Non tutti i debitori sono eguali


Tutti i paesi sono indebitati. Al Nord come al Sud del mondo. Eppure, le conseguenze del debito sono molto diverse. Per pagare i creditori i paesi poveri non forniscono ai propri cittadini neppure i servizi minimi di salute e istruzione.  Oppure, semplicemente, falliscono. Come sta accadendo.

Tutti i governi del mondo sono indebitati, quelli ricchi più di quelli poveri, ma i primi se ne preoccupano di meno perché sono capaci di farcela meglio. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), a fine 2021, il debito pubblico complessivo ammontava a 90mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non dovrebbe far dormire la notte se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. Questo perché, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti che, messi assieme a quelli pubblici, a fine 2021 ammontavano a 235mila miliardi di dollari. Di questi quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 38%.

Il debito pubblico dei paesi ricchi

Il Fondo monetario internazionale suddivide il debito pubblico mondiale in due gruppi: quello dei paesi avanzati e quello dei paesi emergenti e in via di sviluppo. I paesi avanzati comprendono una quarantina di stati, che complessivamente ospitano un miliardo di persone (12,5% della popolazione mondiale), a cui è garantito un reddito medio pro capite di 55mila dollari l’anno. I paesi emergenti e in via di sviluppo rappresentano gli altri 160 stati che, complessivamente, ospitano sette miliardi di persone (87,5% della popolazione mondiale), che vive con un reddito medio pro capite di 7mila dollari l’anno. Il 68% del debito pubblico mondiale è a carico dei paesi avanzati. Fra essi il più indebitato in termini assoluti sono gli Stati Uniti che, a fine 2022, avevano un debito pubblico pari a 31mila miliardi di dollari. Ma in termini relativi, ossia in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), il debito pubblico più alto del mondo è quello giapponese pari al 227% del Pil, mentre quello statunitense è al 124%. Quanto all’Italia, il suo debito pubblico al 31 dicembre 2022 era attestato a 2.764 miliardi di euro pari al 145% del Pil. Fra i paesi emergenti, quello col debito pubblico più alto è la Cina, con 10mila miliardi di dollari, all’incirca un terzo di tutto il debito di questa parte di mondo.

In media, i paesi avanzati hanno un debito pubblico pari al 111% del proprio Pil. Quelli in via di sviluppo solo il 67% del loro Pil. Una diversità di carico che emerge anche dal debito pro capite. Su ogni abitante della parte ricca del mondo grava una quota di debito pubblico media pari a 67mila dollari. Sugli abitanti del resto del mondo, invece, gravano solo 4.400 dollari. Eppure la condizione di questi ultimi è assai peggiore dei primi perché le conseguenze del debito non dipendono solo dal suo ammontare, ma da varie altre variabili sintetizzabili in tre punti: verso chi è stato contratto il debito, con quale valuta, con quale capacità fiscale.

La questione del debito. Foto rupixen.com – Unsplash.

Le banche centrali e la creazione di moneta

Partendo dal primo punto, «verso chi», le possibilità sono due: verso soggetti interni o verso soggetti esteri. Nel primo caso la situazione è molto più gestibile e leggera che nel secondo. Si veda, come esempio, il Giappone che, pur avendo il debito pubblico più alto del mondo, non crea eccessivi allarmismi perché esso è essenzialmente verso i propri cittadini e verso la propria banca centrale. Quest’ultima, per statuto, deve collaborare in maniera stretta con il governo e deve assisterlo nelle sue esigenze finanziarie se necessario concedendogli anche prestiti tramite emissione di nuova moneta. Ad oggi il 43% del debito pubblico giapponese figura come debito verso la Banca centrale del Giappone e ha la caratteristica di poter essere definito un «debito non debito» perché, pur esistendo da un punto di vista contabile, non sortisce alcun effetto da un punto di vista pratico.

Tutti i paesi del Sud del mondo dispongono di una banca centrale, che magari ha anche il compito di colmare i deficit di bilancio creati dal proprio governo. Ma va precisato che l’intervento della banca centrale può andare a segno senza contraccolpi soltanto se attuato in paesi economicamente forti. Se si immette nuovo denaro in paesi con una struttura produttiva fragile, l’effetto più probabile è l’inflazione, ossia la crescita dei prezzi. Semplicemente perché l’apparato produttivo non riesce a rispondere alla nuova ondata di domanda provocata dall’emissione di nuova moneta. Un esempio è l’Argentina. Nel 2020 il governo di Fernandez decise di effettuare spese a debito con emissione di nuova moneta, ma nell’agosto 2022 dovette cambiare politica per un’inflazione che aveva raggiunto il 100%.

 

Tra prestiti interni e prestiti esteri

L’alternativa è il ricorso ai prestiti di origine interna o di provenienza estera. Quelli di origine interna sono in valuta locale e possono venire dai risparmi dei cittadini o dal sistema bancario locale.

Il Fondo monetario internazionale stima che il 30% del debito pubblico dei paesi emergenti è detenuto dalle banche locali. Con differenze che possono essere molto ampie fra paese e paese. Ad esempio, in Uruguay le banche private detengono appena il 10% del debito pubblico, in Cina l’80%. Dati altrettanto particolareggiati sugli altri creditori locali, purtroppo, non circolano, per cui non è possibile tracciare un quadro preciso sulla composizione dei creditori interni dei governi del Sud.

Invece, esistono statistiche molto accurate sul debito verso soggetti esteri, evidentemente perché ci riguarda. Infatti, si tratta di debito contratto verso le nostre banche, i nostri governi, i nostri investitori e verso i guardiani dell’ordine economico internazionale, ossia il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Una quota controllata a vista dalle nostre istituzioni timorose di perdite, ma mai persa di vista neanche dai governi del Sud considerato che deve essere restituita in dollari, euro e altre valute estere che non possiedono, o possiedono in maniera molto limitata.

Cumulativamente i governi del Sud del mondo sono indebitati verso il resto del mondo per 5.200 miliardi di dollari, all’incirca il 15% del proprio debito complessivo. Ma, oltre ai governi, anche imprese, banche e altri soggetti privati del Sud del mondo sono indebitati con soggetti esteri, per cui il debito complessivo dei paesi emergenti verso l’estero ammonta a 9mila miliardi di dollari secondo la Banca mondiale, a 11mila, secondo la conferenza su commercio e sviluppo delle Nazioni Unite (l’Unctad).

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Le conseguenze della esportazione di capitali

In ogni caso, tutti concordano nel riconoscere che è difficile tracciare una linea di demarcazione netta fra debito estero di tipo pubblico e debito estero di tipo privato, perché qualsiasi pagamento da effettuare in valuta estera, presuppone riserve in dollari o in euro che tocca ai governi garantire. Per questo assumono grande importanza eventuali squilibri che si vengono a creare con l’estero in ambito commerciale.

Un esempio è il Malawi, che nel 2022 ha visto balzare la quota di entrate pubbliche destinate al servizio del debito estero dal 5% al 44%, come conseguenza dell’enorme quantità di debito in dollari contratto dalle banche locali per coprire i costi di importazione di prodotti vitali.

Oltre che dai maggiori costi per le importazioni, le riserve di valuta estera possono essere corrose anche da altre operazioni come i prestiti richiesti da banche e imprese locali per il perseguimento dei propri fini. Senza dimenticare i capitali trafugati all’estero non sempre sottobanco, ma a volte legalmente, come mostra il caso argentino. Nel 2018-2019 in Argentina il governo Macrì legiferò a favore della libertà di esportazione di capitali che provocò al paese uno squilibrio nei conti con l’estero per decine di miliardi di dollari. Un deficit a cui venne posto rimedio tramite un prestito di 40 miliardi di dollari ottenuto dal Fondo monetario internazionale.

Un’operazione a favore delle classi più ricche fatta sulle spalle di tutta la comunità, perché ora tocca al popolo argentino ripagare il debito verso il Fondo.

Oltre che dalle scelte compiute da governi e soggetti economici, il debito verso l’estero risente molto di tutto ciò che si muove  sullo scacchiere internazionale. Basta un’inversione di marcia nell’andamento economico, l’alterazione di prezzo di beni strategici, la variazione dei tassi di interesse da parte delle grandi economie, e il debito verso l’estero si può fare più leggero o più pesante.

Secondo la Banca mondiale, dal 2010 al 2021 il debito estero complessivo dei paesi emergenti è più che raddoppiato, passando da 4mila a 9mila miliardi di dollari. E se, nei primi anni, l’aumento era imputabile al maggiore dinamismo degli operatori economici del Sud, che si affacciavano sulla scena internazionale per ottenere maggiori prestiti a scopi produttivi, dal 2019 l’aumento è imputabile a fenomeni mondiali che si sono mossi per conto proprio. Primo fra tutto la recessione mondiale da Covid che ha provocato una riduzione delle esportazioni del Sud con conseguente riduzione degli introiti in valuta estera. E se nel 2021 c’era stata una ripresa, nel 2022, due fatti nuovi hanno riportato i paesi del Sud del mondo nella tormenta.

Per primo, l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari e dei prodotti energetici, come conseguenza della guerra in Ucraina. Per secondo, l’aumento dei tassi di interesse a seguito di un cambio di politica delle banche centrali occidentali che ormai avevano come principale obiettivo il contenimento dell’inflazione.

È stato per il convergere di questi due fenomeni che la situazione debitoria del Sud del mondo verso l’estero si è fatta particolarmente critica soprattutto per i paesi più fragili e più dipendenti dall’estero.

L’Egitto, ad esempio, nel corso del 2022 ha bussato sia alle porte degli Emirati arabi uniti che del Fondo monetario internazionale per ottenere in prestito alcuni miliardi di dollari utili a fronteggiare l’aumento dei prezzi dei cereali acquistati sul mercato mondiale. Un nuovo debito ottenuto a condizioni più svantaggiose per effetto dell’aumento dei tassi di interesse a livello internazionale.

I creditori del Nord e il servizio del debito

Nel 2021, la somma inviata dai governi del Sud del mondo ai vari creditori del Nord per interessi sul debito è ammontata a 115 miliardi di dollari. Nel 2010 ammontava a 47 miliardi di dollari. Quindi, in dieci anni, l’aumento è stato del 144%. Se poi agli interessi aggiungiamo la quota restituita come capitale, troviamo che la somma complessiva inviata dai governi del Sud ai creditori del Nord, ammonta, nel 2021, a 400 miliardi di dollari.

Come dire che, in quest’anno, il Sud del mondo ha destinato al servizio del debito il 14,3% delle proprie entrate pubbliche, mentre nel 2010 ne destinava solo il 6,8%. Il calcolo è dell’organizzazione britannica Jubilee Campaign, che però avverte come esistano ampie differenze tra paese e paese.

In Sri Lanka, ad esempio, il servizio del debito estero assorbe il 60% delle entrate pubbliche, nello Zambia il 45%, in Angola il 33%, in Mozambico il 25%. Tutti paesi incapaci di garantire ai propri cittadini i servizi minimi di tipo sanitario ed educativo. E, tuttavia, ormai incapaci di onorare i propri impegni anche nei confronti dei creditori, considerato che Sri Lanka, Ghana e Zambia hanno già dichiarato fallimento.

Vari altri paesi rischiano di seguire la stessa sorte, per cui lo stesso Fondo monetario internazionale chiede di intervenire per alleggerire la situazione debitoria del Sud del mondo. Che tradotto significa disponibilità dei creditori ad annullare almeno parte del debito. Ma l’impresa non si presenta facile considerato che il 63% del debito estero dei governi del Sud è verso banche e altri soggetti privati a cui nessuno vuole porre regole.

Francesco Gesualdi

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Debiti e debitori: l’avarizia non conviene

testo di Francesco Gesualdi |


Il debito pubblico italiano continua a crescere, ma la questione non riguarda soltanto il nostro paese. Tutti hanno i loro debiti: gli stati, le imprese, le famiglie. Il debito può essere il motore del capitalismo. O il generatore delle sue crisi.

Secondo l’Institute of international finance, nel 2020 il debito mondiale è cresciuto di 24mila miliardi di dollari, per oltre la metà imputabile ai governi che hanno dovuto affrontare la triplice crisi sanitaria, sociale ed economica provocata dal Covid. Solo in Italia, il debito pubblico è cresciuto di 160 miliardi di euro passando da 2.410 miliardi, nel dicembre 2019, a 2.570 miliardi al 31 dicembre 2020 (e 2.700 a giugno 2021). A livello europeo, l’aumento si colloca attorno ai mille miliardi di euro, mentre negli Stati Uniti supera i 4mila miliardi di dollari.

I nuovi deficit, aggiunti ai debiti preesistenti, hanno portato il debito cumulativo dei 190 governi mondiali a 82mila miliardi di dollari. Una somma enorme, che non ci fa dormire la notte, se pensiamo che tocca a noi cittadini restituirla. Eppure, impallidisce, se la mettiamo a confronto con l’intero debito che grava sul mondo. In effetti, oltre agli stati, anche le famiglie e le imprese hanno i loro debiti. Messi tutti assieme, i debiti esistenti a livello mondiale, a fine 2020, ammontano a 281mila miliardi di dollari, ma quelli riconducibili ai governi rappresentano solo il 29%. Allo stesso livello troviamo le imprese non finanziarie che registrano un debito complessivo di 81mila miliardi. Al terzo posto, si collocano le imprese finanziarie (banche, assicurazioni e quant’altro), indebitate per 68mila miliardi di dollari pari al 24% del totale. Per ultime, arrivano le famiglie, che contribuiscono per il 18% con 51mila miliardi di debito.

Debiti e mercato

Potremmo dire che il debito è il motore del capitalismo: è la benzina della sua crescita perché permette alle aziende di espandersi anche quando non hanno i soldi per farlo. È il meccanismo che mette il sistema al riparo dal rischio di fallimento perché gli permette di vendere tutto ciò che produce, anche quando la ricchezza è distribuita talmente male da mettere miliardi di persone fuori mercato.   E non è certo un caso se in un momento in cui il 50% della ricchezza mondiale è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione, il debito totale sia diventato un mostro grande tre volte e mezzo il Prodotto lordo mondiale.

Banche e Finanza

Il debito può tenere il sistema in piedi, e aiutarlo a correre nonostante i suoi squilibri, solo se i debitori pagano. Altrimenti si trasforma in un meccanismo alla rovescia che inceppa tutto. Ne abbiamo avuto una dimostrazione nel 2008, quando negli Stati Uniti l’incapacità delle famiglie più povere di ripagare i propri mutui provocò una delle più drammatiche crisi conosciute dal capitalismo a livello globale. Anche se va detto che il sassolino provocò la frana per colpa di una finanza creativa che aveva usato i mutui come matrice per fabbricare una montagna di prodotti fantasiosi più simili a scommesse che a investimenti finanziari. Ma, al di là delle degenerazioni, la massiva insolvenza debitoria si trasforma in crisi economica perché il sistema bancario è il cuore pulsante dell’economia capitalista. Ricordandoci che i prestiti sono elargiti anche da altre strutture finanziarie che, pur non essendo banche, usano l’attività creditizia come forma di investimento. Se i prestiti non rientrano, le prime a subirne le conseguenze sono le strutture creditizie, ma a catena anche i risparmiatori che hanno messo a disposizione i propri soldi e in subordine le imprese produttive che dalle banche ricevono copertura quotidiana per le proprie esigenze finanziarie. In condizioni normali, le banche rispondono alle richieste di finanziamento delle imprese, ma non quando si trovano a corto di denaro. Così, le crisi debitorie producono i loro effetti sul sistema produttivo che, in assenza di un adeguata lubrificazione finanziaria, va anch’esso incontro a crisi.

Due aree critiche

Oggi due sono i comparti che destano maggiore preoccupazione in rapporto ai loro debiti: le imprese produttive e i governi del Sud del mondo. Nel mondo della finanza è stato coniato il termine «zombie companies» a indicare tutte quelle imprese sovraindebitate che hanno difficoltà con gli interessi e la restituzione del capitale. Secondo uno studio della International bank of settlements su 14 paesi occidentali, le imprese zombie sono passate dal 2% nel 1990 al 12% nel 2016. Un’accelerazione dovuta in larga misura al basso costo del denaro che ha spinto anche le imprese più deboli a indebitarsi. E, nel 2020, si è aggiunto il Covid. Dall’inizio della pandemia negli Stati Uniti la lista delle grandi imprese zombie si è allungata di altre 200 unità fra cui Boeing, Carnival Corp, Delta Air Lines, Exxon Mobil. Del resto Bloomberg conferma: quasi un quarto delle 3mila grandi società quotate in borsa negli Stati Uniti rientrano fra le imprese zombie. E il recente fallimento dell’impresa mineraria statale Yongcheng mostra che il problema esiste anche in Cina. Intanto uno studio della Banca mondiale informa che, tra il 1991 e il 2014, il ricorso al debito da parte delle imprese operanti nei così detti mercati emergenti (Africa, Asia e America Latina per intenderci) è cresciuto 30 volte con prestiti ottenuti non solo sui mercati locali, ma anche internazionali.

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I debiti in dollari ed euro

L’Institute of international finance stima che nel 2021 la spesa dei paesi emergenti per il debito (interessi e restituzione del capitale in scadenza) sarà di circa 7mila miliardi di dollari e per il 15% sarà in valuta estera.  Il che allarma la Banca mondiale che, nel suo studio, precisa: «Questa rapida crescita del debito solleva preoccupazioni perché le crisi finanziarie nei paesi emergenti sono spesso precedute da alti livelli di indebitamento da parte delle imprese. Specie se si tratta di debiti contratti in valuta estera, perché può bastare una svalutazione per aggravare la loro situazione debitoria». Come è successo a molte imprese turche che, nel corso del 2020, hanno visto la moneta del proprio paese svalutarsi del 30% rispetto al dollaro. Molte di loro non sono fallite solo grazie ai sostegni finanziari e fiscali concessi dal governo. Uno scenario analogo potrebbe ripetersi in Pakistan, Argentina, Marocco, Egitto, ma non si sa con quale esito dal momento che i governi stessi sono fortemente indebitati.

Va detto che in rapporto ai rispettivi Pil, i governi del Sud   sono mediamente meno indebitati di quelli del Nord. Ciò non di meno devono compiere uno sforzo maggiore non solo perché sono più deboli, ma anche perché devono pagare tassi di interesse più elevati. Nei paesi emergenti il debito cumulativo di tutti i governi corrisponde al 60% del Pil complessivo, nei paesi maturi al 131%. Ma lo sforzo dei primi è doppio rispetto ai secondi considerato che nei paesi emergenti la spesa per interessi assorbe il 10% delle entrate fiscali, nei paesi a economia matura il 4%. E si tratta di medie. Analizzando i casi specifici si trova che, in alcuni paesi (come Ghana e Sri Lanka, ad esempio), la spesa per interessi assorbe percentuali che variano fra il 30 e il 40%. Peggio di tutti il Libano che, nel 2019, ha speso per interessi il 50% delle proprie entrate fiscali. Ed è notizia del novembre 2020 che il governo dello Zambia ha dovuto dichiarare default non avendo di che pagare la rata di un prestito denominato in euro.

Il debito dei paesi poveri

In questo scenario, una notizia positiva è la decisione dei governi del G20 di sospendere, per la durata della pandemia, la riscossione dei pagamenti relativi ai prestiti che essi hanno concesso ai paesi più poveri, per intendersi quelli con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno. In ambito ufficiale, essi sono anche detti «paesi Ida», in ragione del fatto che sono ammessi a godere dei prestiti agevolati elargiti dall’agenzia della Banca mondiale denominata International development assistance. In tutto si tratta di 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale.

Secondo gli ultimi dati disponibili, riferiti al 2019, complessivamente i governi dei paesi Ida detengono un debito di 523 miliardi di dollari, ma solo il 34% è bilaterale, ossia è nei confronti di altri governi. Il resto è verso organismi multilaterali come Banca mondiale e Fondo monetario internazionale (46%) e    verso banche commerciali e altri soggetti privati (20%). Pertanto, la sospensione si applica solo a un terzo degli importi, quelli riferibili al debito bilaterale che è l’unica parte su cui i governi del G20 hanno potere decisionale. A conti fatti, si tratta di 27,4 miliardi di euro per il biennio 2020-2021.

L’aspetto bizzarro è che solo una quarantina di paesi ha chiesto di poter beneficiare della sospensione. Fra i motivi avanzati dagli esperti per spiegare una risposta così poca entusiastica, c’è la circostanza che le cifre sospese dovranno essere rimborsate fra il 2022 e il 2024. Un periodo molto breve che rischia di creare un sovraccarico di esborsi che a molti paesi fa paura. Considerato che una buona metà dei paesi più poveri è già in stato di insolvenza, o è vicina a diventarlo, è abbastanza comprensibile che molti di loro non vogliano sottoscrivere patti che sanno di non poter onorare. Del resto, mancano informazioni sulle contropartite che i governi debitori dovrebbero dare in cambio delle sospensioni, né si sa quali misure scatterebbero in caso di inadempienze. Considerato che la consulenza è del Fondo monetario internazionale, non ci sarebbe da sorprendersi se l’offerta fosse condizionata al rispetto di regole che, in passato, si sono rivelate altamente destabilizzanti sul piano sociale e politico.

Senza lungimiranza

Il che conferma che l’unica strada da perseguire per liberare i paesi più poveri dalle catene del bisogno è l’annullamento del loro debito, esattamente come ha ribadito papa Francesco nella lettera che ha inviato l’8 aprile scorso alla Banca mondiale: «Lo spirito di solidarietà globale impone di ridurre in maniera significativa il    debito delle nazioni più povere, un peso che la pandemia ha ulteriormente esacerbato. Scegliendo di alleggerire il loro debito compiremmo un gesto di grande umanità perché permetteremmo a quelle popolazioni di accedere ai vaccini, alla sanità e all’istruzione».

Generalmente, si invoca il senso di generosità per indurre a comportamenti di rinuncia, ma in questo caso basterebbe appellarsi alla lungimiranza perché l’avarizia non conviene a nessuno in un momento in cui basta un focolaio di non vaccinati per fare divampare di nuovo la pandemia a livello globale.

Francesco Gesualdi

Foto Gerd Altmann-Pixabay.

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Collettivismo vs individualismo

Spettabile Missioni Consolata,
ho letto con molto interesse l’articolo a firma di Piergiorgio Pescali sul contenimento del Covid-19 in Corea del Nord (MC 5/2020). Lo stesso giornalista firma un riquadro (pag. 54) dove mette a confronto i sistemi di contenimento in Occidente e quelli in Oriente, evidenziando la tesi secondo la quale i processi democratici vigenti in Occidente rallentano la presa di decisione in situazioni di emergenza. Questo aspetto, unito all’individualismo tipico della cultura occidentale, non giova al contenimento del virus. Viceversa, citando testualmente Pescali, «il sistema comunitario orientale […] detta le regole dall’alto secondo un sistema antico e collaudato. E in Asia, nata e costruita su fondamenta culturali assai diverse da quelle occidentali, spesso funziona». Questo, unito alla cultura orientale più orientata al benessere collettivo che all’individuo, gioverebbe nel contenimento del virus.

La posizione di Pescali non mi sorprende: è in corso un dibattito politico e filosofico sulla effettiva efficacia delle democrazie e illustri politologi indicano come modelli di stato efficiente paesi come Singapore (come sostiene ad esempio, il noto politologo Parag Khanna ne «Il secolo asiatico»).

Trovo però molte crepe in questo ragionamento: se è vero che un potere centralizzato decide prima, questo non significa che il potere assoluto od oligarchico sia il migliore sistema per guidare una nazione. Cina, Corea del Nord, Vietnam, Thailandia, Myanmar (per citare solo alcune nazioni confinanti o adiacenti la Cina) sono brutali dittature che imprigionano chi dissente, spostano forzatamente intere popolazioni, controllano la vita di ogni singolo cittadino e non hanno alcuna trasparenza nelle loro comunicazioni. Siamo così sicuri che siano modelli da prendere ad esempio? Nello stesso numero della vostra rivista, avete fatto un servizio sulla persecuzione terribile che il governo cinese attua nei confronti dei seguaci della Chiesa di Dio Onnipotente.

Sottolineo che, nella nostra democrazia, imperfetta e sicuramente da rivedere, abbiamo gli strumenti del decreto legge, legislativo e della presidenza del consiglio dei ministri, che permette di gestire le emergenze.

Concludo chiedendomi, e chiedendovi, se non sia il caso di pensare a un modello cristiano di politica. Cristiano non in senso assolutistico, ma cristiano nel cuore della questione, ovvero agire per il bene di tutti, conservando la libertà di avere la propria opinione, nel rispetto degli altri. Possibile che un concetto così semplice sia solo utopia?

Perdonatemi la prolissità! Cordiali saluti,

Lorenzo Bragagnolo
22/05/2020

 

Non è ovviamente mia competenza specifica entrare nell’argomento del «modello cristiano di politica». Mi permetto qui di ricordare solo che uno dei capisaldi della concezione cristiana della politica si trova espresso nel Concilio Vaticano II, al numero 74 della Costituzione pastorale Gaudium et Spes.

Secondo il Concilio, in vista del bene comune, «gli uomini, le famiglie e i diversi gruppi che formano la comunità civile […] avvertono la necessità di una comunità più ampia, nella quale tutti rechino quotidianamente il contributo delle proprie capacità» (n. 74). «La comunità politica esiste dunque in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (ivi).

Perché questa comunità politica non si disgreghi nello scontro di opinioni diverse, «è necessaria un’autorità [pubblica] capace di dirigere le energie di tutti i cittadini verso il bene comune, non in forma meccanica o dispotica, ma prima di tutto come forza morale che si appoggia sulla libertà e sul senso di responsabilità» (ivi).

È un testo che merita di essere letto e riletto, anche perché «la politica» oggi è contagiata da molti virus e stanno crescendo sia la disaffezione per essa che l’idea di soluzioni messianiche e autoritario populiste.

 

Il capestro del debito

Gentilissima redazione,
sono un fedele lettore da molto tempo e mi soffermo spesso sulle rubriche di Francesco Gesualdi riguardanti l’economia.

Mi piacerebbe molto avere una sintesi, magari sotto forma di tabella, del debito di tutte le nazioni sotto forma di dare/avere per capire con uno sguardo chi tiene i «cordoni della borsa» dell’economia mondiale e quindi fare pressioni su di loro per azzerare il debito e liberare per sempre il mondo da questa schiavitù che affossa sempre più alcuni, ed arricchisce sempre più altri.

Alla faccia di tutte le dichiarazioni di buona volontà che circolano specialmente in questo periodo di virus, che, sotto sotto, ci ha fatto riflettere e ha messo in discussione tutti i modelli economici e dato spazio alla rivincita della natura sui disastri che giornalmente perpetriamo nei suoi confronti.

È ora di girare pagina, ma veramente e non solo con dei proclami. Cordialmente

Valerio Liberati
22/05/2020

Caro Valerio,
grazie per la tua sollecitazione. Ciò che auspichi sarebbe senz’altro di grande utilità, ma al tempo stesso di non facile realizzazione. Innanzi tutto, per la varietà di fonti che andrebbero consultate e subito dopo per la quantità di voci che andrebbero esaminate. Infatti, la posizione finanziaria verso l’estero di ogni paese è determinata dal saldo commerciale, dai movimenti di capitale, dal debito accumulato dal governo centrale, dal debito delle imprese, dal debito delle banche e altri aspetti ancora. Per una sola persona si tratterebbe di un’impresa titanica, quasi impossibile da realizzare, ma se a lavorarci fosse un gruppo, allora il discorso sarebbe diverso. Quello che potremmo fare è chiedere a MC di lanciare pubblicamente l’idea con l’obiettivo di chiedere a chiunque si senta di voler e poter partecipare, di farsi avanti. Se l’iniziativa riuscisse, si potrebbe formare un gruppo di volontari che iniziano con questa ricerca e magari proseguono con molte altre di cui si sente il bisogno per ripristinare una corretta informazione.

Francesco Gesualdi
02/06/2020

Suggerimenti

Splendido il dossier sul ruolo attuale delle missioni, complimenti. Mi permetto un suggerimento: fare un servizio di analogo respiro sull’articolo di Civiltà Cattolica che partendo da un’analisi dell’impatto del virus, delinea un esplosivo programma politico, praticamente socialista, ma di quelli che i socialisti di oggi non osano neanche parlarne.

Un altro suggerimento, basato sulla lettura dell’ottimo articolo sul numero di marzo sullo sfruttamento delle acque del Mekong: fare un servizio analogo sullo sfruttamento del Nilo, che porterà tra non molto a una inarrestabile crisi in Egitto, con spinta a una enorme migrazione. I Cinesi hanno già fatto dell’Etiopia la loro riserva alimentare, acquistando terreni aridi che verranno irrigati con le dighe che stanno costruendo vicino alle origini del Nilo. E probabilmente la stessa cosa sarà fatta nel Sud Sudan quando e se sarà pacificato: a questo punto il Nilo in Egitto sarà ridotto a un rigagnolo, e una delle più popolose nazioni dell’Africa sarà ridotta alla disperazione. L’Egitto ha 100 milioni di abitanti, di cui almeno cinque di soldati e poliziotti: può succedere di tutto, a partire da una inarrestabile emigrazione.

D’altra parte, da sempre l’acqua è un elemento importante della politica estera: dal Tibet partono i fiumi che irrigano l’India, alcuni passando per il Pakistan, altri per il Kashmir non a caso in perenne tensione. I curdi si battono per un’indipendenza che nessuno gli vuol dare, perché controllano buona parte dell’acqua che va in Turchia e Iraq e tutta quella che va in Siria. E in Siria, nelle alture del Golan che Israele ha conquistato nasce il Giordano, ormai ridotto a un rigagnolo a causa dello sfruttamento intensivo delle acque, tanto che il lago di Tiberiade, luogo evangelico, credo sia di fatto prosciugato e il Mar Morto sta trasformandosi in una miniera a cielo aperto.

Claudio Bellavita
13/05/2020

Grazie dei preziosi suggerimenti di cui faremo tesoro nelle nostre possibilità. Il problema dell’acqua è certamente cruciale per il mondo, anche per alcune dissennate politiche in atto, tipo la distruzione sistematica dell’Amazzonia o la massiva cementificazione dell’ambiente o, ancor peggio, la corsa di imprese private e multinazionali a prenderne il controllo sia da noi in Italia che in molte parti del mondo, facendo questo a spese dei poveri.

Soldi per armare terroristi

Ciao carissimi,
spero di trovarvi tutti bene. Vi scrivo perché sono rimasto molto colpito dalle discussioni scatenatesi in seguito alla liberazione di Silvia Romano. Concordo sullo squallore di certi commenti volgari e irrispettosi che si sono diffusi a valanga. Nondimeno, dalle «nostre» parti (sinistra e Chiesa missionaria) è mancato un commento sull’inopportunità di avere versato dei soldi a una tra le peggiori organizzazioni terroristiche del pianeta.

Fin dalla mia prima esperienza africana, avvenuta negli ormai lontani anni ‘80, ho maturato la consapevolezza di quanto male facciano le armi nel Sud del mondo. Animato da questa convinzione, ho partecipato con entusiasmo a tantissime iniziative, dall’obiezione alle spese militari al viaggio dei 500 a Sarajevo. […]

Ebbene, adesso sento con dispiacere la mancanza di una nostra critica, educata e circostanziata (lontana mille anni luce dagli insulti e dalle minacce), al finanziamento di Al Shabaab.

Negli ultimi anni, a seguito di alcune missioni in Niger, ho percepito con chiarezza il terrore degli abitanti nei confronti di possibili attacchi da parte di gruppi jihadisti. Considerare il terrorismo islamico solo come un nostro problema, equivale a limitarsi alla punticina di un iceberg che invece costituisce un’enorme spada di Damocle nei confronti di molti paesi.

Per questo, pensando alla preoccupazione espressami da tanti africani, non sono riuscito a gioire alla notizia della liberazione dell’incolpevole Silvia, considerato che i soldi versati per lei potrebbero trasformarsi in morte per molti somali e kenyani. Forse che la sua vita vale più delle loro? Dire che tanto le armi arriverebbero ai terroristi anche senza il pagamento del riscatto, equivale al ragionamento di chi sostiene che l’Italia fa bene a vendere armi a certi paesi, tanto se non lo fa lei lo fanno gli altri.

Ho compiuto diverse missioni in paesi a rischio, e mia moglie sa bene che mai e poi mai vorrei che, se fossi rapito, qualcuno versasse dei soldi ai terroristi per me. Certo, al di là di quella che è la mia volontà, lo stato italiano potrebbe sempre decidere di comportarsi come vuole. Ma in tal caso sarebbe giusto che fosse criticato, perlomeno da chi prova orrore nei confronti degli attentati e dei conflitti armati.

Come insegnano anche molti missionari, chi parte deve essere preparato sia psicologicamente sia professionalmente, poiché le buone intenzioni non bastano. Per questo è scandaloso l’invio di Silvia, arruolata su due piedi da una Onlus alla buona per andare a «portare il suo sorriso» in uno dei posti più pericolosi della terra.

Del terzomondismo di facciata di molte Onlus e Ong ho già parlato diffusamente nel mio libro «Ripartire da ieri, la nuova sfida del volontariato internazionale», pubblicato dalla Emi nel 2015, che alcuni di voi hanno letto. Qui mi limito a esporvi la mia delusione per il fatto che certe critiche ho dovuto leggerle (per lo più espresse in forma sguaiata) sulla stampa di destra, dopo averle inutilmente cercate sulla nostra. Penso che, per essere credibili, bisogna avere il coraggio di uscire dal «politicamente corretto», altrimenti si rischia di adagiarsi sul «coppibartalismo» per cui certe cose si criticano solo se sono attuate dalla parte avversa.

Ma le armi ad Al Shabaab non sono meno mortifere di quelle vendute ai despoti di Egitto e Arabia Saudita. Chiedere chiarezza sulle transazioni di armamenti che vedono coinvolto il nostro paese senza poi chiederne altrettanta su come e quanto sia stato pagato per la liberazione di Silvia, equivale a una forte perdita di credibilità, offrendo per di più il destro a chi non aspetta altro per screditare le nostre idee e le nostre proposte.

Scusate l’intrusione, ma siete fra i pochi che non mi fanno sentire un marziano su questa Terra. E poi, tante cose le ho imparate e continuo a impararle da voi. Per questo mi sento autorizzato a chiedere un po’ più di coraggio e coerenza. Un abbraccio!

Alberto Zorloni
02/06/2020

Caro Alberto,
condivido appieno la tua critica e il tuo disagio nei confronti dell’osceno mercato delle armi in cui anche il nostro paese è coinvolto su larga scala. Per quanto riguarda Silvia, ho gioito alla notizia della sua liberazione, dopo avere seguito da vicino tutta la vicenda fin dai primi momenti.

L’ho seguita spinto da molti motivi: dalla compassione (nel senso originario) per il dramma di una ragazza mandata allo sbaraglio (bastava vedere le foto della casa in cui stava), dal fatto che ho «informatori» sul posto e una nostra missione, Adu, non molto distante da Chakama; dal fatto di avere vissuto in Kenya – certamente non il posto più pericolodo della Terra – una ventina d’anni e di sentire quel paese come parte di me, dall’avere già avuto esperienza diretta di altre persone rapite da somali, come le due missionarie del Movimento contemplativo missionario di Cuneo nel novembre 2008 e liberate nel febbraio 2009.

Resto convinto che un rispettoso silenzio e una maggiore discrezione avrebbero giovato a tutti. Anche per avere il tempo di far emergere i fatti, senza costruire castelli su informazioni non confermate (vedi le fantastiche storie sui milioni pagati da questo o quello, con in ballo armamenti, petrolio e grattacieli).

Questo avrebbe evitato di spargere tanto odio e tante falsità, evitando di screditare il mondo del volontariato che in questi tempi di Covid-19 sta dando una splendida prova di sé in
Italia e nel mondo.

Quanto alla battaglia contro l’amoralità del mondo degli armamenti, è una battaglia sacrosanta che si può fare senza usare le Silvie di turno, altrimenti si diventa amorali come quel mondo che non accettiamo.


Speciale Covid e missionari

Padre Remo Villa celebra l’eucarestia con mascherina a Tura mission

Da Tura mission, Tanzania

15/03/2020 Dicono che siamo circondati dal coronavirus: Congo, Ruanda, Kenya e Sudafrica. Ma qui niente, stando alle notizie ufficiali. Sarà vero? Speriamo di sì, però…

Qui a Tura (quasi al centro del paese), e in tutta la zona, la gente conosce il nome della malattia e basta. Un po’ poco non ti pare?

Oggi dopo le messe ho mostrato un video ricevuto due giorni fa, in swahili. Attenzione massima e silenzio di tomba. Manca l’informazione e penso anche la preparazione. Nonostante tutto, ricordiamoci che il sole ogni mattina illumina la nostra vita…

23/03/2020 Ho celebrato la messa all’aperto anche per non essere troppo stretti, come capita nelle nostre chiese, in tempi di coronavirus che sta entrando anche qui in Tanzania. Ma eravamo proprio pochi, moltissimi infatti erano ancora alle prese con l’inondazione. Ho promesso loro che ritornerò presto ad incontrarli e stare con loro con calma e serenità. Oltre al coronavirus anche l’inondazione. La comunità cristiana ha ospitato nella chiesetta sei nuclei familiari, trenta persone circa. Gesto stupendo che mi fa comprendere il buon cuore della mia gente.

Martedì 17 marzo il primo ministro ha parlato ufficialmente alla Tv annunciando le prime decisioni per combattere questa pandemia, tra cui la chiusura delle scuole, divieto di incontri e assembramenti politici e partitici, destinazione al ministero della Salute della somma per la fiaccolata dell’indipendenza, preparazione di alcuni reparti ospedalieri per l’emergenza, ed altro.

I casi di coronavirus sono molto pochi, dicono i dati ufficiali. Che il Signore aiuti la nostra gente già provata in tante altre maniere.

29/03/2020 Qui a Tura la vita va avanti nella normalità. Però le piogge abbondanti e torrenziali sembra non vogliano lasciarci. I risultati sono allagamenti dappertutto con rovina di ponti e ponticelli e tante le case ripiegate su se stesse o addirittura portate via dall’acqua

26/04/2020 Oggi, domenica, secondo le direttive dei vescovi per combattere il Covid, niente canti durante le celebrazioni. Questo ci ha impressionati un po’ tutti: la messa senza canti è come il cibo senza sale, almeno qui da noi. La vivacità e la gioia pasquale ne hanno risentito parecchio.

03/05/2020 Poca gente alla messa, per fortuna la nostra chiesetta aperta ci permette di mantenere le distanze aumentando il numero dei blocchi di cemento su cui sedersi.

24/05/2020 Festa di Pentecoste, due messe, ma senza guanti e pinzette, solo con mascherina a portata di mano e all’aperto. La seconda a 40 km di distanza, circa un’ora. La comunità è Isuli da me visitata in marzo. Solita chiesetta piccola con finestre e porta senza infissi, e quindi arieggiata. Però, dato l’«amico» corona, e due begli alberi, la messa è stata all’aperto con venticello che allontanava il caldo del mezzodì. Più di quaranta adulti ed altrettanti bambini seduti per terra su un grande telone.

padre Remo Villa,
Tura mission, TZ

Padre Giampaolo davanti alal casa Imc a Yokkok

Yokkok, Corea del Sud

La Corea ha affrontato molto bene l’emergenza virus. Un po’ di anni fa, al tempo della Sars, la Corea aveva avuto molti contagi e decessi. Per questo motivo quando è arrivato il Covid-19 era preparata. Test per tutti, specialmente dove c’erano i focolai più importanti.

Ogni giorno sui telefonini arrivano messaggi che ti allertano sulla situazione e ti dicono se nella tua zona ci sono infettati e quali sono le zone, palazzi, ospedali, centri da evitare. Così tutto è sotto controllo.

Anche noi da prima delle Ceneri fino alla fine di aprile non ci siamo mossi dai nostri centri. Non c’erano messe pubbliche, catechesi né incontri di alcun tipo. La comunità di Tong du chon faceva la messa in streaming per i lavoratori stranieri.

Tutto sembrava andare bene, le messe pubbliche erano ricominciate e già si facevano alcuni incontri, quando c’è stata una nuova ondata di contagi, questa volta non del virus «leggero» di prima, ma di quello più pericoloso che è diffuso in Europa. E molti dei nuovi contagi sono proprio nella zona di Yokkok. Perciò è saltata la festa della Consolata che facevamo ogni anno. Molte scuole sono state richiuse e in alcune parrocchie hanno di nuovo sospeso le messe. Insomma quando tutto sembrava tornare alla normalità, siamo tornati all’emergenza. Per fortuna si può andare in giro con una certa libertà, ma tutti cercano di muoversi il meno possibile. Qui a Taejon (un milione e mezzo di abitanti) e nella nostra regione, gli infettati sono stati solo alcune centinaia, per cui l’ambiente è abbastanza tranquillo. Abbiamo potuto visitare alcuni monasteri buddisti in occasione della festa della nascita del Buddha, e abbiamo ripreso qualche incontro di approfondimento sulla fede. Vedendo come vanno le cose però, la stagione pastorale non riprenderà pienamente prima di settembre.

Siamo in una situazione di stallo, come il resto del mondo d’altronde. Credo però che noi in Corea e Taiwan siamo tra i più fortunati, e la luce al fondo del tunnel la vediamo già molto vicina.

padre Lamberto Giampaolo
Yokkok, Corea d.S., 30/05/2020

Duecento pacchi di cibo pronti per la distribuzione

San Antonio Juanacaxtle, Messico

19/04/2020 Giovedì faremo una riunione in uno spazio aperto con gli otto capi quartiere del rancho (paese) per lanciare il Revess (Rete di vicinato e solidarietà samaritana). L’iniziativa vorrebbe rendere più coeso il tessuto sociale e coinvolgere i giovani per piccole commissioni e per proteggere gli anziani.

Intanto il confinamento è stato decretato in tutto il Messico fino al 30 maggio perché credono che il 10 maggio raggiungeremo il picco. Vedremo.

Il governatore del nostro stato (Jalisco) ha inasprito le misure di sicurezza, soprattutto in relazione all’uso della mascherina. Certo, ci sono molte famiglie qui che vivono alla giornata e non possono rimanere a casa perché non hanno risparmi su cui vivere.

21/04/2020 Qui sembra che le misure di distanziamento sociale non riescano a fermare né Covid-19 né gli omicidi.

24/04/2020 Ieri è partito il Revess, in una bella riunione all’aperto, sulle panchine fuori dalla chiesa, mantenendo la distanza di sicurezza. Alla fine, abbiamo parlato anche della festa del patrono del rancho, che è il 13 giugno. Ho detto loro che il confinamento è fino al 30 maggio, ma che potrà essere allungato ulteriormente. Quindi niente festa. Ci sono rimasti male e hanno sottolineato che allora neanche la festa la Consolata (del 20 giugno) potrà essere fatta.

Erano più preoccupati per i festeggiamenti del villaggio che per il Covid-19. Infatti c’è un sacco di scetticismo sul coronavirus. Penso che fino a quando non toccherà qualcuno della loro famiglia, sarà difficile per loro convincersi della gravità della situazione.

06/05/2020 Il Revess ha cominciato a funzionare e sta iniziando i primi interventi con l’aiuto di volontari.

12/05/2020 Stiamo distribuendo cibo a destra e a manca perché le esigenze sono enormi e bisogna anche dedicare del tempo alle persone. Non puoi solo dare la borsa di cibo e andartene. Dobbiamo non solo saper ascoltare, ma anche saper dare per rispettare la dignità di coloro che sono nel bisogno. Sono lieto di poter fornire un minimo di consolazione.

17/05/2020 Secondo l’Istituto per l’economia e la pace, la violenza ha tolto l’equivalente del 21% del Pil al Messico. Il che è una barbarie. Siamo ancora alla media di 100 omicidi al giorno.

Di fronte a questa pandemia della violenza, il Covid-19 sembra un male minore. Siamo anche uno dei paesi che fa meno tamponi, quindi è difficile avere una visione globale della situazione. Penso che dobbiamo essere più attenti che mai al contagio proprio perché c’è l’impressione generale che il peggio sia passato, ma non ne sono tanto sicuro.

21/05/2020 Stanno arrivando un sacco di chiamate da persone che hanno il Covid-19 e stanno vivendo davvero male. Ci sono anche persone che soffrono di solitudine e hanno bisogno di parlare con noi.

Domani avremo altri 200 sacchetti di cibo da distribuire tra le famiglie. Li porteremo in ogni casa noi stessi, il che rende la distribuzione molto più lenta, ma anche molto più umana.

25/05/2020 Il confinamento, previsto fino al 1 giugno, sta creando situazioni complicate. Ieri hanno pesantemente minacciato uno di noi missionari perché si è rifiutato di celebrare una messa di anniversario – con partecipazione massiccia di gente – di un ragazzo morto due anni fa.

30/05/2020 Continuiamo a distribuire aiuti alimentari, anche se si prevede che tutto questo peggiorerà. I casi di Covid-19 continuano ad aumentare, così come i decessi e siamo uno dei paesi che fa meno test. D’altra parte, omicidi e femminicidi sono una realtà quotidiana.

padre Ramon Lazaro,
Guadalajara, Messico


Dall’Eswatini, disinfezione




Cari Missionari


Battezzati e inviati

La Chiesa di Cristo in missione nel mondo

Preghiera ispirata dal messaggio del santo padre Francesco per la 93ª giornata missionaria mondiale che si celebra domenica 20 ottobre 2019.

O Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo,
dalla comunione con te nasce una vita nuova che viviamo come fraternità battesimale, ricchezza da donare, da comunicare, da annunciare gratuitamente, senza escludere nessuno.

O Dio Padre tenerissimo,
tu vuoi che tutti gli uomini siano salvi arrivando alla conoscenza della verità e all’esperienza della tua misericordia grazie alla Chiesa. Tu non ti sottrai mai al dono della vita, destinando ogni tuo figlio, da sempre, alla tua vita divina ed eterna, che ci viene comunicata nel battesimo. Questo sacramento della nostra salvezza ci dona la fede nel tuo figlio Gesù Cristo vincitore del peccato e della morte, ci rigenera a tua immagine e somiglianza, ci inserisce nel corpo di Cristo che è la Chiesa, ci fa tuoi figli e figlie adottivi nel tuo figlio unigenito.

O Signore nostro Gesù Cristo,
con la tua passione, morte e risurrezione ci salvi dal peccato e dalla morte, rompendo gli angusti limiti di mondi, religioni e culture. Tu ci chiami a crescere nel rispetto per la dignità dell’uomo e della donna, e a conversione sempre più piena a te, verità che dona la vita a tutti. Come il Padre ha mandato te, anche tu, con il dono dello Spirito Santo, hai mandato la tua Chiesa per la riconciliazione e la salvezza del mondo.

O Spirito Santo, vero protagonista dell’evangelizzazione,
tu ci conduci a Gesù verità, ci rendi Chiesa in uscita fino ai confini della terra e ci rendi capaci di essere dono gli uni per gli altri. Tu fai di noi la Chiesa che annuncia, celebra e testimonia il vangelo della salvezza nel rispetto della libertà personale di ognuno, in dialogo con le culture e le religioni dei popoli a cui Gesù ci invia. Fa’ che non manchino mai uomini e donne che, in virtù del loro battesimo, rispondano generosamente alla chiamata a uscire dalla propria casa, dalla famiglia, dalla patria, dalla propria Chiesa locale per essere missionari delle genti.

O beata vergine Maria, nostra madre,
ti affidiamo la missione della Chiesa. Unita al tuo figlio, fin dall’incarnazione ti sei messa in movimento, ti sei lasciata totalmente coinvolgere nella sua missione, che ai piedi della croce divenne anche la tua: cooperare come madre della Chiesa a generare nello Spirito e nella fede nuovi figli e figlie di Dio.

Amen. Alleluia!

Don Francesco dell’Orco
Università Cattolica – Gemelli, 22/06/2019

Grazie e addio

Carissimi missionari della Consolata,
il mio nome è Bruno Bersani e molti anni fa ero uno di voi e ho passato dieci anni in Kenya, Meru, come fratello.
Là ho conosciuto una missionaria laica canadese, e fatto sta che dopo tanto pensare ho lasciato l’istituto e sono venuto in Canada.
Sono sempre stato molto attaccato all’istituto, alla Consolata e al beato fondatore Giuseppe Allamano.
Ho sempre ammirato i missionari della Consolata, padri, fratelli e suore. Credo di aver fatto di più per l’istituto da fuori che quando ne ero membro e ne sono orgoglioso.
Ero in contatto con uno di voi e fu lui ad abbonarmi a MC.
Ora ho novant’anni e siccome non ho nessuno in famiglia che conosce l’italiano, ho pensato di sistemare le cose prima che sia troppo tardi.
Decido di fermare la spedizione ora, piuttosto che continuare a riceverlo e nessuno lo leggerà e penserà a farvelo sapere quando non ci sarò più.
Tutti i giorni prego per voi missionari e missionarie della Consolata.
Mi sento orgoglioso di aver appartenuto all’istituto che ho amato e continuo ad amare. Ad un istituto che per me è il migliore.
Vi saluto tutti, con promessa di continuare a pregare per tutti i missionari e missionarie della Consolata e per il beato fondatore che presto sarà venerato come santo. Con affetto

Bruno Bersani
New Westminster,  Canada, 10/07/2019

Ricercando nei nostri archivi abbiamo trovato la foto del giovanissimo Bruno Bersani (sopra) insieme agli altri fratelli missionari a Meru negli anni ‘60: (da sinistra) Comaron Giovanni, Bersani Bruno, Bottaro Dino, Argese Giuseppe e Costardi Francesco.

 

Falsità sul debito estero

Egregio Direttore,
con riferimento all’articolo di Francesco Gesualdi di MC 5/2019 pag. 27, non sono riuscito a capire quali «falsità si sono raccontate rispetto al nostro enorme debito pubblico». Non è forse vero che abbiamo una cronica e sempre più sorprendente evasione fiscale, che i costi della nostra politica sono i più alti del mondo, che abbiamo le pensioni d’oro, abbiamo più auto blu degli Stati Uniti? Io apprezzo questa rivista, ma mi sembra che la responsabilità del nostro debito sia tutta nostra, frutto bacato di tanti governi mediocri che abbiamo eletto noi. Altro che azzerare il nostro debito «buttandolo sulle spalle della Bce».
Cordiali saluti,

Angelo Guzzon
Cernusco Lombardone, 22/06/2019

Abbiamo naturalmente girato la questione a Francesco Gesualdi. Ecco la sua risposta.

Gli anni Ottanta furono catastrofici per lo stato
italiano perché si continuò a espandere la spesa sociale a debito, con soldi ottenuti esclusivamente dalle banche a tassi di interesse esorbitanti. I numeri confermano: il debito complessivo che nel 1980 ammontava a 114 miliardi di euro, 58% del Pil (Prodotto interno lordo), a fine 1991 lo troviamo a 755 miliardi, 95% del Pil. È abitudine misurare il debito anche in rapporto al Pil per avere un’idea più chiara della sua grandezza. Eppure il nuovo debito contratto per garantire maggiori servizi ai cittadini era stato solo di 140 miliardi. Gli altri 596 miliardi furono debito contratto per pagare gli interessi.

Il 1991 rappresenta uno spartiacque nella storia del debito pubblico italiano, perché fu l’ultimo anno in cui venne fatto nuovo debito per servizi a vantaggio dei cittadini. Nel 1992 si insedia il governo Amato e annuncia al popolo italiano che per aderire al progetto di moneta unica programmato dall’Unione Europea bisognava entrare nell’ordine di idee di ridurre il debito. Detto fatto, innalzò le tasse e ridusse le spese ottenendo un avanzo, fra quanto incassato e quanto speso al netto degli interessi, di 15 miliardi di euro. Eppure il debito crebbe anche quell’anno, per la semplice ragione che il risparmio realizzato non fu sufficiente a coprire la spesa per interessi che obbligò ad accendere altro debito. Anno dopo anno, quello stesso meccanismo si è protratto fino ai giorni nostri (ad eccezione del 2009) portandoci all’assurdo che nonostante 825 miliardi di risparmio realizzati nel periodo 1992-2018, il debito pubblico ha continuato a crescere per l’incapacità di tenere la corsa con gli interessi che nello stesso arco temporale sono ammontati a 2.160 miliardi, di cui 1.320 coperti con nuovo debito.

Tutto questo dimostra quanto sia falso affermare che lo stato italiano è indebitato perché abbiamo voluto vivere al di sopra delle nostre possibilità. L’Italia si trova nell’attuale livello di indebitamento perché è stata consegnata mani e piedi alle banche.

Francesco Gesualdi
06/08/2019

A questo punto la domanda più logica è: sono banche o strozzini e usurai? Si è preso un prestito di 254 miliardi in tutto e ora il debito è di 2.160 miliardi perché si sono fatti altri debiti per pagare quel debito? Di questo passo questo debito non sarà mai estinto. Quanto ci vogliono guadagnare gli usurai che hanno prestato i soldi?

Passaggio al Messico

[Cari amici che mi avete accompagnato in questi anni di vita africana],
la data [della mia partenza dalla Costa d’Avorio verso la mia nuova missione in Messico] si avvicina e voglio cogliere l’occasione per ringraziare Dio per il tempo vissuto in Costa d’Avorio. Sono arrivato qui il 16 gennaio 2001. Ho avuto l’opportunità di vedere bambini e bambine crescere; vedere i giovani sposarsi e accompagnarne alcuni al riposo eterno. È stata una vera grazia.

Mi scuso se ti ho fatto del male o a volte ti ho deluso. Sono consapevole di aver vissuto situazioni in cui non sono stato in grado di essere all’altezza di ciò che ci si aspetterebbe da un uomo di Dio.
Il Signore sa anche che ho vissuto questo tempo con passione.
Ho vissuto con passione l’incontro con Dio e la celebrazione dell’Eucaristia.
Ho vissuto con passione l’accompagnamento dei missionari, la costruzione della fraternità, della comunità e di uno stile di stare con persone di diverse religioni del quartiere.
Infine, ho vissuto con passione la visita alle famiglie e ai villaggi, l’inserimento tra la gente senufo, la presenza tra giovani e bambini, la promozione delle donne e la consolazione nell’istruzione, nella salute e nell’igiene.
Ho sperimentato con voi la gioia del Risorto.

Gli anni bui della guerra (civile – dal 2002 al 2011, ndr) hanno approfondito la mia fede. È diventata più matura, più forte, più teologale. E dal 2012, la speranza e la gioia sono stati i tratti fondamentali della mia presenza in questa terra.

Il 2 settembre andrò ad Abidjan e la notte tra martedì e mercoledì ho l’aereo per tornare in Spagna. Voglio andare a rivedere i miei genitori ormai invecchiati, con quasi 80 anni a testa. Vi chiedo di pregare per loro. Hanno appena accettato la mia missione in Messico, ma sanno anche che questa è la vocazione missionaria e la vivono con un misto di tristezza e orgoglio. Pregate per loro, per favore. Farò diversi mesi in Spagna con loro e in gennaio e febbraio farò un corso di rinnovamento in Italia per prepararmi a inserirmi in Messico, dove arriverò solo a marzo. Grazie per tutto quello che abbiamo passato insieme.

Tutto è stato un dono di Dio e per lui continuo ad offrire la mia vita per il bene della missione tra tutti i popoli. Alla prossima, wàa pye cangàa fáala.

Ramon Lazaro Esnaola,
da San Pedro, Costa  D’Avorio, 27/08/2019

Oltre il sovranismo

Cari missionari,
la decisa presa di posizione del papa sul tema del sovranismo – vedi «La Stampa» del 9 agosto – mi sembra una cosa molto importante.

L’amore per la patria, per la lingua, la musica, l’arte, la religione, il territorio nazionale, non può portare al respingimento di chi viene soccorso in mare e alla criminalizzazione di chi presta soccorso. A dircelo non sono solo le sacre scritture, ce lo dice anche lo scioglimento dei ghiacciai, ce lo dice il cambiamento climatico, ce lo dice la logica naturale, prima ancora che trascendentale.

Quello di patrimonio dell’umanità, prima ancora che un concetto biofisico, biologico o storico-archeologico, è un concetto filosofico e dovrebbe riguardare anche quei luoghi che ancora non sono riconosciuti come depositari di un particolare pregio artistico, architettonico o paesaggistico.

Il no netto alle ideologie sovraniste e la difesa della proprietà privata come diritto naturale non sono in contraddizione: se è contro natura negare il diritto alla casa – con gli stipendi da fame, con la speculazione immobiliare, con la sperequazione impositiva, con un sistema fiscale criminale – lo è anche rifiutare il soccorso alle donne gravide e ai bambini di pochi mesi in nome della difesa del nostro suolo, del nostro mare, della nostra casa, delle nostre risorse.

Lo è anche rifilare o minacciare multe pazzesche alle navi delle Ong che hanno accolto dei naufraghi a bordo.

L’Italia non è solo degli italiani ma del mondo intero, l’Adriatico non è solo di Venezia, il Mediterraneo non è solo degli italiani, dei francesi, della Spagna, della Libia o del Marocco.

La Russia non è solo dei russi, il Brasile – checché ne dica Bolsonaro – non è solo dei brasiliani, le foreste, i fiumi e i ghiacciai del Sud America non sono solo dei sudamericani esattamente come le foreste (per esempio quelle di sequoie o quelle degli alberi arcobaleno delle Hawaii),
i fiumi, i laghi (piccoli e grandi) e i ghiacciai del Nord America, non appartengono solo ai nordamericani, ma al mondo intero.

Il lago Aral non è solo dei kazachi e degli uzbeki, e se la parte kazaka recupera e quella uzbeka continua a ridursi, il problema è politico, ma politico vuol dire che, oltre ad Alma Ata e Taskent, anche le altre grandi città dell’Asia e del mondo hanno voce in capitolo, perché la rigenerazione di questo bacino sarà una vittoria per tutta l’umanità, mentre la sua scomparsa sarà una sconfitta per tutti.

Quello che si scioglie o si ricompatta sul Kilimanjaro, sugli Aberdare o in Groenlandia, riguarda anche Londra, Parigi, Roma, Washington, Berlino, Copenaghen, non solo Nairobi, i Masai e gli Inuit.

La Cina, intendendo anche Hong Kong, Macao, Taiwan, e quella inserita nel Progetto riserve della biosfera dell’Unesco, non è solo dei Cinesi, non è solo del Partito comunista cinese, ma patrimonio della comunità mondiale.

Non dico di non diffidare dell’ecologismo facile, del terzomondismo da salotto e dell’ipercatastrofismo, ma non dimentichiamo che l’atto virtuoso del singolo individuo, del singolo comune, e del singolo stato sovrano (per esempio la piantumazione di un albero, una buona raccolta differenziata, la lotta al caporalato) ha ricadute positive sul mondo intero, mentre i comportamenti viziosi (la dipendenza da alcol, tabacco e droga, il disprezzo del cibo, lo spreco di acqua…) ha ricadute che possono essere devastanti.

Francesco Domenichelli
email 12/08/2019