Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace


È diventato vescovo della nuova diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, nel 2001. Ha lasciato il suo posto di servizio per raggiunti limiti di età nel 2022. Considerazioni, esperienze, gioie e dolori, condivisi in libertà.

Il mio primo contatto con il futuro monsignore, avviene a Torino, nel 1970. Ricordo che, entrando nel cortile della Casa Madre e dell’annesso seminario teologico, noto una vecchia moto con sidecar (del 1937, di fabbricazione inglese) parcheggiata in un angolo, una di quelle che si vedono nei classici film di guerra. Mi dicono che la usano alcuni degli studenti dell’ultimo anno di teologia per andare a scuola a oltre due chilometri di distanza nei locali del seminario del Cottolengo. Chi la guida è un certo chierico Virgilio Pante, matto per le moto. Una simpatica «pazzia» che non lo abbandonerà mai.

Quando dopo la Pasqua del 1989, arrivo nel Nord del Kenya, destinato alla cittadina di Maralal, la missione è ormai ben piantata. La prima cappellina è stata rimpiazzata da una chiesa spaziosa, c’è l’asilo, il dispensario, la casa delle suore, la scuola primaria con il boarding per quasi duecento bambine, il centro catechistico, il seminario della diocesi di Marsabit, il centro pastorale, il cimitero: un mondo nel quale si muovono oltre seicento persone, una vera e propria cittadella.

Mi guardo intorno incuriosito, faccio domande, cerco di capire. Ho già sentito tante storie sulla missione e i suoi missionari. Tra questi uno di cui si parla con ammirata simpatia è padre Virgilio Pante, che nel 1979 ha fondato il primo seminario della diocesi. Quando arrivo, lui è già stato trasferito tra i Luo, nella nuova missione di Chiga, vicino al Lago Vittoria, ma il suo ricordo persiste perché è impossibile dimenticare quel grande cacciatore che, grazie al suo fucile, aveva assicurato il cibo ai suoi primi seminaristi. E non solo. Quando qualche leone o altro animale diventava pericoloso per gli uomini, attaccando i pastori o avvicinandosi troppo ai villaggi o alle manyatte dei Samburu, gli stessi guardiacaccia lo chiamavano perché andasse con loro nella foresta ad aiutarli a risolvere il problema.

La sua era un’abilità innata, ereditata dai suoi nonni, come lui stesso mi ha confermato sorridendo, solo poco tempo fa. «Da noi, fin da piccoli si andava a caccia. I miei nonni, lassù sulle montagne del bellunese, sono sempre stati bracconieri per necessità. Mio papà ricorda che durante la guerra mangiavano “polenta e osei” e topi, perché c’era tanta fame». Dopo soli tre anni a Maralal, abbastanza per innamorarsi per sempre di quella terra, vengo mandato a Nairobi a lavorare nella rivista The Seed (Il seme) e lì, finalmente, comincio a vivere con padre Virgilio, perché nel 1996 viene nominato vice superiore regionale con residenza nella capitale keniana, nella mia stessa comunità.

Nuovi, diocesi e vescovo

Arriva il 2001, l’anno del centenario della fondazione dell’Istituto. È il 30 giugno, stiamo finendo il pranzo. Il superiore regionale, padre Francesco Viotto, si alza e dice: «Scusate se vi interrompo, ma ho una notizia importante da darvi. Il Santo Padre oggi ha costituito la nuova diocesi di Maralal, dividendola da Marsabit. Ha anche scelto il nuovo vescovo, il quale è un missionario della Consolata ed è qui presente tra noi». Ci guardiamo gli uni gli altri incuriositi e il superiore prosegue: «È padre Virgilio Pante». Siamo tutti contenti, ci scappa qualche battuta, siamo sorpresi sì, ma non troppo visti gli anni che il nostro confratello aveva speso con passione nel Nord del Kenya. Stappiamo una bottiglia e scatto un po’ di foto.

Così il 6 ottobre dello stesso anno mi trovo nel grande campo sportivo dell’oratorio della missione di Maralal, diventata sede della diocesi omonima. È il giorno della consacrazione del nuovo vescovo. La gioia è effervescente. Sono arrivati in tanti da tutte le missioni. Il grande prato dell’oratorio è strapieno e coloratissimo. Ci sono tutti: Samburu, Turkana e Pokot, i popoli pastori indigeni, e Kikuyu, Meru, Akamba, Luo e quanti altri vivono nella città o lavorano per il governo. Scatto foto a gogò, mentre con il cuore pieno di gioia accompagno il tutto con un’intensa preghiera. L’avventura che aspetta il nuovo vescovo, infatti è tutt’altro che facile.

La nuova diocesi

Virgilio Pante il giorno della sua consacrazione episcopale a Maralal

La nuova diocesi nata dalla divisione di quella di Marsabit (creata nel 1964), è una realtà con tante bellezze ma anche un sacco di problemi. Estesa 21mila km2 e con circa 144mila abitanti (contro i 70 mila km2 e i 200mila abitanti di Marsabit, dati del 1999), la diocesi coincide con il distretto (oggi contea) Samburu ed è caratterizzata da montagne stupende e pianure aride e semidesertiche, da valli profonde e caldissime e rari fiumi, da mancanza di strade e infrastrutture e da poche terre adatte all’agricoltura, con villaggi sparsi a grandi distanze e gruppi etnici molto diversi tra loro che si contendono l’acqua e i pascoli.

In più, alcune delle terre più rigogliose e ricche di animali sono diventate parchi nazionali o riserve turistiche, e altre sono state date in uso esclusivo ad agricoltori industriali che fanno coltivazioni intensive (disboscando impattano sull’habitat e lasciano poi terreni aridi). Ci sono dodici missioni o parrocchie, attorno alle quali c’è una fitta rete di oltre cento piccole cappelle nei vari villaggi, le quali, durante la settimana, diventano asili per i bambini. In ogni missione ci sono scuole primarie e centri di salute e tante altre attività per aiutare la gente. A Maralal, nella periferia Sud Est della cittadina, c’è il centro di formazione dei catechisti, che sono la spina dorsale della vita di ogni comunità, il seminario (fondato a suo tempo dal nuovo vescovo), una scuola tecnica per ragazzi e una per ragazze. A Wamba, invece, la diocesi ha un fiorente ospedale, una scuola per infermieri, una casa per bimbi disabili e una scuola secondaria per ragazze.

Il lavoro certo non manca e le forze presenti, missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti fidei donum di Torino, missionari Yarumal e diverse comunità di suore, tra cui quelle di Madre Teresa, sono ben impegnate sul territorio. Ma le sfide sono tante.

Cercando la pace

Monsignor Virgilio è da sempre innamorato di quelle terre dove si può ancora vivere la missione vera, dove la Chiesa può davvero realizzare i sogni del Concilio Vaticano II. Il suo primo viaggio in quelle zone è stato nel 1972, una scappata in moto fino a Loyangallani sulle rive del Lago Turkana che gli ha meritato il «castigo» più bello della sua vita: essere mandato proprio in quella che allora era la diocesi di Marsabit, fondata nel 1964, con monsignor Carlo Cavallera (Imc) che ne era stato il primo vescovo.

Appena saputo della sua nomina, padre Virgilio riprende la sua amata moto e va a visitare a tappeto la sua futura «sposa», per farsi conoscere e soprattutto per prendere coscienza della realtà che lo aspetta.

Nel suo peregrinare arriva a Kawop, un villaggio di Tuum, ai piedi del Monte Nyro, giù nella Suguta Valley ai confini con la contea Turkana. E lì gli si spezza il cuore: vede morte e distruzione ovunque, il villaggio è stato depredato, la chiesetta distrutta, la gente fuggita. È la scintilla che accende in lui una decisione: sarà il vescovo della pace, cosciente che il titolo che porterà, «vescovo», nel suo significato etimologico vuol dire «colui che vigila», come un guardiano, una sentinella. Lui sarà il «guardiano della pace».

Tornato a Nairobi, viene da me. Sa che ho già fatto degli stemmi per altri vescovi. E allora insieme creiamo il suo stemma episcopale dal motto «With the ministry of reconciliation», con il servizio della riconciliazione, sotto l’immagine di un leone che giace con l’agnello (vedi Isaia 11,6-9 e 65,25). Sullo sfondo il monte Kenya, il tutto sotto l’influenza dello Spirito Santo, colomba della pace.

Una leonessa adotta una gazzellina di orice. gennaio 2002.

Una sfida infinita

Davvero nella nuova diocesi la sfida più grande è la pace. Da sempre le varie tribù (scusate, ma allora si diceva così, oggi ci preferisce dire gruppi etnici o popoli indigeni, nda) sono in lotta tra loro per il controllo delle magre risorse (acqua e pascoli), per garantirsi la sopravvivenza. Tre i gruppi principali in competizione, tutti pastori: i Samburu (probabilmente una sezione dei Masai stabilitisi in queste zone montuose); poi i Turkana, di origine nilotica e non circoncisi, molto presenti e attivi nell’Ovest della contea; e i Pokot, nilotici anche loro, stanziati a Sud Ovest.

Quello che padre Virgilio capisce subito, però, è che gli scontri tra le tribù non avvengono più nel modo tradizionale, con lance, razzie e scaramucce che coinvolgevano piccole realtà locali. Oggi i conflitti sono aggravati dalla diffusione capillare delle armi da fuoco che arrivano molto facilmente dalla Somalia; dalle manipolazioni messe in opera da politicanti senza scrupoli, soprattutto in tempi di elezioni; da interessi economici legati al traffico di bestiame; dalle appropriazioni di terre da parte di chi le sfrutta per l’agricoltura intensiva o per la creazione di aree riservate a resort turistici.

Quando padre Virgilio diventa vescovo di quelle terre, però succede un avvenimento eccezionale che diventa quasi un segno divino a conferma del suo impegno e della sua missione davanti a tutta la comunità.

Poco tempo dopo la sua consacrazione episcopale, infatti, nel Parco Samburu, situato nella zona Est della diocesi, una leonessa adotta un cucciolo di orice, un’antilope, permette alla mamma vera di allattarla, la cura e la difende dagli altri predatori (questo purtroppo dura solo due settimane, perché poi un leone si mangia il cucciolo, nda). La notizia è sulla bocca di tutti. La meraviglia è grande. L’avvenimento è considerato un segno del cielo che conferma il motto e lo stemma del nuovo vescovo.

Visita alla chiesa di Kawap distrutta per lotte tribali. Chiesa costruita da padre Cornelio Dalzocchio

Le armi della pace

L’impegno per la pace è capillare, intenso e mai finito. Tre le aree di intervento: l’educazione, il commercio e la religione.

Il vescovo Pante, che dall’ottobre 2022 è ormai emerito per raggiunti limiti di età, si spiega. «I bambini non sono tribalisti. Per questo è importante offrire loro occasioni di convivenza e formazione insieme. Da qui la costruzione dei dormitori e delle scuole per la pace, dove bambini Samburu, Turkana e Pokot possono vivere, giocare e studiare insieme, diventando amici e superando gli stereotipi e i pregiudizi».

Poi i mercati. «Può sembrare una stranezza, ma come dice un proverbio swahili biashara haigombani, “il mercato non crea nemici”, anzi diventa luogo di incontro e scambio dove ciascuno può contribuire con il meglio che ha e trovare quello di cui ha bisogno. Con il mercato la gente si incontra, fa affari, si conosce, crea relazioni alla pari, scoprendo che è bello aver bisogno gli uni degli altri».

E la religione. «Riunire i diversi gruppi a pregare insieme aiuta, fa crescere, aumenta la conoscenza reciproca, fa vincere i pregiudizi.

Ricordo una volta che abbiamo invitato i tre gruppi a un incontro di preghiera vicino a Barsaloi. I Samburu e i Turkana, che venivano a piedi da villaggi relativamente vicini, erano già presenti. Poi da lontano è arrivato un camion carico di Pokot. Prima sono scesi i giovanotti nelle loro tenute da guerrieri e poi donne e bambini. È stato un momento di panico. C’è voluto tutto il mio sangue freddo e il mio prestigio per evitare un fuggi fuggi. Poi hanno iniziato a pregare insieme e a cantare, e il canto è diventato danza. Bellissimo. Allora sì, è stata davvero una bella festa, senza più paure e tutti uniti come figli dello stesso Padre».

Villaggio abbandonato per guerre tribali

Risultati

«I risultati del lavoro fatto dalla diocesi sono tanti e belli, anche se non si è mai finito, perché c’è sempre qualcuno che ha interesse a fomentare le divisioni per il proprio vantaggio, sia per il traffico di armi che per quello del bestiame rubato, che spesso e volentieri finisce poi venduto a Nairobi o addirittura spedito a Mombasa per il mercato dei paesi arabi».

Il vescovo ricorda quando un giorno è stato chiamato a Nairobi per una riunione di una commissione governativa impegnata a capire come implementare la pace nel territorio. Dopo averli ascoltati, ha detto loro parole chiare. «Voi mandate l’esercito per farvi consegnare le armi, spaventate la gente con atteggiamenti minacciosi, e vi ritenete soddisfatti quando riuscite a farvi consegnare un centinaio di fucili, dimenticando che ne rimangono almeno altri 20mila in giro. E che poi, chi ve li consegna, ne acquista degli altri più moderni. Signori non serve disarmare le mani, occorre disarmare la testa e il cuore. Per questo dovete costruire strade, potenziare le scuole, offrire servizi sanitari, migliorare il livello della vita della gente. Questa è la via della pace, quella che costruisce davvero una nuova società».

Una Chiesa sempre più incarnata

L’impegno di monsignor Pante in questi 21 anni di episcopato, dal 2001 al 2022, non è stato solo per la pace. Una delle sue priorità è stata quella di far crescere la Chiesa locale nella sua completezza.

All’inizio del suo mandato, la maggioranza delle parrocchie era nelle mani dei missionari, di cui tanti ancora europei. Oggi sono quasi tutte gestite dai sacerdoti locali. I Missionari della Consolata hanno ancora tre missioni, ma solo una guidata da un europeo, padre Aldo Giuliani, un trentino sempre arzillo e appassionato nonostante gli anni. I sacerdoti locali sono ora 26, anzi 25 perché purtroppo uno è morto all’inizio di maggio per malattia. Di questi, monsignore ne ha ordinati ben 21. Un bel risultato, anche se il cammino per avere una Chiesa davvero inculturata, partecipativa (o sinodale, come si ama dire oggi) e corresponsabile, che non dipenda troppo dagli aiuti esterni e con la mentalità di «la Chiesa siamo noi», è ancora tutto aperto.

Il cammino è impervio, anche perché ci sono delle situazioni oggettive da affrontare. Una di queste è la povertà aggravata anche dal cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni c’è stata una grande siccità, che ha causato la morte di persone e di quasi l’80% delle vacche. Finita la siccità, quest’anno sono arrivate le piogge torrenziali che stanno creando disastri e causando oltre 200 morti soprattutto a Nairobi e sulla costa. Ma anche nel Samburu hanno distrutto ponti, allagato villaggi, travolto viaggiatori. La rete stradale, già malridotta, non ci ha certo guadagnato e i poveri si sono ulteriormente impoveriti.

Benedizione del Dormitorio della Pace per le ragazze. 19/5/2012

Scuola e salute

Ci sono poi altre due aree di impegno della Chiesa che le hanno permesso di entrare in un territorio che un tempo, fino ai primi anni Cinquanta, era totalmente off limits per i missionari e trascurato dal governo (coloniale e non): la scuola e la sanità.

Arrivando in un villaggio, i missionari per prima cosa hanno costruito una capanna polivalente: asilo o scuola per i bambini durante la settimana, cappella la domenica attorno al catechista, e periodicamente centro di salute e spesso anche scuola di maendeleo (che include sviluppo, cucito, igiene) per le donne.

Con il tempo hanno costruito vere e proprie scuole con relativi dormitori per i ragazzi che non potevano tornare ogni sera alle loro capanne spesso distanti decine di chilometri.

I centri di salute sono diventati capillari, mentre a Wamba fioriva la «Rosa del deserto», il favoloso ospedale con annessa scuola per infermieri e casa per bimbi disabili, che tanto bene ha fatto al territorio.

Le due aree di impegno rimangono importanti tutt’oggi, perché la scuola, conferma il vescovo, è essenziale per la formazione delle persone e per renderle protagoniste della loro storia di lotta alla povertà e a certe tradizioni, come la mutilazione genitale femminile (Fgm, female genital mutilation), che non aiutano a costruire un mondo libero e pacifico.

Una delle soddisfazioni più grandi di monsignor Pante è vedere i ragazzi e ragazze che hanno studiato nelle scuole della missione diventare insegnanti, infermieri, medici, operai, tecnici, anche politici e pure missionari, come l’attuale superiore generale dei Missionari della Consolata, un samburu nato sull’auto mentre la mamma veniva portata all’ospedale di Wamba.

Uno dei risultati più belli è stato raggiunto con le donne. Quante ragazze, uscite dalla scuola secondaria di Santa Teresa a Wamba, sono diventate insegnanti, infermiere, suore, catechiste, attiviste contro la Fgm e anche donne impegnate nella politica, chief locali e attiviste per la pace.

Gigi Anataloni
(1 – continua)

Mercato Pokot e Samburu, luogo di incontro, dialogo e collaborazione




Da Oriente a Occidente


Per ricordare il viaggio di papa Francesco in Mongolia, il polo culturale (Cam) dei Missionari della Consolata ha allestito a Torino una mostra multimediale. In una piazza della città è stata anche montata una tenda tradizionale mongola. Nei prossimi mesi la mostra sarà ospitata in diverse altre località.

Vent’anni fa, alcuni missionari e missionarie della Consolata partivano per un’avventura di cui conoscevano poco o nulla. Sul volo verso Ulaanbaatar, sentendo parlare le hostess in mongolo, si chiedevano l’un l’altra: «Chissà se un giorno riusciremo a capirci qualcosa». Oggi, dopo vent’anni, la visita del papa (dal 31 agosto al 4 settembre) è venuta a suggellare il lavoro fatto e a dare nuovo slancio ai tanti missionari e missionarie, non solo della Consolata, che si prendono cura del piccolo gregge dei cristiani mongoli. Fin dagli inizi l’impegno profuso nel raccontare la fatica e la bellezza della scoperta delle steppe sconfinate, della caotica capitale, dell’incontro con donne e uomini forti e accoglienti, della gioia provata di fronte alla freschezza di chi sceglie di diventare cristiano, hanno appassionato molti altri all’annuncio del Vangelo in terra asiatica.

Il papa in Mongolia

Il viaggio, fortemente voluto da papa Francesco, è stato un’occasione per far conoscere la Mongolia a molti che ne erano digiuni. Quando ha visto atterrare l’aereo papale sulla pista di Ulaanbaatar, il cardinale Giorgio Marengo ha gioito profondamente: un sogno si stava realizzando. Negli ambienti governativi c’erano molti interrogativi riguardo alla venuta del papa che il presidente e i suoi consiglieri avevano voluto e richiesto: «Come verrà accolta questa presenza? Gli altri leader vedranno di buon occhio la visita del responsabile ultimo della Chiesa cattolica?». Dopo il primo discorso in diretta streaming, i social media mongoli registravano approvazione: la semplicità di papa Francesco, il suo accostarsi in punta di piedi apprezzando la cultura e la forza del popolo mongolo avevano colto nel segno.

Visita di papa Francesco in Mongolia (foto Apostolic Prefecture of Ulaanbaatar)

La mostra e la «gher»

Come Cam, Cultures and mission, abbiamo così pensato di realizzare una mostra sulla Mongolia che potesse fare da cassa di risonanza per il viaggio del papa e i vent’anni della nostra presenza in quel Paese. Pensavamo a come avvicinarci in qualche modo allo spirito e alla bellezza dei popoli delle steppe e abbiamo cercato una gher, la tenda caratteristica dei nomadi mongoli. Ci è venuta in aiuto Paola Giacomini che nel 2018 aveva compiuto un viaggio di pace a cavallo dall’antica capitale mongola Karakorum, fino a Cracovia e poi a Torino. Abbiamo montato la gher il 30 settembre in piazza Bernini, vicino al Cam, e in essa sono avvenuti incontri toccanti e inaspettati. Molte persone si fermavano per guardare, entrare, chiedere, confidarsi, o per scoprire un pezzo di oriente tra i palazzi di Torino. Suor Lucia Bortolomasi, superiora delle missionarie della Consolata, Paola Giacomini e Raima, una giovane mongola che abita in città, ci hanno aiutati a volare con la fantasia e a scoprire come la gher sia un luogo accogliente, sempre aperto a chi si trova di passaggio nella steppa.

La tenda è stata smontata il giorno dopo, ma la mostra, è rimasta aperta fino al 10 novembre. È poi stata esposta in altri luoghi e sarà ancora visitabile anche nei prossimi mesi.
Ascoltare i movimenti profondi di un popolo allarga il respiro e ci fa sentire cittadini del mondo, desiderosi di amicizia e di pace.

Piero Demaria

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«Culture e missione»


A Torino la missione si fa comunicazione. I Missionari della Consolata inaugurano un polo culturale missionario che vuole essere un ponte tra le loro attività nei quattro continenti e la città, ma non solo. Un punto di incontro tra culture, religioni e territorio.

Questo mese è stato inaugurato il polo culturale dei Missionari della Consolata a Torino, in un’ala della Casa Madre. Il centro è stato chiamato Cultures and mission (Cam), culture e missione. Chiediamo il perché del nome a padre Ugo Pozzoli, coordinatore di Missioni Consolata onlus (Mco), che gestisce il polo. «Il nome Cultures and mission (Cam) è stato scelto perché rappresenta un ponte tra il passato il presente e il futuro. Come Centro di animazione missionaria, il Cam è stato un luogo che per circa 40 anni ha accompagnato i cammini di formazione e di animazione missionaria giovanile a Torino. Con il nuovo significato, la sigla rimane la stessa ma assume uno spirito più ampio che vuole raccontare la missione di oggi e di domani».

Ma di cosa si tratta esattamente?

Padre Ugo ci spiega: «Il nuovo Cam nasce con l’intento di essere un polo di cultura, informazione e comunicazione, un ponte fra i missionari, la loro storia, il loro lavoro in quattro continenti, e la città di Torino, il luogo dove siamo nati e siamo tuttora presenti a vari livelli. Vorremmo che fosse una vetrina che parli del mondo alla nostra città e che parli della nostra città al mondo. Credo infatti che in passato si sia messo troppo l’accento, parlando di cooperazione missionaria, su quanto potevamo “dare” a chi presumibilmente aveva meno. Con questo progetto vorremmo raccontare anche il tanto, sia quantitativamente che qualitativamente, che noi possiamo ricevere dagli altri».

E continua: «Con la gestione di questo progetto, Mco desidera creare un laboratorio in cui far convergere il mondo della comunicazione, che fa capo alla redazione della rivista Missioni Consolata, le attività di animazione e formazione con cui cerchiamo di sviluppare temi come quelli legati alla mondialità, all’intercultura, al dialogo e, ultima ma non ultima, la spiritualità, che anima la nostra missione e senza la quale non saremmo qui a continuare la nostra opera. Penso alle cose belle che si potranno creare mettendo in sintonia il Cam e il nostro centro di spiritualità alla Certosa di Pesio».

La genesi

«Sono diversi anni che parliamo di recuperare la memoria dell’istituto – ci dice padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata -. Ci sono i giovani missionari che arrivano, nuove storie, e si sta dimenticando il passato. Secondo noi un gruppo che dimentica il proprio passato, non può costruire il futuro». E continua: «L’idea è dunque di recuperare il materiale che abbiamo per presentare la memoria e raccontare la nostra missione agli altri. Oggi il racconto di qualcosa di vissuto vale di più delle prediche.

Ci siamo chiesti: fare un museo classico? No, un museo è un po’ conservare il passato, ma non basta. Qualcosa che serva per l’animazione missionaria. Non qualcosa da ammirare, ma un discorso che deve provocare, fare capire alcune realtà e spingere a domandarsi: io che cosa posso fare? Come posso collaborare? Come posso costruire missione nel mio oggi?». Così il superiore generale e i suoi consiglieri hanno pensato che fosse un bene valorizzare le collezioni etnografiche e naturalistiche e gli archivi (foto, video, manoscritti) che l’istituto ha accumulato in 121 anni di esistenza, per realizzare qualcosa.

«Lo chiamo polo, perché non è museo, non è centro culturale, ma vuole raccogliere tante persone che, cristiane e non, si ritrovino intorno ai valori dell’umanità, e si vogliano incontrare in uno spazio fisico dove raccontarsi, parlare, ascoltare, e conoscere altre storie.

Abbiamo la fortuna, come istituto, di essere internazionali e interculturali: di cose da raccontare ne abbiamo. Ma vogliamo anche ascoltare le storie del territorio».

Continua padre Stefano: «Usando tecniche moderne, i materiali che abbiamo, e mettendo a disposizione missionari con le loro storie, ci presentiamo alla gente, non per farci vedere, ma per raccontare questa memoria storica. Con l’idea di presentare il passato, raccontando il presente e pensando al futuro».

E anche: «La missione incontra il territorio. Non più “venite in Africa”, ma “la missione è qui”. Noi siamo disposti a incontrare tutti: cristiani, non cristiani. Raccontiamoci. Chi è alla ricerca per dare un senso alla propria vita. Venite, vediamo se riusciamo a collaborare. Questa è la novità».

Un’équipe missionaria

Il nucleo propulsore del nuovo Cam è un’équipe di tre missionari, costituita un anno fa, che curerà la gestione del polo missionario, in particolare nei suoi aspetti d’incontro con la gente. La costituiscono il kenyano John Nkinga e gli italiani Fabio Malesa e Piero Demaria.

Padre John, 36 anni, giovane ed esuberante, è l’esempio vivente del fatto che la missione oggi è anche in Italia. Lui, missionario africano a Torino, lavora con le comunità di migranti (cfr. MC marzo 2022). Ci dice sul polo: «Vogliamo fare capire alle persone e alla città di Torino che esiste una cultura missionaria, e che non è un fatto nostro. Ha origine da un fondatore, passa dai missionari per arrivare alla gente. Non ci fermiamo all’animazione e basta. Parliamo di “cultura missionaria”. Vogliamo farla conoscere. Vuol dire fare animazione in modo diverso, più moderno, più pensato sui bisogni e le aspettative delle persone che camminano con noi».

Padre Fabio, 50 anni, originario della Sardegna, ha lavorato dodici anni in Mozambico (cfr. MC marzo 2023): «Oggi, soprattutto dopo il covid, le persone, e i giovani in particolare, hanno bisogno di trovare un posto dove possano sentire che le relazioni umane vengono curate, si sviluppano. Sono rari i posti così, e la gente si trova molto sola. Avere un luogo dove, attraverso l’accoglienza, si sente accettata, magari nella propria diversità, è il primo passo per costruire qualcosa insieme».

Padre Piero, 44 anni cuneese (cfr. MC marzo 2019), ha le idee chiare sul ruolo dell’équipe missionaria: «Noi dobbiamo rendere vivo il polo culturale. Una prima dimensione è quella dell’accoglienza. Abbiamo il compito di accogliere i gruppi: giovani, scuole, famiglie, parrocchie, associazioni. Un’accoglienza che va preparata. Tutto inizia al piano terra, dove presentiamo chi siamo noi e cosa è l’istituto.

Al primo piano c’è il museo vero e proprio e al secondo piano diversi spazi per i laboratori che saranno pensati a seconda dei target. È al secondo piano che la nostra presenza sarà più importante. Faremo laboratori su diversi temi: maschere, musica, lingue, cartine geografiche. Il tutto pensato a seconda dei gruppi che vi partecipano».

Continua Piero: «Il nostro ruolo è dunque di fare incontrare chi arriva con la realtà della missione. Perché il polo vuole trasmettere questo. In seconda battuta, inviteremo le persone più interessate a partecipare, costruire una rete e collaborare.

Anche allo scopo di mettere in circolazione i temi che ci stanno più a cuore: l’incontro tra le culture, la diversità, l’accoglienza del diverso, l’ecologia. E costruire un mondo un po’ più vivibile e pacifico».

Parola chiave: incontro

John: «Direi che la parola chiave per il polo culturale è “incontro”. Vogliamo offrire uno spazio e del tempo per incontrarsi. Qualcosa che si faceva già con il Centro di animazione missionaria (anch’esso Cam, ndr), e si potrà nuovamente fare. Non è un museo o uno spazio espositivo, ma un luogo per incontrarsi. Dove la cultura incontra la missione, la migrazione incontra la cultura, e così via».

Fabio: «Inizialmente pensiamo anche di “andare all’incontro”, ovvero andare nelle scuole portando qualche pezzo di museo, per parlare del polo, farci conoscere. Fare in modo che la gente venga, e da lì aprire un ponte con la città, la popolazione e le istituzioni.

Il Cam sarà un posto dove, attraverso la testimonianza di tanti padri, di passaggio a Torino, o collegati a distanza dalle missioni, grazie alle moderne installazioni, si farà cultura missionaria. Alcuni contenuti, come video e foto, possono essere rinnovati nel tempo, garantendo così una maggiore interazione con le persone».

Piero: «Vogliamo incontrare il territorio. Siamo interessati a tutti, ma in particolare ai giovani e alle famiglie. Attraverso famiglie più sensibili, si possono fare arrivare anche altri. La visita al museo può essere un primo contatto, ma avremo molte altre attività, ad esempio quelle in collaborazione con il Centro missio nario diocesano, che organizza formazioni per chi parte in missione».

Il cuore creativo

Partiti dall’idea e da un’esigenza, per arrivare a un’installazione multimediale che adotta tecniche innovative, e a spazi gestiti da un’équipe missionaria, è stato necessario un grande lavoro di una squadra di professionisti della comunicazione.

La società Mediacor, con una vasta esperienza in allestimenti multimediali, già protagonista della fortunata esposizione temporanea «Mater Amazonia» in Vaticano, è stata incaricata dai Missionari della Consolata della progettazione e realizzazione degli spazi espositivi e di quelli d’incontro. Anima di Mediacor, composta da sette soci, sono Paolo Pellegrini e Simona Borello.

Simona ci racconta: «Lo abbiamo immaginato come un luogo d’incontro. Incontro tra le culture, incontro tra i missionari e la città, incontro tra le religioni.

È stato progettato sia per vedere l’incontro che i missionari hanno avuto, e hanno tutt’ora, con le altre culture, sia per favorire l’incontro tra le persone e la missione. L’esposizione permanente è la narrazione del primo aspetto, di cosa succede quando si arriva al cospetto di una cultura e poi si cerca di entrare in essa. Si concentra sui vari aspetti che ci sono nel viaggio: le persone, la natura, la lingua, il modo di fare e di operare.

Questo fattore è stato utilizzato anche per l’approccio architettonico con il potenziamento delle aree nelle quali è possibile fare incontri, conferenze, e con la valorizzazione di alcuni ambienti che erano depositi, trasformati in salette. E poi c’è la sala dei laboratori. Il percorso è pensato per avere come parte integrante incontri con i ragazzi delle scuole, degli oratori.

Il polo vuole essere un punto di riferimento per la città, per le iniziative dei missionari o per quelle che la Chiesa locale voglia fare qui».

Simona non nasconde una certa soddisfazione per la realizzazione dell’opera e ci racconta le differenze con esperienza precedenti di Mediacor: «La cosa interessante è che si tratta di un polo culturale, per cui non c’è soltanto il discorso espositivo che abbiamo già gestito in altri casi. Qui c’era il desiderio di disegnare un luogo che poi potesse essere vivo e polifunzionale, e ospitare anche altre attività.

Un’altra differenza: visto che i missionari sono una realtà viva cui si aggiungono sempre cose nuove, alcuni spazi sono stati pensati per essere rinnovati periodicamente. Ad esempio l’ingresso dove ci sono i progetti in evidenza, o la parte di approfondimenti.

Un altro aspetto è il tentativo di far dialogare la tecnologia non solo la narrazione, ma anche con gli oggetti etnografici».

La parte d’installazione museale presenta un percorso che può essere gestito in modo completamente automatico, e condurre il visitatore o il gruppo nella visita.

C’è stata, inoltre, un’attenzione particolare alla inclusività, con l’ausilio di alcuni strumenti che utilizzano il linguaggio della comunicazione aumentata, per permettere anche ai bambini con disturbi specifici di apprendimento di beneficiare della visita. Anche la disabilità fisica è tenuta in conto, con un’architettura ad accesso totale.

Un gemello in Kenya

Padre Stefano Camerlengo ci rivela una notizia: «Un polo culturale missionario lo stiamo sognando anche a Nairobi, dove l’istituto ha cominciato la sua missione e dove ha una lunga storia. Inizia a Torino, continua in Kenya e poi va in tutto il mondo. Se oggi si vogliono capire meglio i Missionari della Consolata non basta andare a Torino, bisogna anche andare a Nairobi».

Padre Ugo conclude: «Il Cam ha rappresentato un investimento notevole, giustificato dalla volontà di valorizzare le nostre radici, dimostrando a noi stessi, e a chi collabora con noi, che, sebbene abbiano oltre 120 anni di storia, sono tuttora vive e generano missione, raccontano il Vangelo, sostengono l’umanità nelle sue stanchezze e nelle sue ferite. Speriamo che chi ci visiterà, chi accoglierà i nostri spunti e le nostre proposte, si lasci poi coinvolgere a partecipare, diventando un nostro sostenitore, tanto economicamente quanto magari mettendo a disposizione un po’ del suo tempo, collaborando in qualche attività del polo».

Marco Bello