Fare a pugni con la quotidianità


Non è mai stata facile la vita nell’isola caraibica. Oggi la profonda crisi economica (con l’immancabile embargo) l’ha resa ancora più dura. E le soluzioni non paiono dietro l’angolo.

«Il tramonto di Cuba, irripetibile, specialmente all’Avana, dove il sole va a cadere come un’immensa palla nel mare, nel profumo del sale, della vita, del tropico». Sono le parole con cui lo scrittore Reinaldo Arenas (1943-1990, fu un avversario del governo castrista, ndr) racconta l’amore e la struggente malinconia che, per tutta la vita, lo legheranno alla sua amata Cuba, anche quando ormai sarà emigrato in America in cerca di una vita migliore.

Ed eccolo di fronte a me quel tramonto, proprio uguale a come ce lo descrive lo scrittore: il sole scende sul Malecón, il lungomare dell’Avana, tinge di rosa i muretti, le strade, gli scogli. È una delle fotografie più scattate, uno degli scenari più suggestivi: ogni turista deve necessariamente passare di qui, perdersi nella musica e nel brusio di chi, al tramonto e fino a notte fonda, suona la chitarra seduto sul muretto di fronte al mare o chiacchiera bevendo una birra.

Alle mie spalle, l’Avana: i colori, i suoni, l’allegria, la città viva a ogni ora. La luce calda e potente dei tropici che illumina i palazzi del Parque Central, il Capitolio, gli hotel alla moda, le Cadillac e le altre macchine d’epoca tirate a lucido e parcheggiate proprio di fronte a quegli stessi hotel in attesa di un turista che voglia provare l’ebbrezza di sentirsi per un momento immerso nelle magiche atmosfere degli anni Cinquanta.

Una veduta di l’Avana dall’alto. Foto di Valentina Tamborra.

L’Avana nascosta

E poi c’è «l’altra» l’Avana: quella nascosta che pure esiste e resiste. Palazzi fatiscenti, quartieri dimenticati, strade dissestate, code infinite davanti ai negozi statali che non hanno più tutto ciò che dovrebbero assicurare ai cubani.

È questa l’Avana dove mi trovo a camminare insieme a Karla, una guida giovane e sorridente, che conduce me e altre quattro persone a scoprire il lato nascosto di Cuba.

Karla fa parte di un gruppo chiamato free walking tour: ogni giorno le guide partono dal Parque Central e con una passeggiata di tre ore conducono turisti e curiosi a guardare meglio e più a fondo la città. Il tour è gratuito con un’offerta libera e nasce per divulgare una conoscenza diversa e più precisa su una realtà complessa come la capitale cubana.

Dopo il Covid, infatti, Cuba è precipitata in una situazione davvero difficile. Manca, o comunque scarseggia, tutto, dai farmaci ai generi alimentari, dai beni di uso comune ai materiali edilizi. Eppure, camminando per la zona più turistica dell’Avana, non si direbbe. Lì migliaia di visitatori sono impegnati a sorseggiare mojito e gustarsi la musica che arriva da ogni piccolo locale o casa privata e a chiacchierare fumando uno dei famosi sigari cubani, costosissimi se si pensa che ciascuno di essi può arrivare a 150 dollari mentre lo stipendio medio di un impiegato a Cuba è fra i 15 e i 20 dollari mensili.

Quella turistica è una facciata brillante che nasconde, che cela. Ma i cubani di oggi vogliono parlare di quello che le sta dietro, vogliono spiegare, vogliono mostrare. La loro preoccupazione più grande è quella per il futuro: molti infatti sono i giovani che se ne vogliono andare, legalmente o illegalmente. Karla ci racconta che l’arrivo di internet sull’isola ha aperto una «finestra» sul mondo e ha mostrato come si vive altrove e questo attira, spingendo molti ragazzi verso altri paesi.

Una delle guide del «free walking tour Havana» che aiuta a scoprire la capitale cubana con le sue luci e ombre. Foto Valentina Tamborra.

La scuola di boxe

Impossibile non pensare alla prima casa particular (casa privata) dove ho soggiornato, gestita da una donna e sua figlia. La madre stava preparandosi a partire per San Diego, negli Stati Uniti, lasciando a Cuba la ragazza, non per volontà ma per impossibilità di portarla con sé. Ottenere i documenti e i permessi per lasciare il paese non è facile.

Per molte persone che se ne vogliono andare, altre però decidono di fermarsi, di rimanere, di provare a costruire un futuro diverso. Ed è proprio proseguendo il mio cammino per la città che mi imbatto nel Gimnasio de boxeo: una scuola di boxe costruita in uno dei quartieri più difficili della città, il Colón.

Il gimnasio è racchiuso fra mura scrostate ma per i ragazzi rappresenta un sogno. Foto Valentina Tamborra.

Qui, fra palazzi fatiscenti e cortili abbandonati, un italiano, Samuel Fabri, dopo aver vissuto in diversi paesi e aver partecipato a molte cause umanitarie e contribuito a costruire un orfanotrofio in Kenya, ha deciso di fermarsi e dare forma a un sogno e a una speranza.

Grazie alla scuola, infatti, allontana i bambini dalla strada, spiega loro i pericoli connessi a una vita che a prima vista può sembrare più semplice ma che nasconde insidie e dolori. Affronta il tema del turismo sessuale, insegna a essere solidali con un amico debole, a combattere il bullismo, a creare una «famiglia» con i propri compagni.

Il gimnasio è gratuito, ma c’è un requisito essenziale: bisogna andare bene a scuola. Samuel e i suoi collaboratori, tutti ragazzi cubani, danno anche ripetizioni. Mentre parliamo, sono tre i bambini che, dopo la lezione di boxe, ripassano geografia, storia e spagnolo.

Il Gimnasio de boxeo è una vera eccellenza: i ragazzi che vengono da questa scuola hanno vinto otto campionati provinciali in 11 anni e oggi sono già nove i campioni nazionali. Si allenano nel cortile che separa due palazzi che sembrano dover crollare da un momento all’altro. Boxano su un ring che ha visto tempi migliori, utilizzando corde e guantoni che riescono a fatica a stare insieme. Eppure, lo spirito che anima questi ragazzi è qualcosa di potente, di coinvolgente.

Portare avanti questa realtà è dura: infatti non è una questione economica che impedisce al gimnasio di avere tutto l’occorrente, ma l’impossibilità di trovare gli strumenti essenziali.

Con l’embargo è impossibile procurarsi ciò che serve: ad esempio, guantoni, fasce, calze, sacchi da boxe, paradenti. Al momento, una delle necessità più urgenti sono le corde da ring. Samuel non chiede denaro, ma ciò che serve ai ragazzi per allenarsi, per uscire da una realtà difficile e poter coltivare i propri sogni. Usati o nuovi, poco importa, conta solo riuscire a combattere per un futuro diverso.

L’istruttore di boxe viene da Guantanamo: un duro dal cuore d’oro. Foto Valentina Tamborra.

Senza energia elettrica

Dopo l’Avana, raggiungo Cienfuegos, Viñales e Trinidad: ciò che colpisce, come a l’Avana, sono i continui blackout che rendono la vita in città davvero difficoltosa. A causa della poca energia elettrica disponibile, il governo è costretto a interrompere l’erogazione anche per diverse ore mettendo a dura prova i cittadini cubani.

Il cibo conservato nei frigoriferi, i farmaci, già scarsi, i generi alimentari, così difficilmente reperibili, rischiano di deperire in fretta dato il caldo impietoso e, per una popolazione già allo stremo, questo rende la quotidianità una sfida costante.

Un po’ meglio si vive a Viñales, in quella che possiamo definire «campagna»: qui grazie all’allevamento e all’agricoltura si riesce a reperire più facilmente il cibo e c’è un’atmosfera diversa dalle città.

Lo si nota anche dalle abitazioni: a l’Avana, Trinidad, Cienfuegos e – in generale – nelle città più popolose, non si vede un motorino o una bicicletta o una macchina lasciata incustodita in strada e ogni finestra ha sbarre di protezione mentre a Viñales le sbarre alle finestre non ci sono e non è raro vedere, di notte, auto, moto e motorini parcheggiati in strada.

In un angolo di una vecchia fabbrica un parrucchiere ha aperto il proprio posto di lavoro. Foto Valentina Tamborra.

Laicità e religiosità: la santeria

C’è però un tratto comune che lega le zone più rurali alle grandi città ed è la spiritualità: un mix di credenze religiose che, a prima vista, si potrebbe non notare ma che una volta scoperto affascina e colpisce. Cuba infatti è un paese laico dove convivono, nel pieno rispetto reciproco, diverse religioni: cattolici, protestanti, ebrei, spiritisti e poi i seguaci del culto di origine africana, chiamato santeria. Praticato da una larga parte della popolazione, si tratta di un credo che nasce dalla religione della popolazione Yoruba, proveniente dalla Nigeria, in Africa dell’ovest, e arrivata a Cuba nel periodo del colonialismo e della schiavitù (quest’ultima abolita nel 1880).

La santeria è pratica religiosa sincretica: accanto alle divinità di questa religione, gli Orixa, troviamo infatti alcuni santi appartenenti alla tradizione cattolica, come Santa Barbara.

Interessante da sapere: la parola «santeria» è stata coniata dagli spagnoli e, in origine, si trattava di un termine denigratorio per indicare quelle persone che mostravano un’eccessiva devozione ai santi.

Oggi manifestazioni e processioni di santeria si possono vedere in tutta Cuba, e sono veri e propri momenti di riunione della comunità e di preghiera collettiva per chiedere un anno propizio alle proprie divinità. Uno dei luoghi dove è possibile farsi un’idea più chiara di questa religione è Palmira, sede di diverse confraternite.

Per quanto alcuni riti restino privati, è possibile fermarsi e chiedere informazioni e normalmente un santero, ovvero il celebrante dei riti della santeria, sarà disponibile a raccontarvi qualcosa di più.

Nelle case private si trovano facilmente altari dedicati alla propria fede, sia essa cattolica o legata alla santeria. Foto Valentina Tamborra.

Non basta il tramonto sul Malecón

Il mix di culture, etnie, tradizioni, modernità e realtà ferme nel tempo, rendono Cuba un paese straordinario, dalle mille sfaccettature. Viaggiare lungo le strade di quest’isola significa imbattersi in un caleidoscopio di sensazioni e di emozioni contrastanti e farsi un’idea chiara non è semplice. Ciò che è sicuro, purtroppo, è che la situazione economica è in drastico peggioramento e che senza un cambia-

mento di direzione, senza un nuovo piano di sviluppo, Cuba rischia di perdersi, di vedere andare via i propri giovani e rimanere solo una meta di vacanza, dove turisti senza troppa voglia di porsi domande raggiungono hotel di lusso su cayos da sogno senza scoprire l’altra faccia di questo luogo complesso e affascinante.

Il tramonto sul Malecón è sempre lì, rosso, potente e bellissimo, ma perché continui a illuminare anche i cubani e il loro futuro è necessario uno sguardo più consapevole e scevro da ideali e idealismo, uno sguardo capace di posarsi sulle luci di questa meravigliosa isola ma anche di indagarne le ombre.

«Vi lascio in eredità tutte le mie paure, ma anche la speranza che presto Cuba sia libera». Sono le ultime parole di Reinaldo Arenas, e oggi è l’augurio che mi viene da rivolgere a questa isola straordinaria e disperata, mentre guardiamo il sole calare ancora una volta sul Malecón.

Valentina Tamborra

Il cardinale Beniamino Stella stringe la mani al Il presidente cubano Miguel Diaz Canel durante la sua visita all’isola (8 febbraio 2023).


Chi resta, chi va

Dollari o rubli?

Sono in tanti a sostenere che Cuba stia vivendo la peggiore crisi economica e sociale della sua storia, addirittura più grave di quella del cosiddetto «periodo speciale», negli anni Novanta. Varie circostanze sembrano confermare questa affermazione. Da ultimo, la cancellazione della sfilata per la festa del Primo maggio a causa della penuria di combustibile.

Nel 2022, sono stati oltre 270mila i cubani emigrati negli Stati Uniti, circa il 2,4 per cento della popolazione complessiva (11,1 milioni di persone), un record. La quasi totalità vi è arrivata illegalmente e quasi sempre con l’aiuto economico degli 1,4 milioni di cubani residenti negli Usa. Oggi la via migratoria più seguita – racconta la Bbc – è quella di volare in Nicaragua (l’unico paese latinoamericano che non richiede visto ai cittadini cubani) e da qui proseguire per duemila chilometri verso il confine statunitense attraversando Honduras, Guatemala e Messico. La seconda via, molto più breve ma più pericolosa, consiste nell’attraversamento dello stretto della Florida con imbarcazioni di fortuna (le cosiddette «balsas»).

Dal punto di vista delle relazioni internazionali, per Cuba questo 2023 è iniziato con due visite distinte, ma entrambe importanti. Tra fine gennaio e inizio febbraio, è stato sull’isola caraibica il cardinale Beniamino Stella, già nunzio apostolico sull’isola (dal 1992 al 1999), inviato di papa Francesco. L’occasione era rappresentata dal 25° anniversario della storica visita di Giovanni Paolo II (1998). Nelle due settimane di permanenza, il cardinale ha incontrato il presidente Miguel Díaz-Canel (poco prima della riconferma di quest’ultimo per altri cinque anni) e ha chiesto la liberazione delle persone (circa 700) imprigionate a seguito della rivolta dell’11 luglio 2021. Ad aprile è, invece, arrivato a l’Avana Sergey Lavrov, ministro degli esteri della Russia, in tour nei paesi latinoamericani per comprare adesioni o rafforzare il sostegno alla politica putiniana.

La Russia, assieme al Venezuela, rifornisce Cuba di petrolio. Inoltre, da aprile, le banche cubane accettano pagamenti effettuati con le carte Mir, il circuito di pagamento gestito dalla Banca centrale di Mosca. E questo per favorire l’afflusso sull’isola di turisti russi.

Paolo Moiola

In un angolo della cucina di un contadino, una statua appartenente al culto della santeria con ai piedi offerte votive. Foto Valentina Tamborra.




Inferno, purgatorio, paradiso

testo di Paolo Moiola |


Come non bastassero le devastanti conseguenze dell’embargo Usa, sull’isola si è abbattuta la pandemia e la penuria di beni primari. Molti cubani sono scesi in piazza per protestare contro il governo, trovando l’appoggio (interessato) del presidente Biden.

Tra Miami, cuore scintillante della Florida, e l’Avana, capitale di Cuba, ci sono meno di 400 chilometri. E oltre 60 anni di percorsi politici e culturali diversi, anzi opposti: capitalismo versus socialismo. Messa così, è facile arrivare a conclusioni tanto perentorie quanto parziali: ricchezza contro sopravvivenza, libertà contro autoritarismo.

In questi ultimi mesi, sulla piccola isola caraibica ci sono state manifestazioni antigovernative. Con immediate reazioni di giubilo tra la vasta comunità cubana di Miami e sulla maggior parte dei media (compresi quelli italiani). Per capire meglio la situazione, proviamo a ricordare qualche elemento dimenticato o – forse volutamente – trascurato.

Scolare di Trinidad con in mano «Granma», il quotidiano ufficiale dell’isola. Foto Jaume Escofet.

243 nuove misure

Iniziamo con l’embargo degli Stati Uniti, conosciuto come «el bloqueo» e vigente (con modalità variabili e crescenti) dal 1960.

Le conseguenze più disumane sono quelle derivanti dall’applicazione del Cuban democracy act del 1992 (Cda, conosciuto anche come legge Torricelli, dal nome del suo proponente).

È da questa norma che derivano le restrizioni più dure sui rifornimenti di medicine e di attrezzature medicali per Cuba. Se prima erano vietate le esportazioni dirette dagli Usa di quei beni, con la nuova legge vengono vietate anche le vendite dalle sussidiarie estere delle aziende statunitensi. Inoltre, in base al Cda, le navi che abbiano fatto scalo a Cuba non possono attraccare nei porti Usa per sei mesi. Una norma scandalosa e ingiustificabile, senza se e senza ma.

Eppure, a tanti l’argomento del bloqueo risulta indigesto: «È una scusa da sempre utilizzata dal regime per giustificarsi», affermano.

Tutto può essere, ma che l’embargo (economico, commerciale, finanziario) contro l’isola non produca effetti nefasti sulla quotidianità dei cubani è negare l’innegabile. Purtroppo, se Barack Obama aveva iniziato ad allentare le sanzioni, Donald Trump le ha rese ancora più dure introducendo altre 243 (leggasi «duecentoquarantatre») misure (e – negli ultimi giorni del suo mandato – ha addirittura inserito il paese tra gli stati sponsor del terrorismo).

Per comprendere meglio cosa possa comportare l’embargo degli Stati Uniti, prendiamo alcuni dei provvedimenti introdotti da Trump nell’ultimo anno della sua presidenza (non per amore della libertà e della democrazia, ma nel prosaico intento di guadagnare i voti della folta comunità cubana della Florida, circa 1,5 milioni di persone su un totale di 2,3 milioni presenti in Usa). Essi colpiscono le due principali entrate in dollari dell’isola: le rimesse e il turismo.

Il 26 ottobre 2020, il Tesoro Usa ha emendato il Cuban assets control regulations allungando la lista (Cuba restricted list) delle entità cubane (società, ministeri, uffici) con cui le compagnie statunitensi non possono avere rapporti. Tra queste anche Fincimex, sussidiaria di Gaesa, il conglomerato d’imprese che farebbe capo alle Forze armate rivoluzionarie di Cuba. La Fincimex è la controparte finanziaria della Western Union, l’azienda statunitense di trasferimenti di denaro.

Cubani davanti a un ufficio di Etecsa, la compagnia telefonica statale. Foto Ian Southwell.

A causa del divieto governativo, lo scorso 27 novembre la compagnia Usa si è vista costretta a chiudere i suoi 407 uffici distribuiti sull’isola, colpendo migliaia di cubani che sulle rimesse fanno affidamento.

Per quanto concerne il turismo, dopo aver proibito le crociere nel giugno 2019, il 28 settembre 2020 il Dipartimento di stato degli Usa ha reso nota una lista di 433 hotel cubani, legati o controllati dal governo de l’Avana, in cui ai cittadini statunitensi è stato fatto divieto di soggiornare. Agli statunitensi è stato inoltre proibita l’importazione di rum e sigari, i prodotti cubani più famosi.

Come sappiamo, Trump è poi uscito di scena essendo stato sconfitto da Joe Biden. Il neo presidente non ha però cambiato registro (smentendo, almeno fino a ora, le promesse fatte a settembre 2020, durante la sua campagna elettorale).

Il giorno seguente alle proteste dell’11 luglio, in una prima nota (White House statements and releases) Biden ha espresso vicinanza al popolo cubano («We stand with the Cuban people»).

Pochi giorni dopo, durante una conferenza stampa con Angela Merkel, è stato più esplicito affermando che Cuba è uno stato fallito («failed state») che reprime i suoi cittadini (fonte: Cnn).

Nella nota del 22 luglio, ha affermato che «gli Stati Uniti stanno con i coraggiosi cubani che sono scesi in piazza per opporsi a 62 anni di repressione sotto un regime comunista». Insomma, un crescendo inarrestabile di accuse da parte del nuovo presidente Usa.

Un cartellone del governo cubano contro l’embargo (el bloqueo), definito strumento di genocidio. Foto Diego Battistessa.

La battaglia del web

Consueto campo di battaglia è la narrativa: a chi credere? Al racconto fatto dagli Usa o a quella del governo de l’Avana? La connessione internet non è
risolutiva come spesso si crede. Nei giorni precedenti alle manifestazioni, molti gruppi anti castristi degli Stati Uniti hanno utilizzato i social media (Twitter, Facebook, Instagram, Telegram e WhatsApp) per incitare alla protesta antigovernativa. Quando questa è scoppiata, gli stessi social media l’hanno amplificata. Per questo il governo de l’Avana ha oscurato internet per 72 ore, salvo poi ripristinarla.

Introdotta soltanto nel 2018 e rafforzata nel luglio 2019, la connessione web è oggi presente sui cellulari di cinque milioni di cubani (fonte: Bbc).

A Cuba, opera una sola compagnia telefonica, la statale Etecsa. Lo scorso 17 agosto il governo ha pubblicato il decreto legge n. 35 e la risoluzione 105 sulle comunicazioni e la cibersicurezza per regolamentare internet. Gli avversari sostengono che le nuove norme servono per limitare la libertà d’espressione.

L’amministrazione Biden sta cercando soluzioni tecniche per sottrarre internet al controllo governativo. D’altra parte, non va dimenticato che lo strumento del web può aprire le porte all’informazione, ma molto spesso anche alla disinformazione e alle fake news.

Per dirla in altri termini, internet è uno strumento a geometria variabile: quando fa comodo, è la panacea di ogni male; quando gli interessi sono diversi, è il diavolo.

184 voti a favore

Davanti all’offensiva di Biden, il presidente cubano Miguel Díaz-Canel, l’ingegnere (nato nel 1960) che è succeduto ai fratelli Castro, ha risposto chiedendo al presidente Usa di eliminare le misure dell’embargo statunitense nei confronti dell’isola.

Una dose di «Abdala», uno dei vaccini contro il Covid-19 prodotti a Cuba.

Che esso costituisca una causa fondamentale dell’emergenza e non una «scusa» del governo de l’Avana ne è convinta anche la comunità internazionale. Lo scorso 23 giugno l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha, infatti, chiesto la fine del blocco economico, commerciale e finanziario degli Stati Uniti verso Cuba. La risoluzione si aggiunge alle 28 adottate dal 1992, quando l’organo dell’Onu ha iniziato a votare annualmente sulla questione. La condanna dell’embargo ha ottenuto questa volta 184 voti a favore, due contrari (Stati Uniti e Israele) e tre astenuti (Colombia, Brasile e Ucraina).

Nel corso del dibattito, il ministro degli esteri di Cuba, Bruno Rodríguez Parrilla, ha affermato che l’embargo è una violazione massiccia, flagrante e sistematica dei diritti umani del popolo cubano e ha aggiunto che, secondo la Convenzione di Ginevra del 1948, «esso costituisce un atto di genocidio». Si tratta, ha detto, di «una guerra economica di portata extraterritoriale contro un piccolo paese già colpito nel recente periodo dalla recessione e dalla crisi economica mondiale causata dalla pandemia, che ci ha privato di entrate essenziali come quelle derivanti dal turismo». «La pretesa di Cuba è di vivere senza l’embargo e che venga cessata la persecuzione dei nostri legami commerciali e finanziari con il resto del mondo», ha sottolineato il ministro (fonte: sito Nazioni Unite).

Una dose di «Soberana 2», uno dei vaccini contro il Covid-19 prodotti a Cuba.

A parte lo storico embargo statunitense, da un anno e mezzo su Cuba si è abbattuto anche il Covid-19 e le sue conseguenze economiche. Senza valute forti a causa del crollo del turismo internazionale, l’isola ha dovuto affrontare da sola la pandemia. È riuscita a contenerla per merito del suo sistema sanitario pubblico, povero di mezzi (scarseggiano anche le siringhe), ma dotato di un vasto e preparato capitale umano (medici, infermieri, tecnici, ricercatori). Dei cinque vaccini cubani, il «Soberana 2», il «Soberana plus» e l’«Abdala» hanno evidenziato di essere efficaci. A inizio settembre il governo de l’Avana e l’Oms hanno iniziato a discutere sull’autorizzazione internazionale degli stessi.

Vale la pena di rammentare che, nel corso del 2020, in piena pandemia, due brigate mediche di Cuba vennero a portare aiuto anche in Italia.

Yoani Sánchez e Frei Betto

Yoani Sánchez, la dissidente cubana più nota e più ricercata dai media internazionali, racconta la situazione sull’isola sul proprio sito web, tenuto con il marito Reinaldo Escobar: 14ymedio.com, assieme a cubalex.org, il più serio (e sovvenzionato) tra i siti antigovernativi.

Nei suoi articoli pubblicati sul New York Times e su la Repubblica (22 luglio), la giornalista ha commentato i fatti dell’11 luglio senza un solo cenno all’embargo, come non esistesse e non sortisse effetto alcuno. A lei noi preferiamo di gran lunga il brasiliano Frei Betto, frate domenicano, teologo (della liberazione) e scrittore, da 40 anni frequentatore dell’isola.

In una sua lunga e appassionata lettera, il religioso ha scritto: «Se in Brasile sei ricco e vai a vivere a Cuba, conoscerai l’inferno. Non potrai cambiare auto ogni anno, acquistare abiti firmati, viaggiare spesso all’estero per le vacanze. […] Se appartieni alla classe media, preparati a vivere il purgatorio. Nonostante Cuba non sia più una società nazionalizzata, la burocrazia persiste, bisogna pazientare nelle code ai mercati, molti prodotti disponibili questo mese potrebbero non essere trovati nel prossimo a causa dell’instabilità delle importazioni».

«Se, invece, sei uno stipendiato, un povero, un senzatetto o un senzaterra, preparati a conoscere il paradiso. La Rivoluzione ti garantirà i tre diritti umani fondamentali: cibo, salute e istruzione, ma anche alloggio e lavoro. Potresti rimanere con l’appetito per non riuscire a mangiare ciò che più ti piace, ma non avrai mai fame. La tua famiglia avrà istruzione e assistenza sanitaria – compresi gli interventi chirurgici complessi – totalmente gratuiti, in quanto questi servizi sono un dovere dello stato e un diritto di ogni cittadino».

Il cardinale Jaime Ortega Alamino, morto nel 2019, è stato per oltre tre decenni una figura chiave a Cuba. Foto Diario de Cuba.

Il ruolo della Chiesa

La Chiesa cattolica di Cuba ha sempre rivestito e riveste un ruolo fondamentale sull’isola, come unico interlocutore credibile con il potere centrale.

«Non possiamo chiudere gli occhi o girare lo sguardo». Così iniziava il comunicato dei vescovi cubani del 12 luglio, il giorno seguente alle manifestazioni di protesta sull’isola. In esso i vescovi hanno criticato immobilismo e imposizioni, reclamando invece un ascolto reciproco. Nel corso della sua esistenza, l’ex leader cubano Fidel Castro (1926-2016) ha incontrato tre pontefici: Giovanni Paolo II nel gennaio 1998, Benedetto XVI nel marzo 2012 e Francesco nel settembre 2015. In queste visite, l’affermazione più emblematica è stata, forse, quella pronunciata da Giovanni Paolo II, il 25 gennaio 1998: «Che Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba».

Tutti i viaggi papali sono stati organizzati dal cardinale Jaime Ortega, arcivescovo di l’Avana per quasi 36 anni (1981-2016), poi sostituito dal cardinale Juan de la Caridad García Rodríguez. Ortega, scomparso nel luglio 2019, è stato un protagonista assoluto della storia dell’isola, ma le sue posizioni concilianti non sono mai piaciute ai cubani espatriati, in particolare a quelli residenti in Florida. Costoro sono arrivati al punto di accusare il prelato di «ripulire la faccia al regime» (lavar la cara al régimen).

Dall’altra parte, mons. Ortega trovava un interlocutore preparato. Fidel conosceva infatti la dottrina cattolica e la Chiesa. In gioventù, aveva studiato per anni negli istituti dei gesuiti: prima al collegio Dolores a Santiago, poi a quello di Belén all’Avana.

La sua posizione religiosa è stata oggetto di varie interpretazioni. Una delle più originali è, senza dubbio, quella dello storico Loris Zanatta, che lo ha definito «l’ultimo Re cattolico», come recita anche il titolo di un suo libro (Salerno editrice, Roma 2020). «Fidel – vi si legge tra l’altro – è innanzitutto gesuita, poi rivoluzionario, infine marxista». «Non è strano – scrive ancora – che il monarca comunista del XX secolo sia erede ideale dei monarchi cattolici del passato: crebbe su un’isola che fu Spagna per secoli, in un ambiente familiare e sociale ispanico e cattolico».

Oggi a Cuba ci sono governanti diversi, sicuramente meno carismatici dei precedenti. Anche le circostanze storiche sono radicalmente mutate. Per tutto questo, mai come oggi, il futuro dell’isola non è pronosticabile. L’unica certezza è che non sarà facile.

 Paolo Moiola

Papa Giovanni Paolo II con Fidel Castro nella visita a Cuba del gennaio 1998.

Papa Francesco con Fidel Castro nella visita a Cuba del settembre 2015. Foto Alex Castro.

Papa Benedetto XVI con Fidel Castro nella visita a Cuba del marzo 2012. Foto L’Osservatore Romano.




I Perdenti 35. Ernesto Che Guevara

più mito che mai

Testo su il Che Guevara di Mario Bandera |


Ernesto Che Guevara de la Serna nasce a Rosario, città situata sul fiume Paraná in Argentina, il 14 giugno 1928, da una famiglia della media borghesia latinoamericana. Il soprannome «Che» gli viene dato negli anni trascorsi a Cuba per la sua abitudine, tipica di tutti gli abitanti nati su quel fiume e in modo particolare di quelli della baia del Rio de la Plata dove c’è Buenos Aires in Argentina e Montevideo in Uruguay, di parlare intercalando l’espressione «che» (pron. cé), paragonabile al nostro diffuso «cioè» o al tipico «né» piemontese.

Il padre, Ernesto Rafael Guevara Lynch, è un ingegnere civile, mentre la madre, Celia de la Serna, è una donna intelligente e colta, grande lettrice, appassionata soprattutto alla letteratura francese. Poiché il piccolo è sofferente d’asma, i genitori, su consiglio dei medici, si trasferiscono nei pressi di Cordoba, dove c’è un clima più mite, più adatto alla sua salute. Dopo gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di Medicina di Buenos Aires, dove nel frattempo la sua famiglia si è trasferita. Durante il periodo universitario, con l’amico Alberto Granado compie un lungo viaggio con la moto (da lui orgogliosamente chiamata «la Poderosa») in diversi paesi dell’America Latina. Nel 1953 si laurea e due anni dopo sposa la peruviana Hilda Gadea.

Nel 1955 mentre si trova in Messico incontra una persona decisiva per il suo futuro: Fidel Castro. Dopo una notte passata a discutere animatamente della situazione sociopolitica del subcontinente latinoamericano, Castro gli propone di unirsi a lui per liberare Cuba dal dittatore Fulgencio Batista. Guevara accetta e nel novembre del 1956 organizza con Fidel e altri compagni uno sbarco a Cuba, dove negli scontri con l’esercito di Batista si rivela un coraggioso combattente e un abile stratega.

Nell’impenetrabile Sierra Maestra, grazie alla sua sapiente tattica di guerriglia, Guevara si guadagna sul campo i galloni di «Comandante». Nel 1959 una volta liberata l’isola caraibica dal regime di Batista, entra a far parte del nuovo Governo rivoluzionario, presieduto da Fidel Castro, assumendo l’incarico della ricostruzione economica di Cuba in qualità di direttore del Banco Nacional e di ministro dell’Industria.

Con molta titubanza di fronte a un personaggio così illustre e controverso, iniziamo il nostro colloquio.

Preferisci che ti chiami Ernesto, tuo nome di battesimo, oppure devo usare Che, l’appellativo con cui sei diventato famoso?

Ormai mi conoscono tutti come il Che. Pertanto, anche per me è più congeniale rispondere a questo soprannome, piuttosto che ad altri, nome personale compreso.

Allora Che, parlaci un poco della tua infanzia e della tua famiglia.

Mio papà, uomo retto e tutto di un pezzo, era completamente preso dal suo lavoro che lo teneva parecchio tempo occupato fuori casa, lontano dalla famiglia. Il suo atteggiamento mi spianò la strada affinché fin da piccolo mi affezionassi sempre più a mia mamma, la quale, ne convengo, ebbe un ruolo fondamentale nella mia formazione.

Parlaci un po’ dell’influenza che ebbe tua mamma nella tua vita.

Nel periodo che va dal 1936 al 1939, anni in cui si consumava la guerra civile di Spagna, con gli inevitabili strascichi di dolore e sofferenza sulla popolazione, mia mamma, un’attivista politica e femminista militante, atea e anticlericale, con molta pazienza mi aiutò a capire quale era la posta in gioco e quali erano le forze autoritarie che usavano le armi per negare al popolo spagnolo democrazia e libertà.

È vero che eri un lettore accanito, praticamente «onnivoro»?

Sì, è vero, leggevo di tutto. In modo particolare i saggi relativi alle problematiche dell’America Latina, di quella «Patria grande» sognata da tutti i padri della patria del sub continente latinoamericano, come Simon Bolivar, José de San Martin, Bernardo O’Higgins, Gervasio Artigas e da tutti i libertadores dei nostri popoli.

Tu sei famoso anche per un mitico viaggio che hai fatto in moto, risalendo dall’Argentina attraverso tutti i paesi dell’America Latina fino ad arrivare in Messico.

In realtà ho fatto diversi viaggi attraverso il continente. Il primo, nel 1950, insieme al mio amico Alberto Granados, visitammo il Cile, il Perù, l’Ecuador, la Colombia e il Venezuela. Ero ancora studente. Nel viaggio fummo colpiti dalla situazione di povertà degli indigeni e dei minatori in molti paesi. Venimmo anche a contatto con la realtà della lebbra e questo stimolò la nostra volontà di terminare gli studi e diventare medici. Così tornai a casa e mi laureai nel 1953 specializzandomi in allergologia.

E cominciasti a lavorare come medico.

No. Mi rimisi in viaggio e nella mia irrequieta ricerca, mentre maturavo un’avversione sempre più grande verso l’ingerenza nordamericana nell’America Latina, visitai Bolivia e Perù, e poi su, verso i paesi dell’America Centale, fino in Guatemala dove venni a contatto con diversi esuli cubani e con colei che anni dopo divenne mia moglie, Hilda Gadea. Fu anche grazie a lei che fui stimolato a leggere e studiare molto per approfondire le mie idee filo marxiste. Abbandonato il Guatemala dopo il colpo di stato militare del giugno 1954, mi recai in Messico, dove sopravvissi facendo il cronista per i Giochi panamericani del 1955. A Città del Messico tornai a frequentare i molti esuli cubani che là avevano trovato rifugio.

Se non vado errato fu proprio in quella città che conoscesti Fidel Castro.

Fu una notte memorabile quella che passai con lui. Ovviamente ne avevo sentito molto parlare. Però non avevo una grande opinione di lui. Ma quella notte mi conquistò. E decisi di entrare a far parte del suo movimento, anche solo come medico.

Quale movimento?

L’M-26-7. Ma lascia che ti spieghi. Castro era un giovane avvocato cubano, diventato uno dei leader dell’opposizione nel suo paese. Dopo che, nel marzo del 1952, Fulgenzio Batista aveva assunto il potere con un colpo di stato, Fidel aveva cercato dapprima le vie legali per farlo condannare e ritornare alla democrazia, poi, fallite quelle, aveva fondato con diversi dissidenti un movimento per farlo cadere usando tutti i mezzi, anche la violenza.

Avevano ottenuto risultati?

Nessuno. Con gli amici del movimento aveva quindi organizzato un’azione dimostrativa cercando di coinvolgere gli universitari nell’assalto di una delle caserme simbolo del potere di Batista, la Caserma Moncada. L’attacco avvenne il 26 luglio 1953. Quello fu l’evento che segnò l’inizio della rivoluzione cubana, tanto che la data dell’episodio fu poi adottata da Castro come nome del movimento che prese il potere nel 1959, M-26-7 o Movimento 26 de Julio. Ma sul piano militare fu un fallimento totale per l’improvvisazione, la faciloneria e la mancanza di armi adeguate. Il risultato fu la morte di oltre sessanta compagni, l’imprigionamento di molti altri e l’arresto dello stesso Fidel Castro.

Ma Fidel non restò in prigione a lungo.

Fidel fu condannato a morte, nonostante la sua brillante arringa nella quale disse la famosa frase: «La storia mi assolverà». Nel frattempo il dittatore Batista, su richiesta della Chiesa, aveva abolito la pena di morte, e la condanna fu commutata in 15 anni di reclusione nel penitenziario dell’Isola dei Pini.

Nel 1955, su pressione di madri di prigionieri politici e di politici, editori e intellettuali, il Congresso cubano approvò un provvedimento di amnistia. I ribelli e il loro leader furono rilasciati.

Visto però che rischiava di essere di nuovo arrestato, andò in esilio volontario in Messico, dove l’ho incontrato e mi sono appassionato alla sua causa.

Qual era il vostro piano per liberare Cuba?

Con Fidel prendemmo la decisione di sbarcare sulle spiagge di Cuba usando una vecchia nave, la Granma (la nonna). Era il 2 dicembre 1956 e noi, 82 guerriglieri ben addestrati, ci inoltrammo nel territorio montagnoso della Sierra Maestra, difficile da attraversare ma molto adatto per la lotta di guerriglia che volevamo fare contro il dittatore Batista.

La liberazione di Cuba vi tenne impegnati su diversi fronti.

Il movimento rivoluzionario messo in piedi da Fidel Castro si diffuse sempre più all’interno dell’isola coinvolgendo in maniera massiccia la popolazione rurale anche grazie all’impiego di una campagna radiofonica da me diretta. Guadagnammo sempre più consenso, sia nel contesto latinoamericano che sul piano internazionale.

Nel 1958, Batista scatenò la sua offesiva, ma il terreno montagnoso non favoriva l’esercito regolare, minato da disorganizzazione e basso morale.

Dopo molte battaglie, nell’agosto la colonna da me comandata sbaragliò gli attaccanti. Da lì in avanti, fu tutta una serie di successi, fino a quando il 2 gennaio 1959 entrai all’Avana, seguito da Castro l’8.

Liberata Cuba, nel governo che si costituì sotto la presidenza di Fidel Castro, ti furono poi assegnate responsabilità molto importanti.

Il primo incarico fu «sporco»: responsabile della prigione dove erano tenuti i fedelissimi di Batista, quelli che si erano macchiati delle colpe più gravi. Poi, dopo essere stato direttore dell’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria e della Banca Nazionale di Cuba, fui nominato ministro dell’Industria.

Nella mia posizione girai mezzo mondo e cercai di aiutare movimenti rivoluzionari in diversi paesi. Poi, nel marzo 1965, di ritorno da un congresso ad Algeri, mi ritirai completamente, rinunciando a tutti i miei incarichi. Mandai una lettera a Castro per spiegare la mia decisione.


Il motivo di questo suo allontanarsi da Cuba rimane misterioso. Si parla di pressioni dei sovietici per liberarsi di uno che ha troppe simpatie per i Cinesi, del fatto che Castro sia geloso della sua rampante popolarità, di irrequietezza insita nel Che e tanto altro. Nel 1965 lo troviamo nell’ex Congo Belga con una spedizione cubana fallimentare a sostegno dei ribelli Simba. Dopo quella, vaga in diversi paesi e scrive libri. Nel 1967, coerente con i suoi ideali, il Che riparte per un’altra rivoluzione, quella boliviana, dove, in quell’impossibile terreno, viene tratto in agguato e ucciso dalle forze governative. Si è speculato sulla data esatta della sua morte, ma sembra certo che il Che fu assassinato l’otto ottobre di quell’anno.

Diventato in seguito un vero e proprio mito laico, un martire dei «giusti ideali», Guevara ha indubbiamente rappresentato per i giovani di tutto il mondo, un simbolo dell’impegno politico rivoluzionario, purtroppo oggi sovente svilito a semplice gadget o icona da stampare sulle magliette.

Cosa resta del mito del «Che» cinquant’anni dopo la sua morte? Perché questa icona del secolo Novecento resiste ancora?

Forse perché il «Che» rappresentò ideali di coerenza, di purezza e di coraggio disinteressato, un eroe senza macchia per l’Olimpo dei «Miti», quelli che seppero offrire la loro vita per un ideale di giustizia e di uguaglianza. E poi perché gli eroi nel nostro immaginario restano sempre giovani e belli, perché gli anni passano ma i sogni di coloro che lottano per un mondo più fraterno sono senza tempo e non tramontano mai.

Don Mario Bandera