Il sogno dello sciamano

 


Il sogno è difendere l’Amazzonia e i suoi popoli nativi. Senza farsi illusioni: cambiare una condizione sedimentata nei secoli e portata avanti dal potere dei bianchi è una lotta lunga, complicata e lastricata di speranze e sconfitte. Eppure, Davi Kopenawa Yanomami non si arrende.

Pian del Cansiglio (Belluno). La nebbia mattutina d’inizio aprile viene dissipata dai primi raggi del sole. Poco dopo, l’altopiano si mostra nella sua veste migliore: aria fresca, colori e il silenzio della natura. Attorno si apre la foresta – dicono sia la seconda d’Italia per estensione – e in lontananza si stagliano le montagne ancora innevate. L’ospite – Davi Kopenawa Yanomami – apprezzerà?

Lui arriva al tavolo della colazione preparata dalla signora Franca, la gestrice del rifugio Vallorch, indossando jeans, felpa blu e scarpe da ginnastica. Un abbigliamento che ci aiuta subito a vedere le cose nella giusta prospettiva. Troppo spesso, infatti, nella nostra testa ecomiti e stereotipi occidentali resistono come licheni sulla roccia. Mai dimenticare che un indigeno rimane tale anche se usa il cellulare, il computer o se gioca a calcio, come ricorda una preziosa campagna di sensibilizzazione – Menos preconceito mais índio (Meno preconcetti, più indigeni) – dell’Instituto socioambiental (Isa), trent’anni compiuti proprio quest’anno.

Al suo quarto viaggio in Italia, Davi è arrivato assieme a Carlo Zacquini, missionario della Consolata che con lui ha attraversato oltre mezzo secolo di lotte indigene condividendo speranze, vittorie e sconfitte.

Ovviamente, quella del Cansiglio non è la foresta amazzonica, e il rifugio Vallorch non è la casa comune di Watoriki, l’aldeia di Davi. Premesso questo, il leader degli Yanomami ha trovato qui un ambiente più familiare al suo e, comunque, certamente migliore rispetto a quello offerto da una città e da un albergo. Un’idea originale – oltre che un simbolico gemellaggio tra due foreste – uscita dal cappello degli organizzatori de «Il Mondo di Tommaso», la vitalissima associazione di Vittorio Veneto che ha portato in Italia i due ospiti.

A passeggio tra i boschi del Cansiglio, Davi racconta le differenze con la «sua» foresta amazzonica. Foto Paolo Moiola.

Raccontare gli Yanomami: da Cannes al Giappone

A tavola chiediamo a Davi se sia contento di viaggiare, di essere qui. «Più o meno», risponde con disarmante sincerità e con il suo consueto, tranquillo sorriso. Precisa: «Lo faccio per la causa del mio popolo».

Il suo libro A queda do ceu (La caduta del cielo) è stato tradotto in più lingue e adottato in molte facoltà universitarie. Da esso è stato tratto un documentario selezionato per il festival di Cannes 2024. Eppure, tutto ciò non basta: la realtà rimane complicata, drammaticamente complicata. Gli Yanomami del Brasile (ma la situazione è identica anche per quelli del Venezuela) stanno conoscendo anni molto difficili che possono mettere a rischio la loro stessa sopravvivenza come popolo indigeno autonomo e orgoglioso.

È una crisi dalle molte facce, tutte feroci e tutte tra loro collegate: sociale, sanitaria, ambientale, climatica. Per questo Davi non vuole tirarsi indietro. Pur avendo una moglie (Fatima) e cinque figli (Dario, Guiomar, Denisi, Tuila e Vitorio), continua a girare il mondo – dopo questo viaggio in Italia (con il clou di un incontro privato con papa Francesco) partirà subito per il Giappone – per perorare la causa degli Yanomami e dell’Amazzonia.

La maledizione dell’oro

Dopo colazione, ci incamminiamo verso il massiccio del monte Cavallo, ancora innevato (la cima supera di poco i 2.200 metri). La cosa che più attrae Davi è proprio la neve, l’unico elemento veramente nuovo rispetto all’ambiente amazzonico dal quale lui proviene.

«Mi piace questa foresta – dice mentre camminiamo lungo i sentieri -. Io non sono nato in casa, sono nato in foresta. Per questo è mia sorella».

Nulla di strano in queste parole: nella visione indigena, la foresta è viva, gli alberi sono vivi. E gli sciamani sono il tramite tra gli uomini e gli spiriti della foresta.

«Sì, mi piace – ripete Davi -. Anche se, a differenza della nostra, non è nativa ma piantata. Anche gli alberi sono differenti». E, vedendo gli abeti, aggiunge: «Pure le foglie sono diverse. Queste sembrano capelli» (riferendosi agli aghi). Quando passiamo a camminare su un tratto di sentiero pavimentato, Davi osserva con un sorriso: «Questo è il vostro “garimpo”».

Da tempo garimpos (miniere) e garimpeiros (minatori) sono l’ossessione di Davi Kopenawa. Perché rappresentano – con ragione – il peggio dell’uomo bianco: la violenza verso madre natura e i popoli indigeni.

L’invasione è dovuta alla ricerca dell’oro, che – purtroppo – è presente in abbondanza come già avevano scoperto i conquistatori spagnoli e portoghesi.

I garimpeiros cominciarono ad arrivare negli anni Settanta, quando iniziò la costruzione della Perimetral Norte (o strada federale Br-210, mai completata) e Davi era un bambino.

Con il ritorno di Lula alla presidenza del paese, gli invasori sono diminuiti di oltre il 60 per cento, ma ne rimangono almeno altri settemila (e molti altri sono pronti a entrare o rientrare nel territorio yanomami). L’ultima operazione militare allestita per cacciarli – chiamata Operação Catrimani II – ha avuto luogo in aprile.

Davi riconosce il ruolo positivo del presidente: «Lula è una buona persona, però è solo». La solitudine è dovuta a un Congresso brasiliano dominato da uomini dell’ex presidente Jair Bolsonaro, nemico dichiarato dell’Amazzonia e dei popoli indigeni.

Davi Kopenawa Yanomami in Pian del Cansiglio (Belluno), aprile 2024. Foto Paolo Moiola.

Oggi il mercurio si acquista su internet

Lo sciamano yanomami amplia il concetto di garimpeiros. Spiega: «Io considero garimpeiro anche chi compra l’oro dai garimpeiros e chi nei paesi dei bianchi lo vende». Purtroppo, la realtà racconta che la domanda di oro non pare destinata a ridursi visto che è considerato un bene rifugio e il prezzo dello stesso rimane molto alto (attualmente, oltre 70 euro al grammo).

Davi passa a elencarci tutto ciò che il garimpo porta con sé: «Si mettono sui fiumi con draghe e motori. Poi hanno bisogno di combustibile, cibo e alcol, mezzi di trasporto, armi da fuoco per sparare agli indigeni. Hanno schermi televisivi e soprattutto hanno internet».

Non sono esagerazioni di una vittima arrabbiata. Risponde al vero che i satelliti di Starlink – la società di telecomunicazioni di Elon Musk (tra l’altro, molto vicino all’ex presidente Bolsonaro) – hanno favorito soprattutto i garimpeiros che possono comunicare con tutto il mondo anche dalle zone amazzoniche più isolate. Tramite internet gli invasori possono interloquire con i propri referenti e acquistare tutto ciò che serve alla loro attività.

Per esempio, Infoamazonia ha scoperto che sulle piattaforme brasiliane Olx e Mercado livre si possono tranquillamente comprare balsas (draghe), mercurio liquido e ogni tipo di attrezzatura mineraria.

Chiediamo a Davi del mercurio e lui smette di camminare per mostrarci anche a gesti come viene utilizzato dagli invasori per ripulire l’oro dagli altri sedimenti. Mercurio che poi si disperde nei fiumi contaminando l’ecosistema: un avvelenamento grave e confermato da vari studi. Due degli ultimi sono quelli firmati dalla rivista Toxics (settembre 2023) e dalla prestigiosa Fundación Oswaldo Cruz (aprile 2024): secondo la rivista a Roraima il 40 per cento dei pesci contiene livelli di mercurio superiori alla norma, mentre secondo una ricerca della fondazione nello stesso stato l’inquinamento da mercurio colpisce quasi tutta la popolazione di nove villaggi yanomami.

Bianchi e garimpeiros

Davi Kopenawa Yanomami firma il proprio libro tra gli alberi della foresta del Cansiglio. Foto Paolo Moiola.

Davi va oltre nelle sue accuse. Il maggior pericolo viene da chi sta dietro i garimpeiros, anche grandi imprese di altri stati. Davi non fa nomi, ma l’affermazione trova riscontro nelle cronache giornalistiche che, per esempio, riportano i problemi causati dalle compagnie minerarie canadesi – tra esse Cabral gold, Equinox gold, Belo sun – operanti in Brasile. Tonnellate di oro illegale si confondono con quello legale originando un commercio internazionale dai contorni sempre opachi.

Davi è molto duro nei confronti dei bianchi («napëpë» in lingua indigena, ovvero non Yanomami, stranieri, nemici), che etichetta come «popolo della merce». Tuttavia, è magnanimo nei confronti dei garimpeiros. «Spesso gli invasori – precisa infatti – vengono in terra indigena perché non hanno una loro terra, un loro lavoro. A questo dovrebbe porre rimedio il governo federale».

A Watoriki – Davi ricorda sempre con nostalgia il suo villaggio in foresta – non ci sono garimpeiros: i suoi centocinquanta abitanti vivono ancora come la cultura yanomami insegna.

La mancanza di contatti con gli invasori ha tenuto lontano il pericolo della corruzione. Che, per esempio, è arrivata per una parte dei Kayapó (nel Pará).

Chiediamo a Davi se, al di fuori di Watoriki, ci siano Yanomami che sono diventati garimpeiros. «No», risponde secco, salvo poi precisare: «Una minoranza, soprattutto tra coloro che si trovano a vivere accanto ai garimpos. Si sono fatti convincere da qualche grammo di oro o semplicemente da forniture di alimenti».

Malattie e denutrizione

I garimpeiros sono anche responsabili primi del peggioramento delle condizioni di salute della popolazione indigena, che è molto vulnerabile e priva di vaccinazioni. La prima emergenza è data dalla diffusione della malaria, ma ci sono anche influenze, tubercolosi, patologie intestinali e i molteplici problemi di salute (anche neurologici) prodotti dal mercurio.

Con le malattie è arrivata anche la fame. «Perché – spiega David – gli Yanomami malati non hanno la forza per alzarsi, per andare a caccia, per preparare il cibo.

Personalmente, non ho mai sofferto la fame. Ho avuto la malaria ma non sono morto. Purtroppo, anche in materia di salute il governo è stato assente. Con Bolsonaro siamo stati abbandonati per quattro anni. Con Lula è diverso, ma lui non ha abbastanza appoggio per risolvere la situazione. La stessa Onu parla tanto, ma non fa nulla».

Nell’aprile 2021, una pubblicazione dell’Igarapé institute – noto istituto di ricerca con sede a Rio de Janeiro –  ha calcolato il «prezzo della devastazione»: all’epoca, l’estrazione di un chilo di oro produceva danni ambientali pari a dieci volte il suo valore. Quel calcolo però non includeva gli incommensurabili danni umani subiti dai popoli indigeni.

Un momento della passeggiata tra i boschi del Cansiglio organizzata da «Il mondo di Tommaso» in onore di Davi Kopenawa e Carlo Zacquini. Foto Paolo Moiola.

Abbracciare gli alberi

Al rifugio Vallorch è arrivata molta gente per ascoltare Davi e Carlo. Il leader yanomami ha indossato un «cocar», il copricapo di sgargianti piume di pappagallo ara (così anche la classica iconografia dell’indiano è salva).

Il pomeriggio sarà dedicato a una passeggiata comune tra i boschi di faggi del Cansiglio. Accanto agli ospiti brasiliani, a guidare il gruppo è Toio de Savorgnani, alpinista, scrittore e ambientalista di Mountain wilderness, la combattiva associazione per la difesa delle montagne.

La passeggiata tra i boschi del Cansiglio ritempra il fisico e la testa. Toio propone di chiudere l’immersione nella foresta con quella che i bianchi hanno chiamato «silvoterapia» (con le sue varianti forest bathing e tree hugging). Non basta respirare a pieni polmoni, occorre tornare al contatto fisico tra viventi abbracciando – sì, abbracciando – gli alberi. Pochi minuti per sentire e ascoltare la natura.

Dopo l’abbraccio, alcuni dei presenti si avvicinano a Davi con il suo libro tra le mani. Glielo porgono per un autografo e lui, quasi a giustificarsi, dice: «I bianchi non ascoltano. Per questo ho dovuto scrivere».

Chissà se basterà. Il sogno dello sciamano yanomami – un’Amazzonia senza invasori e il ripristino dell’equilibrio simbiotico tra uomo e natura – dovrebbe essere il sogno di tutti. Dovrebbe, ma purtroppo non è.

Paolo Moiola

SITI WEB

Fratel Carlo Zacquini in una sala del Centro di documentazione indigena (Cdi) di Boa Vista, a Roraima. Foto CDI.

Fratel Carlo Zacquini

Il sogno di Hokosi

Venezia. Dopo la foresta, l’acqua. E cosa meglio di una città che sull’acqua è nata e vive? Questo probabilmente hanno pensato Claudio Corazza (Il mondo di Tommaso) e Raffaele Luise (scrittore e vaticanista) nell’organizzare il convegno sull’Amazzonia a Venezia, nella splendida e affollata cornice del chiostro del Convento San Francesco della Vigna.

Al tavolo dei relatori Davi Kopenawa ricorda il suo ruolo e la sua battaglia, ma Carlo Zacquini detto Hokosi è senza voce. Altri possono tradurre le parole dello sciamano yanomami, ma soltanto lui può tradurne i concetti. Per questo Claudio e Raffaele gli vengono in soccorso dando la parola agli altri ospiti.

Come Marco Tobon, antropologo colombiano che insegna a Leticia, sulla triplice frontiera amazzonica tra Colombia, Brasile e Perù. Il professore parla di interazione tra esseri umani e ambiente, ma soprattutto della sfida che occorrerebbe affrontare: quella del passaggio dall’attuale «antropocentrismo» (l’uomo come centro dell’universo) a un auspicabile «biocentrismo» (al centro c’è la vita di uomini, animali e vegetali).

Verso la fine, si torna a Carlo Zacquini e al «Centro di documentazione indigena» (Cdi), il suo sogno realizzato ma oggi in pericolo. Occorre costruire una nuova sede che metta al riparo il materiale raccolto – settemila libri, riviste, ritagli di giornali, foto, un archivio digitale – da termiti, blatte, umidità, polvere. In questi anni il suo lavoro è stato indirettamente premiato con la progressiva presa di coscienza degli indigeni. Dopo tante umiliazioni, essi hanno finalmente scoperto che possono e devono essere orgogliosi di appartenere a un popolo indigeno. Nel parlare fratel Carlo si commuove: da tempo sostiene di avere un enorme debito di riconoscenza nei confronti degli indigeni. Il Cdi è la sua maniera di ripagarli per quanto ricevuto in quasi sessant’anni di missione in Amazzonia.

Pa.Mo.

Un frame del documentario «A queda do ceu» presentato al festival di Cannes 2024

Un film, una mostra

CONOSCERE L’AMAZZONIA

Torino. Conoscere l’Amazzonia è fondamentale per poter difendere i suoi popoli, le sue ricchezze, il suo essere patrimonio dell’umanità. Per questo, ogni iniziativa che vada in questa direzione va sostenuta. A Torino ne sono in corso due. La prima è stata organizzata da «CinemAmbiente», il più importante festival italiano di tematiche ambientali giunto all’edizione numero 27 (4-9 giugno). Gli organizzatori hanno reso disponibile un vecchio documentario – girato nel lontano 1918, considerato perduto nel 1930, ritrovato nel 2023 – sull’Amazzonia: un film in bianco e nero di grande interesse storico ritrovato dalla Cineteca di Praga e restaurato.

La seconda iniziativa è l’esposizione «Mater Amazonia», allestita presso «Cultures and mission» (Cam), il polo culturale dei Missionari della Consolata, nella nuova sala chiamata Urihi. La casa della terra. Si tratta di una parte della mostra ospitata dai Musei Vaticani durante il Sinodo amazzonico dell’ottobre 2019. La mostra si sviluppa attraverso oggetti, foto e filmati di tre ambienti amazzonici: la foresta, il fiume e la maloca. Inaugurata lo scorso 17 maggio, Mater Amazonia rimarrà aperta fino al 31 ottobre.

Pa.Mo.

Siti web:

 




Vaticano. Salvare l’Amazzonia per salvare il Pianeta

Davi Kopenawa, lo sciamano e portavoce del popolo Yanomami, ha lasciato la grande casa collettiva nell’Amazzonia brasiliana con una missione importante: portare l’appello dei popoli della foresta agli abitanti della foresta di pietra. «L’uomo bianco delle merci non ci ascolta. Abbiamo bisogno di lanciare le parole come una freccia per toccare il cuore della società non indigena», dice Kopenawa, sapendo bene che chi comanda non ascolta.

Nella sua agenda in Italia, mercoledì 10 aprile, a Roma, il leader indigeno noto a livello internazionale per il suo impegno nella protezione dell’Amazzonia si è incontrato in privato con Papa Francesco, un alleato importante. «Ho chiesto al Papa di aiutare il presidente Lula a rimuovere tutti gli invasori, i cercatori d’oro (garimpeiros) e gli sfruttatori delle terre indigene», spiega Davi ai giornalisti rivelando di aver scritto una lettera a Francisco nel 2020 e che da tempo desiderava parlare con lui.

A questo incontro – avvenuto grazie alla collaborazione con il vaticanista Raffaele Luise  -, Kopenawa è stato accompagnato da fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata a Roraima, in Brasile, suo amico e braccio destro da 50 anni, responsabile assieme alla fotografa e attivista Claudia Andujar della campagna per il riconoscimento del territorio Yanomami nel lontano 1979.

Carlo Zacquini, Davi Kopenawa Yanomami e Raffaele Luise.

David ha già dimostrato in diverse occasioni la sua profonda conoscenza delle minacce per l’intera umanità: salvaguardare la foresta e i suoi abitanti è fondamentale per garantire l’esistenza stessa della nostra Casa comune. Tra le maggiori minacce per i territori indigeni, Kopenawa elenca la contaminazione dell’acqua per l’uso criminale del mercurio (per separare l’oro dal resto, ndr) da parte dei minatori; l’ingresso di allevatori di bestiame con l’appoggio dei governi di tutto il mondo che comprano carne, così come l’espansione della coltivazione della soia sotto la pressione della Cina che ne richiede sempre di più. «La foresta brucia, la terra si esaurisce, gli uccelli, gli animali, i pesci muoiono e il nostro popolo si ammala. Forse qui voi siete protetti da questo, ma ci sono altre malattie», avverte lo sciamano.

Davi Kopenawa ritiene che il nuovo ministero dei Popoli indigeni e la Fondazione nazionale dei popoli indigeni (Funai), entrambi diretti per la prima volta da due donne indigene, Sonia Guajajara e Joenia Wapichana, «hanno bisogno di risorse per proteggere il popolo Yanomami, costruire posti di sorveglianza e per delimitare e riconoscere le terre indigene». Negli ultimi anni, soprattutto sotto la presidenza di Jair Bolsonaro, le risorse sono state tagliate, rendendo impossibile il lavoro.

Il popolo Yanomami conta circa 42mila persone, tra Brasile e Venezuela. Si stima che nel 2023 fossero oltre 20mila i garimpeiros nelle loro terre. Entrano illegalmente nella foresta, tagliano alberi, scavano buche enormi, usano pompe idrauliche, avvelenano i fiumi.

All’inizio dell’anno 2024, sono state diffuse immagini dove si vedevano bambini yanomami malnutriti, uguali o addirittura peggiori di quelle del 2023. Poco più di un anno dopo l’azione delle forze federali brasiliane la Terra yanomami affronta ancora la crisi dell’estrazione mineraria illegale, della fame e della salute. Finora tutto è stato vano. «Molte volte abbiamo richiesto di rimuovere gli invasori dalle nostre terre, di prevenire la deforestazione e l’inquinamento dei fiumi, ma non ci ascoltano perché non sono nostri “parenti” (indigeni come noi, ndr). Abbiamo pochi amici. I politici ascoltano solo la voce del denaro, del mercato. Papa Francesco è diverso. Lui è figlio di Dio e non può mentire. Come leader, non può promettere e non fare», dichiara Davi mostrandosi fiducioso.

Nella lotta per la protezione del Pianeta, la sintonia tra Davi Kopenawa e il Papa Francesco è grande. Ricordando che il Pontefice nel 2015, nell’enciclica Laudato si’ affermava: «La molteplice distruzione della vita umana e ambientale, le malattie e l’inquinamento di fiumi e terre, l’abbattimento e l’incendio di alberi, la massiccia perdita della biodiversità, la scomparsa delle specie, costituiscono una cruda realtà che chiama in causa tutti. La violenza, il caos e la corruzione dilagano. Il territorio è diventato uno spazio di scontri e di sterminio di popoli, culture e generazioni» (LS 23). La preoccupazione con la cura del Creato da parte di Francesco è stata anche dimostrata con la realizzazione del Sinodo per l’Amazzonia nel 2019 e nei suoi vari interventi e documenti.

Il leader Yanomani apprezza lo sforzo di Francesco, ma osserva che «molte persone sono contro la protezione dell’ambiente perché i grandi imprenditori non vogliono sentire quello che lui dice sulla foresta amazzonica, che è in grave pericolo. Loro cercano le ricchezze. Noi siamo per l’ambiente. Se non fosse per gli indigeni, la foresta non ci sarebbe più. Noi Yanomami ci prendiamo cura del polmone del pianeta. Ma questo ai politici, ai fazendeiros, ai garimpeiros non interessa. E l’esercito li sostiene. Dicono che la Terra indigena yanomami (Tiy) sia troppo grande per pochi indigeni, ma non si rendono conto che noi stiamo proteggendo l’intero pianeta».

La Tiy include un’area estesa oltre 9 milioni di ettari nel Nord del Brasile. In questa regione, i fiumi sono preziosi canali di comunicazione che uniscono le diverse comunità. Fu a monte del fiume che i missionari della Consolata italiani, Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi fondarono, nel 1965, la Missione Catrimani, a 250 chilometri da Boa Vista, capitale di Roraima. Nel corso degli anni, la coesistenza di Yanomami con i missionari ha contribuito a rafforzare un modello di missione basata sul rispetto e il dialogo, nella difesa della vita, della cultura, del territorio e della foresta. Tre missionari e quattro missionarie della Consolata sono attualmente impegnati nella Missione Catrimani. Mentre, da Boa Vista, all’età di 87 anni, fratel Carlo Zacquini, instancabile, continua a sostenere la causa di Davi Kopenawa, degli Yanomami e della foresta amazzonica.

Jaime Carlos Patias




Davi Kopenawa:

«Voi bianchi non capite»

Testo di Paolo Moiola |


L’intervista a Davi
• Amici, tanti ma non tutti
• Le invasioni dei garimpeiros.
• L’invasione dei missionari Francesco.

Governo Bolsonaro.
• Damares e Tereza.
• L’invasione dei cercatori d’oro, Garimpeiros.
• Contro la Chiesa, contro il Sinodo.

La sua autobiografia ha avuto successo. Lui giustamente rivendica il proprio ruolo nella lotta degli Yanomami per la terra, i diritti e la dignità. Ma Davi Kopenawa non si è montato la testa. Continua a girare il mondo per il suo popolo. E lo fa in modo credibile, in primo luogo evidenziando le differenze tra gli indigeni e quelli che lui indica come «i bianchi». Lo abbiamo incontrato a Boa Vista, appena rientrato da un viaggio.Boa Vista. Davi Kopenawa è appena tornato dal Canada. In precedenza era stato in Europa, Italia compresa1. Appare un po’ affaticato, ma anche tranquillo e pacato come sua consuetudine. Si siede su una vecchia sedia a dondolo arrugginita trovata nello spoglio cortiletto che sta sul retro della sede di Hutukara. All’appuntamento presso l’associazione yanomami2 non può mancare fratel Carlo Zacquini: non soltanto per tradurre ma anche per interpretare – dall’alto della sua lunga amicizia con Davi e della sua conoscenza della lingua yanomae – le risposte del leader indigeno. Perché noi napëpë, non Yanomami, noi bianchi insomma, abbiamo un modo di pensare completamente diverso. Perché le parole vanno capite senza dimenticare il contesto culturale della persona che le pronuncia. Perché è una mania tutta occidentale quella di inserire le risposte in categorie – filosofiche, sociologiche, antropologiche – già precostituite.

Capelli neri e lisci, maglietta rossa, senza ornamenti indigeni, Davi risponde alle domande con pazienza, senza mai alzare il tono della sua voce, in un portoghese semplice e ripetendo spesso i concetti.

Amici, tanti ma non tutti

Davi, pensa che tutti gli Yanomami la seguano?

«Tutto il popolo yanomami è il mio popolo. (Fa una pausa e ripete) Tutto il popolo yanomami è il mio popolo. Un popolo che vive nella terra di Amazonas e Roraima».

D’accordo. Ritiene però di avere qualche avversario anche tra gli Yanomami?

«Tra gli Yanomami alcuni mi sono amici, altri meno. Questi ultimi sono quelli che sono coinvolti con i non indigeni, soprattutto con i politici. Quelli a cui piace il denaro».

E tra i non indigeni, tra i bianchi, chi considera suoi amici?

«Sono amici coloro che lavorano con i popoli indigeni. Ad esempio, l’Istituto socioambientale (Isa) e la diocesi di Roraima, ma anche tutti coloro che difendono la natura. Purtroppo però la maggioranza dei bianchi non è amica. Non gli interessa sapere di noi».

Qualcuno le contesta che sia sempre in giro.

«Io viaggio nel mondo per il mio popolo, per la nostra gente. Non viaggio per divertirmi o per visitare le città, viaggio per portare nel mondo il nome del mio popolo e la sua condizione. Perché la situazione continua a essere problematica. Anche nel campo della salute».

Mi scusi: nel campo della salute c’è però la Sesai.

«La Sesai3 è un organo del governo federale e non degli indigeni. È vero che i responsabili ricevono molto denaro da Brasilia ma lo rubano, non lo utilizzano per la salute di noi indigeni. Così funziona il mondo dei bianchi4. E i politici sono sempre coinvolti».

La sua famiglia cosa pensa delle sue ripetute assenze?

«La mia sposa approva e capisce. I figli conoscono la mia lotta. Così come coloro che vivono nella mia comunità di Watoriki5. Nessuno di loro è triste perché apprezzano il lavoro che viene fatto. Già abbiamo ottenuto la terra yanomami che il governo brasiliano ci aveva rubato. Sono io che, al contrario, sto soffrendo. I miei nipoti hanno bisogno di me»6.

Il suo libro autobiografico, La caduta del cielo, è stato tradotto in varie lingue. Quando lo ha scritto, aveva un obiettivo specifico?

«Un non indigeno non sa, non capisce e non intende la nostra lingua. Il libro La caduta del cielo è stato scritto da me, ma in nome del popolo yanomami. Per studenti, antropologi, professori: per mostrare un modo di pensare diverso, quello del popolo Yanomami. Una parte dei bianchi ci considera come animali, come selvaggi. Io ho voluto dimostrare la mia sabiduria (conoscenza, ma anche saggezza, ndr), per mostrare il nostro cammino dall’inizio del mondo (secondo la cosmogonia Yanomami, ndr). Attraverso quelle pagine ho voluto andare incontro a chi non ci conosce. Dimostrare che lo Yanomami è sabio: sa pensare, sa parlare, sa raccontare la storia del mondo e della foresta. È un libro scritto per voi che vivete nelle città e che non conoscete la foresta e gli Yanomami».

Le invasioni dei garimpeiros

Siamo nella sede dell’associazione che lei guida. Che obiettivi persegue? E come si mantiene?

«Hutukara difende i diritti del popolo yanomami. L’associazione sta andando bene. Sta funzionando. Ha poco denaro ma lavora con i contributi di Rainforest, Cafod7, dell’ambasciata norvegese. Gli appoggi vengono da fuori. È il Brasile che non dà nulla».

Uno dei compiti di Hutukara è la difesa della terra indigena degli Yanomami. Le invasioni continuano?

«È una lotta che non finirà: oggi escono dalla nostra terra, ma domani rientrano. I garimpeiros portano malattie: malaria, tubercolosi. E poi malattie sessuali dato che arrivano senza donne e vanno con le nostre. Avvelenano l’acqua. Portano bevande alcoliche».

Lei considera l’assunzione di alcol un problema?

«Le bevande alcoliche dei bianchi sono veleno. Fanno male alla salute e al cervello. Non portano benefici per le persone. Fanno straparlare, fanno diventare matti».

Ha mai provato a dialogare con i garimpeiros?

«Non ci parliamo. Io non voglio discutere con loro. Io non parlo con degli invasori».

L’invasione dei missionari

Ne La caduta del cielo gli invasori di cui lei dice di ricordarsi fin da bambino sono missionari. Missionari dell’organizzazione statunitense New Tribes Mission8. Questi come si comportarono con voi?

«I missionari che sono entrati nella nostra terra non hanno mai lavorato bene. Sono venuti soltanto per apprendere la nostra lingua e le nostre conoscenze originarie».

Sul territorio degli Yanomami, in alcune aldeias (comunità indigene) ci sono missioni della Meva9, un’altra organizzazione evangelica di origine nordamericana. Di loro che ci può dire?

«Che i pastori della Meva mai ci hanno aiutato. Stavano con le braccia incrociate mentre noi lottavamo e soffrivamo».

In questo giudizio negativo rientrano anche i missionari cattolici di Catrimani?

«La Missione Catrimani è da noi da molti anni. È l’unica che rispetta la nostra cultura. Rispetta la religione degli xapiri e del nostro creatore che si chiama Omama. Io ricordo in particolare dom Aldo Mongiano10 che ci aiutò e fece un buon lavoro con noi. Assieme abbiamo sofferto e assieme abbiamo ricevuto minacce».

Francesco

Recentemente, lei ha presentato il suo libro in Italia. Come si è trovato con il cibo?

«L’Italia ha un mangiare differente da quello a cui io sono abituato. Non c’è farina (di manioca, ndr), non ci sono banane, non c’è carne di animali della foresta. Agli italiani piace molto la pasta che invece a me non piace. Comunque, io mangiavo pesce, pollo, patate e pane».

A parte la pasta, pensa che vi tornerà?

«Mi piacerebbe tornare per incontrare Francesco, il papa».

Paolo Moiola

NOTE

(1) Davi Kopenawa è stato in Italia nel settembre 2018 per presentare «La caduta del cielo», il suo libro autobiografico finalmente tradotto in italiano dalla casa editrice Nottetempo (Milano). Il video dell’incontro avvenuto all’Università di Torino è visibile a questo indirizzo di YouTube: www.youtube.com/user/pamovideo.

(2) Nella Terra indigena Yanomami operano sette associazioni: Ayrca (1998), Hutukara (2004), Apyb (2006), Kurikama (2013), Kumirayoma (2015), Taner (2015) e Hwvenama (2016). L’Hutukara, guidata da Davi Kopenawa, è la più conosciuta e rispettata.

(3) La Sesai – «Secretaria Especial de Saúde Indígena» – è un dipartimento del ministero della Salute brasiliano.

(4) Per semplicità, abbiamo usato il termine generico di bianchi (brancos, in portoghese). Il termine corretto in yanomae, la lingua di Davi Kopenawa, è napëpë, che significa non Yanomami.

(5) Watoriki – «montagna del vento» – è il nome della comunità della famiglia di Davi Kopenawa. Si trova all’estremo Nord Est dello stato di Amazonas.

(6) La sua famiglia è composta dalla moglie Fatima Larima e dai figli: Dario (M), Guiomar (F), Denise (F), Tuira (F), Vitório (M), Silvia (adottiva). Dario ha una figlia; Guiomar ha tre figli e due figlie; Denise ha un figlio e tre figlie. Questi sono i nomi usati in ambito «bianco».

(7) «Catholic Agency For Overseas Development», associazione cattolica inglese.

(8) Fondata nel 1942 dallo statunitense Paul W. Fleming, dal 2017 la «New Tribes Mission» (Ntm) ha cambiato il nome in «Ethnos 360». In Brasile è rimasta un’entità autonoma chiamata «Missão Novas Tribos do Brasil». Il sito web dell’organizzazione: www.novastribosdobrasil.org.br.

(9) Fondata nel 1930 da missionari nordamericani, oggi la Meva – «Missão evangélica da Amazônia» – è un’entità principalmente brasilana. Il sito web dell’organizzazione: www.meva.org.br.

(10) Dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata, è stato vescovo di Roraima dal 1975 al 1996. Ebbe molti problemi con i politici e i fazendeiros locali a causa della sua vicinanza con i popoli indigeni.


Governo Bolsonaro

Damares e Tereza

La ministra Tereza Cristina © Marcos Corrêa/PR

Le due sole donne del governo Bolsonaro sono rappresentanti dei settori più anti indigeni della società brasiliana.

Damares Alves e Tereza Cristina sono le ministre del governo di Jair Bolsonaro: la prima è a capo del ministero della donna, della famiglia e dei diritti umani, la seconda di quello dell’agricoltura.

Donne forti con un percorso controverso. La Alves è una pastora evangelica, fondatrice di Atini, un’organizzazione che dichiara di lottare per la difesa dei diritti dei bambini indigeni. In particolare, essa si batte contro la pratica dell’infanticidio e dell’abbandono infantile, attuate presso alcune popolazioni indigene. I critici osservano però che il fenomeno è decontestualizzato e viene usato per criminalizzare i popoli indigeni.

La Cristina è un’imprenditrice agricola, nota per essere a favore della liberalizzazione dell’uso degli agrotossici tanto da meritare il soprannome di «musa del veleno» (musa do veneno). È molto legata al fronte parlamentare che riunisce i rappresentanti dell’agrobusiness (Frente Parlamentar da Agropecuária), di cui è stata anche presidente.

Damares e Tereza sono figure importanti sia per i dicasteri che guidano sia perché espressione diretta di settori che hanno appoggiato il presidente: quello delle chiese evangeliche e quello degli imprenditori agricoli.

Dal 1° gennaio 2019 al ministero della Alves è stata affidata la Fundação Nacional do Índio (Funai), prima alle dipendenze del ministero della giustizia. Allo stesso tempo, all’organismo governativo è stata tolta la sua attribuzione più delicata – quella che riguarda gli studi per l’identificazione, delimitazione e demarcazione delle terre indigene -, passata al ministero della Cristina, dominato dai fazendeiros, cioè dai principali oppositori dei diritti dei popoli indigeni.

La ministra Damares Alves. © Marcos Corrêa/PR

In questo modo le promesse di Bolsonaro di limitare le terre indigene e di aprirle allo sfruttamento minerario e agricolo potranno avere la strada spianata.

Damares Alves e Tereza Cristina, due donne in un governo con venti uomini, tra cui cinque militari (e altri due sono lo stesso presidente e il suo vice). A conti fatti, le uniche ministre del nuovo governo brasiliano potrebbero diventare la punta di lancia dell’offensiva di Bolsonaro contro i diritti dei popoli indigeni. Forse un’ulteriore astuzia del nuovo presidente, conosciuto (anche) per le sue posizioni maschiliste: alle ministre l’onere di decisioni controverse, agli uomini la riscossione dei dividendi, politici e non.

Paolo Moiola

L’invasione dei cercatori d’oro, Garimpeiros

Migliaia di uomini hanno invaso la terra yanomami per cercare oro. Facendo danni incalcolabili alla foresta, ai fiumi e ai popoli indigeni. Una breve cronologia.

  • 1970 – Sul finire degli anni Settanta inizia una corsa all’oro nei territori abitati dai popoli Yanomami e Ye’kwana, in Brasile e Venezuela.
  • 1980-’90 – Alla fine degli anni Ottanta e inizio dei Novanta si stima che nei territori indigeni siano presenti 40.000 minatori illegali (garimpeiros), cinque volte di più della popolazione residente. Nella foresta vengono identificate 82 piste d’atterraggio clandestine.
  • 1992 – A Rio de Janeiro, durante il Summit sulla terra delle Nazioni Unite (Eco 92, in portoghese), viene annunciata la nascita della Terra indigena Yanomami. La polizia federale inizia un’opera di repressione dell’attività mineraria illegale.
  • 1993, giugno-luglio – Si calcola che nei territori indigeni, soprattutto lungo la frontiera tra Brasile e Venezuela, siano ancora presenti tra i 10.000 e i 15.000 garimpeiros.
  • 1993, giugno-luglio – Lungo la frontiera con il Venezuela vengono trucidati da garimpeiros brasiliani 16 Yanomami venezuelani, comprese donne e bambini. Il fatto è conosciuto come il «massacro di Haximú», che verrà successivamente riconosciuto dalla giustizia brasiliana come un «crimine di genocidio».
  • 2002-2005 – Nuove invasioni di garimpeiros sia dal lato brasiliano che da quello venezuelano.
  • 2012-2015 – La polizia federale brasiliana lancia due grandi operazioni – Xawara (2012) e Warari Koxi (2015) – contro le invasioni di minatori illegali nelle terre indigene. Viene smantellata una rete criminale di impresari, funzionari pubblici, gioiellieri e padroni di garimpos. Gli investigatori stimano che ogni mese il gruppo estraeva 160 chili di oro.
  • 2013-2015 – In Venezuela, negli stati Amazonas e Bolivar, si assiste a nuove invasioni delle terre indigene da parte di minatori illegali.
  • 2016, aprile – Secondo il rapporto della «Global Initiative against Transnational Organized Crime» (Organized Crime and Illegally Mined Gold in Latin America) in Brasile il 10-15% dell’oro prodotto (circa 90 tonnellate all’anno) viene estratto illegalmente. Le esportazioni brasiliane sono rivolte soprattutto verso Svizzera, Stati Uniti e Canada.
  • 2018, 10 dicembre – Per la prima volta viene effettuato uno studio su 2.300 garimpos in sei paesi amazzonici (Brasile, Perù, Colombia, Venezuela, Ecuador, Bolivia). Il reportage multimediale dal titolo di Amazônia saqueada è firmato da Raisg, «Red Amazónica de Información Socioambiental Georreferenciada».
  • 2019, 2 marzo – In un convegno a Toronto (Canada), il ministro delle miniere e dell’energia, l’ammiraglio Bento Albuquerque, afferma che è intenzione del governo Bolsonaro espandere sulle terre indigene le attività minerarie.

Pa.Mo.

Fontiprincipali

Barche sul riuo Uraricuera

Contro la Chiesa, contro il Sinodo

Il governo del presidente Bolsonaro considera la Chiesa cattolica un potenziale nemico. E teme il Sinodo panamazzonico del prossimo ottobre.

In campagna elettorale – era il 17 ottobre 2018 – Bolsonaro aveva detto che i vescovi della Conferenza episcopale brasiliana (in sigla, Cnbb) sono «la parte marcia della Chiesa cattolica». Una volta raggiunta la presidenza, la sua offensiva si è fatta più diplomatica, ma non per questo meno dura. Anche perché il debito contratto nei confronti delle chiese evangeliche, che sono dirette «concorrenti» della Chiesa cattolica e che in campagna elettorale lo hanno apertamente appoggiato, è consistente. Secondo l’istituto Datafolha, dei 58 milioni di voti ricevuti da Bolsonaro lo scorso 28 ottobre 22 milioni erano di provenienza evangelica. E, nel nuovo Congresso, lo schieramento evangelico è fondamentale quanto quelli dei latifondisti e della sicurezza (formando la cosiddetta «bancada BBB, Bíblia, boi e bala»).

© Rafael Carvalho/PR

Per tutto questo l’articolo pubblicato (il 10 febbraio) dal quotidiano O Estado de S.Paulo, un giornale tradizionalmente conservatore e liberista, in cui si parlava di un governo Bolsonaro che vede la Chiesa cattolica come un potenziale oppositore ha suscitato discussioni ma non sorpresa.

Negare che governo Bolsonaro e Chiesa cattolica abbiano visioni opposte su tematiche quali i diritti dei popoli indigeni e la questione agraria significa negare l’evidenza. Il lavoro svolto dal Consiglio indigenista missionario (Cimi) e dalla Commissione pastorale per la terra (Cpt), organismi della Chiesa cattolica brasiliana, è sotto gli occhi di tutti. Per parte sua, il presidente Bolsonaro non ha rinunciato a lanciare avvertimenti circa le sue intenzioni. In un tweet del 2 gennaio ha scritto: «Oltre il 15% del territorio nazionale è delimitato come terra indigena e quilombolas. Meno di un milione di persone vive in questi luoghi isolati del Brasile, sfruttati e manipolati dalle Ong».

Ancora più di queste in Amazzonia lavora la Chiesa cattolica, tanto da spingere il generale Augusto Heleno, ministro della sicurezza istituzionale, a ordinare ai servizi segreti (Abin) di monitorare le sue iniziative in preparazione al Sinodo amazzonico in programma a Roma il prossimo ottobre. Un Sinodo che il governo Bolsonaro vede come portatore di un «programma di sinistra».

Lasciando da parte gli schemi ideologici, va detto che il documento preparatorio al Sinodo parla di una crisi scatenata «da una prolungata ingerenza umana» e una «mentalità estrattivista» e che i primi interlocutori debbono essere i popoli indigeni e tutte le comunità che vivono in Amazzonia. «Oggi – si legge nel documento – la ricchezza della foresta e dei fiumi amazzonici si trova minacciata dai grandi interessi economici che si concentrano in diversi punti del territorio».

Parole queste in evidente contrasto con la visione e i programmi del governo Bolsonaro. A oggi, prevedere un Sinodo innocuo pare dunque piuttosto azzardato.

Paolo Moiola

Yanomami di Haximu, sopravvissuti al massacro, fotografati nel Toototobi, con ceste nelle quali portano i corpi dei loro famigliari – foto di Carlo Zaquini /AfMC