Quei bravi «ragazzi»
testo e foto di Valentina Tamborra e Angelo Anzalone |
Sono donne e uomini tra i 18 e i 28 anni. Percorrono le strade di notte, portano aiuto e sollievo a senza tetto e persone in difficoltà. A chi vive in isolamento, ma già era ai margini prima della pandemia. Siamo stati con loro dal Sud al Nord Italia.
In collaborazione con Croce Rossa italiana (Cri) abbiamo dato vita al progetto «Quei bravi ragazzi, l’Italia che aiuta». Volevamo raccontare l’esperienza e la dedizione dei giovani volontari di Croce Rossa italiana nella loro quotidianità a supporto dei cittadini, in particolare dei più fragili, durante l’emergenza Covid-19.
Abbiamo voluto verificare se è vero che «i ragazzi» sono indifferenti alle sorti del mondo. Abbiamo incontrato uomini e donne fra i 18 e i 28 anni impegnati in attività, come la consegna della spesa, il supporto ai senzatetto e l’assistenza sanitaria in ambulanza in alcune delle aree più colpite della Lombardia, come Legnano, Parabiago, la stessa Milano, e Acireale e Catania in Sicilia.
C’è un elemento che ci ha colpiti in maniera ancora più profonda: l’aggravarsi dell’isolamento di quanti già nella vita quotidiana pre covid vivevano isolati.
Abbiamo lavorato sul campo a Catania e a Milano seguendo i volontari nell’assistenza ai senzatetto, e abbiamo scoperto un mondo parallelo, ignorato, che con l’emergenza pandemia è rimasto ancor di più lontano dai riflettori e in qualche modo abbandonato a se stesso.
Solidarietà milanese
Milano, alle spalle del Duomo, sotto i portici di Galleria Vittorio Emanuele, ma anche tra le vie che costeggiano corso Europa, si consuma una vita parallela: è in questi luoghi che trovano riparo fra portici e androni centinaia di senzatetto. Sono le 20 circa quando da una delle sedi di Croce Rossa italiana, partiamo insieme ai volontari per seguire il loro abituale giro che ci porterà a distribuire cibo e conforto a moltissime persone.
Di notte, quando tutto tace e la città si svuota, sorgono piccoli ricoveri come tende, cartoni e vecchie coperte. Fungono da casa per chi una casa non ce l’ha. È uno scenario che certo abbiamo visto centinaia di volte abituandoci, in qualche modo, a una coesistenza che non dovrebbe esserci. Ma molte delle strutture che normalmente distribuiscono cibo ai più bisognosi sono state costrette a chiudere i battenti a causa della pandemia. E così, in una città ormai svuotata, i soli a incrociare mani e sguardi, a curare i bisogni di chi è rimasto per strada in attesa che l’incubo finisca, sono i «ragazzi» di Croce Rossa italiana e di pochi altri enti.
Prima di recarci per strada passiamo da un ristorante solidale che, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia, ha deciso di aiutare come può chi si trova in difficoltà. Si chiama «Rob de Matt»: un luogo di incontro e scambio situato fra Dergano e Bovisa, zone periferiche della città di Milano.
Un locale che sorge al centro di un delizioso giardino che è anche orto e luogo di ritrovo per famiglie, bimbi, universitari e anziani. Il titolare, Edoardo (Chef e presidente di questa realtà), insieme alla sua squadra, ha preparato durante tutto il periodo della prima ondata di pandemia, circa 150 pasti caldi al giorno.
Pasti consegnati ai volontari di Croce Rossa perché venissero distribuiti nell’abituale giro notturno.
Un rapporto d’amicizia
Recuperato il cibo, è il momento di riunire tutti i volontari e i dipendenti che copriranno il turno della notte.
«Allora, vi ricordate dove sta Francesco? Proprio dietro al Duomo, vicino alla fermata della metro», e inoltre: «E Marina? Marina sta ancora con Alessio? O si sono separati? Dobbiamo trovarli entrambi, sapete che è una situazione delicata».
I nomi, le identità. Il ritorno all’umanità. Qui per strada, mentre nel mondo si parla di etichette, non ci si è mai dimenticati che dietro numeri e statistiche ci sono persone. Il giro fatto dai volontari è sempre il medesimo. Ogni sede di Croce Rossa ha il proprio itinerario così da non lasciare scoperta nessuna zona della città. E ogni volontario è assegnato al medesimo giro perché è importante creare fiducia con le persone che si incontrano. Il cibo, infatti, è solo un pretesto per avvicinarsi, o almeno lo era prima della pandemia, quando c’erano altri enti a distribuire i pasti. I giovani volontari stringono rapporti forti, di reale conoscenza con queste persone che vivono ai margini della società. Prima della pandemia, infatti, non era insolito per i ragazzi fermarsi anche un’ora con una persona. Me lo racconta Tobia Invernizzi, 26 anni, volontario da tre.Gli manca, dice, passare del tempo insieme a quelli che sono diventati in qualche modo vecchi amici. Di cosa si parla di notte, per strada? Quali sono le paure di chi vive in una città che va di corsa, come Milano, e che scavalca spesso con indifferenza coperte e cartoni che per qualcuno sono casa?
Si parla di cose quotidiane. Di amore, di un giornale letto, una notizia di attualità, del pasto consumato il giorno prima, o della diatriba nata per un posto occupato per dormire, posto che era di un altro senzatetto. Si parla di cose umane, e ora, con il Covid, anche questo momento di scambio è a rischio.
Bisogna consegnare il pasto, scambiare due parole e andarsene: niente contatto fisico, nessun abbraccio. Non ci si può sedere vicini, volontario e senzatetto, essere umano ed essere umano, per scambiare due parole, una risata, fumare insieme una sigaretta.
Un cane di nome Stella
«Ma ti ricordi quando ho preso Stella? Era piccola così. Aveva un anno e ora ne ha dodici!»
Stella è una cagnolina nera, somiglia a un bracco. Se ne sta quieta, seduta accanto alle gambe del padrone.
Vivono insieme, in strada, da almeno undici anni.
È uno dei primi scambi di battute cui abbiamo assistito durante la notte per il servizio ai senza dimora.
Un pasto caldo (merluzzo in umido), e un sorriso che raggiunge gli occhi, tanto da cancellare per un attimo quella barriera imposta per nostra e altrui sicurezza: la mascherina. Ci si conosce tutti, in strada. Tra persone che dormono accampate fra tende e giornali, coperte e cartoni, e fra volontari che ogni notte vanno a trovarli per portare cibo, si, ma soprattutto conforto, ascolto, aiuto.
Undici anni di un rapporto che si consuma nella «Milano bene» che, a quest’ora della notte, è ormai svuotata.
Presto arriverà il mattino, farà luce, e allora bisognerà raccogliere le proprie cose e spostarsi in attesa di consumare il giorno e arrivare, nuovamente, all’ora nascosta dal buio.
Paolo prende il suo sacchetto con il cibo, restiamo a parlare ancora un po’, cinque minuti, non di più, perché il Covid ha ridotto questo tempo dello scambio. È una questione di sicurezza, certo, e bisogna rispettarla. Anche qui in strada si distribuiscono mascherine e gel disinfettante. Vengono richiesti, al pari di una coperta, di un panino, di un tè caldo.
Perché l’ansia, la paura, serpeggia anche qui, fra chi al grido «restate a casa» ha potuto rispondere solo rimanendo esattamente dov’era: per strada. Più abbandonato di prima. Più solo di prima.
Fra piazza del Duomo e la periferia, chi vive la strada è rimasto li. Invisibile più che mai.
Il tempo di un abbraccio
Finito il turno, si torna in sede. Che si sia fatto il servizio notturno ai senzatetto o il servizio ambulanza, svolto alla sede di Parabiago (hinterland milanese), ciò che si percepisce ora è stanchezza, sicuramente, ma anche una grande tenerezza e la consapevolezza di aver fatto tutto ciò che si poteva. Ma se lavorando per strada bisogna evitare il contatto a tutti i costi per tutelarsi dal virus, c’è un momento, alla fine del turno in ambulanza, nel quale le barriere, per qualche secondo, possono venire meno.
Con indosso ancora la tuta bianca, i guanti e la mascherina, i ragazzi si lasciano andare a un abbraccio sicuro: il contatto umano, un corpo che si avvicina a un altro, il conforto. Nahomi cerca il suo collega, restano cosi per qualche secondo.
Questa ragazza che studia giurisprudenza e sogna di fare del proprio lavoro una missione, anche nel tempo libero si dona agli altri. Oggi il servizio ambulanza è stato particolarmente duro: un codice rosso, non Covid, ma comunque finito nel peggiore dei modi. Eppure, lei e gli altri ragazzi non desistono: ne vale la pena, sempre. Anche nei momenti più duri, anzi soprattutto in quei momenti.
Guardando questi ragazzi, quel gesto semplice eppure oggi negato, ci si rende ancora più conto di quanto il Covid sia prima di tutto «una malattia dell’amore». Separa, per sicurezza, isola, per necessità. Ma l’essere umano è tale proprio perché animale sociale, proprio perché «l’altro» sia conforto e non timore, non pericolo.
La riflessione più urgente da fare, insieme a quelle su tutte le problematiche connesse a economia e salute, è quella legata al contatto fra persone. Abbiamo necessità di tornare a non temerci, abbiamo necessità di tornare alla vicinanza e alla condivisione. In attesa di poterlo fare, è già molto sapere che, in alcuni luoghi in Italia, sono state istituite «stanze degli abbracci» in alcune Rsa (Residenza socioassistenziale), come a Bollate, nel milanese.
A questo proposito restano impresse le parole di un amico medico: «la medicina deve adattarsi all’essere umano». Non dimentichiamoci, alla fine, che sotto guanti, mascherine, indumenti protettivi, siamo e restiamo, prima di tutto, soprattutto, persone.
La realtà siciliana
Daniela Carbone, consigliere eletta per il comune di Acireale (Catania), è la prima ad accompagnarci.
È lei la responsabile del servizio «pronto spesa e pronto farmaco», iniziativa nata allo scopo di approvvigionare le famiglie svantaggiate e gli anziani in difficoltà.
Il nostro viaggio si snoda tra i magazzini alimentari, scelti tra strutture pubbliche ed edifici sequestrati alla mafia e consegnati a Cri, nei comuni di Aci Catena, Aci Sant’Antonio e Aci Bonaccorsi: è da questi luoghi, sorti a nuova vita, che partono le operazioni di smistamento e consegna cibo alle categorie più fragili.
È proprio Daniela a rivelarci alcuni effetti collaterali e forse meno facili da prevedere di questa emergenza: «Nonostante i numeri dei contagiati, inferiori rispetto alle altre regioni d’Italia, in special modo alla Lombardia, il numero dei richiedenti aiuti alimentari è progressivamente aumentato con l’avanzare delle restrizioni. Il dato non è imputabile al virus in sé ma alle conseguenze dovute alle necessarie limitazioni. In Sicilia il lavoro nero è uno dei principali problemi che da sempre l’attanagliano. Il virus non ha fatto altro che esacerbare un malessere che già preesisteva. Impedendo alle persone di potersi recare al proprio posto di lavoro si è impedito loro di potersi sostenere. Tutte quelle fasce sociali che riuscivano alla meno peggio a “portare a casa la giornata” adesso sono regrediti ad uno stato di semi povertà».
L’elenco degli aiuti è fitto e, tra una casa e l’altra, un vicolo e l’altro, persone di diverso livello sociale e genere attendono il loro cofanetto di alimenti e beni di prima necessità con rigoroso e immobile pudore.
A fine turno una coppia di anziani ultraottantenni attende l’arrivo dei volontari. Uno di questi ultimi ci racconta che i due erano persone molto conosciute in paese perché per anni avevano gestito una piccola bottega di generi alimentari. Al suono del ricordo, però, la coppia scoppia in un pianto amaro rivelando che mai si sarebbero aspettati di finire senza certezze e senza protezione, abbandonati e impauriti, in attesa di finire l’ultimo tempo della loro vita.
Contro emergenza
È una calda domenica di maggio e, dalla sede di Catania, Alberto Leotta ci attende a inizio turno, insieme al suo team, per raccontarci la sua giornata. Non sono previsti interventi oggi, ma una esercitazione, una delle tante da fare necessariamente per mantenere alta la preparazione per una risposta al pronto intervento.
Alberto ci tiene a precisare che, la sede in cui Cri opera, è una importante e lussuosa villa sequestrata nel 1998 a una famiglia mafiosa locale.
Ci mostra tutta la lunga procedura di vestizione che anticipa ogni uscita in ambulanza. «A causa dei tempi lunghi di preparazione e vestizione, il tempo di risposta tra un intervento e un altro si è dilatato».
Il ricordo dei soccorsi è vivo negli occhi di Alberto che fa fatica, ci svela, dimenticherà questo particolare momento storico.
«Quando si ritorna a casa le sera e si sente un po’ di freddo alle ossa, o un po’ di mal di gola, il pensiero inevitabilmente rimanda alla possibilità di aver contratto il virus, di essere diventato un potenziale problema per le persone più care».
Catania, senza dimora
Sono circa 80 i senza fissa dimora che, nei vicoli di Catania, dividono la notte tra gelo e solitudine.
Durante la fase 1 e 2 del lockdown le strutture di accoglienza, mense e ambulatori di assistenza, hanno dovuto barricarsi per evitare il contagio.
L’unità di strada dei giovani volontari di Croce Rossa italiana ha svolto numerose attività di sostegno a favore delle fasce più deboli. Durante la fase 1 del lockdown, Croce Rossa si è posta da tramite tra le varie associazioni per provvedere al fabbisogno di beni di prima necessità: pasti caldi, acqua, indumenti e kit di pulizia. Con l’inizio della fase 2, il 4 maggio, le mense hanno potuto riaprire i battenti così, il servizio di assistenza di Croce Rossa, attraverso ronde settimanali, vigila sulle condizioni sanitarie e psicologiche di tutti gli utenti presenti sul territorio catanese.
«Il cibo è una scusa per monitorare il bisogno dei senza dimora – ci dice Danilo Di Mauro responsabile dell’unità di strada – un legame, il nostro, instaurato nel tempo. Conosciamo le loro storie personali, le loro paure e i loro drammi. Una sorta di famiglia allargata in cui prendersi cura vicendevolmente gli uni degli altri».
Valentina Tamborra e Angelo Anzalone