco.
Ci sono zone dove il pericolo d’incendio è maggiore che in altre. In base all’andamento meteorologico e climatologico, possiamo individuare due periodi di particolare pericolosità: quello estivo per le regioni del Sud e per la Liguria, e quello invernale per le regioni dell’arco alpino, quindi ancora la Liguria, il Piemonte, la Lombardia e il Veneto.
Ci sono, inoltre, diverse situazioni, che possono favorire lo scoppio di incendi boschivi come l’afflusso turistico, il già citato abbandono rurale delle campagne, particolari attività agronomiche e pastorizie, le vendette e le speculazioni. Queste ultime andrebbero sempre e comunque contrastate in base all’art. 9 della legge 1 marzo 1975, n.47, che vieta l’insediamento di qualsiasi tipo di costruzioni nelle zone boschive distrutte o danneggiate dal fuoco, impedendo così che tali zone assumano una diversa destinazione rispetto a quella avuta prima dell’incendio.
Non sempre però gli incendi sono di origine dolosa, seppure correlati alle attività umane. È stato, infatti, osservato che ad un progressivo aumento del numero dei veicoli circolanti e dello sviluppo viario, corrisponde un progressivo aumento degli incendi boschivi. Si è, inoltre, osservato che molti incendi hanno inizio ai bordi di strade e di autostrade. Anche le linee ferroviarie possono essere responsabili dell’innesco di incendi, quando nelle cunette e nelle scarpate c’è dell’erba secca, che può prendere fuoco per le scintille sprigionate dalle ruote dei treni. Da tutto ciò si evince che non solo è necessario ripristinare il Corpo forestale, rafforzando i nuclei investigativi con risorse umane e materiali adeguate, ma è indispensabile formare personale, che sia in grado di prevenire gli incendi con le tecniche più avanzate, tra cui quella degli incendi volontari controllati («fuochi prescritti»).
Nel resto del mondo
Se la situazione italiana quest’anno è stata drammatica, la mappa elaborata dal Fire information for resource management system della Nasa ci mostra che le fiamme hanno devastato i territori di molti stati nel mondo, soprattutto laddove le temperature estive sono state molto alte a lungo. Nel Sud dell’Europa, oltre all’Italia, sono state colpite la Grecia, la Turchia e la Spagna. Nel Nord Europa, la Finlandia e nell’Europa nord orientale, vaste regioni della Russia meridionale. Oltre oceano sono state interessate da incendi ampie zone del Nord e del Sud America. Nella zona centro meridionale dell’Africa, gli Stati più colpiti sono Zambia, Angola, Malawi e Madagascar. Le fiamme hanno inoltre colpito la penisola arabica e in Asia, le coste dell’India, la Siberia, la Cina e l’Indonesia.
In Siberia, il bilancio degli incendi da cui è stata colpita quest’anno, complici le insolite ed elevatissime temperature (intorno ai 39°C), che hanno interessato per giorni questa immensa regione russa, è superiore a quello disastroso del 2012, in cui aveva perso 181.100 Km2, infatti a metà settembre è stata registrata una perdita di 181.300 Km2 di foresta, ma se si considera che le fiamme hanno colpito anche praterie, canneti e tundra, l’estensione dei fuochi potrebbe essere superiore a 300mila Km2 (cioè un territorio di poco inferiore all’Italia). Gli incendi che colpiscono la taiga siberiana, cioè la più grande regione boschiva del mondo (comprendente quasi un quarto delle foreste del pianeta), sono estremamente dannosi perché non solo rilasciano enormi quantità di anidride carbonica (immagazzinata sia nella vegetazione, che nella torba del terreno) in atmosfera, ma riescono a sopravvivere all’inverno continuando a bruciare nel sottosuolo. Essi, pertanto, restano invisibili fino al rialzo delle temperature, pronti a tornare poi in superficie durante la stagione estiva. Il sistema di monitoraggio satellitare europeo Copernicus ha rilevato una quantità di 970 Mega tonnellate (Mt) di CO2 immessa nell’atmosfera tra giugno e agosto 2021 dovuta solo agli incendi siberiani. Tale quantità aumenta a 1.258 Mt a luglio e 1.384,6 Mt ad agosto, se si considerano le immissioni di CO2 dovute agli incendi, in tutto l’emisfero boreale.
Se in quest’ultimo la maggior parte degli incendi boschivi è legata a incuria, combustione di rifiuti, eventi accidentali, incidenti industriali e talvolta dolo, nelle regioni tropicali e subtropicali, gli incendi sono appiccati per lo più intenzionalmente con lo scopo di cambiare la destinazione d’uso dei terreni, che possono essere così utilizzati per la coltivazione e gli allevamenti intensivi.
Il decadimento dell’amazzonia
È evidente che il cambiamento climatico, con l’innalzamento delle temperature per lunghi periodi dell’anno, favorisce l’attecchimento degli incendi boschivi e la loro propagazione, ma la CO2 rilasciata in atmosfera dai roghi è essa stessa causa dell’innalzamento globale della temperatura, pertanto si instaura un circolo vizioso. Si stima che ogni anno gli incendi delle foreste immettano in atmosfera una quantità di CO2 equivalente a quella immessa dall’Unione europea e che vi siano circa 340mila morti premature causate da problemi respiratori e cardiovascolari attribuiti al fumo degli incendi.
Se da un lato la perdita di enormi quantità di foreste è dovuta agli incendi, dall’altro essa è legata al disboscamento illegale causato dall’agricoltura commerciale e dalla richiesta di legname. Secondo il rapporto Forest Trends 2021, il Brasile è il paese maggiormente responsabile di disboscamento illegale, insieme al Congo e all’Indonesia. Questi tre paesi, insieme, rappresentano il 50% del global logging (termine anglosassone che accorpa il taglio e il trasporto del legno). A sua volta, la Cina è responsabile del disboscamento illegale della taiga siberiana, essendo il più grande importatore di legname al mondo e avendo vietato il disboscamento delle proprie foreste.
Si stima che, tra il 2013 e il 2019, quasi 2/3 delle perdite delle foreste tropicali sia stata causata dall’agricoltura commerciale e che 3/4 della conversione agricola dei terreni sia avvenuta illegalmente.
Secondo i dati della Ong brasiliana Imazon, tra agosto 2020 e luglio 2021, il disboscamento dell’Amazzonia ha raggiunto 10.476 Km2, cioè una superficie grande il doppio di quella della provincia di Roma. L’ecosistema forestale amazzonico sta versando in condizioni critiche con 10mila specie dichiarate a rischio. Inoltre, con il 35% della superficie disboscata o degradata, uno studio decennale è arrivato alla conclusione che la foresta attualmente emette più CO2 di quanta ne assorba, per cui non può più essere considerata il polmone verde della terra.
Le promesse della Cop26
Durante la conferenza sul clima dell’Onu, la Cop26 di Glasgow (cfr. dossier in questo stesso numero), oltre 100 paesi hanno sottoscritto una dichiarazione sulle foreste e sull’uso del suolo, che dovrebbe limitare e invertire la deforestazione entro il 2030.
In pratica 114 paesi, che detengono insieme l’85% delle foreste mondiali, si sono impegnati a mettere a disposizione circa 16,5 miliardi di euro, tra fondi pubblici e privati, per il recupero dei terreni danneggiati, per la gestione degli incendi e per gli aiuti alle comunità che vivono in questi ambienti. La prima criticità di questo accordo è rappresentata dal fatto che i paesi partecipanti hanno avuto una richiesta, non un obbligo, a «rivedere e a rafforzare gli obiettivi sul clima al 2030 nei loro contributi nazionali entro la fine del 2022 di quanto è necessario per allinearli con l’obiettivo di temperatura dell’Accordo di Parigi, tenendo in considerazione le diverse circostanze nazionali», come recita il punto 29 del patto sul clima di Glasgow. Questo ha permesso ad Australia e Nuova Zelanda di affermare che non presenteranno contributi nazionali volontari prima della Cop27 del prossimo anno, perché si ritengono già allineate. Un’altra criticità emersa da Glasgow è il ruolo della piantagione di nuovi alberi (l’Unione europea si è impegnata a piantare 3 miliardi di piante entro il 2030), unitamente al contrasto alla deforestazione, nella lotta al cambiamento climatico. Di per sé, la piantagione di nuovi alberi sembra una buona soluzione, ma non può essere considerata fondamentale per la lotta al cambiamento climatico perché prima che, in un terreno distrutto da un incendio, essa sia in grado di ricostituire un bosco, devono passare almeno 15 anni, troppi per i danni all’ambiente e all’economia delle popolazioni locali.
È molto più importante perseguire politiche di prevenzione degli incendi e del disboscamento illegale, così come la lotta alla criminalità organizzata, piuttosto che correre ai ripari a cose fatte. È altrettanto importante un’azione di educazione delle popolazioni alla conoscenza e alla salvaguardia dei boschi e delle foreste, soprattutto perché le piante, con la loro organizzazione, hanno molto da insegnarci. Ogni singola pianta è infatti costituita da una rete di moduli e una foresta è una rete di reti, cioè un superorganismo. Dall’unione di tante unità emergono caratteristiche, che non esistono nel singolo individuo, ma permettono di superare le difficoltà presentate dall’ambiente. Le piante quindi ci insegnano la cooperazione, il senso di comunità e di rete, cioè che non vince il più forte, ma chi sa cooperare.
Rosanna Novara Topino
Una difesa naturale
Piante fuocoresilienti
Può sembrare strano l’utilizzo del fuoco per controllare gli incendi. Si tratta di una tecnica già utilizzata negli Stati Uniti dai primi anni del secolo scorso. Essa mira a sfruttare la capacità di resistenza di alcune specie di piante nei confronti del fuoco. Pertanto, la loro presenza può salvaguardare il bosco da un incendio più distruttivo. Un esempio è dato dal comportamento del Pinus palustris, che allo stadio giovanile è poco più di un ciuffo di aghi verdi su un esile fusto, che rimane a lungo in questo stato, se circondato e sovrastato da erbe e arbusti, che lo adombrano e gli tolgono spazio. Quando però un incendio colpisce il suo territorio, con l’eliminazione delle piante concorrenti, questo tipo di pino cresce molto rapidamente, diventando in breve tempo una delle piante più alte del bosco. Come ci riesce? Grazie alla protezione della propria gemma apicale con un mazzetto di aghi lunghi circa 20 centimetri, che bruciano se attaccati dal fuoco, lasciando la gemma intatta alla loro base. Anche il cisto e il pino di Aleppo utilizzano il fuoco per svilupparsi. Lo stesso discorso vale per la quercia da sughero, la cui spessa corteccia serve proprio a proteggere la pianta dal fuoco, oppure per i castagni, i corbezzoli e le robinie, tutte piante capaci di sopravvivere a un incendio emettendo nuovi fusti dai ceppi residui o dalle radici. La tecnica del fuoco prescritto sfrutta tutto questo: serve a selezionare piante resistenti e autoctone e nel contempo a eliminare il carico di combustibile presente nel territorio, in modo che un incendio incontrollato possa raggiungere le chiome degli alberi. È chiaro che, per poterla applicare, sono necessarie condizioni meteorologiche favorevoli (vento e umidità) e uno studio accurato del territorio. Nei terreni dove da lungo tempo manca un incendio, può verificarsi il cosiddetto «paradosso del fuoco» cioè l’accumulo di arbusti, legno e foglie secche diventa un pericoloso combustibile, che per un evento accidentale (fulmini, forte siccità, azioni umane) può dare origine ad un incendio devastante e incontrollabile. Per evitare tutto questo, se non si vuole ricorrere alla tecnica del fuoco prescritto, a cui non tutti sono favorevoli perché comunque essa può alterare la flora e la fauna del sottobosco, è necessario ricorrere a un’asportazione meccanica dei carichi d’incendio e quindi un controllo costante del patrimonio boschivo, che da anni in Italia è abbandonato a sé stesso. (RNT)
Carta versus digitale (con molte sorprese)
La carta è un prodotto che genera un forte impatto sull’ambiente. È meglio scegliere il digitale? Non è detto. Per valutare l’impronta ecologica di un dispositivo elettronico occorre infatti considerare il suo intero ciclo di vita.
Nel tentativo di ridurre la nostra impronta ecologica, talvolta rischiamo di fare delle scelte sbagliate a causa di una visione incompleta delle questioni ambientali. Uno dei luoghi comuni più frequenti è che leggere libri o riviste in formato digitale sia un modo di salvaguardare l’ambiente, perché in tal modo si riducono il consumo di legname e di acqua e le emissioni di gas a effetto serra. Ma è proprio così? Per rispondere a questa domanda è necessario confrontare l’intero ciclo di vita di libri e riviste cartacee da un lato e delle tecnologie digitali utilizzate nella trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati (Ict) dall’altro. Il metodo da utilizzare è l’Lca (Life cycle assessment o analisi del ciclo di vita), che ci dà un’esatta valutazione dell’impatto ambientale di un prodotto o di un servizio perché prende in considerazione tutte le fasi del ciclo di vita che lo riguardano, partendo dall’estrazione delle materie prime necessarie alla sua produzione fino allo smaltimento del prodotto finale.
Il ciclo della carta
Per quanto riguarda la carta, essa, per essere prodotta, richiede il legname. Per fortuna, una quantità sempre maggiore di carta viene recuperata tramite la raccolta differenziata. Il riciclo però non è possibile all’infinito, perché ogni volta la lunghezza delle fibre, di cui è costituita la carta, si riduce un po’ (e questo è il motivo per cui anche la carta riciclata deve contenere una minima quantità di fibre nuove).
La produzione della carta, tuttavia è responsabile della deforestazione solo in minima parte. Secondo il Wwf, infatti, la deforestazione e il grave degrado delle foreste naturali sono dovuti a molteplici fattori, tra cui l’agricoltura intensiva, il disboscamento non sostenibile, l’attività mineraria, la costruzione di nuove strade e l’aumento del numero e dell’intensità degli incendi.
Del legname raccolto, il 50% viene usato per produrre energia, il 28% per le costruzioni, mentre per la produzione di carta viene impiegato circa il 13%. Nel mondo, l’area con certificazione di gestione forestale è passata da 18 milioni di ettari nel 2000 a 438 milioni nel 2014. Mentre le foreste naturali rappresentano il 93% dell’area boschiva mondiale, quelle piantate sono il 7%. Anche queste ultime, come le naturali, possono assorbire CO2 dall’atmosfera. La carta, come derivato del legno, rappresenta un magazzino di CO2 per tutto il suo ciclo vitale.
Per quanto riguarda le emissioni di gas a effetto serra, quelle dell’industria della carta si sono ridotte del 22% tra il 2005 e il 2013, e attualmente rappresentano l’1% del totale di quelle dell’industria manifatturiera (che rappresentano a loro volta il 29% delle emissioni di gas climalteranti a livello mondiale), contro il 6% dell’industria dell’estrazione e lavorazione dei minerali non metallici, del 4,8% di quella del ferro e dell’acciaio, del 4,3% del settore petrolchimico, dell’1,4% di quella dei metalli non ferrosi, dell’1,1% della produzione del cibo e del tabacco e del 10,5% di altri tipi d’industrie.
Bisogna comunque considerare che alcuni tipi di carta, come quella dei giornali e dei materiali da imballaggio sono costituiti completamente da fibre riciclate. In Europa, nel 2020, la raccolta differenziata della carta si è attestata intorno all’81% con una lieve flessione di 3 punti percentuali dovuta all’emergenza sanitaria da Covid-19. Nello stesso anno, in Italia, la raccolta è stata del 70%, pari a 9,6 milioni di tonnellate.
Naturalmente, quando si considerano i consumi e le emissioni per produrre libri, giornali e riviste cartacei, bisogna tenere conto che per la produzione della carta sono necessari dei procedimenti che comportano sia l’utilizzo che l’inquinamento dell’acqua. Per quanto riguarda l’utilizzo di acqua necessario a produrre una tonnellata di carta, le significative innovazioni introdotte negli ultimi anni dall’industria cartaria italiana, per ottimizzare i consumi, hanno permesso di arrivare a un consumo attuale di soli 26 metri cubi di acqua dolce per tonnellata, contro i 100 della fine degli anni ‘70. Inoltre solo il 10% dell’acqua utilizzata nell’intero processo produttivo è costituito da acqua fresca, mentre il 90% è acqua di riciclo.
Tra i maggiori inquinanti rilasciati con le acque reflue dall’industria cartaria c’è il mercurio, che viene trasformato dai microrganismi degli strati superficiali dei sedimenti marini in metilmercurio, una forma estremamente tossica del metallo, che entra nella catena alimentare attraverso il plancton, percorrendola interamente fino ai pesci di grossa taglia, i grandi predatori, in cui si concentra in maggiore quantità, a causa del processo di biomagnificazione.
Anche gli inchiostri utilizzati per la stampa contribuiscono all’inquinamento sia delle acque, durante la loro produzione, che dell’aria, durante il loro uso, per via dei solventi in essi presenti.
Bisogna inoltre considerare il trasporto sia della carta alle case editrici, che dei prodotti stampati ai punti di vendita o a casa dei lettori, nel caso della distribuzione attraverso le grandi piattaforme di vendita on line.
L’impronta digitale
La lettura di testi per mezzo di un dispositivo elettronico come un e-reader, un tablet o un pc sembrerebbe essere molto più «leggera» per l’ambiente, rispetto alla carta stampata, perché un dispositivo può contenere migliaia di testi, questi si possono scaricare in un attimo e non devono essere trasportati, quindi apparentemente non c’è inquinamento. Nemmeno per spostarsi con un mezzo di trasporto per il loro acquisto, dal momento che esso può essere effettuato su internet. Inoltre i testi sono dematerializzati, quindi non si contribuisce alla deforestazione. Apparentemente la lettura dei testi digitali sembra rivoluzionaria per l’ambiente, ma un attento esame dimostra che la sua impronta ecologica è piuttosto elevata e non si discosta da quella della carta stampata. Questo perché non possiamo considerare solo i consumi del nostro dispositivo elettronico, ma dobbiamo innanzitutto considerare i consumi e gli scarti relativi al suo intero ciclo di vita e quelli di tutta la tecnologia necessaria per fare arrivare i testi fino al nostro dispositivo. In pratica, dobbiamo tenere conto delle materie prime utilizzate per la costruzione del nostro dispositivo, tra cui le terre rare, come il coltan, estratte con procedimenti e in luoghi rischiosi per i lavoratori, soprattutto perché spesso teatro di guerre per la loro appropriazione. Dobbiamo, inoltre, considerare il quantitativo di energia necessario sia per la sua costruzione, che per il suo trasporto fino a noi da luoghi lontanissimi e che per tale trasporto sono necessari mezzi ad altissimo consumo energetico come navi mercantili o aerei e autotreni. Certo non possiamo comparare il consumo di energia per la costruzione di un dispositivo elettronico con quella per la produzione di un singolo libro o rivista o giornale. Come dicevo prima, il nostro dispositivo può contenere fino a qualche migliaio di libri e, se siamo dei lettori particolarmente assidui, almeno in considerazione di questo fatto, potremmo pensare ad un risparmio energetico con la lettura di testi digitali. Il nostro dispositivo però ha bisogno di corrente per funzionare, mentre se leggiamo di giorno basta la luce solare.
Una caratteristica dei dispositivi elettronici è che la loro vita è piuttosto breve, sia perché le batterie al litio, di cui sono dotati, durano pochi anni, sia perché caratterizzati dall’obsolescenza programmata. Dopo un po’, infatti, pc, tablet ed e-reader non riescono più a effettuare i necessari aggiornamenti per adeguarsi ai nuovi sistemi operativi e alle nuove app (applicazioni), che hanno bisogno di una memoria sempre più ampia per funzionare. La batteria esaurita e l’obsolescenza programmata ci portano, quindi, a cambiare i nostri dispositivi dopo pochi anni di uso, anche se ancora funzionanti e a doverli smaltire come Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche).
lo smaltimento
Il corretto smaltimento di questa tipologia di rifiuti è un processo multifase, lungo e costoso, che prevede il recupero e il riutilizzo di buona parte dei componenti. Tuttavia, non sempre questi rifiuti tecnologici vengono smaltiti correttamente, con il rischio che le sostanze tossiche contenute nei loro componenti, se gettati in discariche e non trattati in modo adeguato, possano inquinare l’ambiente.
È quello che sta capitando in molti paesi a basso reddito, dove viene effettuato in modo illegale e non tracciato lo smaltimento dei nostri rifiuti tecnologici, come ad esempio in diverse regioni o città africane, che si stanno trasformando in discariche a cielo aperto di rifiuti tecnologici dei paesi occidentali. Questo avviene perché gli impianti per il corretto trattamento dei rifiuti elettronici sono all’avanguardia, ma costosi. Si stima che già nel 2006, in Europa siano stati prodotti tra 8-12 milioni di tonnellate di Raee, ma attualmente si pensa che la loro percentuale rispetto al totale dei rifiuti solidi urbani sia equivalente a quella degli imballaggi in plastica. Il loro tasso di crescita è infatti elevatissimo. È evidente che smaltire un libro è molto più semplice ed economico: la cosa migliore da fare è donarlo oppure, nella peggiore delle ipotesi, destinarlo alla raccolta differenziata e riciclarlo.
Il peso dei data center
Ciò che ho descritto fino a qui però riguarda solo il nostro dispositivo personale. Quindi, molto meno dei reali consumi legati alla fruizione on line di libri, riviste, giornali (oltre che di video, film, podcast, ecc.), perché tutto ciò di cui possiamo fruire è formato da dati che si trovano in qualche gigantesco data center, da cui partono i servizi digitali che utilizziamo.
L’insieme dei data center è un sistema, che identifichiamo con il cloud, rappresentato da quella eterea nuvoletta, che vediamo nell’icona corrispondente, ma che ha ben poco di etereo. Si tratta in realtà di un insieme di strutture fisiche costituite da fibre ottiche, router, satelliti, cavi posizionati in fondo all’oceano, giganteschi centri di elaborazione dati pieni di computer. Tutto questo consuma un’enorme quantità di energia, anche perché molte di queste strutture necessitano, per funzionare bene, di impianti di raffreddamento.
Gli utenti finali non si rendono minimamente conto di questo grandissimo dispendio energetico, perché pagano esclusivamente la piccola quantità di energia consumata dai loro dispositivi, gli abbonamenti ai fornitori di contenuti e i gigabyte di traffico ai loro operatori telefonici. È evidente, quindi che anche le letture online pesano parecchio sull’ambiente e probabilmente non ci sono vantaggi in termini di risparmio energetico totale e di riduzione dell’inquinamento, rispetto alla carta stampata.
Digitale e problemi fisici
Nella scelta tra un modo di leggere e l’altro pesano diversi fattori, tra cui l’età dei lettori (le persone anziane non sempre hanno dimestichezza con i mezzi informatici), la necessità di risparmiare spazio (la carta pesa e occupa grandi volumi), la possibilità di facilitare la lettura regolando le dimensioni dei caratteri offerta dai dispositivi elettronici, le esigenze dell’insegnamento a distanza, per cui è necessario che i due sistemi continuino a coesistere.
È però importante considerare che un’eccessiva esposizione agli schermi dei dispositivi elettronici può portare alla «sindrome da visione al computer» o Cvs (Computer vision syndrome), una condizione sempre più diffusa che interessa tra il 70-90% delle persone che passano diverse ore davanti ad uno schermo. I sintomi di questa sindrome sono variabili e sono di tipo visivo, neurologico e muscolo-scheletrico. Non è detto che si presentino tutti insieme e possono variare da una persona all’altra, in base alle abitudini di lettura allo schermo. Frequentemente, dopo alcune ore allo schermo, si presentano bruciore agli occhi, affaticamento e talora sdoppiamento della visione, mal di testa e dolori al collo, per la posizione assunta.
Molti problemi legati a una lunga esposizione a uno schermo sono dovuti al fatto che gli schermi di computer, tablet e smartphone emettono luce blu, che ha effetti negativi su uno dei nostri pigmenti visivi, la rodopsina, portando a un più rapido invecchiamento della vista. Inoltre, la luce blu influenza negativamente il sonno e la concentrazione, in particolare se l’esposizione avviene nelle ore serali, perché rallenta la produzione di melatonina, l’ormone che induce il sonno, provocando insonnia, irritabilità e ansia. Oltre a questo, un’esposizione costante alla luce blu può danneggiare la retina, che non ha sufficienti schermature per questa lunghezza d’onda. A differenza delle altre gamme di luce, che vengono assorbite dalla cornea e dal cristallino, quella blu-viola penetra in profondità nell’occhio e arriva alla zona centrale della retina, la macula, che elabora le nostre informazioni visive.
Infine, la luce blu è capace di influenzare i neurotrasmettitori del tratto retino-ipotalamico, responsabile della regolazione del nostro ritmo circadiano, che è alla base dei nostri processi biologici, tra cui sonno-veglia e produzione ormonale, con alterazioni sia fisiche, che comportamentali.
In conclusione, con un occhio alla salute del pianeta e uno alla nostra, scegliamo il supporto che più ci è confacente.
Rosanna Novara Topino
Quanto inquina l’Internet?
Sebbene sia difficile quantificarlo, secondo una recente ricerca di Greenpeace, il consumo energetico di internet è circa il 7% dell’energia elettrica mondiale. Il suo rilascio di CO2 sarebbe di circa un miliardo e 850 milioni di tonnellate cubiche all’anno, cioè circa 400 grammi per ciascun utente di internet. E l’energia utilizzata dai grandi data center è «pulita» o «sporca», cioè deriva da fonti rinnovabili o no? Secondo un altro report del 2017 di Greenpeace, che ha preso in considerazione i grandi data center e una settantina tra siti web e applicazioni, per quanto riguarda l’utilizzo di energia pulita, per le loro operazioni negli Usa, al primo posto si trova Apple con l’83% di energia pulita, seguita da
Facebook con il 67%, Google con il 56%, Microsoft con il 32%, Adobe con il 23% e
Oracle con l’8%. La restante parte di energia usata è fornita da gas naturale, centrali a carbone e nucleare.
RTN
Il volto indio di Iquitos. Nella capitale amazzonica peruviana
Testo e foto di Paolo Moiola |
Si ipotizza che l’80 per cento degli abitanti di Iquitos, la più grande città dell’Amazzonia peruviana, siano indigeni urbani: Huitoto, Kukama, Kichwa. Non esistono numeri certi perché la maggior parte di loro preferisce tacere sulla propria origine. Quando non è l’aspetto fisico a tradirne la provenienza, lo è quello culturale. Vivono nelle periferie di Iquitos, dove manca di tutto e vivere dignitosamente è un’impresa. Accompagnati da due amici missionari abbiamo visitato il barrio di Masusa e quello delle Malvinas.
Iquitos. Accanto alla pulsantiera dell’ascensore c’è, ben visibile, un adesivo: «No allo sfruttamento sessuale di bambini, bambine e adolescenti. Il nostro hotel protegge il futuro di Loreto». A Iquitos, capitale del dipartimento peruviano di Loreto, la gran parte dei visitatori arriva per le meraviglie della natura (la riserva di Pacaya Samiria, quella di Allpahuayo Mishana, la laguna di Quistococha) e – non si può tacerlo – per il turismo de la pobreza, il turismo della povertà, tale è infatti la visita alla comunità di Belén (definita, con rozzo cinismo, la «Venezia amazzonica»). Altri ancora giungono a Iquitos per provare l’esperienza dell’ayahuasca, la bevanda indigena dagli effetti allucinogeni. Ci sono, infine, i visitatori che arrivano fin qui allo scopo di adescare minori.
La pedofilia non è che uno dei tanti problemi che affliggono la capitale dell’Amazzonia peruviana. È proprio per vedere e capire la città reale che prendo contatto con due vecchi amici missionari: padre Miguel Ángel Cadenas e padre Manolo Berjón, da tre anni tornati nel capoluogo loretano dopo aver vissuto per venti tra le comunità dei Kukama lungo il rio Marañón.
Masusa e gli indigeni urbani
Con un mototaxi – il tipico mezzo di trasporto di Iquitos (le auto sono una rarità, i bus sono pochissimi e scalcinati) – mi reco alla parrocchia della Immacolata Concezione dove i due missionari spagnoli prestano servizio. La loro parrocchia serve il vasto territorio di Punchana, uno dei quattro distretti municipali di Iquitos.
La chiesa della Inmaculada si nota subito, non tanto per i suoi due tozzi campanili, quanto per il suo colore blu elettrico. Miguel Angel e Manolo sono già in strada. Un abbraccio e, su due mototaxi, partiamo subito alla volta del barrio di Masusa. Questo è il quartiere cresciuto attorno al principale porto fluviale di Iquitos, quello sul rio Amazonas.
Scesi dai veicoli, a piedi ci addentriamo nel barrio e nei suoi vari asentamientos humanos (insediamenti umani). Man mano che proseguiamo il contesto urbano si degrada e con esso peggiora a vista d’occhio la situazione di chi vi abita. Dopo qualche minuto di cammino arriviamo in una specie di piazzetta il cui pavimento è fango mischiato con detriti legnosi (scopriremo più in là il motivo). Tutt’attorno abitazioni su palafitte costruite con legno di recupero e dalla struttura visibilmente precaria.
In un angolo sorge la cappella Sagrado Corazón de Jesús, dove una ventina di fedeli e una decina di bambini attendono i padri per la messa domenicale. Dopo la celebrazione, padre Miguel Ángel sollecita le persone presenti a prendere il microfono e a raccontarsi davanti alla telecamera. Si alternano in molti, donne e uomini, probabilmente attratti da quella piccola ma inaspettata opportunità di uscire dall’anonimato, di far sentire la propria voce. Con grande dignità raccontano da dove vengono, cosa fanno, dei problemi quotidiani. Che sono tanti, dalla mancanza di un lavoro a una situazione abitativa subumana.
«Nessuno ha confessato di essere indigeno per timore della discriminazione – commenta poco dopo padre Miguel -. Ma è importante sapere che questa gente proviene da comunità native. Si tratta di indigeni urbani. Secondo noi, arrivano all’80 per cento della popolazione, in particolare qui, nelle periferie. Ci sono persone con tratti somatici indigeni, in altre si notano meno. Però i tratti culturali sono evidenti, soprattutto con riferimento alla cosmologia (la visione del mondo) e allo sciamanesimo». Gli chiedo di farmi qualche esempio. «Una città come Iquitos è piena di “piante che proteggono contro gli spiriti maligni”. Non ci sono cifre precise, ma sappiamo che il numero di sciamani è altissimo. Quando muore qualcuno si cerca un colpevole, anche se il referto medico parla di cancro. Ci sono persone che dicono di “fotografare gli spiriti” con il cellulare. Si lascia che i bambini prendano le proprie decisioni fin da piccoli, frutto di una concezione indigena della persona».
Accanto alla cappella c’è una piccola e tristissima struttura che funge da asilo e i missionari scrollano la testa sconsolati. Pochi passi più in là, un signore attorniato da un nugolo di bambini sta caricando su un motocarro delle taniche di acqua. «Siamo a 300 metri dal rio Amazonas, ma qui non c’è acqua da bere, per lavarsi, per cucinare o per lavare. Non c’è acqua per nulla. Come, d’altro canto, in gran parte della città di Iquitos».
Le «madereras»
Dall’asentamiento humano Alejandro Toledo ci incamminiamo verso quello chiamato Santa Rosa del Amazonas.
Le stradine sterrate su cui camminiamo sono piene di trucioli e segatura di legno.
«Il municipio – spiega padre Miguel – invece di riempire con terra ha permesso alle segherie di usare i loro scarti di lavorazione per rialzare il terreno. Quando arriva la creciente (termine che indica i periodi – normalmente da marzo a maggio – di massima portata del rio Amazonas e dei suoi affluenti, quando le acque esondano, ndr), l’acqua continua a inondare le case, anche se si nota meno perché non compaiono ponteggi e passerelle. Sotto le case a palafitta sono però rimasti grandi vuoti dove si accumulano acqua putrida e rifiuti. Senza dimenticare che gli scarti del legno hanno fatto aumentare la popolazione di topi e di zanzare. Ancora una volta ha vinto l’opportunismo di politici e affaristi a scapito dei diritti dei cittadini». Eccole, le madereras, le segherie, le imprese del legname. Sono state costruite in questa zona per la vicinanza con il porto di Masusa. Il problema è che oggi sono circondate da insediamenti umani densamente abitati. Questo significa che la gente vive in mezzo ai residui della lavorazione del legno, tra cui particelle minuscole che vengono respirate. Allo stesso tempo molti abitanti traggono vantaggio dalla vicinanza delle madereras per recuperare materiale per le loro abitazioni o per costruire esteras (stuoie di legno) da vendere al mercato.
Le segherie hanno barriere d’alluminio che impediscono di vedere all’interno e torrette di guardia agli angoli. Ma per una cinquantina di metri lungo il perimetro c’è ancora una semplice staccionata (probabilmente in attesa di essere sostituita), che consente la visione. Al di là, cumuli di pezzi di tronchi dal diametro enorme. Un bulldozer sta spostando materiale di ogni dimensione.
Attività legale o illegale?, chiedo a padre Manolo. «Sicuro che è illegale – risponde il missionario -. O meglio: può essere che formalmente siano imprese legali, ma quasi sempre estraggono il legno illegalmente. Mi spiego: hanno una concessione per una data zona, ma poi lavorano in un’altra». In cerca di legno prezioso?, insisto io. «Dipende. La verità è che adesso di legno prezioso ne è rimasto veramente poco».
Mentre faccio foto e filmati noto che ci stanno osservando da una baracca che funge da ufficio. Probabilmente la loro è soltanto curiosità.
In ogni caso, a pochi metri di distanza, sull’angolo, un container color verde pallido è stato adibito a stazione di polizia. Lo hanno messo su ruote, in modo che sia a mezzo metro dal terreno sconnesso. Ci hanno ricavato alcune finestrelle e una porta. Dipinto due stemmi: quello del governo di Loreto e quello della polizia. E una scritta rassicurante: Juntos por la Seguridad Ciudadana! (Uniti per la sicurezza cittadina!).
La porta è aperta e così ne approfitto per entrare.
C’è una piccola scrivania, due sedie, un vecchio televisore e due brandine a castello. E soprattutto ci sono due giovanissimi poliziotti che stanno ascoltando musica dal cellulare. Appena mi vedono, abbassano il volume e si mettono in testa il cappellino d’ordinanza. I due mi accolgono calorosamente, nonostante abbia una telecamera in mano.
Mi dicono che sono aperti 24 ore e che intervengono principalmente per casi di violenza familiare e furti. Chiedo della droga di cui tutta l’Amazzonia peruviana è grande produttrice. «Sì – confermano i poliziotti -, c’è spaccio di pasta basica di cocaina. Sono coinvolti molti minori. Una dose costa un sol (25 centesimi di euro, ndr)».
Li ringrazio e raggiungo di nuovo le mie guide. Uno dei due poliziotti ci raggiunge però dopo pochi secondi per chiederci se vogliamo essere accompagnati nel nostro percorso. «No, grazie. Non c’è bisogno», rispondono i missionari. Questa non è una zona frequentata da stranieri, ma i due padri sono conosciuti anche perché qui c’è una delle quattro cappelle della loro parrocchia.
L’insediamento di Santa Rosa è triste e squallido come il precedente con la differenza che è tagliato in due da una via sterrata, usata da qualche veicolo delle segherie. La strada prosegue per qualche centinaio di metri fino a raggiungere il punto dove il rio Itaya sbocca nell’Amazonas. Sulla spiaggia che guarda i due fiumi da una parte c’è una catasta di enormi tronchi d’albero, dall’altra una montagna illegale di rifiuti e davanti a questa, tra l’acqua e la terraferma, un cimitero di vecchi battelli arrugginiti. Giriamo a destra seguendo l’Amazonas e, dopo poche decine di metri, giungiamo al porto di Masusa, conosciuto anche con il nome di puerto Silfo Alvan del Castillo.
I battelli amazzonici
I cancelli sono aperti e non c’è alcun controllo. Sulla riva sono ormeggiati una serie di battelli di medie dimensioni (50-100 tonnellate), all’apparenza tutti piuttosto scalcinati, ma che raggiungono quasi ogni angolo dell’Amazzonia peruviana. Il porto di Masusa funziona per merci e passeggeri.
Oggi c’è poca gente perché è domenica. Tuttavia, ci sono alcuni camion che caricano o scaricano mercanzia.
«Arriva soprattutto frutta e viene imbarcato soprattutto riso per le comunità dell’interno. E naturalmente arriva la droga. Da qui partono anche le persone vittime di tratta per andare verso Lima o la costa dove saranno impiegate nella prostituzione o in lavori illegali. Ci sono sia maschi che femmine e moltissimi di loro sono minorenni. È facile cadere nella tratta di persone. Se sei un ragazzo che vive in una famiglia povera e ti offrono un lavoro in un altro posto, alla fine decidi di partire».
Lasciamo il porto per entrare nell’adiacente mercato di Masusa. È una struttura riparata da una tettornia dove si vendono prodotti alimentari. Sui tavolacci in legno è rimasto poco o nulla perché l’ora è tarda. Su uno ci sono mucchi di zampe di gallina, su un altro razzolano alcuni pulcini.
Usciamo da una porta laterale del mercato per trovarci in un vicolo di sassi e rifiuti. I due missionari debbono fare visita a un’anziana malata. Abita sotto una palafitta, una sorta di pianoterra aperto, senza pareti circostanti, senza porte e finestre. Un tugurio con un pavimento di nuda terra e un soffitto di assi la cui altezza non permette a una persona di stare in piedi. Su un lato di questa stanza improbabile c’è un gruppetto di bambini con gli occhi fissi su un piccolo televisore, dall’altra una signora sdraiata su un vecchio letto circondato da indumenti e medicine. Alla vista dei missionari lei si mette seduta e scambia qualche parola. È anziana e malata, ma il suo viso conserva i segni di un’antica bellezza. Marta, questo il nome, non ha famiglia e sopravvive con l’aiuto dei vicini di casa. Prima dei saluti, chiede a padre Miguel Ángel di ricevere la comunione. Una visita, quella alla signora Marta, che ti prende lo stomaco e che ti lascia senza parole.
Abitare alle Malvinas
Con i consueti mototaxi lasciamo il quartiere del porto. La prossima destinazione è il barrio delle Malvinas. Anche qui, come a Masusa, le condizioni abitative peggiorano man mano che ci addentriamo, in particolare verso l’asentamiento Iván Vásquez.
Percorriamo una calle pavimentata con cemento, tanto stretta che a stento ci passa un mototaxi. Poi la viuzza termina e il luogo si allarga in maniera inaspettata, ma anche poco piacevole. La stradina nascondeva la rete fognaria (acantarillado), che ora invece esce allo scoperto in forma di un fiumiciattolo di acque putride e puzzolenti (desagüe).
È riduttivo definirla una fogna a cielo aperto perché è larga alcuni metri. L’acqua ha un colore grigio, impenetrabile dallo sguardo. È stagnante tanto che i sacchetti di rifiuti gettati sul fondo non si muovono e sono oggetto di attenzione da parte di vari gallinazos – grandi uccelli dalla testa nera appartenenti alla famiglia degli avvoltorni – che vi cercano cibo.
Sulle due sponde della fogna è cresciuta una ininterrotta serie di abitazioni con le persone che all’aperto cucinano, lavano i panni o vendono mercanzie (dal pesce alle banane agli spiedini).
Non è strano che la gente accetti tutto questo?, chiedo alle mie guide. «No, non è strano. Sono venuti da fuori per cercare migliori condizioni di vita ma hanno trovato questo».
Camminiamo lungo il canale finché arriviamo a una curva, dove una conduttura in cemento sbuca dal greto della cloaca. «Ecco questo è il punto più incredibile. Qui fuoriescono i rifiuti dell’ospedale Essalud, che sta a cento metri di distanza», mi spiega padre Miguel Ángel. Vista la situazione, non stupisce che, oltre alla malaria e al dengue, diffuse in tutta Iquitos, qui siano endemiche anche le infezioni respiratorie acute e le malattie diarroiche acute.
Dopo la curva, il fiume-fogna torna diritto proseguendo per alcuni chilometri fino a terminare nel rio Nanay, molto vicino alla confluenza di questo con l’Amazonas. Sulle due sponde sono state poste barriere in legno e sacchi di sabbia per frenare l’acqua nei periodi della creciente, la piena dei fiumi. Per passare da una sponda all’altra gli abitanti hanno costruito passerelle di assi. Ne attraversiamo una per andare a camminare sul lato esterno.
L’insediamento è molto esteso. Tutte le abitazioni sono su palafitte e costruite con assi di legno e tetti in lamiera. I bambini sono ovunque e, come in ogni parte del mondo, trovano il modo di giocare e divertirsi. C’è anche un ampio spazio libero dove in molti stanno seguendo una partita di calcio. Più avanti, nello spazio tra alcune abitazioni, un gruppo di giovani sta giocando a pallavolo.
Dato che non esiste alcun sistema di distribuzione idrica, incrociamo varie persone che, a mano, trasportano secchi d’acqua. «A dispetto di tutto questo – chiosa padre Miguel Ángel -, da qui non vogliono andarsene. Il barrio è vicino al porto. E Masusa è il solo luogo dove molti di loro possono trovare un lavoro: o come scaricatori o come rivenditori dei prodotti più vari. Questa città non offre altro».
Tra invisibilità e indifferenza
Ormai è quasi buio. È ora di tornare indietro. Oggi abbiamo conosciuto due barrios di Iquitos, dove la gente – quasi sempre indigena – vive in condizioni di povertà o di estrema povertà. La maggior parte degli abitanti della più importante città dell’Amazzonia peruviana vive così. Ma rimane invisibile agli occhi dei più. O indifferente, che forse è anche peggio.
Paolo Moiola
Carbone vegetale,
risorsa o piaga?
Testo di Chiara Giovetti |
Un terzo della popolazione mondiale usa legna e carbone per cucinare e a volte anche per fornire energia alle proprie piccole e medie imprese. In Africa si tratta di un settore in forte espansione e i potenziali danni per ambiente, finanze pubbliche e lotta al terrorismo non sono da sottovalutare.
Una donna seduta su uno sgabello a bordo strada e, accanto, qualche sacco chiaro alto più di un metro, con le scritte sbiadite di questa o quella industria locale, di questa o quella agenzia umanitaria. Dentro, tanti cubi neri trattenuti da una rete di cordicelle o di foglie di palma annodate ai bordi del sacco. Oppure un uomo che spinge una bicicletta con almeno un paio di questi sacchi posati uno sopra l’altro e assicurati al portapacchi con un legaccio di camere d’aria annodate fra loro. Succede spesso di imbattersi in scene come queste lungo le strade africane, in città come nelle zone rurali. I cubi neri sono pezzi di carbone vegetale e il loro impiego più frequente è quello di fare fuoco per cucinare.
A vederli così, questi venditori improvvisati, si direbbe che quello del carbone è uno dei tanti piccoli commerci con cui molte famiglie africane si guadagnano di che sopravvivere. Ma sarebbe un’impressione errata. Aggregando tutte le donne sedute a bordo strada e gli uomini che spingono una bici nel continente, il giro d’affari del carbone vegetale appare nella sua reale dimensione: colossale. E ingenti sono i danni che rischia di infliggere all’ambiente, alle finanze pubbliche e persino alla lotta al terrorismo perché, nonostante abbia un ruolo di primo piano nelle economie del continente, il settore del carbone e della legna da ardere rimane per la maggior parte informale.
Legna e carbone vegetale in numeri
Secondo i dati del rapporto The Charcoal Transition della Fao, nel 2016 il mondo ha estratto circa 3,7 miliardi di metri cubi di legno dalle foreste del pianeta. Di questi, circa la metà sono stati usati come combustibile e sono diventati per l’83% legna da ardere e per il 17% carbone vegetale. Quest’ultimo è dunque è quantificabile 351 milioni di metri cubi, pari a in 52 milioni di tonnellate, di cui 32 milioni prodotti nella sola Africa@.
Per farsi un’idea delle proporzioni può essere utile un confronto con i volumi italiani: nel 2016 una nota del Crea (Consiglio per la ricerca nell’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) riportava che i boschi italiani contengono «oltre 1,2 miliardi di metri cubi di legno, con un aumento annuale di massa legnosa di oltre 36 milioni di metri cubi. Di questi ogni anno vengono tagliati oltre 10 milioni di metri cubi»@.
Sempre i dati Fao indicano che ancora oggi quasi due miliardi e mezzo di persone sul pianeta ricorrono a legna e carbone per cucinare: un terzo della popolazione mondiale. In Africa subsahariana, il dato sale di parecchio: a contare su queste fonti di energia è il 90% della popolazione. Sostengono il trend, in crescita, della produzione e del consumo principalmente due fattori: l’aumento demografico e la rapida urbanizzazione.
In Tanzania, ad esempio, l’85% della popolazione urbana utilizza carbone sia per cucinare che per la fornitura di energia a piccole e medie imprese: secondo uno studio del 2007 citato nel rapporto Fao, alla fine del secolo scorso la sola città di Dar es Salaam, il centro urbano più grande del paese, era responsabile del consumo di metà del carbone a livello nazionale.
Quanto al volume economico dell’industria del carbone vegetale in Africa subsahariana, nel 2011 le proiezioni di Afrea – il programma della Banca mondiale finanziato dai Paesi Bassi che si occupa di studiare le energie rinnovabili in Africa – indicavano in 8 miliardi di dollari il valore del settore per il 2007 e ipotizzavano per il 2030 lo sfondamento della soglia dei 12 miliardi, con un totale di 12 milioni di persone impiegate nella produzione, vendita e distribuzione del carbone.
Unep, l’agenzia Onu per l’Ambiente, propone invece altri dati, partendo dal valore ufficiale della produzione di carbone (dati 2012) e usando prezzi variabili da 200 dollari per tonnellata sul mercato locale (cioè 5 dollari per un sacco da 25 chili) a 800 dollari per tonnellata sul mercato internazionale. Con queste premesse Unep arriva ad assegnare al settore un valore economico compreso fra i 9,2 e i 24,5 miliardi di dollari.
Per fornire il polso della situazione a livello dei singoli paesi, il rapporto Fao riporta ad esempio che in Tanzania il settore del carbone vegetale contribuisce all’economia nazionale per circa 650 milioni di dollari (pari a circa il 2,2% del Pil) mentre in Kenya il valore più che raddoppia toccando 1,6 miliardi (1,2% del Pil).
Carbone e vita quotidiana
Guardando al quotidiano delle vite delle persone, la popolarità del carbone è facile da spiegare. Dal lato di chi lo compra, è la fonte di energia più conveniente: brucia più a lungo e produce più calore della legna, è più leggero e per questo più facile da trasportare e può essere conservato più a lungo, senza rischiare di marcire o di essere danneggiato dagli insetti.
Dal lato di chi lo produce e vende, data l’abbondante domanda, è una fonte di reddito piuttosto sicura. Standard Digital, uno dei principali quotidiani keniani, racconta la storia di Sipporah Kemunto, che vende carbone a Kisii, nel Kenya occidentale. Sipporah ha iniziato vent’anni fa con 200 scellini (circa 2 euro al cambio di oggi) prestati da un’amica, con i quali ha comprato il suo primo sacco di carbone. «Con quell’unico sacco sono riuscita a vendere dieci barattoli di carbone il primo giorno: molto al di sopra delle mie aspettative». Oggi la signora Kemunto vende un sacco a 1.100 scellini, per un guadagno fra i 500 e i 550 scellini, in un paese dove la paga giornaliera per un addetto alle pulizie, ad esempio, è di 622 scellini a Nairobi e 349 scellini in aree non urbane. Il suo lavoro l’ha costretta a molti sacrifici, come quello di svegliarsi prestissimo la mattina per fare il giro dei ristoranti suoi clienti e fornire loro il carbone, o quello di lavorare in condizioni non molto salubri. Ma grazie al carbone è riuscita a comprare due acri di terra fuori Kisii e a far studiare due figli all’università mentre il terzo sta finendo le superiori@.
Impatti del carbone
Il primo impatto connesso alla produzione di carbone vegetale riguarda il degrado delle risorse forestali – definito come riduzione della biomassa, declino della composizione e della struttura della vegetazione – se non addirittura la deforestazione. È difficile, avverte il rapporto Fao, indicare con chiarezza quanto la produzione di carbone vegetale da sola determini degrado o deforestazione. Un tentativo di fornire una stima del fenomeno è uno studio del 2013 che quantifica gli ettari di foresta persi in Africa a causa del carbone in quasi tre milioni, pari all’80% della deforestazione complessiva nelle aree tropicali. La Tanzania distrugge così ben un terzo delle sue risorse forestali, mentre lo Zimbabwe si ferma allo 0,33 per cento.
Vi è poi la questione delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, ma anche metano e carbonio) durante tutte le fasi della filiera. Anche in questo caso si tratta di un dato stimato e si collocherebbe fra 1 e 2,4 miliardi di tonnellate di gas serra, cioè fra il 2 e il 7 per cento delle emissioni globali imputabili all’attività umana.
Altro impatto è quello sulle casse dello Stato: la Fao stima che le perdite per tasse non pagate si collochino, a livello continentale, fra il miliardo e mezzo e i 3,9 miliardi di dollari. Anche in questo caso è la Tanzania il paese dove il danno è maggiore: 100 milioni di dollari di tasse non riscosse. Un ruolo non secondario in questo meccanismo di evasione è quello della consolidata prassi della tangente, che ha anche l’effetto di aumentare il prezzo del carbone per il consumatore finale. L’incidenza delle mazzette – di solito richieste da militari e polizia durante il trasporto – sarebbe pari al 12% in Malawi e fino al 30% in Kenya.
Infine, l’ampia informalità del settore genera un sommerso che apre ampie zone di manovra per gruppi criminali e terroristici. Il rapporto di Unep e Interpol, The Environmental Crime Crisis@, stima che milizie e gruppi terroristici nei paesi africani dove sono in corso conflitti – fra cui Mali, Repubblica Centrafricana, RD Congo, Sudan e Somalia – possono guadagnare fra i 111 e i 289 milioni di dollari all’anno fra mazzette e partecipazione attiva al commercio illegale. In un posto di blocco nel distretto di Badhadhe, Somalia, i terroristi di Al Shabaab sono riusciti a raccogliere fra gli 8 e i 18 milioni di dollari in un anno, più altri 38-56 fra commercio in proprio e tangenti nei porti.
Quanto al contrabbando internazionale le osservazioni sul campo degli estensori del rapporto hanno permesso di documentare, fra Uganda, RD Congo e Tanzania, movimenti di camion che di notte portavano sacchi di carbone in punti di raccolta nei pressi di aree protette o addirittura attraverso i confini. Nel complesso, il giro d’affari del carbone illegale crea profitti fra i 2,4 e i 9 miliardi di dollari nella sola Africa orientale, centrale e occidentale.
Ultimo aspetto è poi quello della salute umana: alcuni studi indicano che nei contesti domestici in cui si usano fornelli a carbone la concentrazione di Pm10 (polveri sottili) è di un sesto rispetto alle case in cui si usa legna da ardere. La transizione da legna a carbone potrebbe ridurre del 65% le infezioni respiratorie. Tuttavia, i bracieri tradizionali attualmente in uso, e sono la stragrande maggioranza, rappresentano una minaccia alla salute perché sprigionano più monossido di carbonio.
Le possibili soluzioni
Secondo il rapporto Fao, una riduzione pari all’86% nelle emissioni generate da produzione e consumo di carbone vegetale potrebbe ottenersi attraverso una serie di interventi. Fra questi vi sono l’introduzione di pratiche sostenibili nella gestione delle foreste, l’uso di biomasse alternative provenienti ad esempio dagli scarti della lavorazione del legno, l’introduzione di prodotti agglomerati (briquettes) che riutilizzino la polvere di carbone combinata con scarti della produzione agricola o con terreno e l’introduzione di fornelli migliorati, in grado di consumare meno carbone.
La riduzione più significativa tuttavia verrebbe, secondo la Fao, dal miglioramento dei sistemi tradizionali di carbonizzazione, che di solito avviene dentro fornaci con un’efficienza di conversione molto bassa. Secondo uno studio del 2016, migliorare tale efficienza dal 15 al 25% permetterebbe di ridurre del 40% la legna necessaria per produrre la stessa quantità di carbone.
Il lavoro dei missionari della Consolata
In Tanzania, dove il problema del degrado delle risorse forestali e, a volte, addirittura della deforestazione è particolarmente serio i missionari della Consolata hanno iniziato in due località altrettanti progetti per sensibilizzare la popolazione e coinvolgerla in un’opera di rimboschimento.
Il primo microprogetto si svolge nel villaggio di Makota, a Ihemi, circa 50 chilometri da Iringa. La popolazione locale vive di agricoltura di sussistenza, alla quale affianca altre attività occasionali per aumentare il proprio reddito. Fra queste vi è proprio il taglio degli alberi per ottenere legname e carbone. Le attività relative al legname vengono svolte in modo incontrollato, senza pianificazione né reintegro delle piante tagliate con nuovi alberi. Per questo l’erosione del suolo e la deforestazione stanno diventando fenomeni evidenti. Il progetto in corso prevede tre seminari di formazione per la popolazione locale tenuti dai leader locali e dai funzionari dell’agenzia tanzaniana per i servizi forestali. Le persone formate parteciperanno poi alla posa di alcune piante pr ogni famiglia e se ne prenderanno cura.
Alle Makunganya Hills, vicino a Morogoro, vi è poi in corso da fine 2016 un progetto simile. In questa zona, le colline sono ora spoglie, sia a causa dei frequenti incendi che del taglio degli alberi per ottenere legname per costruzioni e legna da ardere. A detta del responsabile sul campo, il microclima locale è cambiato e le risorse idriche della zona si sono notevolmente ridotte. Anche qui il progetto prevede la posa di migliaia di piante e tre seminari di approfondimento per la popolazione locale sui problemi e sui rischi connessi alla deforestazione. Parteciperanno circa 500 persone e, oltre al rimboschimento, si lavorerà con la comunità locale per avviare un progetto parallelo di apicoltura.
Chiara Giovetti
Borneo, giungla addio
La terza isola per estensione al mondo ha anche il primato della più alta concentrazione di biodiversità. Vi si trovano otto distinti habitat naturali. Oggi però circa la metà della sua superficie è deforestata, per far spazio alle palme da olio, oltre che per il saccheggio di preziosi legnami. Ma i suoi abitanti forse hanno capito come proteggere quello che resta.
Sandakan. Viaggiando da Kota Kinabalu, capitale del Sabah nel Borneo malese, a Sandakan sulla costa Nord orientale, la strada asfaltata affronta la dorsale montana del Crocker Range. Qui, dopo una serie di curve, compare in tutto il suo splendore il monte Kinabalu, la vetta più alta dell’isola con i suoi 4.095 metri. La cima, nera e frastagliata, si staglia verso il cielo, circondata da nuvole in rapido movimento. La strada prosegue poi scendendo dalla montagna coperta di vegetazione tropicale di una varietà sorprendente. Alberi altissimi ricoperti di innumerevoli piante parassite. Foglie enormi e fusti slanciati.
Ma quando si scende di quota ecco che compaiono le prime palme. E non sono palme originarie di qui e neppure piante qualsiasi. Sono le palme che producono il famoso olio, ingrediente ormai presente nella maggior parte dei nostri cibi. Continuando a scendere verso la costa, il panorama diventa terribilmente uniforme. Filari di palme da olio si susseguono, uno attaccato all’altro. In alcuni appezzamenti le piante sono piuttosto alte e mostrano i preziosi frutti: grappoli di noci rosso scuro e nere. In altri le palme sono ancora basse, mentre altre aree sono state recentemente ripulite e si presentano come distese brulle in attesa di piantumazione.
Questa visione prosegue per ore, ovvero centinaia di chilometri, mentre il nostro mezzo continua la sua corsa verso Sandakan. Palme da olio a perdita d’occhio. Intanto sulla strada incontriamo autobotti, che invece di trasportare carburante, riportano la scritta «Palm oil». Ogni tanto, una raffineria spunta in mezzo al «mare» di palme e inonda l’area circostante di fumi bianchi e neri.
L’isola misteriosa
Il Borneo ha una superficie complessiva di 743.107 km quadrati (due volte e mezza l’Italia) ed è suddivisa in tre stati: il Nord è parte della Malaysia (province Sabah e Sarawak), Sud e centro dell’Indonesia (il Kalimantan) e infine il piccolo ma ricchissimo stato islamico del Brunei (Nord). La terza isola al mondo per estensione (dopo Groenlandia e la vicina Nuova Guinea) era, in un passato non troppo remoto, ricoperta di foreste pluviali. Foreste considerate dagli esperti quelle a maggiore concentrazione di biodiversità del mondo. È stato infatti calcolato che il Borneo, sebbene costituisca l’1% della superficie terrestre, ha originato sul suo territorio una biodiversità pari al 6% di quella globale del pianeta. All’inizio del 1900 si calcola che il 96% della superficie dell’isola fosse occupata da foresta. Si tratta di diversi tipi di vegetazione, che costituiscono ben otto ecosistemi, dalla foresta tropicale montana alle mangrovie sulla costa, passando per la foresta pluviale di collina e pianura. Nel 2005 la copertura era ancora il 71%, mentre nel 2015 è scesa al 55%. Quasi la metà della superficie del Borneo è oggi deforestata1.
Quando negli anni ‘50 sono arrivati i caterpillar e le motoseghe il panorama è rapidamente cambiato. La foresta è stata penetrata e diverse strade l’hanno devastata, modificando irreversibilmente gli ecosistemi. La deforestazione è iniziata per scopi commerciali, inizialmente la vendita di legni pregiati e la produzione della gomma. Ma è a fine anni ’90 inizio 2000 che ha visto l’escalation maggiore2. In quel periodo si è infatti diffuso a livello mondiale il consumo dell’olio di palma e le foreste di Sabah, Sarawak e Kalimantan hanno subito un’aggressione senza precedenti. La crisi dell’estrazione della gomma aveva creato grande disoccupazione e la palma da olio è stata vista come la grande opportunità.
Dati del 2007 mostrano che Indonesia e Malaysia, insieme, producevano quasi il 90% dell’olio di palma consumato nel mondo3.
Uno studio4 pubblicato nel luglio 2014 sul giornale Plos One 4 da David Gaveau ricercatore del Center for International Forestry Research, Indonesia e i suoi colleghi, mostra che agli inizi degli anni ’70, circa il 75% del Borneo era ancora ricoperto di foreste, e dal 1973 al 2010, l’area forestale si è ridotta di circa il 30%, il che corrisponde a quasi il doppio della velocità di deforestazione osservata nelle foreste tropicali in altre aree del mondo.
È stato calcolato (fonte Wwf1) che oggi oltre 7 milioni di ettari in Borneo sono già coltivati a palma da olio e altri 6 milioni nel solo Kalimantan sono coltivati per produrre pasta di legno (materiale di basso livello per produrre mobili). E, ancora più grave, altri 10-13 milioni di ettari sarebbero in fase di deforestazione tra il 2015 e il 2020. Rimangono 40 milioni di ettari di foresta, dei quali una parte intatta e altra parzialmente distrutta. Di questi solo il 31% (ovvero il 17% dell’intera isola) è destinata ad aree protette, mentre il restante a «foresta produttiva». La copertura forestale rischia di scendere a un terzo di quella iniziale già nel 2020.
Lo spirito della foresta
Navigando con una piccola barca a motore sul fiume Kinabatangan, si possono scorgere sugli alti alberi delle rive molti animali. Dalle scimmie nasiche al più famoso orangutan (che in malay, lingua dei malesi, vuole dire l’uomo, oran, del bosco), ai molti macachi. Si può intravedere nelle acque un grosso coccodrillo, o essere sorvolati da famiglie di beceri (uccelli dal grande becco colorato), oppure vedere un coloratissimo martin pescatore (di una delle tante specie) all’opera.
Anche andare a piedi nella giungla è un’esperienza particolare. Ci si immerge subito in un mondo di «suoni» molto speciale: un crepitare di versi di ogni tipo che spesso sembrano attenuarsi e ripartire per andare, a tratti, all’unisono. Si cammina su un terreno umido, spesso fangoso, in mezzo a alberi e piante di una varietà sorprendente. Un vero e proprio «santuario» del mondo vegetale. Ma occorre fare attenzione alle sanguisughe (indossando apposite calze fin sopra al ginocchio) e a estese ragnatele sulle quali si dondolano grossi ragni. Il caldo, ma soprattutto l’umidità, possono a tratti toglierci il respiro.
Impatto devastante
La riduzione della foresta significa la perdita di biodiversità sia animale sia vegetale. Oltre a questo impatto enorme in termine di riduzione delle specie, gli altri effetti devastanti sono l’erosione dei suoli, il diffondersi di inondazioni, le frane e l’alto rischio di incendi. Quest’ultimo dovuto al fatto che le foreste naturali sono meno inclini agli incendi (più protette), mentre quelle parzialmente distrutte o influenzate dalla presenza umana sono molto più soggette, perché più secche.
Il taglio della foresta combinato con la pioggia torrenziale ha effetti disastrosi per l’erosione e la modifica dei fiumi, che causano devastazioni lungo il loro corso trasportando materiale a valle. Specie animali uniche in Borneo, come l’orangutan, la scimmia nasica e l’elefante pigmeo, vedono di anno in anno ridursi il loro habitat di percentuali a due cifre. Molto grave è anche il traffico illegale di animali esotici che diventa un effetto collaterale della deforestazione. Altre cause del taglio incontrollato di alberi sono legate alle concessioni minerarie, che vanno dagli scavi per il carbone a quelli per metalli e pietre preziose.
Il cuore del Borneo
Un passo positivo è stato fatto da Malaysia, Indonesia e Brunei, nella definizione del Heart of Borneo (HoB, Cuore del Borneo). Si tratta di un’area di circa 240.000 km quadrati (due terzi l’Italia), composta da diverse zone di foresta pluviale da proteggere. Nel 2007 i tre paesi hanno firmato una dichiarazione per dare vita al «HoB initiative». Lo scopo è la conservazione delle biodiversità, che tenga conto anche del bene della popolazione, tramite una rete di aree protette e, in parte, l’utilizzo sostenibile di terra forestale. Non si parla però di fare un unico parco naturale, ma piuttosto una situazione a macchia di leopardo, e, inoltre, occorre considerare che molte specie animali hanno il loro habitat fuori da questa zona. È un piccolo passo, che cerca il compromesso tra garantire la conservazione delle specie e della foresta, dell’ambiente di vita di alcuni gruppi etnici legati a questo habitat (come i Penan del Sarawak) e le esigenze di sviluppo economico dei paesi coinvolti.
Troppo tardi?
In Borneo sono ancora presenti «isole» protette di foresta primaria, ovvero quella foresta pluviale mai tagliata e ripiantata. Oggi sembra che la gente di questa splendida isola, unica al mondo, abbia imparato a rispettare queste aree e pure a trarne i mezzi di sussistenza, grazie a un turismo, di solito, non troppo invasivo. In questi luoghi si possono vedere delle perle di natura e immaginare come fosse un tempo l’intera isola. Ma ormai, per chi pensa al mito della giungla incontaminata del Borneo, è troppo tardi.
Marco Bello
Note
S. Wulffraat, C. Greenwood, K. Fahmi Faisal, D. Sucipto, The eviromental status of Borneo. Report 2016, Wwf.
Rhett A. Buttler, The Impact of Oil Palm in Borneo, mongabay.com
Sophie Yeo, 80% of Malaysian Borneo’s rainforests destroyed by logging, Climate change news, 2013.
David L. A. Gaveau et. al., Four Decades of Forest Persistence, Clearance and Logging on Borneo, PLoS ONE, 2014.
Una storia unica Il Sarawak dei rajah bianchi
Nel 1839 l’avventuriero inglese James Brooke approda per la prima volta nel Borneo Nord occidentale, nei pressi del villaggio di pescatori chiamato Kuching. Nell’area, controllata dal sultano del Brunei, è in corso una rivolta che coinvolge diversi gruppi etnici in lotta tra di loro. Brooke e il suo equipaggio, con le armi e il negoziato, riescono a riportare la pace. È per questo che il sultano Omar Ali Saifuddin II gli affida il governo del Sarawak nominandolo rajah. Inizia così un esperimento di geopolitica unico nella storia mondiale, che durerà 100 anni. James Brooke imposta un governo di tipo liberale, rispettoso dei diritti ma osservante delle regole, al quale fa partecipare i capi delle diverse etnie, nessuno escluso. James si guadagna molti alleati, anche se non tutti sono contenti e alcuni leader locali si oppongono al rajah bianco. In questa compagine si inserisce Sandokan, il longevo personaggio immaginario inventato dallo scrittore veronese Emilio Salgari.
James riesce a portare pace e prosperità in una regione agitata da scontri interetnici (vi operano i famosi Dayaki, i tagliatori di teste) e infestata dai pirati. Alla sua morte nel 1868 gli succede il nipote Charles Brooke (James non si era sposato e non aveva figli legittimi). Questi regnerà come secondo rajah bianco fino al 1917. Charles si inserisce sulla scia dello zio ma sviluppa il paese dal punto di vista infrastrutturale ed economico. Sotto il suo governo il Sarawak si estende con nuovi possedimenti, annettendo parte dell’attuale Sabah (Nord Est del Borneo). Il territorio viene anche protetto dall’invasione delle multinazionali straniere che disboscano la giungla per piantare il caucciù. Gli succede il figlio Charles Vyner Brooke, che regna fino al 1941, anno dell’invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale. Charles Vyner riprende il potere per alcuni mesi nel 1946, quando nel luglio è costretto a cedere il Sarawak alla corona britannica.
Anthony Brooke (1912-2011), nipote di Charles Vyner è stato rajah Muda (principe ereditario) e ha combattuto nel movimento anti colonialista, che si è opposto alla cessione del paese ai britannici. Si è poi ritirato in Nuova Zelanda dove ha vissuto, continuando a viaggiare e tenere conferenze a supporto di diversi movimenti per la pace.
L’erede della dinastia è Jason Brooke (1985), figlio di James Bertram “Lionel” Brooke (1940-2017) e nipote di Anthony. Jason è impegnato tra la Gran Bretagna e il Sarawak nella promozione storica dei Brooke, anche attraverso l’associazione Brooke Trust (www.brooketrust.org).
Ma.Bel.
RD Congo. Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile
Dagli anni Novanta i missionari della Consolata sono presenti fra i Pigmei Bambuti di Bayenga, nella Repubblica Democratica del Congo. Dal 2007 l’équipe missionaria può contare su padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata di origine spagnola. Nell’inverno scorso è stato in Camerun a osservare il lavoro che i Fratelli delle scuole cristiane portano avanti nel paese con i Pigmei Baka nel campo dell’istruzione.
Mezzo milione di persone distribuite fra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Rwanda, Burundi e Uganda: queste le dimensioni della comunità pigmea secondo le stime riportate da Survival International, organizzazione che si occupa della difesa dei diritti dei popoli indigeni in tutto il mondo. Si tratta di un popolo che vive a stretto contatto con la foresta, spesso al suo interno, vivendo di caccia e raccolta. Il rapporto con le vicine popolazioni bantu, maggioritarie, è difficile: un po’ per lo scontro antico fra chi, come i Pigmei, la foresta la vive come casa, rifugio e riserva di cibo e chi, invece, la taglia per ottenerne terreni da coltivare, come è il caso dei Bantu, agricoltori. E un po’ per i pregiudizi che quasi sempre accompagnano i conflitti per le risorse: i Bantu vedono nei Pigmei degli esseri inferiori, dei selvaggi da sfruttare o isolare, mentre per i Pigmei i loro vicini sono i padroni violenti che rubano loro la foresta e li costringono con la forza a fare da servi per sopravvivere.
Oggi, la speranza di vita di un Pigmeo è fra i 40 e i 45 anni contro una media dei Bantu di 59. La mortalità infantile nei bambini fino a cinque anni, che fra i Bantu è al 20%, raddoppia fra i Pigmei.
Cambiare questa situazione è un lavoro lungo, delicato e costantemente a rischio. Ma in Camerun il metodo applicato dai Fratelli delle scuole cristiane (detti anche Lasalliani dal nome del loro fondatore, Jean-Baptiste de La Salle) sta lentamente provando a creare le condizioni perché i Pigmei escano dal misto di vergogna e rassegnazione in cui anni di discriminazioni li hanno confinati. Abbaimo fatto alcune domande a padre Andrés che con padre Flavio Pante è nella missione di Bayenga e lavora con i Pigmei da 10 anni e recentemente è stato in Camerun.
Andrés, perché questo viaggio-studio in Camerun?
«Per studiare il metodo O.R.A., che i Fratelli applicano nell’istruzione prescolare dei Pigmei Baka. Anche qui in Congo lo conoscevamo, ma in Camerun lo usano da più tempo e in maniera più organizzata. Guidato da fratel Gilbert Ouilabegue, ho visitato le tredici scuole fondate da fratel Antornine Huysmans nella zona di Lomié, regione dell’Est. Le chiamano Centri di Educazione di Base per evitare che siano classificate come scuole ufficiali e, per questo, tenute a rispettare programmi, calendari e metodi ufficiali che sarebbero del tutto inadeguati per i Pigmei».
Che cosa significa O.R.A.?
«È l’acronimo di Osservare-Riflettere-Agire. Il metodo si applica negli anni precedenti la scuola primaria con bambini fra i cinque e gli otto anni. Fratel Antornine, ideatore di O.R.A., pensava che fosse inutile tentare di chiudere in un’aula scolastica dei bambini abituati a vivere liberi nella foresta, senza muri né orari, e formati fino ad allora alla «scuola della vita», dove i maestri erano i loro genitori e fratelli maggiori e le materie l’uso dell’arco o le tecniche per pescare.
Così, un po’ alla volta e con l’aiuto anche di alcuni Bantu della zona, Antornine cominciò a ideare una pedagogia dinamica, che si adattasse ai ritmi, alla lingua e alla cultura dei Baka invece che mirare alla completa omologazione di questi ai Bantu. Il metodo si basa su questi tre principi: osservare, riflettere, agire, perché sono il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti».
Come funziona in concreto?
«Innanzitutto, bisogna considerare che la funzione di questa pre-scuola è anche quella di liberare i bambini dalla paura della classe, del maestro, della lavagna e del parlare in pubblico. Si cerca sempre di coinvolgerli con canti, racconti, giochi di ruolo. Come punto di partenza si usa un disegno, che poi resta lì come per invogliare ad ascoltare la storia che segue. Ogni lezione, infatti, si apre con una piccola storia che introduce la parola, il numero, il concetto che si vuole insegnare».
E quanto ai contenuti?
«Nel primo anno, i bambini cominciano parlando nella lingua baka. Il punto di partenza, dicevo, sono i disegni che rappresentano scene quotidiane del campement (accampamento) pigmeo. Da qui si passa a nozioni di base come grande/piccolo, uguale/diverso, lungo/corto, poi ai primi segni grafici, alle cinque vocali e ai numeri da uno a sei, sempre partendo dalla lingua baka per poi tradurre in francese. Verso la metà del primo anno i bambini imparano qualche consonante, incominciano a formare delle sillabe, a fare qualche operazione aritmetica. Al termine del secondo anno, sono in grado di fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni con i numeri da zero a venti e di parlare francese con una fluidità che mi stupisce ancora oggi, se penso che non sono ancora alla scuola primaria».
Che cosa ti sembra che funzioni particolarmente bene nel metodo O.R.A.?
«Te lo dico con un esempio. Ricordo la dinamica di una classe con un’insegnante, Souzanne, che era davvero splendida: non ha mai sgridato nessuno, non è stata quasi mai alla lavagna. Quello era il posto dei bambini che, uno alla volta, ci andavano spontaneamente per partecipare, scrivere, cantare, mostrare un oggetto, un frutto. Lei è davvero una formidabile narratrice di storie che fa «sognare» chi la ascolta. Gli allievi vengono sempre incoraggiati, non sono giudicati o valutati per il risultato ma per lo sforzo. Ho visto in quei bambini la voglia di venire a scuola, di scoprire, d’imparare, di essere… protagonisti».
A questo punto i bambini sono pronti per la scuola elementare ufficiale?
«Sì, e nei primi anni si distinguono rispetto ai loro pari per il livello di scrittura e lettura. Poi, però, in Camerun come da noi, cominciano i problemi. I pregiudizi, che i bambini bantu «assorbono» dai loro genitori, cominciano a farsi strada e i Pigmei – che spesso non hanno l’uniforme, le scarpe o il sapone per lavarsi prima di andare a scuola – diventano l’oggetto di beffe e dispetti. Questa stigmatizzazione a poco a poco umilia e scoraggia i Pigmei, che finiscono per lasciare la scuola. Qui a Bayenga, su cento che iniziano la scuola primaria solo cinque o sei arrivano a concluderla (alle volte neanche uno)».
Per chi ce la fa, la vita cambia in meglio?
«Non direi. A scuola, i ragazzi pigmei hanno preso coscienza dell’immagine che i Bantu hanno di loro, hanno visto le differenze e capito perché gli altri hanno certi atteggiamenti al loro riguardo: per questo vivono il ritornare al campement come una sorta di arretramento. D’altra parte, inserirsi nel villaggio assieme ai Bantu è come piantare un albero senza radici, fra persone che non li accettano come propri pari e che tendono a imporre loro delle relazioni verticali, gerarchiche. Per molti si apre la strada di quella che noi chiamiamo la destrutturazione, dove alcol e cannabis diventano i mezzi con cui tenere a bada, nell’immediato, la frustrazione e la depressione e portano presto all’abbrutimento».
Arriviamo così a parlare del rapporto fra Pigmei e Bantu che piano piano, anche grazie a strumenti come il metodo O.R.A., state cercando di rendere meno conflittuale.
«Sì, ma non sarà un processo breve né semplice. La relazione fra i due gruppi nel territorio della nostra parrocchia qui a Bayenga è assai complessa: alcuni Pigmei erano già qui quando i Bantu arrivarono nella grande foresta che copriva la zona; altri sono arrivati con i loro padroni bantu da diverse zone del Congo per cercare lavoro nelle piantagioni belghe e greche, ai tempi della colonizzazione. In generale, si può dire che ci sono famiglie bantu che sono proprietarie di gruppi di Pigmei, e succede che un proprietario si riferisca ai Bambuti come ai «miei Pigmei, i Pigmei che mi ha lasciato mio padre quando è morto». Questi Pigmei sono in qualche modo parte della famiglia, ma come servi, non come membri alla pari degli altri (per maggiori dettagli sul rapporto fra Bantu e Pigmei vedi articolo Echi dalla foresta, di M. Bello, MC ottobre 2012).Invece ora, già per il fatto di sentirsi accompagnati e voluti bene da noi così come sono, incoraggia alcuni Pigmei a relazionarsi con dei Bantu su basi più paritarie. Ci sono anche dei Bantu che già s’avvicinano ai Pigmei con altro approccio, con una nuova maniera di relazionarsi che non è più quella del padrone con lo schiavo».
Di recente è apparso in Italia un articolo che parla del conflitto fra Pigmei e Bantu nella regione del Tanganika, nel Congo orientale. Lì, dall’estate 2016 ci sono stati quasi 500 morti, 2.500 feriti e 70 mila sfollati prevalentemente Bantu. I Pigmei si sono armati e combattono, bruciano villaggi, uccidono chi non scappa.
«Non conosco la situazione di quella regione, ma mi pare che quel che avviene qui a Bayenga sia piuttosto il contrario: i Pigmei, pacifici abitanti della foresta, hanno accolto senza condizioni i Bantu al loro arrivo. Poi si sono create relazioni di sfruttamento (soprattutto nei lavori dei campi) ma anche di «simbiosi»: i Pigmei sentono il bisogno di ritornare dai padroni bantu per vendere la selvaggina, il miele, i frutti presi nella foresta. Ci sono conflitti, sì, ad esempio quando i Bantu non pagano i Pigmei e questi rubano nel campo del padrone, o gli sottraggono una gallina. Ma lo fanno per sopravvivere, non per lucrare, e senza usare la violenza. Di solito queste scaramucce vengono regolate in «famiglia» o dal giudice di pace locale. Purtroppo, però, non posso escludere che la situazione si evolva nella direzione che l’articolo descrive per il Tanganika».
Che cosa potrebbe portare al conflitto?
«Nella nostra missione ci sono circa tremila Pigmei e quattordicimila Bantu. Le attività economiche che la maggioranza bantu svolge – agricoltura, taglio e commercio del legno, sfruttamento minerario – fanno precipitare in fretta la foresta e i suoi biomi verso una situazione non sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, e non solo per i Pigmei. Ci sono molti interessi in gioco e molto poca formazione per affrontarli: è grande l’ignoranza che si rallegra del profitto veloce delle miniere e dell’esportazione del legno. Nella quasi totale assenza dello stato, la foresta diviene piazza aperta per quanti hanno un po’ di forza fisica o economica per sfruttarla».
La vecchia storia del Congo supermercato a cielo aperto alla mercé di chiunque abbia abbastanza armi o soldi.In un rapporto del 2015 dal significativo titolo Exploiter (dans) le désordre, la Caritas e la Commissione giustizia e pace della diocesi di Wamba spiegano la situazione della Riserva Forestale degli okapi (Rfo), a una manciata di chilometri da Bayenga. Secondo il rapporto, nel parco ci sarebbero una settantina di cantieri artigianali – uno di questi sarebbe in grado di produrre oro per 300 mila dollari settimanali – dove lavorano decine di migliaia di minatori informali. Sempre secondo il documento, a questi cantieri si aggiungono poi quelli semi industriali e industriali nei dintorni della Rfo: a competere per la corsa all’oro ci sono proprio tutti, dai minatori artigianali alle grandi compagnie minerarie come la Kilo Goldmines, passando per le Fardc (l’esercito congolese) e le milizie ribelli.
«Esattamente. Fra la Rfo e la foresta intorno a Bayenga non c’è praticamente soluzione di continuità e i Pigmei Bambuti da sempre hanno cacciato in quest’area. Non l’okapi, però, visto che si concentrano su prede più piccole. Eppure, ora è proibito a tutti l’accesso alla riserva, i cui limiti sono stati fissati senza interpellare né i Pigmei né i Bantu. L’ente responsabile della vigilanza al parco dice che l’interdizione riguarda qualche specie soltanto, ma visto che non ha mezzi e personale sufficienti per fare i controlli, il risultato è il divieto assoluto di caccia e, addirittura, di passaggio nella riserva. Questa interdizione è rafforzata dalle attività dei ribelli e dei cacciatori di frodo, che invece nella Rfo ci sono e non gradiscono la presenza di possibili testimoni delle loro attività. Sì, come vedi c’è molto di più in ballo che non la convivenza fra due gruppi umani che faticano ad accettare l’uno lo stile di vita dell’altro».
Quello che racconti ricorda molto le difficoltà che i nostri missionari hanno affrontato e affrontano in Amazzonia.
«Ci sono molte somiglianze, sì, ma anche molte differenze. Qui non c’è mai stata una demarcazione delle terre indigene né un riconoscimento giuridico dei diritti dei Pigmei. Quello che noi cerchiamo di fare è accompagnare tanto i Bambuti quanto i Bantu in un cammino di reciproca conoscenza e comprensione che, se da un lato probabilmente dovrà passare per un adattamento dei Pigmei al contesto circostante, cerca però anche di evitare l’omologazione e valorizzare e difendere le caratteristiche dei Bambuti e della foresta che esso abita. Foresta che, vale la pena di ricordarlo, è un patrimonio per tutto il pianeta».