Aleppo, nella Siria martoriata dalla guerra, è di nuovo preda della violenza. I cristiani si preparano al Natale anche con la solidarietà.
Il cardinale Zenari: «Non abbandonate la Siria». Padre Karakash, «manca tutto ma noi restiamo con la nostra gente. E prepariamo il Natale».
Nella parrocchia di San Francesco ad Aleppo, i fedeli hanno deciso di non cancellare il Natale. Manca tutto, il pane e la benzina, l’acqua e l’energia elettrica. Manca soprattutto la sicurezza che si era faticosamente ricostruita dopo quattordici anni di guerra. Eppure, nonostante l’occupazione della città da parte dei ribelli, la comunità cristiana non vuole perdere la speranza.
«Per un attimo i nostri giovani hanno dubitato di poter fare il presepe, che quest’anno ha come tema il Giubileo della speranza. Ma proprio questo tema li ha spinti a riprendere le forze per continuare la loro opera», racconta da Aleppo padre Bahjat Karakach, frate della Custodia di Terra Santa. Le linee telefoniche siriane da qualche giorno non funzionano, ma resta ancora possibile, almeno per il momento, comunicare via web.
Quindi, nonostante il rumore degli spari fuori dalle finestre, e il fatto che la maggior parte delle persone, coprifuoco o no, resta chiusa in casa per la paura, in questi giorni «decine di persone si sono offerte per pulire la chiesa e così prepararla alle prossime feste, questo aumenta il senso dell’appartenenza alla comunità e infonde sicurezza nei cuori, perché la vita non si ferma ma va avanti», dice padre Bahjat che della chiesa di San Francesco è il parroco.
Con la stessa determinazione, i francescani, dopo che domenica primo dicembre è stato bombardato il Terra Santa College, hanno riaperto, proprio lì, il panificio che distribuisce pane gratuitamente a chi ha bisogno: «Quando si tratta di fare il bene, nessuno ci deve fermare», dice padre Samhar che, insieme al confratello fra Bassam, per primo ha dato l’allarme del raid in arrivo sul college.
Loro due, poi, dopo l’attacco, sono stati gli ultimi ad andarsene dal luogo distrutto. Volevano assicurarsi, insieme ai vigili del fuoco, che l’incendio causato dalle bombe fosse completamente spento.
Ad Aleppo, la situazione ora è calma e drammatica allo stesso tempo. I religiosi raccontano di file di persone per prendere il cibo che ormai scarseggia nei punti vendita. I prezzi sono alle stelle: «Un litro di benzina costa l’equivalente di uno stipendio», spiega padre Bahjat. Nelle file dei disperati ci sono gli impiegati pubblici «ai quali non è stato pagato lo stipendio di novembre e che per il momento sono senza impiego».
Fuggire da Aleppo è difficile, se non impossibile: è percorribile un’unica strada, ma ci può volere anche una intera giornata per riuscire a uscire dalla città.
I ribelli che hanno preso possesso della città «mandano messaggi di tolleranza, istituiscono commissioni di sicurezza, si rendono disponibili a ogni richiesta», racconta ancora il religioso, ma la gente non si fida. Le cicatrici degli ultimi anni di guerra, con i bombardamenti sui civili e anche le restrizioni imposte dai jihadisti alle minoranze religiose, tra le quali quella cristiana, fanno ripiombare in un incubo.
Di qui l’appello del Nunzio, il cardinale Mario Zenari, che da Damasco chiede: «Non dimenticate la Siria, purtroppo il Paese era scomparso dai radar dei media, adesso è tornato. E allora vi chiedo: non abbandonate la Siria che sta soffrendo enormemente. In quattordici anni di guerra c’è stato mezzo milione di morti e tredici milioni di sfollati. Ora aumenteranno. Non dimenticate la Siria», ripete l’ambasciatore del Papa.
La voce, via telefono, va e viene, ma Zenari ci tiene a scandire più volte il suo appello al mondo: «Rivolgo un pressante appello alla comunità internazionale perché la Siria ha un ruolo importante nel Medio Oriente. Se non è aiutata, questa instabilità rischia di propagarsi», avverte. E deve essere aiutata anche la comunità cristiana che «ha un ruolo importante, ed è qui da prima dell’islam. Ha fondato scuole, ospedali, e i politici cristiani hanno dato un apporto significativo al progresso del Paese. Adesso bisogna aiutarli a restare, ma senza lavoro, senza un futuro, è difficile.
Benché non perseguitati, due terzi dei cristiani, negli anni di questa guerra, sono partiti. E questo è un fatto grave, un guaio per l’intera società siriana», conclude il cardinale Zenari.
Non sono mai andati via invece i religiosi, suore e frati, sacerdoti e vescovi. Restano lì anche i diversi missionari, dai religiosi del Verbo Incarnato alle suore di Madre Teresa di Calcutta. Sempre accanto alla loro gente, anche nei momenti più difficili.
Sabato 30 novembre, quando la situazione stava chiaramente per precipitare, tutti i vescovi di Aleppo, dei vari riti e confessioni, nel mosaico delle tradizioni religiose che in Medio Oriente è sempre stato una ricchezza, si sono rapidamente consultati per decidere il da farsi. «Abbiamo deciso di rimanere tutti con la nostra gente», ha riferito monsignor Hanna Jallouf, vescovo dei cattolici di rito latino. Si va avanti insieme sperando che anche ad Aleppo il Natale porti pace e serenità.
Manuela Tulli
«Cacciati come bestiame dai coloni»
La Cisgiordania (West Bank) dovrebbe essere palestinese. In realtà, è occupata da Israele con oltre 500mila coloni. Siamo andati a cercare di capire una situazione che è ingiusta ed esplosiva.
Arrivo in Cisgiordania passando dal valico di «King Hussein bridge», in Giordania. Normalmente, la coda per attraversare il confine è chilometrica. Oggi siamo soltanto in tre a entrare. Il confine, di solito, è affollato da cooperanti, palestinesi che vivono all’estero e viaggiatori. Dal 7 ottobre – giorno dell’attacco di Hamas e dell’inizio della nuova guerra – è semideserto. Quello che sta accadendo a Gaza ha fatto lasciare la Cisgiordania a quasi tutte le Ong straniere.
Per entrare bisogna passare molti controlli, il primo check point israeliano è quello più complicato. Rimango in attesa per circa tre ore, prima di essere interrogato. Mi vengono fatte le domande più disparate: da quelle personali, ai dettagli tecnici sulla mia presenza qui.
Passato il posto di frontiera, i controlli non diventano più facili. Nelle ultime settimane i militari hanno chiuso moltissime strade: a volte ci vogliono sei ore per un percorso che, normalmente, si potrebbe fare in un’ora.
La Cisgiordania è sempre stata un punto nevralgico per tutto il Medioriente. Quello che accade qui ha eco anche in tutte le nazioni confinanti o vicine: Giordania, Egitto, Libano.
Gli scontri, soprattutto in contrapposizione all’occupazione e all’espandersi delle colonie israeliane in Palestina (riconosciute illegali dalle Nazioni Unite nel 1979 con la risoluzione n. 446), sono quasi quotidiani. È proprio dopo l’arrivo delle colonie che sono nati alcuni dei movimenti armati che conosciamo oggi: la Pij (la Jihad islamica) nel 1979, Hamas a Gaza nel 1987.
Nel 2000, iniziando da Gerusalemme e poi espandendosi in Cisgiordania, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, è scoppiata la seconda intifada. Una rivolta che sarebbe durata cinque anni. Al termine di quel conflitto, sarebbero state circa 1.300 le vittime israeliane e più di 6.000 quelle palestinesi, la metà di loro civili, annoverate nelle statistiche come «vittime collaterali». In quegli anni di intifada, sono nati altri gruppi armati come le brigate di al-Aqsa, movimento formatosi alla fine del 2000.
Da 75 anni, cioè dalla «Nakba» del 1948, quando oltre 750mila palestinesi furono costretti ad abbandonare le proprie terre, tra periodi più quieti e picchi di violenze, la tensione in questa parte del mondo non si è mai attenuata.
Cosa accade oggi dopo gli eventi del 7 ottobre? Quali sono le conseguenze dei bombardamenti a Gaza su questa parte della Palestina, soprattutto in quei territori da sempre contesi tra palestinesi e coloni?
«Cacciati come bestiame»
A Ramallah ha sede una commissione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiamata «Colonization & wall resistance commission». Si occupa di fornire assistenza legale e aiuto a tutte quelle persone aggredite dai coloni o che si ritrovano le proprie terre occupate abusivamente. Oltre ai dipendenti governativi, questo gruppo è formato da volontari, anche internazionali, che attuano una resistenza pacifica all’espansione delle colonie. Qui incontro uno dei responsabili: Abu Hasen.
Già tre volte è stato arrestato dai militari israeliani. La detenzione più lunga è stata durante la seconda intifada. Quando gli chiedo il perché dell’arresto, stringe le spalle sorridendo: «Non c’è quasi mai un perché. Li chiamano reati amministrativi. Può essere di tutto: da un post su internet a una parola detta male, a una resistenza a perquisizione. Siamo palestinesi, questo basta per essere arrestati».
Continua raccontandomi: «Devi capire che qui ora è cambiato tutto. Non dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, come molti pensano, ma dal dicembre 2022. L’anno scorso, infatti, Ben Gvir (ministro della sicurezza nazionale israeliano, ndr) ha annesso i coloni nella riserva dell’esercito. I settlers (così come vengono chiamati qui gli abitanti delle colonie) per anni, con il benestare di Israele, hanno preso la nostra terra e perpetrato continui attacchi volti a sfinire la popolazione. Il fine è quello di spingerci ad abbandonare tutto e andare via, un po’ come è successo nel 1948. Accorpando queste persone alle forze armate, hanno praticamente legittimato i coloni ad avere armi e a usarle contro di noi, senza temere nessun tipo di ripercussioni.
A seguito di raid e attacchi, sia da parte dell’Israel defence forces che dei settlers, in Cisgiordania sono state uccise 189 persone, più di 8mila sono stati i feriti. Questo accadeva prima del 7 ottobre. Io non sono mai stato un sostenitore di Hamas, sono membro di Al-Fatah, ma so che quello che ha fatto Hamas è stata la risposta a questa legge e a tutte le morti che ha causato».
Solo un mese fa, Abu Hasen ha subito un nuovo arresto. La detenzione è stata di nove ore durante le quali, però, l’uomo è stato interrogato con metodi di tortura di cui porta ancora i segni addosso.
«Con il nostro gruppo cerchiamo di aiutare e difendere chi continuamente subisce soprusi dai coloni. Mi trovavo vicino a un campo di beduini, da tempo i coloni cercano di espropriarne le terre per continuare l’espansione. Eravamo lì per impedirlo. Sono arrivati i soldati, ci hanno interrogato, hanno trovato un coltello e mi hanno arrestato. Il coltello era un semplice coltello da cucina, ce l’avevamo perché eravamo lì accampati e abbiamo cucinato sul fuoco. Mi hanno portato in una delle tende dei beduini, mi hanno colpito con il calcio del fucile sulla testa, più volte. Mi hanno urinato addosso, preso a calci. Poi mi hanno ordinato di mangiare gli escrementi delle capre. Mi hanno insultato e urlato che ero un terrorista di Hamas. Ho chiesto loro di smetterla tentando di spiegare che io non c’entravo nulla con Hamas, ma loro hanno continuato.
Penso mi abbia salvato solo il fatto che parlo ebraico. Ho cominciato a spiegarmi nella loro lingua e poi, dopo nove ore, mi hanno lasciato andare. Il risultato è che ora non torno più a casa. Sono così traumatizzato che, quando non dormo in quest’ufficio, cambio luogo ogni notte per paura che mi vengano a prendere».
Gli chiedo: che messaggio vorresti dare a chi conosce poco la storia di questi luoghi? «Sembra che, per Israele, l’unica soluzione possibile sia quella di mandarci tutti via da questa terra, mandarci in Egitto, in Giordania, come se fossimo bestiame. Io vorrei dire che siamo esseri umani anche noi, così come gli ucraini. Perché per loro tutta la comunità internazionale si è mobilitata e per noi no? Sto vedendo in tutto il mondo le manifestazioni, in nostro supporto, per denunciare il genocidio che stanno compiendo a Gaza. Questo a noi dà molta forza. Secondo me, il cambiamento si avrà solo quando in Occidente le persone, ognuna nella propria nazione, si faranno valere contro quei governi che appoggiano Israele».
A Taybeh, villaggio cristiano
Per verificare le storie di Abu Hasen, decido di andare nei villaggi da lui menzionati. Mi trovo a circa trenta chilometri da Gerusalemme, nel villaggio di Taybeh. Taybeh è l’unico villaggio, in Palestina, ad essere interamente abitato da cristiani. Oggi ci vivono appena 1.300 persone, sono 8.000 invece i suoi cittadini residenti all’estero. Il nome Taybeh è stato dato al villaggio durante il dominio di Saladino. In antichità invece, la cittadina era conosciuta come Efraim, città della Samaria dove, come riportato nel Vangelo di Giovanni, Gesù dimorò alcuni giorni prima della passione.
In una delle vie del paese, incontro padre Jack Nobel, sacerdote della chiesa cattolica greco-melchita di San Giorgio. Padre Jack ha studiato a Roma e, in un perfetto italiano, mi racconta: «Qui siamo tutti cristiani: melchiti, cattolici latini e ortodossi. Prima della guerra, c’erano tantissimi pellegrini che si fermavano a Taybeh, sulla via o di ritorno da Gerusalemme. Io ho sempre detto a tutti i turisti che passavano: “Pensate, voi qui potete andare e viaggiare ovunque e muovervi liberamente. Io, nonostante sia un sacerdote, nonostante parli diverse lingue correttamente, non sono libero di andare in pellegrinaggio a pregare in Terra Santa. Questo perché sono palestinese”. La situazione ora, ovviamente, è peggiorata. I continui attacchi dei coloni, soprattutto durante la raccolta delle olive, hanno spaventato davvero tantissima gente».
Gli chiedo: perché tanta violenza verso di voi, padre? Chi sono esattamente i coloni e cosa vogliono? «Questa è una storia lunga decenni. I coloni, in Israele, sono conosciuti come: “hilltop youth” (i giovani delle colline). Sono estremisti di destra, gente violenta che Israele non vuole, e quindi li spedisce da noi. Quello che vogliono è semplice: che ce ne andiamo. Per loro questa terra gli spetta di diritto, perché promessa da Dio». L’ideologia degli hilltop youth prende ispirazione dal partito clandestino ebraico del Brit HaBirionim («Alleanza degli uomini forti») e dal cananismo, entrambi movimenti attivi tra gli anni ’30 e ’40. Il pensiero di questi gruppi si ispirava al regime fascista di Benito Mussolini.
Continuando a camminare per il villaggio, la gente del luogo mi indica la casa di Eliana e Khalil, una coppia cristiana recentemente aggredita dai coloni. I due gentili anziani mi accolgono alla porta. Khalil ha 77 anni, Eliana 69. Lei porta una vistosa fasciatura al braccio. Mi offrono del caffè e dei dolci.
La donna racconta: «Il 26 ottobre stavamo raccogliendo le olive. Alle nostre spalle sono arrivati dodici settlers. Hanno cominciato a distruggerci l’attrezzatura e a prenderci a bastonate. Avevano delle lunghe spranghe con delle punte di metallo. Hanno cercato di colpirmi in testa, io mi sono riparata con il braccio e così me lo hanno rotto in due punti. I coloni ci hanno sempre provocato. Spesso troviamo i terreni danneggiati, gli alberi d’ulivo tagliati o bruciati. Ci lanciano sassi e bottiglie contro la casa, ma delle aggressioni con tanta violenza non c’erano ancora state qui. In questa situazione, nemmeno i nostri figli possono raggiungerci perché, con tutti check point e le strade chiuse, viaggiare per i palestinesi è diventato impossibile. Poi però vediamo quello che accade a Gaza, e allora ci riteniamo fortunati».
Le immagini dei martiri
Mentre continuo le interviste attraverso i villaggi di questa zona, mi arriva la notizia che ad Al Am’ari, il campo profughi alla periferia di Ramallah, c’è stato un altro attacco delle forze dell’Idf. Decido di rientrare per documentare la situazione. Al Am’ ari è uno dei campi più piccoli di tutta la Cisgiordania, oggi ci vivono 15mila persone. Questi campi sono soggetti a raid e arresti continui perché, secondo le forze di sicurezza israeliane, sono rifugio di molti combattenti palestinesi.
Entrando in questi luoghi, le prime cose che si notano sono le fotografie. Ci sono immagini ovunque, quasi sempre di giovani ragazzi: foto sui poster, volti disegnati sui muri, fotografie appese alle insegne dei negozi, spille raffiguranti dei volti: sono i martiri. I martiri non sono sempre combattenti, è considerato martire chiunque abbia perso la vita durante gli scontri, i raid e gli arresti da parte di Israele.
Alcuni bambini, sorridendo, mi mostrano la loro medaglietta raffigurante una delle vittime. L’ultima, in ordine cronologico: Mohannad Jad Al-haq, ucciso il 9 di novembre. I bambini mi conducono nella casa dove vive la sua famiglia, invitandomi a bussare.
Qui incontro la madre di Mohannad e il fratello: «Mio fratello non aveva fatto davvero nulla. Non si è mai interessato di politica, non aveva mai avuto a che fare con la resistenza. Stava andando a lavorare quella mattina, erano le sette e trenta, si trovava per strada quando è cominciato il raid. Ha chiamato la moglie per dirle di rimanere a casa, perché i militari israeliani stavano entrando nel campo. È stato raggiunto da un proiettile allo stomaco, è morto in ospedale in seguito alle ferite riportate. Il medico ci ha detto che era stato colpito da un proiettile “dum dum”». I «dum dum» sono pallottole a espansione. Sono cioè progettate per espandersi all’interno del corpo del bersaglio, aumentando così la gravità delle ferite.
Sua madre Khadija, orgogliosa, mi mostra la medaglietta che ha al collo con la foto del figlio: «È il terzo ragazzo a morire nel gruppo degli amici di Mohannad. Nessuno di loro si è mai interessato alle fazioni politiche. Siamo gente semplice che vuole lavorare. Quando Mohannad è morto tutti piangevano, ma io no, sorridevo. Perché Dio mi ha dato la forza di sopportare tutto questo».
Angelo Calianno
Siria. Terroristi passati e futuri
Siamo entrati in una prigione del Rojava per incontrare un ex terrorista dell’Isis. L’organizzazione islamista è in ritirata, ma non è morta. Se lo stato curdo dovesse cadere, potrebbe tornare a farsi minacciosa.
Raqqa (Rojava). Sono passati cinque anni da quando la resistenza curda cacciava i terroristi dell’Isis fuori dalle città principali del Rojava, nel Nord Est della Siria. I combattenti dell’Ypg (Unità di protezione popolare) e dell’Ypj (Unità di protezione delle donne) riconquistavano le città di Raqqa, Kobane, Deir ez-Zor e Qamishle. Riprendevano possesso di territori diventati, nei quattro anni di occupazione dei militanti dello Stato islamico (Isis, o Daesh, acronimo arabo di «Stato islamico dell’Iraq e del Levante»), teatro di esecuzioni di massa, torture e distruzione.
Sono passati cinque anni e, oggi, la domanda è: i terroristi dell’Isis sono stati davvero sconfitti o si stanno solo nascondendo in attesa di riorganizzarsi? Qui in Rojava, gli attentati sono diminuiti, ma non sono mai cessati del tutto. Un ulteriore intensificazione del terrorismo sta avvenendo proprio in questi mesi, complici una nuova serie di bombardamenti da parte della Turchia e le conseguenze del devastante terremoto di febbraio. Questi eventi hanno favorito la fuga di diversi detenuti, riunitisi, in seguito, alle cellule terroristiche nascoste.
Per comprendere meglio lo stato delle cose, ho chiesto alle autorità curde di poter intervistare uno dei detenuti.
Dopo diverse settimane di controlli delle mie credenziali, colloqui e incontri con le autorità, riesco ad avere il permesso di parlare con un prigioniero, un uomo che aveva militato nelle file dell’Isis fino al suo arresto, avvenuto nel 2017, e che, prima della sua radicalizzazione, aveva anche vissuto e studiato in Italia.
L’ex terrorista sta scontando la sua pena nel carcere di al-Hasakah, il più grande del Rojava. Qui si trovano 3.500 detenuti di cui 700 minori, ragazzi soprannominati «i cuccioli del califfato».
Le misure di sicurezza sono tantissime. Proprio qui, il 20 gennaio 2021, un gruppo armato attaccò il carcere causando un’evasione di massa. L’attacco si trasformò in una battaglia, durata nove giorni, che vide la morte di 140 persone, tra guardie del carcere e forze dell’ordine.
Per questo costante stato di pericolo, vengo perquisito a fondo e scortato da alcuni militari.
Dentro il carcere
Ad accogliermi c’è Omar (nome di fantasia), uno dei responsabili della sicurezza. A lui, chiedo di parlarmi della situazione attuale: «In Rojava deteniamo la maggior parte dei terroristi del Daesh, arrestati durante le operazioni di questi anni, operazioni che ancora continuano in tutto il territorio. Ci sono sempre tentativi di fuga. Qui, ce ne sono stati almeno venti negli ultimi due anni.
Come hai potuto vedere, i bombardamenti da parte della Turchia non favoriscono il nostro lavoro. Erdogan, e i capi dello Stato maggiore turco, per anni si sono scontrati con noi ma, capendo che il popolo curdo resiste e combatte, stanno tentando questa nuova tecnica: debilitare la sicurezza attorno alle strutture di detenzione, favorendo la fuga di potenziali terroristi che possono attaccarci dall’interno, mentre la Turchia prova a invaderci».
Gli chiedo: anche le famiglie dei detenuti, quelle rinchiuse nei campi profughi, sono considerate alla stregua di terroristi?»
«Le misure di sicurezza nei campi sono più leggere. All’interno di un territorio delimitato, quelle persone possono muoversi come vogliono, ricevono cibo e assistenza medica. Cerchiamo di trattare anche le famiglie dei terroristi con umanità ma, personalmente, credo che la maggior parte di loro siano terroristi. A parte la mia opinione, in questi campi troviamo continuamente, durante le perquisizioni, armi nascoste tra le tende. Purtroppo, la maggior parte delle radicalizzazioni oggi, avvengono proprio nelle prigioni e nei campi di detenzione, è un processo difficile da evitare. Possiamo dividere i criminali in base al grado di pericolosità, attuare misure di isolamento, ma parliamo di migliaia di persone, è un’impresa impossibile da raggiungere con le nostre risorse. Ora incontrerai uno dei prigionieri, io sarò dietro di te, armato, pronto a intervenire in qualsiasi caso. Potrai chiedergli quello che vuoi, tranne informazioni sulla prigione, domande a proposito dei suoi compagni o qualsiasi cosa possa rivelare la logistica del carcere. Inoltre, non potrai dire nulla su quello che accade al di fuori di qui, niente notizie sulla situazione politica o particolari sulle nostre misure di sicurezza».
Incontro con Adnan, carcerato ed ex terrorista
Due soldati accompagnano un uomo, incatenato mani e piedi, verso la stanza messa a disposizione per l’intervista.
L’ex terrorista ha la testa coperta da un cappuccio nero, è visibilmente molto magro. Tolto il cappuccio, ci presentiamo. Pronuncia le sue prime frasi in un italiano quasi perfetto, ma preferisce continuare l’intervista in arabo. L’uomo dice di chiamarsi Adnan Bu Zedi, ha 39 anni ed è di nazionalità tunisina. Si trova in carcere dal 2017. Adnan è laureato in matematica. Dopo l’università, grazie a un programma interculturale, si è specializzato studiando a Roma e a Siena. Adnan ha vissuto in Italia quattro anni, dove ha anche lavorato, come commesso, per una famosa catena di negozi di abbigliamento.
«Sono stati molto belli i miei anni in Italia. Quando sono arrivato ero sì, musulmano, ma non molto praticante. Nemmeno la mia famiglia è stata mai molto religiosa», mi racconta.
La storia della radicalizzazione di Adnan comincia dal suo ritorno in Tunisia, nel 2011, durante le proteste della Primavera araba. «Sono tornato in Tunisia perché dovevamo fare qualcosa contro la corruzione e la povertà. La religione non aveva nulla a che fare con le mie azioni. Io volevo solo avere una vita normale, ma la situazione di quegli anni non ci permetteva di pensare al futuro, per questo erano cominciati gli scontri e le proteste. In quei giorni però, ho conosciuto dei ragazzi che mi hanno introdotto alla moschea e ai movimenti più radicali.
È stato facile avvicinarmi alla religione. Stavo vivendo un momento personale molto brutto. La mia fidanzata mi aveva lasciato, ero senza lavoro, avevo litigato con la mia famiglia e, di conseguenza, ero sprofondato in una brutta depressione. Questo è stato il motivo per cui mi sono avvicinato alla moschea, ad Allah e ai miei compagni. Ho trovato conforto e una nuova famiglia: mi sentivo parte di qualcosa.
Qualche tempo dopo, uno dei miei nuovi amici alla moschea, mi ha parlato della Siria. La guerra stava devastando il paese, c’era bisogno di riportare la parola di Allah in quelle terre e così, siamo partiti. Il nostro viaggio è stato interamente pagato da un benefattore (15mila dollari), leader del nostro movimento. Sono arrivato a Istanbul con regolare visto turistico. In seguito, illegalmente, con i miei compagni abbiamo passato il confine per arrivare in Siria. Lì è cominciata la nostra opera. Tutto questo è avvenuto prima dell’arrivo del Daesh. Il nostro gruppo non era violento, quello che facevamo era semplicemente predicare per strada, nelle moschee, e avvicinare i ragazzi più giovani all’Islam “giusto”. Quello è stato un bel periodo per me, economicamente stavo molto bene, tanto che mi sono riappacificato con la mia famiglia, alcuni di loro mi hanno anche raggiunto in Siria. Il movimento si sciolse dopo circa un anno, il nostro leader si era ammalato gravemente. Quindi, ho trovato un lavoro presso un distributore di benzina. Subito dopo, ho sposato una ragazza siriana.
Alla fine del 2013, alcuni miei amici mi hanno chiamato dicendomi che si stava formando una nuova organizzazione, un gruppo che avrebbe riportato ordine e la parola di Allah in Siria: era nato il Daesh. Mi sono trasferito a Raqqa e mi sono unito ai miei nuovi compagni. Io ho l’asma e, per l’Islam, chi è infermo non può combattere. Mi occupavo della logistica, soprattutto della ricerca di alloggi e infrastrutture per i combattenti».
In quei giorni, il Daesh si macchiava di orrendi crimini. Venivano uccise centinaia di persone senza motivo. Chiedo ad Adnan: vedendo questo, non hai mai avuto ripensamenti? Lo trovavi giusto? «Ho più volte avuto dei ripensamenti e considerato di poter tornare in Tunisia. I miei compagni, però, erano molto bravi a farmi cambiare idea. Devo dire che il fattore economico aveva un grosso peso: fino a quando eravamo affiliati, non avevamo mai problemi di soldi. Ci tengo a dire che, per me, le uccisioni erano sbagliate, perché nel Corano è scritto che non bisogna uccidere. Certo, ci sono alcuni casi in cui la violenza è necessaria: se, ad esempio, una donna tradisce, merita di morire; se un uomo ruba, è giusto che gli venga tagliata una mano».
Nel 2017, quando l’Isis cominciava a indebolirsi, Adnan, sua moglie e due figli, denunciati da un ex compagno «pentito», sono stati arrestati mentre cercavano di scappare verso la Tunisia.
Quando gli chiedo come si sente oggi e cosa farebbe se mai dovesse uscire dal carcere, mi risponde: «In galera ho capito il senso della vita. Se mai dovessi uscire, la mia priorità sarebbe quella di tenermi fuori dai guai, lontano dai problemi. Vorrei avere una vita tranquilla. La prima cosa che farei sarebbe quella di mangiare del miele, mangerei un po’ di miele ogni giorno, mi manca il suo sapore, non l’ho più assaggiato da quando sono qui».
Reem, la signora della pace
Lasciato il carcere di al-Hasakah, torno a Raqqa, quella che è stata la roccaforte dell’Isis per quattro anni. Qui sono state migliaia le persone, considerate «infedeli», giustiziate dal Daesh.
Cosa è successo a tutti quelli che, in qualche modo, sono sopravvissuti ai giorni di occupazione dei terroristi? Come vivono oggi? Quali sono le loro speranze per il futuro?
Una delle persone più adatte a rispondere a queste domande è Reem, una donna che ha fondato una piccola Ong che si prende cura delle vittime del terrorismo: persone che hanno avuto danni psicologici e fisici, gente che ha perso lavoro e famiglia. Grazie a un team di 37 volontari tra medici, psicologi e insegnanti, Reem cerca di guarire la ferita profonda lasciata dalla guerra. Per il suo impegno, molti poeti siriani le hanno dedicato delle odi, soprannominandola «Lady Peace» (signora della pace).
Mi racconta: «Pochi si rendono conto dei danni psicologici che il Daesh ha provocato e continua a provocare. Sono tantissime le persone che fanno fatica a uscire di casa, a causa dei traumi subiti durante i giorni di occupazione. Io sono una di loro. Vengo da una famiglia cristiana, mi sono convertita per sposare mio marito. A casa avevo una statua della Madonna e, per questo, un giorno degli uomini hanno fatto irruzione e distrutto tutto a colpi di mitragliatrice: tutti i miei ricordi.
Mentre provavo a lasciare Raqqa, una pattuglia del Daesh ci ha bloccato per strada prendendo a bastonate il taxi che ci trasportava: il motivo era che mia figlia, di 15 anni, non indossava un burqa integrale. Sono stati giorni tremendi, non ci si poteva fidare di nessuno, molti erano pronti a denunciarti anche solo per ottenere un pasto caldo. Un giorno, nel mio quartiere, hanno radunato tutti gli uomini non musulmani e quelli sciiti e, davanti ai nostri occhi, li hanno decapitati. Dopo aver assistito alla scena, la moglie di uno di quegli uomini è morta sul colpo, stroncata da un infarto.
Io, per l’ansia, da allora esco raramente e ho cominciato a fumare moltissimo. Ho ancora paura che quacuno mi possa fermare per strada e uccidere. Per la mia attività, per quello che ho deciso di fare aiutando le vittime del Daesh, sono in cima alle loro liste delle persone da eliminare. Per questo preferisco che non mi si veda in volto».
Torture e indottrinamento
Camminando per Raqqa, sono tantissimi i luoghi che portano le cicatrici della guerra contro il terrorismo. Centinaia sono i palazzi distrutti per essersi trovati in mezzo alla linea di fuoco nei combattimenti tra i terroristi e la coalizione internazionale. Malgrado le case siano ad alto pericolo di crollo, sono comunque occupate abusivamente. Molte di queste abitazioni hanno subito ulteriori crolli dovuti al terremoto del 6 febbraio, evento che ha ucciso migliaia di persone in Siria, molte nemmeno registrate come cittadini. Le uniche alternative, per chi ha perso tutto, sono l’occupazione abusiva o la vita in una tenda di un campo profughi.
Uno dei luoghi più noti per la detenzione, e le esecuzioni dell’Isis, è stato lo stadio di calcio di Raqqa. Un guardiano mi apre il cancello, mi mostra le stanze dove i terroristi tenevano gli «infedeli». Persone catturate perché non avevano osservato la sharia, o semplicemente perché di un’altra religione.
Qui incontro Majid, sunnita, uno dei ragazzi che, in queste celle, ha passato mesi. «Nel 2014 – racconta – il Daesh aveva distrutto la chiesa dei Santi Martiri, qui a Raqqa. Allora io, insieme a tanti musulmani, sciiti e sunniti, e a cristiani di varie confessioni, sono andato lì per rimettere su la croce, in segno di protesta contro l’occupazione. Sono stato arrestato in quell’occasione. Non mi sono mai tirato indietro contro le ingiustizie, ho sempre cercato di far sentire la mia voce con proteste pacifiche. Ovviamente, questo dava molto fastidio e così mi hanno arrestato e torturato. Le torture si alternavano a tentativi di indottrinamento. I primi giorni mi trattavano bene, mi davano molto da mangiare e, in seguito, mi parlavano a lungo del motivo per cui mi sarei dovuto unire al Daesh. Quando mi sono rifiutato, una delle prime volte, mi hanno legato, incappucciato e lasciato nel centro del corridoio, proprio qui all’ingresso degli spogliatoi dello stadio. Tutti quelli che passavano mi picchiavano, mi tiravano calci in testa, nelle costole, sulla schiena. Sono rimasto in quello stato per diversi giorni.
Poi, ancora nuovi tentativi di conversione e nuove torture. Una delle peggiori che ricordo è chiamata al-Shabh («il fantasma», in arabo), una tortura che consiste nell’essere appeso con le braccia in tensione dietro la schiena. Sono stato lasciato così quasi un giorno. Sono stato accusato di essere sciita, perché nella mia famiglia ci sono diverse persone che si chiamano “Alì”. In seguito, mi hanno accusato di essere comunista, ateo e di aver combattuto con i partigiani curdi».
«Durante quel periodo, mi sono gravemente ammalato di dissenteria. I miei carcerieri mi davano solo un minuto per poter andare in bagno, puoi immaginare le condizioni igieniche. Sulla porta della mia cella, con delle pietre, avevo disegnato un ideale passaggio rappresentato da un arco con dei fiori. Quell’immagine mi ha dato speranza. Sono rimasto imprigionato per 5 mesi e 20 giorni. Sono stato liberato perché la mia famiglia ha pagato un riscatto. Ancora oggi però, soffro di attacchi di ansia. Dormo pochissimo e ho continuamente incubi. Ci sono dei suoni che mi scatenano ancora terrore: il tintinnio delle chiavi, il rumore di un cancello che si apre, dei passi lungo il corridoio. Chi è sopravvissuto fisicamente all’Isis, dentro ha ancora delle ferite inguaribili».
Oggi Majid lavora in diversi campi di rifugiati in tutto il Medio Oriente. Si occupa di portare avanti progetti d’arte e pittura con i bambini che hanno perso casa e famiglia. Come prima immagine, quando si presenta ai ragazzi, mostra quell’arco con i fiori che gli ha dato speranza durante la prigionia.
Chi sostiene l’Isis
Oltre ai bombardamenti ordinati da Erdogan, a favorire l’Isis ci sarebbe anche Assad con il suo regime. Il presidente della Siria, secondo diversi comunicati dell’intelligence curda e Usa, decidendo di non intervenire in alcun modo per contrastare i terroristi dello Stato islamico, ne favorirebbe la circolazione e la sopravvivenza. Un recente dossier del Washington Institute (un centro studi statunitense sul Medio Oriente, ndr), parla anche di veri e propri finanziamenti in denaro e fornitura di armi.
Così come Erdogan, anche Assad auspica il crollo della democrazia del Rojava, cosa che gli darebbe la possibilità di occupare i territori del Nord Est, molto ricchi di petrolio.
Malgrado non ci sia più una vera occupazione da parte del Daesh, e la maggior parte delle cellule terroristiche si sia rifugiata nelle zone rurali e sulle montagne, il pericolo del terrorismo è ancora reale. Proprio nella struttura governativa curda, che mi ha ospitato a Raqqa, il 26 dicembre 2022 i terroristi dell’Isis hanno fatto irruzione, uccidendo sei persone.
A seguito di questo attacco, una nuova operazione antiterrorismo, effettuata dall’Sdf (Syrian democratic force), chiamata «Per i martiri di Raqqa», ha portato all’arresto di 32 terroristi e di decine di complici che ne favorivano la latitanza.
A oggi, sono 55 i villaggi sospettati di ospitare e sostenere gli uomini dello Stato islamico. Negli ultimi tre anni, grazie agli interventi dell’Sdf, sono stati sequestrati centinaia di milioni di dollari in contanti, nascosti da alcuni «facilitatori» che si occupavano degli aspetti finanziari del terrorismo islamista.
Malgrado la comprovata efficienza delle operazioni militari, moltissimo c’è ancora da fare, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto umanitario che coinvolge profughi e detenuti. Campi di detenzione e carceri rischiano di essere, secondo il parere dei vertici dello Stato maggiore curdo, degli incubatori per i terroristi di domani.
Angelo Calianno (seconda parte – fine)
Dopo i 45mila morti del terremoto
La tragedia e il cinismo di Erdogan e Assad
I l devastante terremoto che, il 6 febbraio 2023, ha colpito il Sud Est della Turchia e il Nord Ovest della Siria, rischia di influire pesantemente anche sugli equilibri geopolitici del Medio Oriente.
Per quanto riguarda la Turchia, la zona colpita, una delle più povere del paese, è abitata per la maggior parte da curdi. Città come Salinurfa e Gaziantep, sono da sempre i centri principali dei movimenti di opposizione a Erdogan. Con le elezioni alle porte, previste prima per giugno 2023 ma, molto probabilmente, anticipate al 14 maggio, il presidente turco potrebbe usare il controllo degli aiuti come mezzo di propaganda. Erdogan si gioca molta della sua credibilità nella gestione di questa emergenza. In Turchia, la consapevolezza del rischio di un terremoto di questa entità esisteva da anni. Il governo parla di 4,2 miliardi di euro, spesi negli ultimi 20 anni, per la messa in sicurezza di case e infrastrutture. I partiti di opposizione rispondono che, visto quello che il sisma ha causato, quei soldi sono stati spesi in alcune zone piuttosto che in altre, svantaggiando i curdi, i nemici di sempre di Erdogan.
Le elezioni anticipate potrebbero giocare molto a sfavore dell’attuale presidente, ma anche per l’opposizione, che non ha ancora un leader abbastanza carismatico da contrapporre a Erdogan.
In Turchia sono arrivati volontari da tutto il mondo. La macchina degli aiuti si è mossa velocemente. Nonostante questo, al momento (6 marzo), sono oltre 40mila le vittime di questo terremoto.
Ancora più complicata è la situazione in Siria. Il terremoto, oltre alle migliaia di vittime dovute allo stato precarissimo delle costruzioni, ha causato l’ennesima evasione di terroristi dello Stato islamico da alcuni dei centri di detenzione. Inoltre, la Siria è ancora uno stato sottoposto a sanzioni, quindi, l’ingresso di aiuti umanitari e invio di denaro è molto complicato.
Il ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Wally Adeymo, ha dichiarato sospese, almeno temporaneamente, alcune delle penalizzazioni nei confronti del paese, per permettere l’ingresso alle organizzazioni umanitarie.
Tuttavia, i soccorsi sono arrivati e stanno arrivando molto in ritardo. Le Nazioni Unite ne hanno posticipato l’invio per il timore che Assad possa usare il coordinamento degli aiuti come ulteriore arma per rafforzare il proprio regime, e controllare quelle aree ancora a lui ostili. In questo momento, le Ong stanno cercando un modo per inviare denaro, e supporto, direttamente alle organizzazioni umanitarie già presenti in Siria (come, ad esempio, i volontari White Helmets), evitando così che tutto debba passare al vaglio di Damasco. A questo, si sono opposti Iran e Russia, alleati del presidente Assad.
A oggi, sono quasi seimila le vittime in Siria, numero destinato drammaticamente a salire, poiché sono davvero poche le aree raggiunte dai soccorsi.
Un ulteriore problema, che la Siria dovrà affrontare, sarà l’ondata di persone che tenteranno di fuggire dal paese, il terremoto ha distrutto quel poco che rimaneva di molte aree già provate da più di un decennio di guerra.
An.Ca.
I cristiani del Rojava
Fuga senza fine
Nel 2011, erano 400 le famiglie di cristiani residenti a Raqqa. Una comunità, molto praticante, partecipava a tutte le funzioni domenicali e delle festività, soprattutto quella natalizia. L’occupazione dell’Isis, l’impossibilità di praticare la propria religione e le persecuzioni, hanno causato la fuga della maggior parte dei fedeli. Oggi, a Raqqa sono rimasti meno di 60 cristiani, quasi tutti uomini. Malgrado alcune chiese siano state ricostruite (come quella armena in foto), non si celebrano più messe per la mancanza di parrocchiani. Dei 150mila cristiani che si stimano presenti nel Rojava, una gran parte sta a al-Qamishle e dintorni. In tanti si sono trasferiti a Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove la comunità cristiana è relativamente benestante.
An.Ca.
Iraq. Una fuga che non si arresta
Dopo gli attentati degli estremisti islamici e una discriminazione mai veramente scomparsa, anche in Iraq la presenza dei cristiani è in costante diminuzione. Come ci hanno confermato sacerdoti e fedeli incontrati in alcune chiese di Baghdad.
Baghdad. È la mattina del 31 ottobre 2010 quando, nel centro della città, si sente una forte esplosione. Un’autobomba salta in aria vicino alla sede della borsa valori, nel cuore della capitale. Due uomini di guardia rimangono gravemente feriti. Le forze di sicurezza si mobilitano, circondano l’area dell’attacco, un elicottero sorvola la scena. Il vero obiettivo però è un altro, questo primo attentato forse serve solo da diversivo.
Ore dopo, nella chiesa siro cattolica di Sayidat al-Nejat (Nostra Signora della Salvezza), una delle più grandi di Baghdad, si sta celebrando la messa.
Cinque uomini appaiono ai cancelli, indossano uniformi da guardia di sicurezza privata. Un’auto bomba deflagra in strada, uno dei cinque si fa esplodere all’ingresso della chiesa. Gli altri quattro entrano sparando sulla folla e prendono in ostaggio 120 fedeli.
Molti si nascondono sotto le panche, altri si mettono in ginocchio. I terroristi urlano di fare silenzio, uno di loro telefona al canale televisivo di Al-Baghdadiya. Dichiarano di essere una cellula affiliata ad Al Qaeda e pretendono la liberazione di alcuni compagni rinchiusi nelle carceri irachene e libanesi.
Nel frattempo, le forze di sicurezza circondano l’edificio, l’elicottero sulla scena dell’attentato alla borsa valori si è spostato sulla zona del nuovo attacco.
Nella chiesa ci sono due giovani sacerdoti che stavano celebrando la messa. Provano a far ragionare i terroristi e tenere calmi i fedeli. Padre Saad Abdal Tha’ir e padre Waseem Tabeeh vengono messi in ginocchio e freddati sull’altare.
Le forze di sicurezza irachene decidono di non negoziare. Irrompono nell’edificio. Si sente un’altra esplosione e un lungo scontro a fuoco.
Quando la chiesa viene liberata e messa in sicurezza, i morti sono 58: due sacerdoti, 46 fedeli, inclusi due bambini e una donna incinta di tre mesi. Un terzo sacerdote presente alla messa, padre Raphael Qatin, morirà in ospedale in seguito alle ferite riportate. Il resto dei corpi sono di poliziotti e terroristi.
Settanta sono i feriti gravi, 26 dei quali, grazie all’intervento della Chiesa, vengono trasferiti a Roma per essere curati.
Quattro anni dopo, quella cellula terroristica affiliata ad Al Qaeda, verrà conosciuta dal mondo come «Isis».
Per i cristiani la fuga continua
Oggi la chiesa di Nostra Signora della Salvezza è stata totalmente ricostruita. Le mura che circondano l’edificio sono dipinte con le immagini di papa Francesco, venuto qui in visita a marzo del 2021 per onorare e ricordare le vittime dell’attentato. Per i 46 fedeli e i 2 sacerdoti, il 31 ottobre 2019 si è chiusa la fase diocesana della causa di beatificazione.
Attorno ai muri, tra scritte e pensieri di pace con le immagini del pontefice, ci sono anche reti metalliche, filo spinato, telecamere di sicurezza e sbarre di metallo. Natiq Anwar è il sagrestano della chiesa, uno dei sopravvissuti all’attacco del 2010 e tra quelli curati a Roma. Mentre mi guida all’interno della chiesa e nella cripta racconta: «È accaduto tutto molto velocemente. Io sono stato ferito da una delle esplosioni, ricordo l’arrivo di questi uomini in divisa, il boato, le urla che provenivano dalla chiesa e tanto sangue ovunque. Sono invalido da allora, ho subito diverse operazioni a reni e fegato e ho gravi problemi di vista».
«Dopo quello che hai vissuto e data l’instabilità della sicurezza nel paese, hai paura che ci possano essere altri attacchi?», gli chiedo. «Sì, io ho sempre paura che possa riaccadere, ogni volta che entro qui e che guardo verso i cancelli, mi immagino che improvvisamente possano ricomparire degli uomini e che tutto si ripeta. Ma sono un servo di Dio, non rinuncio a lavorare qui, questo è il mio posto».
In uno dei cortili della chiesa incontro Burnahnuddin Assaq Ibrahim, uno dei cinque rappresentanti cristiani del parlamento iracheno, una piccola minoranza dei 329 membri.
«Ognuno di noi è responsabile di una provincia. Devo essere sincero però, negli ultimi anni soprattutto, ci sentiamo rispettati. Quando parliamo, i nostri colleghi ci ascoltano e cercano di venire incontro alle nostre richieste. Il vero problema è che i cristiani scappano da questo paese. La paura degli attacchi e l’instabilità causano la fuga. Nel 2003 eravamo quasi un milione e mezzo, oggi siamo circa 300mila. Però noi cristiani, anche se di diverse confessioni, siamo uniti tra noi».
Sono giorni particolari in Iraq, è l’anniversario della morte dell’Imam Musa Al Kadhim, settimo imam e martire sciita seppellito qui a Baghdad.
Per tre giorni, pellegrini sciiti da tutto il mondo arabo e dall’Asia centrale, vengono qui per pregare davanti al grande santuario. Per strada ci sono tende e migliaia di banchetti allestiti con cibo gratuito. I pellegrini arrivano a piedi, a volte camminando scalzi, non solo dalle province irachene ma anche da Iran, Libano, Pakistan, Uzbekistan.
«Ogni anno, solo per organizzare le baracche con il cibo gratuito per i pellegrini, i leader politici di fede sciita spendono migliaia e migliaia di dollari. Tutto questo è una manovra politica per ottenere voti e consensi, molte di queste persone mangiano carne forse una volta l’anno, non hanno mai visto così tanto cibo tutto insieme nella loro vita e arrivano da zone veramente povere», confessa un poliziotto di pattuglia.
Straordinarie sono anche le misure di sicurezza. Le chiese e le comunità cristiane non sono i soli bersagli dei terroristi, ma anche, e di recente soprattutto, i santuari e le moschee sciite. Proprio durante i giorni del pellegrinaggio, puntualmente l’Isis minaccia di attaccare la moschea di Al Khadim. Molti, in questi anni, sono stati gli attentati sventati, ma anche quelli arrivati a segno, come l’autobomba del 2014 che uccise 21 persone, o le granate che, nel marzo 2021, uccisero dieci uomini tra i pellegrini in visita al santuario.
Identità: musulmano o non musulmano
In questo contesto, con l’attenzione dei media e delle forze di sicurezza concentrata sulle strade del pellegrinaggio, con il traffico, le cucine a cielo aperto, è molto complicato scorgere e raggiungere le chiese cristiane di Baghdad.
Spesso sono situate in quartieri periferici e molti degli edifici religiosi non si differenziano dalle case attorno. Per intravedere una croce, quasi mai visibile da lontano, occorre arrivare molto vicino all’entrata.
Raggiungo la cattedrale latina di San Giuseppe, fondata nel 1632, elevata a sede di arcidiocesi il 19 settembre 1848, dove mi accoglie padre Francis Domenique.
La chiesa si affaccia su una strada anonima in un quartiere residenziale, all’interno delle mura però si apre un altro mondo: un campetto da pallavolo, una sala lettura, dei cortili dove i pochi giovani cristiani possono incontrarsi e socializzare.
Uno di questi ragazzi è Raed.
«Non è facile essere cristiani qui. Non dico che viviamo degli episodi di razzismo direttamente, ma, ad esempio, se faccio domanda per un lavoro e c’è un candidato musulmano con la mia stessa preparazione, in questo caso sicuramente si preferirà lui. Oltre a questo, i ragazzi sono davvero pochi, moltissimi vanno via: in Kurdistan o magari in Europa. Ho tanti amici che sono via e mi raccontano come va lì. Non è che hanno una vita semplice, certo, le difficoltà si trovano in tutto il mondo, però sono liberi di professare la propria religione senza imbarazzo o discriminazione. I miei amici all’estero non sono giudicati per la propria religione, questa è una grande libertà che qui non è affatto scontata».
«E tu, se potessi, o magari ci stai pensando, andresti via?». Sorride: «Sì, penso che potrei andare via se mi si presentasse un’occasione».
All’interno del cortile, impegnato a giocare a pallavolo con i ragazzi, incontro anche Zayed, frate domenicano. «Padre Zayed, com’è la vita dei cristiani oggi in Iraq? Alcune persone, tra le autorità che ho intervistato, mi hanno detto che le varie correnti cristiane sono unite tra di loro. Secondo lei, è davvero così?».
«No – risponde -, non penso che i cristiani in Iraq siano uniti e credo che questa disunione sia una delle cause dei nostri problemi. La discriminazione è reale, come il grande esodo dei cristiani che preferiscono andare via. La verità è che all’estero, anche se in un paese straniero, è comunque più facile che qui. La discriminazione può manifestarsi in diverse maniere, sia diretta che indiretta. Ti faccio un esempio pratico: sui nostri documenti deve esserci scritta la religione, ma si può solo scrivere musulmano o non musulmano. Potrà sembrare cosa da poco, ma è così che poi funziona anche il resto. Le altre religioni non sono contemplate, o sei musulmano oppure no».
La difficile quotidianità dei convertiti
In un altro quartiere periferico, fuori dalla chiesa della Madonna del Rosario, incontro Joseph (nome di fantasia), che mi chiede di mantenere segreta la sua identità.
Joseph è di origine musulmana, ma si è convertito al cristianesimo. Racconta: «In Iraq, la vita più difficile ce l’abbiamo noi che ci siamo convertiti. Io ho sempre voluto essere cristiano, da quando ero bambino e giocavo a calcio con gli altri ragazzini nel cortile di una chiesa qui vicino. Prima di convertirmi dovevo andare in chiesa di nascosto, una volta presa la decisione, la mia famiglia non mi ha più rivolto la parola. Da quel momento sono cominciati tutti i miei guai, lavoravo in un ufficio che aveva relazioni con l’estero e mi è stata fatta molta pressione per andare via. Trovare e mantenere un lavoro è la cosa più difficile per i cristiani in Iraq, per chi come me, poi, si è convertito, è anche peggio».
«Hai mai vissuto episodi di violenza?». «Personalmente, violenza fisica no. Sono stato insultato molte volte, anche dalla mia famiglia. Purtroppo, i miei genitori, fratelli e sorelle, sono stati vittime di vessazioni a causa della mia conversione. Le violenze peggiori si perpetrano contro le donne, soprattutto quelle di origine musulmana che decidono di sposare un altro convertito. La moglie di un mio amico in una zona a Sud del paese, poco tempo fa, è stata vittima di un lancio di pietre perché non portava il velo. Baghdad è più libera da questo punto di vista, ma la discriminazione è dietro l’angolo. Non dimenticarti poi, che in caso di attacco da parte degli estremisti, noi siamo sempre il loro bersaglio preferito».
«L’Isis continua a operare?», chiedo. «Certamente, soprattutto nei villaggi sulle zone di confine. Hanno bisogno di cibo e denaro per finanziarsi. E le comunità cristiane sono viste come una nuova risorsa per ottenere riscatti».
Angelo Calianno*
(*) Dello stesso autore, sul sito MC, si possono trovare due altri reportage dall’Iraq – aprile 2019 – e maggio 2019.
Cristiani in Iraq, qualche numero
Resistono in trecentomila
In Iraq, il grande esodo della comunità cristiana non si è mai fermato. Nel 2003, erano un milione e 300mila. Oggi, stando alle ultime statistiche, sarebbero soltanto 300mila i cristiani rimasti in questa nazione. Negli ultimi quindici anni, in tutto il paese, sono state più di sessanta le chiese danneggiate o distrutte da attentati terroristici e
conflitti.
Centomila cristiani, provenienti dalla Piana di Ninive a Mosul, occupata dall’Isis fino al 2017, sono stati costretti ad abbandonare le proprie case distrutte dalla guerra e oggi vivono in Kurdistan. Un grande sforzo economico, da parte della comunità cattolica internazionale, è stato fatto per ricostruire case e luoghi di culto a Mosul, con la speranza del ritorno dei fedeli.
La visita di papa Francesco (*), nel marzo dello scorso anno, ha acceso una flebile speranza che le cose possano migliorare. Questa comunità, che per secoli si è sentita abbandonata, con la visita del pontefice per la prima volta si è sentita riconsiderata.
Già Carol Wojtyla aveva programmato un viaggio qui nel 1999. Il progetto poi venne ostacolato dagli Stati Uniti e da Bill Clinton. Questi temeva che la presenza del papa avrebbe rafforzato Saddam Hussein.
Oggi il paese si dibatte tra gli attentati dell’Isis e le milizie filoiraniane tornate molto attive soprattutto dopo la morte del generale Qasem Soleimani, ucciso proprio a Baghdad.
Durante la sua visita in Iraq, papa Francesco ha detto: «Il terrorismo quando ha invaso questo caro paese, ha barbaramente distrutto parte del suo meraviglioso patrimonio religioso, tra cui chiese, monasteri e luoghi di culto di varie comunità. Ma anche in quel momento buio sono brillate delle stelle. Penso ai giovani volontari musulmani di Mosul che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri, costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio, e a cristiani e musulmani che oggi restaurano insieme moschee e chiese». Oggi i cristiani in Iraq si dividono tra caldei, siriaci, armeni, latini, melchiti, ortodossi e protestanti.
Nella veste di responsabile del vicariato apostolico dell’Arabia
meridionale, monsignor Paul Hinder conosce le difficoltà di vivere in paesi
dove l’islam è religione di stato e la sharia fonte del diritto. Emirati Arabi,
Oman e Yemen, quest’ultimo devastato dalla guerra civile, sono i paesi dove il
vescovo svizzero si muove. Paesi nei quali l’Arabia Saudita, nazione egemone dell’area,
non fa mancare la propria influenza. Con i soldi o con le armi.
I slam, sharia, petrolio, immigrati. Sono alcuni degli
elementi che hanno in comune i sette paesi che compongono la penisola arabica.
Tutti a parte lo Yemen, che non ha né petrolio né immigrati e che, per di più,
da oltre quattro anni è devastato da una cruenta quanto misconosciuta guerra
civile.
In quest’area domina l’Arabia Saudita, monarchia oscura (e
oscurantista) verso la quale quasi tutti i paesi – in primis, gli Stati Uniti di
Donald Trump – mostrano una deferenza spiegabile soltanto con le enormi
ricchezze di cui essa può disporre. È Riad che guida la coalizione che combatte
in Yemen. È Riad che ha imposto un duro embargo contro il riottoso (ma
altrettanto ricco) Qatar. È Riad che ha fatto assassinare il giornalista
dissidente Jamal Khashoggi. È Riad che, dietro le quinte, trama nella guerra di
Siria e per l’isolamento dell’Iran sciita.
Nella penisola arabica, dal 2011 opera monsignor Paul Hinder, vescovo svizzero
di 76 anni. Il suo ruolo è quello di vicario apostolico dell’Arabia
meridionale, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen. Lo abbiamo incontrato
prima dell’annuncio della visita di papa Francesco negli Emirati (3-5 febbraio
2019).
Convivere con la sharia
Monsignor Hinder, in quali paesi della penisola arabica lei sta operando?
«Oggi
sono vicario apostolico degli Emirati Arabi Uniti (nella cui capitale, Abu
Dhabi, risiedo), del sultanato di Oman e della repubblica dello Yemen. Dal 2005
al 2011 ero vicario anche di Arabia Saudita, Bahrein e Qatar. Poi la Santa Sede
ha fatto una riorganizzazione territoriale di tutta la penisola per avere una
suddivisione più ragionevole».
Come si vive in paesi dove la sharia è la principale fonte del diritto?
«Tutto
dipende da come essa è applicata nella pratica. È chiaro che ci sono vari modi
di interpretarla e applicarla. La sharia non è soltanto tagliare le mani o la
testa. Anche se capita ancora. Per esempio, in Arabia Saudita».
Non si tratta quindi di una esagerazione giornalistica?
«Non
lo è, ma questo non significa che sia l’atteggiamento generale. La sharia è
tutto quello che noi consideriamo diritto civile, quello che regola le cose
della famiglia, della proprietà, eccetera. Anche io sono andato alla “Corte
della sharia” per delle firme. Non è una cosa di cui avere paura: è il modo per
regolare i rapporti in una società musulmana. Chiaro che, per noi cristiani, ci
sono dei limiti nella libertà religiosa che, in questi paesi, non è
riconosciuta come una libertà propria della persona. E poi la libertà del
culto, di svolgere cioè le liturgie, è limitata. Come in Arabia Saudita dove
non esistono chiese, che invece esistono in tutti gli altri stati».
Intende dire che, a tutt’oggi, in?Arabia Saudita non esistono strutture
adibite a chiese?
«No,
anche dopo la visita del cardinale maronita (nel novembre 2017 il cardinale
Bechara Rai, patriarca dei maroniti, ha incontrato re Salman a Riad, ndr). Forse un domani, ma personalmente
nutro ancora dubbi. Ci sono – va precisato – delle comunità, formalmente rette
dal vescovo incaricato. Informalmente esistevano anche quando ero ancora
vescovo io. Ci sono messe celebrate in case private in modo discreto. Questo è
tollerato in quanto non disturba altri».
Oman, Emirati Arabi, Yemen sono paesi in cui esistono le chiese intese come
costruzioni?
«Esistono
ma per esempio senza campanili, senza croci esterne visibili dalla strada. Poi
all’interno sono come le chiese di qui, anche se non della stessa qualità
estetica e culturale. La chiesa di St. Mary di Dubai ha posto per 2mila fedeli
ed è ancora troppo piccola. Quella in Qatar, che avevo costruito io quando ero
vescovo, può ospitare 2.700 persone sedute. Nello Yemen, a causa della guerra,
le chiese sono in gran parte o parzialmente distrutte. In questo momento
inoltre non ci sono sacerdoti, e comunque non sono posti sicuri per i fedeli.
Quindi, la vita comunitaria dei pochi cristiani che stanno nello Yemen è
sospesa. C’è una comunità di suore di Madre Teresa che continua a lavorare, a
dare testimonianza a Sanaa in un modo veramente ammirevole».
Monsignore lei ha accennato allo Yemen, un paese dove è in atto una guerra
molto cruenta, anche se ignorata dai media internazionali. Dal suo punto di
vista, come può descrivere la situazione del paese?
«Anch’io
non so tutto perché è molto difficile avere delle informazioni affidabili di
quella zona. Ovviamente la gente al telefono non parla e anche quelli che
vivono nel paese non conoscono bene la realtà. Da una parte c’è la guerra e
dall’altra una pace relativa o almeno senza guerra. Dobbiamo considerare che lo
Yemen è sempre stato un paese in conflitto in questi ultimi decenni. Ricordo
che se ne parlava già quando io ero ragazzo. Il conflitto attuale si è
complicato dopo l’intervento del 2015 da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi
alleati. Un intervento che ha esteso la guerra e che ha fatto cadere sulle
spalle della popolazione yemenita questa contrapposizione con l’Iran, anche se
quest’ultimo non è coinvolto nello stesso modo, cioè in maniera diretta.
Cosa
fare? Io credo che il problema basilare, a parte i conflitti interni, manca la
capacità di arrivare a un compromesso: nella cultura del mondo arabo, o vinci o
hai perso. Questa mentalità impedisce molto spesso di incontrarsi a metà strada
e così si continua pensando di avere la meglio. Nel caso dello Yemen penso che
nessuna delle parti arriverà alla vittoria. Credo che sia necessaria una
soluzione che si elabori a livello di Nazioni Unite, se i grandi poteri vogliono.
Il problema è che finora è mancata la volontà. Lasciano proseguire la guerra.
Mancano le informazioni. I belligeranti non vogliono sia conosciuto troppo bene
ciò che capita nel paese. A questo scopo non è consentita l’entrata dei
giornalisti. Anche se sappiamo che oggi circa 5 milioni di bambini sono a
rischio di morte per fame. Se capitasse che il porto di Al-Hudaydah (il
principale porto sul Mar Rosso, ndr)
dovesse essere chiuso, questa sarebbe la conseguenza. Poi non possiamo
dimenticare le malattie. Le strutture sanitarie sono in parte distrutte. Ci
sono rifugiati all’interno del paese, mentre sono relativamente pochi gli
yemeniti che riescono a espatriare. Una “fortuna” per l’Europa che di certo non
vuole questa gente».
Parliamo di una guerra che riguarda milioni di persone.
«Certo.
Lo Yemen non è un piccolo paese: conta circa gli stessi abitanti dell’Arabia
Saudita (circa 28 milioni, ndr) che però è molto più grande come superficie».
Monsignore, come mai si parla tantissimo della guerra in Siria e, al
contrario, si parla pochissimo di quella in Yemen? C’è una ragione particolare?
«Particolare
non lo so. Di sicuro la Siria è culturalmente più vicina a noi. Molti l’hanno
conosciuta come turisti. Anch’io, quando ero consigliere generale dei
cappuccini, ho frequentato molto la Siria. I poteri inoltre vedono la Siria
come una zona di conflitto più importante. Anche se, a lunga scadenza, lo Yemen
non sarà da meno».
Monsignore, torniamo sull’Arabia Saudita, il paese più potente della
regione. Ci può dire qualcosa sulla situazione attuale di quel paese? Le
aperture democratiche di cui si è parlato sono reali oppure sono soltanto un
maquillage pensato dai reali?
«Democratiche
non è il termine giusto, perché questa è una monarchia che prende le decisioni
in modo assoluto. Ora stanno avvenendo dei cambiamenti, ma – questo è un mio
giudizio – sono per la facciata, anche per dare l’impressione, a livello
internazionale, di una relativa apertura. Il fatto che le donne possano guidare
l’auto è stato considerato in Occidente come un miracolo. E lo è, ma non cambia
la vita della società. Ci sono delle donne saudite che lottano per una società
più aperta che sono messe in prigione. Una cosa che non possiamo dimenticare è
che c’è un matrimonio tra il wahhabismo (che è l’interpretazione più severa
dell’islam) e la famiglia Saud. È quasi impossibile che arrivino a un divorzio
altrimenti l’Arabia Saudita, nelle forme attuali, avrà grandi problemi. Per
questo non penso che il principe ereditario Mohammad bin Salman, che sembra
essere l’uomo forte, possa andare avanti troppo veloce. Vedremo cosa capiterà.
Piccoli cambiamenti ci sono, che riguardano anche i cristiani. Il potere della
polizia religiosa è stato limitato. Non sono più frequenti le sanzioni che
c’erano prima. Piccoli passi che rendono un po’ meno problematica la vita dei
cristiani. Sarebbe però sbagliato che l’Occidente pensasse che i cambiamenti
avverranno presto. Come accaduto ai tempi della primavera araba quando si pensò
che, nel giro di qualche mese, ci sarebbe stata la democrazia per tutti. Non è
possibile. Diamo il tempo a queste realtà della penisola arabica (come di altre
parti del mondo musulmano) di sviluppare a modo loro il sistema politico».
Monarchie inamovibili
La benevolenza degli Stati Uniti di Trump verso l’Arabia Saudita deriva da
questioni di business, da questioni geopolitiche, o da che altro secondo lei?
«Alla radice secondo me ci sono due cose
principali, una è sicuramente l’economia. Chiaro che essendo il petrolio sotto
il suolo dell’Arabia Saudita (e degli altri stati vicini), c’è un interesse
economico. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno sempre visto nell’Arabia
Saudita un fattore di stabilità, non guardando se il regime garantisce o meno i
diritti umani. Quando ci sono di mezzo politica e business, gli stati
occidentali non guardano molto alla morale. Non voglio dare un giudizio ma fare
una constatazione che vale non soltanto per gli?Stati Uniti ma anche per i
paesi europei».
A suo personale giudizio, in questi paesi, il concetto di democrazia
nell’accezione che se ne dà in Occidente potrà mai esistere?
«Non
direi mai, ma sicuramente non in tempo breve. In questi paesi tutta la
struttura, anche tribale, è un impedimento. Senza dimenticare che queste
monarchie non vogliono perdere il potere. Ci saranno dei passi verso elementi
democratici della Shura, il parlamento islamico, che comunque non rappresenta
tutta la popolazione (i migranti ad esempio sono esclusi). Io mi aspetto una
condivisione più grande da parte della popolazione indigena e cittadina, questo
sì. Non a breve comunque, e come lo faranno non lo so. Non sarà una democrazia
come la conosciamo noi. C’è poi un altro elemento da non dimenticare: loro
guardano quello che succede negli Stati Uniti e in Europa o in altri posti e
non sono necessariamente entusiasti di ripetere quello che ci sta capitando.
Forse anche noi in Occidente dobbiamo riscoprire cosa vuol dire essere
democratici con responsabilità».
Questo discorso che ha fatto vale per tutti i paesi dell’area arabica o
soprattutto per l’Arabia Saudita?
«Direi
per tutti gli stati, ricordando che lo Yemen formalmente è una repubblica e non
una monarchia. Però abbiamo visto che non funziona se non rispettano certi
elementi della tradizione. Dovrebbero trovare il modo di combinare tradizioni
antiche con una modernizzazione nella condivisione del potere».
Prove di dialogo con l’islam
Monsignore lei crede che con l’islam sia possibile dialogare?
«Penso di sì e comunque non c’è altra scelta. Quando si
arriva ai contenuti delle nostre fedi diverse sicuramente si hanno dei problemi
enormi da superare, perché un dialogo comporta le competenze che io per esempio
non ho, dato che non sono esperto in islamologia. Sono capace di fare un
dialogo umano perché vivo in questa situazione, ho delle persone che conosco
che possono discutere su questo, ma non è un approfondimento delle posizioni
ideologiche che posso fare. Ci sono dei tentativi. Prima di tutto ci vuole la
conoscenza propria e dell’altro.?E poi trovare dei campi dove andare avanti
insieme, come la pacificazione in questi paesi che è una preoccupazione di
tutti. Ci saranno possibilità sul campo caritativo dove c’è una certa
collaborazione e dialogo. Poi c’è la questione di avere rispetto per l’altro,
rispettare l’altra religione nella sua qualità malgrado le debolezze che noi
notiamo o pensiamo di notare. Sono 15 anni che sono qui e il vedere come
vivono, come si forma la vita, mi ha fatto crescere il rispetto verso gli
altri, e spero sia viceversa, quando loro vedono come noi viviamo. Ciò può
aiutare a superare pregiudizi e anche elementi di conflittualità. Quando io
conosco qualcuno nella sua diversità e lo rispetto, c’è meno rischio che ci
attacchiamo fisicamente come è successo nel passato».
Sono migranti (non immigrati)
Risponde al vero che la maggioranza dei fedeli cattolici
proviene dalle larghissime fila degli immigrati in questi paesi?
«Dobbiamo essere chiari nella terminologia:
non sono immigrati nel senso stretto, ma migranti. Ci hanno detto questo gli
stessi governi. Non siamo immigrati perché non possiamo rimanere e non possiamo
diventare cittadini. Non esiste possibilità di naturalizzazione, neppure per
quelli che parlano arabo. Pertanto, si parla di migranti che stanno in questi
paesi per un tempo limitato. Tra essi ci sono alcuni di classe media che
potranno rimanere praticamente per la vita, ma che non saranno naturalizzati.
Possono restare se sono in grado di pagarsi il soggiorno che è concesso per 2 o
3 anni. Se poi qualcuno perde il lavoro, deve andarsene. Anche la Chiesa deve
essere molto cauta perché non può promettere ai propri preti di farli restare
per tutta la vita. Essere migranti rimane la nostra sorte. Come ho detto tante
volte, siamo “una Chiesa di migranti per migranti”. Dal vescovo, fino
all’ultimo arrivato a Dubai o ad Abu Dhabi».
Migranti, dunque. Ma da dove provengono?
«Per
quanto riguarda gli Emirati, vengono soprattutto dalle Filippine e dall’India,
ma anche da altri paesi arabi (Siria, Libano, Palestina) e dall’Africa, sempre
di più. E poi dalla Corea e dall’America Latina. Insomma, dal mondo intero.
Nella nostra chiesa abbiamo più di 100 nazionalità diverse».
Queste persone che tipo di professionalità hanno?
«C’è
un po’ di tutto, ma in particolare si tratta di lavoratori del settore delle
costruzioni. Nel 2020 a Dubai ci sarà l’esposizione mondiale, nel 2022 nel
Qatar il campionato mondiale di calcio: c’è e ci sarà bisogno di tanti operai
per due progetti mastodontici. Vivono in zone residenziali a parte. La mattina
sono trasportati con il bus al lavoro per tornare alla sera. Questi non possono
partecipare pienamente alla vita parrocchiale anche se facciamo degli sforzi
per aiutarli un po’. Per esempio, organizzando il venerdì il trasporto alla
chiesa. Poi ci sono le impiegate domestiche che sono legalmente più deboli e
meno protette, anche se dipende molto dal datore di lavoro. Ci sono alcuni che
portano i loro impiegati alla messa, e poi aspettano per riportarli indietro.
Altri invece le trattano come vere e proprie schiave».
Per esempio, un lavoratore dell’edilizia ha uno stipendio adeguato?
«Cosa vuol dire
adeguato? Anche qui ci sono leggi sul salario minimo. Sicuramente rispetto a
quello che guadagnano o potrebbero guadagnare a casa loro è molto di più. Il
grande problema è cosa fare quando non sono pagati o lo sono ma in ritardo di
mesi. Qui iniziano i problemi e un giro legale. Un governo dovrebbe controllare
di più affinché queste cose non capitino. In questi ultimi 15 anni hanno fatto
dei grandi progressi, ma questo rimane un problema serio. Può così accadere che
alcuni partano poveri e ritornino ancora più poveri. Altri che hanno visto la
loro situazione sbloccarsi quando erano già tornati al loro paese lasciando
indietro gli stipendi che per legge gli spettavano. Alle nazioni che esportano
manodopera nei paesi del golfo dovremmo dire: non aspettatevi di arrivare in un
paradiso. Molto spesso è una vita dura o durissima, anche quando le cose vanno
normalmente. Qui si guadagna di più ma questo ha un prezzo umano. Molte
famiglie si sfasciano. Per questo cerchiamo di aiutare i nostri fedeli con la
pastorale».
Se io sono un migrante, in questi paesi ho diritto all’istruzione, alla
sanità, insomma a usufruire dei servizi pubblici?
«Dipende dove sono.
Ad esempio, ad Abu Dhabi l’assicurazione sanitaria è obbligatoria. Quindi, un
datore di lavoro non può fare un contratto di lavoro senza. Anche noi come
Chiesa siamo obbligati. L’accesso alle strutture sanitarie c’è, anche se alcune
strutture sono soltanto per i locali. Spesso gli indiani preferiscono andare a
casa propria dove la sanità è meno cara ed è buona. Quanto alla scuola, è
essenzialmente privata ed è un problema per le famiglie meno abbienti a causa
delle rette. Come Vicariato abbiamo scuole aperte a tutti (anche ai musulmani)
e a prezzi accessibili. Questa è la nostra missione, perché per i ricchi ci
sono scuole sufficienti».
Monsignore, dopo quasi 15 anni nella Penisola Arabica, come giudica questa
sua esperienza?
«Io
sono andato in?Arabia con una certa reticenza. Avevo paura ad accettare la
nomina. Una volta arrivato mi sono dato completamente a questo compito,
nonostante tutti i problemi. I fedeli mi hanno dato gioia, vedendo una Chiesa
non perfetta ma molto attiva, impegnata, motivata, che mi ha aiutato ad
approfondire me stesso e la mia fede. Mi sento felice qui anche se è un mondo
diverso che mi rimarrà sempre un po’ straniero, ma ho imparato molto da questa
cultura e non vorrei mi mancasse. Forse vent’anni fa avrei risposto
diversamente a una simile domanda».
Paolo Moiola
La guerra nello Yemen
Un’arma chiamata indifferenza
Ci sono paesi dove si combattono guerre evidenti e cruente eppure
dimenticate da tutti (comunità internazionale, media, opinione pubblica). Lo
Yemen è uno di essi.
Sono sempre esistite le cosiddette «guerre
dimenticate», conflitti evidenti e cruenti ma che, per una serie di ragioni,
non arrivano o arrivano sporadicamente e parzialmente all’attenzione
dell’opinione pubblica mondiale. In questa situazione l’indifferenza diventa
un’arma micidiale. La guerra civile nello Yemen, paese tra i più poveri del
Medio Oriente, rientra a pieno titolo nella categoria. Una guerra civile
iniziata sulla fine del 2014 quando gli Huthi – un gruppo islamico sciita (di
una variante nota come zaydismo) – prendono gran parte della
capitale Sanaa. Nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione
di 10 paesi (9 dopo il ritiro del Qatar), interviene nel conflitto a fianco del
deposto presidente Hadi, nel frattempo fuggito. Il paese è smembrato: una parte
(quella ad Ovest) in mano agli Huthi, una parte nelle mani della coalizione
saudita e una parte divisa tra al-Qaeda e Stato islamico. A dicembre 2018 le
Nazioni Unite sono finalmente riuscite ad aprire colloqui di pace a Stoccolma.
A oggi la guerra avrebbe già fatto oltre 12mila morti e
milioni di profughi, come milioni sarebbero le persone a rischio carestia. In
tutto questo s’inserisce anche una storia nella storia che riguarda l’Italia e
in generale l’Unione europea. Secondo il New
York Times, la Rheinmetall Defence,
una industria d’armi di passaporto tedesco ma con stabilimento in Italia (a
Domusnovas, in Sardegna), è tra i fornitori di bombe dell’Arabia Saudita. La
cosa sarebbe però vietata dalla legge italiana n. 185 del 1990 che vieta
l’esportazione di armi verso paesi in conflitto. Senza dire che, nel settembre
2013, l’Italia ha sottoscritto il Trattato internazionale sul commercio delle armi
(Arms Trade Treaty, Att) che limita
fortemente la compravendita di armi. Nel frattempo, lo scorso 25 ottobre 2018
l’Europarlamento ha approvato una risoluzione che chiede agli stati membri di
imporre un embargo sulla fornitura di armi a Riad, dopo l’omicidio del
giornalista Jamal Khashoggi (un critico dell’intervento saudita in Yemen). La
risoluzione comunitaria non è però vincolante, probabilmente perché Francia e
soprattutto la Gran Bretagna sono importanti fornitori d’armi di Riad. Proprio
come gli Stati Uniti, di gran lunga in testa nelle vendite all’Arabia Saudita (fonte: Sipri).
Nessun conflitto meriterebbe
indifferenza. Visto il coinvolgimento di molti paesi occidentali, la guerra
civile in Yemen la merita ancora meno.
Paolo Moiola
L’assassinio del giornalista saudita
L’affaire Jamal Khashoggi
Forse il coinvolgimento del principe ereditario non sarà mai provato.
Tuttavia, l’assassinio del dissidente ha messo in grande imbarazzo Riad. E il
presidente Trump.
Il 2 ottobre 2018 il giornalista
saudita Jamal Khashoggi entra nel consolato del suo paese a Istanbul per
sbrigare una questione burocratica relativa al matrimonio con la sua fidanzata
turca. Da quel momento si perdono le sue tracce. Qualche giorno dopo la sua
scomparsa si scopre che è stato ucciso da funzionari sauditi e – pare –
smembrato. Tutto sembra indicare Mohammed bin Salman (Mbs) come mandante
dell’omicidio.
Nato a Medina nel 1958, Khashoggi
era un giornalista moderato ma critico verso il proprio paese e in particolare
verso il principe ereditario Mbs, da molti (frettolosamente) eletto al ruolo di
riformatore della monarchia saudita. Costretto al silenzio, nel 2017 Khashoggi
aveva deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove collaborava come
opinionista al Washington Post.
Qualsiasi sarà l’evoluzione della
vicenda (le accuse della Turchia, della Cia, del senato Usa, ecc.) per il
principe ereditario saudita non ci dovrebbero essere conseguenze. Lo si è visto
anche al summit del G20 di Buenos Aires, all’inizio di dicembre, quando Mbs?ha
stretto mani e dispensato sorrisi. L’assassinio di Khashoggi non potrà certo
fermare l’ascesa del giovane e ambizioso rampollo di re Salman.
Paolo Moiola
I sette paesi islamici
La penisola dell’Arabia Saudita
Nella penisola arabica la Chiesa cattolica è presente con due Vicariati,
uno retto da mons. Camillo Ballin e uno da mons. Paul Hinder.
Vicariato Apostolico dell’Arabia Settentrionale:
Vicario:
mons. Camillo Ballin
? Arabia Saudita:
monarchia assoluta, dal 1926 governata dalla famiglia al-Saud,
il paese più importante della penisola arabica è al centro dell’interesse
mondiale per le ricchezze petrolifere, le ambiguità sul terrorismo islamista e
l’alleanza con gli Stati Uniti. Da giugno 2017 è attraversata da faide
familiari a causa della nomina del giovane Muhammad bin Salman (Mbs) come
successore di re Salman. Attualmente capeggia la rivolta contro il Qatar e la
guerra in Yemen.
? Kuwait:
è una monarchia della famiglia al-Sabah; la maggioranza
della sua popolazione è immigrata.
? Bahrein:
il piccolo arcipelago è una monarchia retta dalla famiglia
sunnita al-Khalifa. Da 2011 è teatro di proteste della maggioranza sciita, il
cui leader, lo sceicco Ali Salman, è in prigione, condannato a vita nel
novembre 2018.
? Qatar:
monarchia ereditaria della famiglia al-Thani, è una penisola
vasta quanto metà della Lombardia, paese ricchissimo e molto attivo sulla scena
internazionale (anche con il network mediatico al-Jazeera), dal giugno 2017
subisce l’embargo diplomatico ed economico da parte di Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. Il 3 dicembre 2018 ha annunciato l’uscita
dall’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio di cui era membro
dal 1961.
Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale:
Vicario:
mons. Paul Hinder
? Emirati Arabi:
è uno stato federale composto da 7
emirati; i 2 più importanti sono Abu Dhabi e Dubai.
? Oman:
con meno risorse petrolifere degli
altri (Yemen escluso) il sultanato dell’Oman è il più tranquillo tra i paesi
della penisola arabica; il sultano Qabus è al potere dal 1970.
? Yemen:
il paese più povero della regione
è in guerra dal settembre del 2014; si fronteggiano i ribelli conosciuti come
Huthi (musulmani sciiti legati all’Iran) e una coalizione islamista guidata
dall’Arabia Saudita.
Erede dell’antica Persia, l’Iran affonda le sue radici in una storia millenaria che precede di molti secoli la nascita dell’Islam per mezzo della predicazione del profeta Maometto nel VII secolo. Il binomio «indissolubile» (per i nostri media) che lega l’Iran con l’Islam, diffusosi dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, è, perciò, in larga parte fuorviante, se non affatto da scartare.
Come ci insegnano gli storici, un influsso da rintracciare non è tanto quello dell’Islam nei confronti dell’Iran, ma, al contrario, quello delle religioni e dei culti della Persia antica nei confronti della religione musulmana e, in particolare, della sua componente sciita, maggioritaria nel paese.
L’Iran attuale, ben lungi da un’omologazione religiosa alla maggioranza egemone, è un territorio ricco di presenze cristiane ed ebraiche e di culti ancora più antichi, come quello legato alla religione di Zarathustra, con la quale gli stessi giudei sono entrati in contatto nel VI secolo a.C., durante e dopo il lungo esilio babilonese.
Chi, come il sottoscritto, abbia vissuto in Iran, sa quale pluralità di chiese, sinagoghe e templi del fuoco vi sia, ma sa anche che oggi la vita per le minoranze è spesso difficile, anche se meno che nei paesi limitrofi. Così, ad esempio, a settembre 2018 Amnesty International ha denunciato la condanna di quattro cristiani a un totale di 45 anni di carcere con l’accusa di «minacciare la sicurezza nazionale». In più, il governo iraniano, relativamente aperto verso le comunità religiose storiche come i cristiani, gli ebrei e gli zoroastriani, si dimostra spietato nei confronti dei convertiti. Questo dossier intende fornire al lettore un’idea dell’eredità storica delle minoranze religiose dell’Iran e della loro situazione attuale.
S.Z.
Ha firmato questo dossier: Simone Zoppellaro. Nato a Ferrara, è giornalista freelance e scrittore. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». È autore di due libri: «Armenia oggi» (2016) e «Il genocidio degli yazidi» (2017), entrambi editi da Guerini e Associati. I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato vari dossier.
Il dossier è stato curato daPaolo Moiola e Luca Lorusso, giornalisti redazione MC.
Armeni e assiri, una storia millenaria
Prima dell’arrivo dell’Islam, la Persia – nome usato fino al 1935 – vide l’affermazione di due gruppi etnici di religione cristiana, gli armeni e gli assiri. Dopo la conquista islamica (633-651), i due gruppi divennero minoranze, ma ancora oggi il loro ruolo nella società del paese rimane rilevante. In Iran la professione della fede cristiana è consentita, ma la conversione dei cittadini musulmani è vietata per legge.
Dal Golfo Persico al Mar Caspio, dai suoi confini occidentali con la Turchia fino a quelli orientali con l’Afghanistan, non vi è città di questo paese vasto e bello che non abbia una sua chiesa, per quanto piccola, e almeno un pugno di fedeli che la animano, spesso con grande coraggio e amore. La storia e la cultura che il loro essere minoranza veicolano e rappresentano, è una ricchezza straordinaria anche dal punto di vista architettonico. I monasteri armeni del Nord sono stati dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco e le tredici chiese seicentesche di Isfahan (anche Esfahan o Ispahan) sono un vero capolavoro di sintesi fra diversi stili e culture.
Ma non parliamo qui solo del passato remoto: l’apporto dei cristiani e, in particolare, della loro componente maggioritaria, quella armena, è stato determinante anche nei secoli più recenti, nella modernità e nello sviluppo culturale, politico e tecnologico dell’Iran. Fu fondata da un cristiano la prima tipografia del paese, e il primo volume dato alle stampe nel 1638 fu quello dei «Salmi di Davide» in lingua armena. Determinante fu l’apporto armeno anche nella nascita del cinema. E non mancarono rivoluzionari, personalità dello sport, della musica e della cultura di origini cristiane: una ricchezza di interscambi e innesti con la maggioranza musulmana che neppure le pagine più cupe della storia iraniana sono riuscite a cancellare del tutto.
La chiesa nera
La storia del cristianesimo in terra di Persia affonda le sue radici alle origini stesse di questa fede. La sua antica presenza è testimoniata, ad esempio, da quello che è forse il monumento più amato dai cristiani d’Iran ancora oggi: il monastero di San Taddeo (foto), situato nel Nord Ovest del paese, nei pressi del confine con la Turchia. È uno dei luoghi cristiani più suggestivi e belli per la sua raffinata architettura e per la perfetta sintesi fra arte e paesaggio che si possano ammirare in Iran.
Chiamato dagli iraniani Qara Kelisa, la «chiesa nera», a causa del colore scuro delle sue pietre, è meta, ancora oggi, e soprattutto d’estate, di pellegrinaggi da tutto l’Iran e dai paesi limitrofi, in primo luogo dall’Armenia. I cristiani che arrivano in pellegrinaggio, si accampano nel paesaggio lunare che circonda il complesso monastico, e la miriade di tende finisce per creare un’atmosfera magica, soprattutto di notte.
Secondo la tradizione, il monastero sarebbe nato sul sepolcro di san Giuda Taddeo, uno dei dodici discepoli di Cristo, molto caro agli armeni perché fu lui, insieme a san Bartolomeo, l’evangelizzatore di questo popolo, prima nazione ad abbracciare il cristianesimo. Il complesso risalirebbe al VII secolo, per quanto molti storici ne rintraccino l’origine addirittura al I secolo, ovvero all’epoca stessa del martirio dell’apostolo.
Divieto di conversione
Il cristianesimo iraniano è oggi molto vario, come testimonia la presenza di chiese e monasteri di riti e osservanze assai diversi. Fra le moltissime, stimate in circa 600 da alcuni studiosi, citiamo la Chiesa assira, quella cattolica, quelle riconducibili alla galassia protestante, quelle ortodosse greche o russe, la Chiesa autocefala armena, divenuta religione di stato grazie alla predicazione di San Gregorio l’Illuminatore all’alba del VI secolo.
Non mancano istituzioni cristiane come scuole, cimiteri, ospizi, teatri e centri culturali e ricreativi, ma anche locali e ristoranti gestiti dalla comunità cristiana, a testimonianza di una vitalità che, per quanto spesso spinta ai margini della vita cittadina, soprattutto nei centri minori, è tuttora lungi dall’essersi estinta.
Si è soliti dividere in tre gruppi fondamentali la presenza cristiana in Iran: armeni, assiri e i cosiddetti «cristiani non etnici», ovvero musulmani convertiti al cristianesimo. Questi ultimi sono soprattutto evangelici o pentecostali, essendo queste chiese più propense al proselitismo che ha interessato molte migliaia di persone a partire dagli anni Sessanta.
Se, da un lato, i cristiani sono liberi di professare il loro credo e hanno rappresentanti in parlamento, con un protagonismo di rilievo nella vita sociale del paese, va però ricordato che la legge iraniana vieta le conversioni dei cittadini musulmani di nascita. Così, se è legale e, anzi, incoraggiata la conversione di cristiani, ebrei e zoroastriani all’Islam, il contrario può costare il carcere. Una discriminazione che ha creato un conflitto molto duro con una parte del mondo missionario protestante, assai meno timido rispetto a quello cattolico nel ricercare nuovi fedeli.
I cristiani armeni: dal Nord a Isfahan
La componente armena del cristianesimo in Iran, oltre a essere la principale di oggi, è anche la più antica. Dal punto di vista etnico, la prima menzione dell’Armenia in Iran si trova nelle splendide iscrizioni di Bisotun (ritrovate sul Monte Behistun, nella provincia iraniana di Kermanshah; foto), databili intorno al 520 a.C. Il territorio stesso degli armeni, diverso da quello della Repubblica d’Armenia di oggi, era in parte iscrivibile all’interno dei confini dell’Iran contemporaneo. Ci riferiamo al Nord Ovest del paese dove, per secoli, e in buona parte ancora oggi, popolazioni di lingua e cultura persiana, armena, ebraica, curda, assira e turca hanno vissuto fianco a fianco, fecondandosi a vicenda e intrecciando i loro destini.
Ma è con l’epoca safavide (XVI-XVII sec.) che la presenza armena si fa rilevante fin nel cuore dell’Iran. La deportazione di armeni dal Nord fino alla capitale Isfahan, voluta da Shah Abbas il Grande (1557-1629) all’inizio del XVII secolo, apre una nuova fase nella loro storia in quei territori: mercanti e artigiani abilissimi, riuscirono a distinguersi e a eccellere, guadagnando uno status privilegiato fra le minoranze religiose del paese, ancora oggi immutato.
Proprio a quell’epoca risale l’introduzione della stampa in Persia per opera di un vescovo della chiesa armena. Una storia straordinaria che vale la pena raccontare.
Armeni nell’Iran del XVII secolo, deportati ma liberi
A Isfahan, sontuosa capitale dell’impero safavide, proprio di fronte all’entrata della cattedrale armena di San Salvatore (foto pag. 40), che gli iraniani chiamano Vank – con una parola armena che significa «monastero» -, si trova la statua di un uomo incappucciato che tiene in mano qualcosa.
Il visitatore distratto potrebbe non prestare attenzione al monumento e, tanto meno, a quel piccolo oggetto fra le dita della figura, indecifrabile in un primo momento. È un carattere mobile, di quelli che si usavano nel XVII secolo per la stampa. Il nome dell’uomo effigiato nel monumento è Khachatur Kesaratsi (1590-1646), vescovo della Chiesa apostolica armena di Nuova Giulfa, al tempo sobborgo di Isfahan, oggi riassorbito dall’espansione della città.
Negli anni Trenta del Seicento, Nuova Giulfa era sorta solo da pochi decenni, in seguito alla deportazione degli armeni ordinata dal già menzionato sovrano Abbas I: un evento doloroso che aveva costretto molti a lasciare per sempre la loro terra, distrutta a causa del perdurante conflitto fra ottomani e safavidi. Molti di loro erano morti durante l’estenuante marcia che dalla valle dell’Arasse e dalla piana del monte Ararat, alle pendici del Caucaso, li aveva condotti fino a Isfahan. Altri erano morti dopo l’arrivo a causa delle malattie sorte per il viaggio.
Quello di Abbas il Grande, a differenza di quelli dei suoi emuli novecenteschi, non era stato un intento di morte. In pochi anni, infatti, grazie al sostegno della corona safavide, gli armeni poterono costruire le loro chiese e le loro scuole, e creare, a partire da Nuova Giulfa, una rete di commerci assai florida, che dall’Atlantico sarebbe giunta fino all’Oceano Indiano, lasciando testimonianze che oggi si rintracciano abbondanti, ad esempio, a Venezia e in altre città italiane. Seta e spezie, pietre preziose e stoffe venivano vendute dagli armeni di Nuova Giulfa in ogni parte del mondo, a vantaggio loro, ma anche della dinastia safavide che in loro riponeva grande fiducia. La libertà vissuta dagli armeni in Persia, e la tolleranza nei loro confronti, erano impensabili in quello stesso periodo, ad esempio, in Europa, continente insanguinato da feroci conflitti religiosi.
Gli armeni: dalla stampa al cinema
In quel contesto, denso di luci e d’ombre, ebbe luogo la parabola umana e spirituale di Khachatur. Il suo tentativo di diffondere la stampa a caratteri mobili, la prodigiosa invenzione di Gutenberg, in Iran, non fu il primo. Prima di lui, nel 1628, i carmelitani Domenico di Cristo e Matteo della Croce avevano portato – da Aleppo a Baghdad, e poi ancora più a Est, fino a Isfahan, sul dorso di un cammello – una macchina da stampa a caratteri mobili, con l’intento di stampare libri in lingua persiana a fini di proselitismo. Ma il loro intento non prese corpo: nessuna traccia storica, infatti, rimane di un loro eventuale lavoro portato a termine.
L’esperienza di Khachatur, pochi anni dopo, ebbe invece una sorte differente: il volume dei «Salmi di Davide» in lingua armena, stampato nel 1638, è riconosciuto come il primo libro a stampa nella storia dell’Iran. Al 1641 risale la stampa di un testo agiografico di 705 pagine sulle vite dei Padri della Chiesa armena. Infine, altri tre volumi stampati con mezzi autarchici dal vescovo Khachatur contribuirono a rendere imperitura la sua fama.
Come già detto, l’apporto degli armeni alla cultura iraniana non è da ascrivere solo a una storia remota. In epoca più recente, essi hanno avuto, ad esempio, un ruolo di primo piano nella nascita del cinema nel paese. Ricordiamo almeno Hovannes Ohanian, un armeno poliglotta che aveva studiato a Mosca e che fondò la prima scuola di cinema in Iran. Suo il primo lungometraggio: un film muto del 1930 intitolato «Abi e Rabi». A un armeno, Alex Sahinian, spetta anche il merito di aver aperto nel 1916 a Tabriz la prima sala cinematografica nella storia del paese, il Cinéma Soleil, sfruttando la sala di una missione francese.
In seguito, furono tanti i registi, gli attori e i produttori di origine armena che segnarono lo sviluppo del cinema iraniano. Un ruolo di primo piano celebrato anche dal «Museo del cinema» di Teheran, che nel 2004 ha dedicato una mostra, un libro e una serie di proiezioni a testimonianza del contributo artistico fondamentale degli armeni. Si può accennare anche la creazione, da parte di armeni, di alcuni degli studi cinematografici di maggior successo del secondo dopoguerra iraniano: il «Diana Film Studio», guidato da Sanasar Khachaturian, che produsse anche alcuni film di Khachikian, l’«Alborz Film Studio», o, ancora, lo «Shahin Studio» dei fratelli Ovedisian. Da ricordare, infine, il «Dariush Film Studio», aperto a Roma nel 1953 dall’armeno iraniano Alex Aqababian, specializzato nel doppiaggio persiano di film italiani, che diede un impulso fondamentale alla diffusione del nostro cinema in terra iraniana.
I cristiani assiri: la lingua aramaica e il cristianesimo nestoriano
La seconda anima del cristianesimo iraniano che vogliamo approfondire qui è quella assira. Un nome, quello assiro, che i cristiani di questo gruppo utilizzano per designare se stessi e rivendicare così un’origine antica.
Come gli assiri dell’antichità, anche quelli di oggi parlano una lingua semitica, cioè parte della stessa famiglia linguistica dell’arabo e dell’ebraico. Più precisamente, parlano (e scrivono con un proprio alfabeto) la lingua neoaramaica assira, evoluzione dell’aramaico usato da Gesù e dagli apostoli. Una lingua diffusa fra le popolazioni dell’impero assiro prima della sua caduta nel 612 a.C. Tale legame linguistico sta alla base dell’autornidentificazione, controversa, fra questa minoranza etnico religiosa e il grande impero mesopotamico del passato.
Più in concreto – e senza rischiare di cadere in errore – possiamo dire che gli assiri di oggi sono gli ultimi eredi, da un punto di vista culturale e religioso, della tradizione orientale del cristianesimo nestoriano. Dottrina cristologica predicata da Nestorio, Patriarca di Costantinopoli del V secolo, il nestorianesimo divenne un’eresia in seguito alla condanna del Concilio di Calcedonia nel 451. I suoi seguaci trovarono rifugio nell’Iran sasanide dove, unendosi alle comunità cristiane locali, diedero vita a una tradizione presente tutt’oggi, quella appunto dei cristiani assiri.
Quella nestoriana è una Chiesa che ha conosciuto nella sua storia momenti di notevole splendore. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che, all’alba dell’invasione araba, l’espansione del cristianesimo in Iran fosse tale da minacciare l’egemonia della religione ufficiale dell’impero: lo zoroastrismo. Secondo tale teoria, si fu molto vicini ad avere un altro grande impero cristiano, oltre a quello Romano: la Persia.
Dopo l’avvento dell’Islam, il cristianesimo rimase, per molti secoli, una presenza importante nel territorio. In concomitanza con i grandi stravolgimenti dell’epoca mongola, fra XIII e XIV secolo, i cristiani tentarono un ultimo colpo di coda, mettendo addirittura in discussione – seppur per un breve periodo – la supremazia religiosa dell’Islam.
Il cristianesimo in Iran è, in ogni caso, ancora assai vitale: è una cultura antichissima che si perpetua in liturgie, riti e lingue diverse dal persiano della maggioranza del paese. Non mancano negozi e aziende i cui proprietari siano cristiani, soprattutto nelle maggiori città, e celebri ristoranti, come il Club Arménien di Teheran, l’unico in Iran dove le signore non siano tenute a rispettare l’uso del velo e si respira ancora l’aria decadente dell’epoca Pahlavi, l’ultimo scià di Persia (1941-1979), tenendo magari in mano un bicchiere di vino, proibito per legge ai cittadini musulmani.
Cristiani in crescita?
Il cristianesimo sembra avere una vitalità sorprendente: nel 2015 l’organizzazione missionaria Operation World ha indicato, numeri alla mano, come l’Iran sia il paese al mondo in cui la popolazione protestante cresce più velocemente, con un +19,6% annuo. Secondo i dati forniti da Christian Solidarity Worldwide – organizzazione che si occupa della promozione della libertà religiosa – sarebbero addirittura oltre un milione gli iraniani convertiti al cristianesimo. Un dato che ci pare esagerato, ma indicativo di un fenomeno conosciuto molto bene in Europa da quanti si occupano di immigrazione: molti richiedenti asilo iraniani, infatti, adducono una loro conversione al cristianesimo come motivazione primaria della loro fuga dalla patria.
Al di là dei numeri è importante ricordare che è, per molti versi, ottimo il rapporto fra cristiani e musulmani in Iran, con un rispetto e una stima che neppure il khomeinismo e l’intolleranza di una parte del regime attuale sembrano aver scalfito nell’ambito della società civile del paese. Un segno di speranza da non trascurare, in un’epoca in cui il Medio Oriente è segnato da una lunga scia di sangue che si vorrebbe riconducibile a una matrice religiosa.
Simone Zoppellaro
Il candelabro rimane acceso
Presenti nel paese da 2.700 anni, gli ebrei iraniani hanno conosciuto periodi di splendore e altri di decadenza. Ancora oggi la comunità ebraica dell’Iran costituisce la più numerosa del Medio Oriente al di fuori di Israele. I suoi rapporti con il regime islamico sono altalenanti a seconda del momento storico, mentre sono buoni con larga parte della società civile iraniana.
Iran ed ebraismo: due mondi che paiono inconciliabili per chi non abbia confidenza con la storia e il presente di questo complesso paese. Sembrano inconciliabili soprattutto se si pensa alle tristi uscite negazioniste dell’ex presidente Ahmadinejad che, alcuni anni fa, hanno avuto tanto risalto mediatico, o all’antisionismo della retorica del regime che spesso sfocia nell’antisemitismo. Quando il sottoscritto viveva in Iran e andava alla mensa dei docenti dell’università di Isfahan, sul pavimento dell’ingresso c’era una bandiera israeliana con la scritta «Morte a Israele». I professori dovevano entrare calpestandola. Un «piccolo» segno di un problema che non va sottovalutato, come fanno molti apologeti della Repubblica islamica, spesso poco informati. Eppure, è vero che, esclusa la comunità ebraica che vive nello stato di Israele, quella iraniana rappresenta oggi la più numerosa dell’intero Medio Oriente. Un dato importantissimo per un ebraismo che è ormai scomparso (o quasi) in larghissima parte della regione.
Le origini storiche
Questa minoranza ha origini antichissime, risalenti alla prima diaspora ebraica dell’VIII secolo a.C., quando il sovrano assiro Sargon II, in seguito alla conquista del Regno di Israele, deportò nel 722 a.C. parte delle tribù israelitiche nei territori dell’attuale Iran, contribuendo a una contaminazione religiosa che in seguito avrebbe avuto qualche influsso nello sviluppo e nella definizione delle religioni abramitiche.
Nei suoi 2.700 anni di storia, la comunità ebraica iraniana ha conosciuto alti e bassi, periodi molto bui e difficili, ma anche fasi di grande splendore, come durante l’epoca sasanide (224-641 d.C.), quella dell’ultimo impero persiano preislamico, quando essa rappresentava numericamente la prima comunità ebraica al mondo, sopravanzando persino la Palestina. A quell’epoca, si attesta la presenza in Iran di città a maggioranza ebraica.
Dopo la conquista islamica, gli ebrei continuarono per molti secoli a essere una comunità importante in Iran, a testimonianza del fatto che l’Islam delle origini – miti e pregiudizi a parte – fu tutto fuorché una religione incapace di convivere in modo pacifico con altre fedi.
In questo periodo, e fino al XIX secolo, si segnala lo sviluppo di una letteratura giudaico-persiana, scritta in caratteri ebraici e modellata, nelle sue forme, sugli stilemi della poesia persiana medievale.
Da un punto di vista politico, non mancarono figure capaci di distinguersi ai massimi livelli del potere, come Saad al-Dawla, gran vizir fra il 1289 e il 1291, all’epoca del sovrano ilkhanide Arghun. E, ancora, ebrei medici, intellettuali, commercianti e artigiani che contribuirono in modo determinante allo sviluppo culturale ed economico del paese.
Gli storici concordano nell’identificare nell’epoca safavide (1501-1722) l’inizio della decadenza della comunità ebraica in Iran. Le difficoltà aumentarono poi fra XVIII e XIX secolo, quando si registrarono diversi episodi di violenza e anche veri e propri pogrom nei confronti degli ebrei.
Fra questi episodi, è famoso quello bello ma doloroso raccontato da Daniel Fishman nel libro Il grande nascondimento. La straordinaria storia degli ebrei di Mashad, edito da Giuntina nel 2015. Era il 1839 quando, a partire da un oscuro fatto di cronaca, come spesso avvenuto anche in Europa, nacque un assalto al quartiere ebraico della città di Mashad dove una folla inferocita uccise sul posto una trentina di persone, saccheggiando le loro proprietà. Per sottrarsi a morte certa, i membri della comunità decisero di convertirsi all’Islam, ma solo in via formale. Nacque così una doppia identità e una doppia vita che segnò l’esistenza di questa comunità per oltre un secolo: musulmani osservanti in pubblico ed ebrei devoti fra le mura di casa e del quartiere.
Un’ultimo periodo positivo per la comunità ebraica in Iran è rappresentato dal regno di Mohammad Reza Pahlavi (1941-1979), l’ultimo scià del paese, durante il quale gli ebrei videro migliorare da molti punti vista il loro status. Per la prima volta, circa la metà dei membri delle nuove generazioni poté studiare in scuole di comunità nelle quali era previsto, fra l’altro, l’insegnamento dell’ebraico.
Da un punto di vista socioeconomico, diversi ebrei conobbero una rapida ascesa in campo imprenditoriale, accademico e medico, professione quest’ultima nella quale storicamente si erano sempre distinti qui come altrove. Si stima che, negli anni ’60 e ’70, la comunità ebraica iraniana fosse la più facoltosa dell’intero continente asiatico, al di fuori di Israele. Molti di loro lasciarono il paese dopo la rivoluzione del 1979 per trasferirsi in Europa, negli Usa e in Israele.
Dopo la rivoluzione islamica
Più complessa e, certo meno positiva, è la valutazione dell’epoca tuttora in corso, sorta in seguito alla rivoluzione islamica guidata da Khomeini.
Sebbene la nuova Costituzione della Repubblica
islamica, approvata nello stesso anno, riconosca e tuteli ufficialmente la religione ebraica, insieme a cristianesimo e zoroastrismo, non sono purtroppo mancati, soprattutto nei primi anni del nuovo corso, esecuzioni e gravi episodi di violenza nei confronti di diversi membri della comunità.
Spetta proprio a un ebreo, l’imprenditore milionario Habib Elqanian, il triste primato di primo uomo d’affari vittima del nuovo regime, nel maggio 1979. Seguirono, nel dicembre 1980, altre sette esecuzioni di ebrei iraniani, e altre due nel 1982. Su di essi gravavano accuse che andavano dallo spionaggio a favore di Israele e degli Usa, fino alla corruzione e all’alto tradimento. Un ulteriore duro colpo per la comunità si ebbe nell’agosto 1980, con la fuga del rabbino capo Yedidia Shofet dal paese, e con l’invito da lui rivolto ai suoi correligionari a fare altrettanto.
Eppure, anche in questa prima fase durissima, e a dispetto degli eventi traumatici di cui sopra, non è semplice parlare di un piano persecutorio preciso, né di una volontà, da parte del nuovo regime, di estirpare la comunità ebraica locale. Del novembre 1979, ad esempio, è la seguente affermazione dell’ayatollah Khomeini: «Gli ebrei sono differenti dai sionisti; se i musulmani vinceranno i sionisti, lasceranno in pace gli ebrei. Essi sono una nazione come le altre». È importante notare come tale distinzione fra ebraismo e sionismo sia alla base, negli ultimi anni, di molte dichiarazioni da parte dei rappresentanti della comunità ebraica iraniana. Affermazioni, certo, non libere da timori e da un’inevitabile necessità di tutelarsi in un ambiente in parte ostile, eppure, come detto, il semplice fatto che questa comunità nonostante tutto resista rappresenta un segno di pace e di speranza, da non trascurare in alcun modo.
Nonostante una grave flessione demografica fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, in Iran vivono ancora oggi diverse migliaia di ebrei, e sono in funzione diverse sinagoghe e scuole per i membri di questa comunità millenaria. Questi vivono soprattutto nella capitale, Teheran, e in città grandi come Isfahan e Shiraz, ma anche in alcune più piccole come Hamedan, Yazd e Sanandaj, dove sono presenti sinagoghe che servono le comunità locali.
Ad Hamedan si trova la tomba dei biblici Ester e Mordecai (Mardocheo), il luogo di pellegrinaggio più importante per gli ebrei iraniani, aperto anche ai turisti.
Gli aspetti positivi di oggi
Oggi, un futuro per questa comunità in Iran sembra possibile innanzitutto grazie alla tolleranza di larga parte della società civile iraniana che è assai più avanzata del regime che la governa.
Negli ultimi anni, la presidenza Hassan Rowhani ha rappresentato una boccata d’ossigeno, dopo quella di Ahmadinejad, celebre per le sue tesi negazioniste sull’olocausto nazista. Rowhani si è dimostrato assai più aperto rivolgendo i suoi auguri agli ebrei in occasione delle loro festività e permettendo alla comunità, con una serie di disposizioni, di rispettare il sabato. È giusto poi ricordare i risultati della ricerca sull’antisemitismo Global 100, condotta fra il 2013 e il 2014 dall’Anti-Defamation League. I dati dimostrano come in Iran il pregiudizio contro gli ebrei sia meno diffuso che in qualsiasi altro paese del Medio Oriente o dell’Africa settentrionale.
I profughi ebrei durante il nazismo
Gli iraniani diedero prova di sé, della loro connaturata solidarietà e apertura, e anche del loro coraggio, in occasione dell’Olocausto. Si tratta di storie, purtroppo, assai poche conosciute, e che meriterebbero invece una grande risonanza e diffusione, dato il messaggio che veicolano.
Giunsero durante la seconda guerra mondiale, approdando nella città portuale di Bandar Anzali, migliaia di profughi e prigionieri polacchi appena liberati, provenienti dalla Russia. Fra questi, c’erano anche fra i cinque e i seimila ebrei, come riportato dall’enciclopedia dell’Holocaust Memorial Museum di Washington. Tra essi c’erano, come racconta il quotidiano «Haazetz», anche 800 bambini, molti dei quali finiti in seguito in Israele e protagonisti di un documentario del 2007. In un paese, l’Iran, ridotto alla fame più nera, occupato a Nord dai russi e a Sud dagli inglesi, non mancò una grande solidarietà nei confronti di quei cristiani e quegli ebrei giunti da lontano, e ridotti in condizioni ancor più misere della popolazione locale.
Un altro esempio di quella tolleranza che caratterizza, ieri come oggi, buona parte della società iraniana lo troviamo di nuovo nello stesso periodo. Ci riferiamo al caso del console iraniano Abdol-Hossein Sardari, onorato dal Simon Wiesenthal Centre di Los Angeles nel 2004. Diplomatico in Francia ai tempi dell’occupazione nazista, Sardari contribuì a salvare dalla Shoah 2.400 ebrei, iraniani e non, mettendo a repentaglio la sua carriera, il patrimonio e la sua stessa vita. Sfidò apertamente la Gestapo e diede fondo al deposito di passaporti della sua missione diplomatica, fornendo una nuova identità (e a volte una nuova patria) a moltissimi ebrei. Documenti che permisero a molti di fuggire dall’Europa e da una morte probabile. Il tutto in nome di un’umanità che aveva sentito risuonare in lui in quei momenti terribili, spingendolo ad agire e a mettere in discussione tutto.
Simone Zoppellaro
I seguaci di Zarathustra
L’Iran odierno deve moltissimo all’Iran preislamico. A iniziare dalla lingua: il persiano, idioma indoeuropeo. Pur ridotta nei numeri, resiste anche una fede antichissima: lo zoroastrismo, fondato dal profeta Zoroastro (Zarathustra) circa sei secoli prima di Cristo. Una religione monoteistica con tendenze dualistiche che ha alcune similitudini con l’ebraismo e il cristianesimo.
La Persia rappresenta una delle grandi culle dell’umanità, terra antichissima, crogiuolo di idee e culture che, attraverso i millenni, hanno trovato dimora anche nella nostra Europa grazie a viaggiatori, missionari e mercanti. Posta sulla via della seta che ha collegato per secoli il nostro continente alla Cina e all’Estremo Oriente, la Persia è stata fin dalla sua origine, ponte fra le civiltà, luogo di incontro e di rielaborazione di culti e credenze, terra di idee e innovazioni, anche da un punto di vista della religione.
Ben lungi dall’omologazione e dall’appiattimento, l’Iran di oggi reca ampie tracce di questo passato sul suo vasto territorio.
La Persia preislamica è ancora viva, per molti aspetti, nella vita quotidiana delle persone, e nella sua specifica cultura che rende l’Iran un luogo unico e affascinante.
Così, il capodanno persiano, il Nowruz, la principale delle festività dell’Iran di oggi, che cade in corrispondenza dell’equinozio di primavera, risale a prima dell’Islam, e il calendario tutto (solare) si differenzia da quello musulmano (lunare) usato da molti paesi limitrofi.
La stessa lingua, il persiano moderno, è un’evoluzione di quella antica dell’epoca preislamica, e si differenzia in tutto – fuorché nell’alfabeto e nella presenza di alcuni vocaboli – da lingue come l’arabo e l’ebraico, classificate come idiomi semiti. Il persiano è una lingua indoeuropea, come larga parte delle lingue del nostro continente.
Queste sopravvivenze culturali preislamiche permeano tutta la vita degli iraniani di oggi.
Buoni pensieri, buone parole, buone azioni
Nel caso della religione, l’esempio più eloquente di queste antiche sopravvivenze è senza dubbio rappresentato dagli zoroastriani, piccola comunità tuttora presente e attiva nella Repubblica islamica. Seguaci della religione fondata dal profeta Zarathustra (o Zoroastro) vissuto verosimilmente tra la fine del VII e la metà del VI secolo a.C., gli zoroastriani (chiamati in alternativa anche mazdeisti, dal nome del loro dio supremo, Ahura Mazda) sono gli ultimi eredi della grande tradizione religiosa autoctona dell’Iran preislamico.
La fede predicata da Zarathustra, nome che spesso conosciamo solo per l’uso che ne fece il filosofo Nietzsche in una sua celebre opera, è stata, per lungo tempo, religione di stato prima dell’invasione araba, ed è rimasta una presenza significativa nel panorama iraniano ancora fino al IX secolo della nostra era.
È un universo religioso, quello zoroastriano, che presenta alcune curiose e interessanti similitudini con l’ebraismo passate anche al cristianesimo. Si può supporre che ci sia stato un qualche contatto tra lo zoroastrismo e l’ebraismo sia durante il lungo esilio babilonese che dopo il 538 a.C. quando, in seguito alla conquista persiana e al decreto dello scià Ciro il Grande (il quale nel libro del profeta Isaia 45,1, viene definito «l’eletto del Signore»), molti ebrei, ma non tutti, ritornarono a Gerusalemme.
Fra gli aspetti che in qualche modo assomigliano ad alcuni elementi del cristianesimo: l’idea di un salvatore (detto Saoshyant) che, come il Cristo, giungerà alla fine dei tempi, sconfiggendo definitivamente il male prima della resurrezione dei morti; l’idea di un aldilà diviso in paradiso, inferno, e in una zona intermedia riservata a quelle anime le cui colpe e meriti si equivalgono, un po’ come il purgatorio; un angelologia assai ricca; l’idea del tempo come «storia della salvezza», che porterà a compimento il destino dell’uomo e del cosmo.
Tra le linee essenziali di questa antica fede c’è un dualismo metafisico al centro del quale vi è un dio supremo, detto Ahura Mazda (il Signore Saggio), creatore e benefico, che si oppone alle forze del male personificate da Ahriman (lo Spirito Maligno), destinate a soccombere dopo 12.000 anni di storia universale. Altro elemento è il forte senso morale che si riassume nell’osservanza della formula «buoni pensieri, buone parole, buone azioni». Gli zoroastriani credono inoltre in un giudizio individuale delle anime, per cui ognuno sarà giudicato in base ai suoi meriti e colpe.
Centrale nella riforma religiosa operata da Zarathustra è il fatto di aver retrocesso gli dei del pantheon iranico preesistente a semplici demoni. Ancora oggi, in persiano moderno, «demone» si dice «div», con una parola che in origine significava «dio» e che tradisce chiaramente la sua radice indoeuropea nella somiglianza, ad esempio, con il latino «deus».
La lotta fra il bene e il male riguarda anche gli aspetti della morale e della politica: lo scontro con i romani, ad esempio, viene spesso associato nell’iconografia persiana a quello fra Ahura Mazda e Ahriman, fra il bene e il male assoluto, appunto. Questa lettura politica della lotta tra bene e male avrà un influsso, attraverso il medioevo, anche nella politica moderna e nell’idea stessa di «scontro di civiltà». Da questo punto di vista è ironico pensare a George W. Bush che include l’Iran nel cosiddetto «asse del male», insieme agli altri paesi «canaglia».
I morti e le «torri del silenzio»
Altro aspetto interessante dello zoroastrismo riguarda il corpo dopo il decesso: dato che la morte e la decomposizione devono essere tenute lontane dagli elementi della creazione divina, le salme non possono essere sepolte o bruciate. Vengono perciò esposte a diversi metri di altezza su apposite costruzioni (dakhma), note anche come «torri del silenzio», sulle quali gli avvoltorni e i cani ne divorano le carni. Le ossa invece vengono conservate in ossari.
Benché un editto dello scià Pahlavi, a metà Novecento, abbia vietato questo tipo di non-sepolture, ancora oggi, nei dintorni della città di Yazd, si possono visitare le torri del silenzio. Si tratta di luoghi assai suggestivi, anche per il paesaggio e i colori nei quali sono inserite: il deserto, sotto, e l’azzurro del cielo della Persia sopra.
Lo scrittore Alberto Moravia, che visitò Yazd e l’Iran, ne rimase molto affascinato, al punto da indicarlo come il paese più bello dove avesse viaggiato. Facendo un resoconto della sua esperienza sulle pagine del Corriere della Sera, raccontò del forte odore di cadaveri che ancora proveniva dalle torri del silenzio, nonostante gli zoroastriani avessero già iniziato a quei tempi la costruzione di un cimitero alla base di una di queste.
Un’ultima caratteristica che vale la pena di accennare di questa religione è il valore del «fuoco», il più importante tra i simboli zoroastriani, venerato dai fedeli come manifestazione tangibile della potenza divina. Ancora una volta a Yazd, ma anche in altri luoghi dell’Iran, si possono visitare i templi nei quali ardono fuochi ininterrottamente da millenni. Da ricordare è anche l’Avesta, il loro libro sacro, una raccolta di testi composti in diversi periodi, tradotto anche in italiano.
Zoroastriani nel mondo
I seguaci di Zarathustra ancora presenti in Iran sarebbero, secondo i dati dei censimenti, l’unico gruppo minoritario in crescita. Come i cristiani, sia assiri che armeni, e gli ebrei, anche gli zoroastriani hanno un loro rappresentante fisso nel Parlamento iraniano, il Majles, e sono riconosciuti e tutelati dalla Costituzione del 1979.
La comunità zoroastriana numericamente più rilevante si trova oggi fuori dall’Iran, in India, dove nel VII secolo molti iraniani emigrarono in seguito all’invasione araba.
Tra i membri più celebri della comunità zoroastriana nel mondo si ricordano il direttore d’orchestra Zubin Metha e il vocalist dei Queen Freddy Mercury (al secolo Farrokh Bulsara).
Molti seguaci di Zoroastro si trovano oggi negli Stati Uniti, in Europa, in Australia e nei diversi altri centri della diaspora iraniana, portando avanti e reinventando quotidianamente il loro antichissimo credo.
Per fare un ultimo, breve, salto nel passato, un’evocazione di questa religione si trova nel racconto dei Magi arrivati in Palestina per vedere Gesù appena nato. Per usare le parole di papa Benedetto XVI, riprese dal libro L’infanzia di Gesù (Rizzoli, 2012): «Si intende con il termine “magi” degli appartenenti alla casta sacerdotale persiana. Nella cultura ellenistica erano considerati come “rappresentanti di una religione” autentica […]. Possiamo dire con ragione che essi rappresentano il cammino delle religioni verso Cristo, come anche l’autosuperamento della scienza in vista di Lui».
Fu un cammino lungo e difficile quello dei Magi al seguito della stella, un cammino che non pare troppo dissimile da quello che aspetta l’Europa – persa nelle sue contraddizioni interne – dopo l’ascesa al potere di Donald Trump in Usa, che ha posto fine al riavvicinamento dell’Occidente a questa antica nazione che, nonostante tutto, le innegabili contraddizioni e la violenza del suo regime, è portatrice di pace, capace di una tolleranza che, nel contesto del Medio Oriente attuale, sembra dimenticata.
Le minoranze religiose dell’Iran di oggi, ma anche e soprattutto la società civile del paese, in larga parte aperta e inclusiva, sono lì a dimostrarlo.
Simone Zoppellaro
Appendici
L’uno per cento
Da un punto di vista demografico, la larga maggioranza della popolazione (89%) è musulmana sciita, il 10% sunnita e solo il restante 1% (o meno, a seconda delle stime) va diviso fra cristiani, ebrei, zoroastriani e baha’i.
Secondo il censimento ufficiale iraniano del 2011 (sicuramente al ribasso, stando alle comunità stesse), gli zoroastriani erano in quell’anno 25.271, gli ebrei 8.756 e i cristiani, invece, il gruppo più numeroso, 117.704. Manca il dato sui baha’i, in quanto non riconosciuti dalla legge.
In generale, si registra un calo numerico di tutte le minoranze religiose rispetto all’epoca prerivoluzionaria, con la sola eccezione degli zoroastriani: nel censimento del 1976, infatti (l’ultimo effettuato prima della rivoluzione islamica), ammontavano alla cifra tonda di 21.400.
La Costituzione
L’articolo 13 della Costituzione iraniana del 1979, nata con la rivoluzione islamica guidata da Khomeini, tutela zoroastriani, ebrei e cristiani, minoranze riconosciute dalla legge e ancora oggi ben radicate nel paese. Queste – rifacendosi anche a un’antica consuetudine musulmana di rispetto e tutela per le altre fedi – «sono le uniche minoranze che, nei limiti stabiliti dalla legge, sono libere di svolgere i propri riti e di regolamentare lo stato civile e l’istruzione religiosa secondo la loro religione» (art. 13).
Ciascuna di queste minoranze elegge un suo rappresentante nel parlamento iraniano. Più difficile, invece, da un punto di vista della legge, è la situazione delle minoranze non riconosciute, e, in primo luogo, dei baha’i, seguaci di un credo religioso nato nell’Iran del XIX secolo, ma oggi banditi in patria in quanto considerati musulmani apostati.
La Cronologia
? Fine del VII-metà del VI secolo a.C. – Il profeta Zarathustra dà all’Iran una nuova religione, lo Zoroastrismo, un monoteismo con forte tensione al dualismo.
? 550-330 a.C. – La dinastia Achemenide porta la Persia a essere uno dei più grandi imperi della storia, con un’estensione che, partendo dalla Libia e dal Mar Egeo, arriva fino al fiume Indo.
? 633-651 – L’invasione araba pone fine alla dinastia Sasanide e dà inizio alla lenta ma progressiva islamizzazione della Persia.
? 1220 – I mongoli invadono la Persia.
? 1501-1722 – Apogeo della dinastia Safavide, che – cuius regio, eius religio – indirizza l’Islam del paese in direzione dello sciismo, fino a quel momento minoritario. Sotto il sovrano Abbas il Grande (1571-1629) la Persia torna a essere un grande impero, in cui le minoranze – e in primo luogo quella armena – godono di un ruolo privilegiato. Dopo la sua morte, tuttavia, questa stagione di grande apertura e di crescita entrerà in crisi.
? 1921 – Il comandante Reza Khan prende il potere con un colpo di stato e si fa incoronare scià nel 1926, inaugurando la dinastia Pahlavi che durerà fino al 1979.
? 1953 – Il primo ministro (liberale e nazionalista) Mohammad Mossadeq viene rovesciato, in seguito alla nazionalizzazione del petrolio, da un colpo di stato orchestrato dalla Cia (Usa) e dai servizi britannici. Il generale Fazlollah Zahedi è proclamato premier, permettendo allo scià Mohammad Reza Pahlavi, secondo e ultimo sovrano della dinastia, di ritornare dal temporaneo esilio.
? 1979 – In Iran ha luogo la rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini, che pone fine al potere della dinastia Pahlavi e determina la nascita della Repubblica islamica. Nello stesso anno viene emanata una nuova Costituzione.
? 1980-1988 – Guerra Iran-Iraq. Saddam Hussein invade l’Iran, con il supporto degli Stati Uniti, ma non riesce a sfondare. La guerra, un inutile macello, durerà per otto anni. Alla fine i confini dei due paesi resteranno inalterati.
? 1997-2005 – La presidenza di Mohammad Khatami produce un’apertura di cui risentono, positivamente, anche le minoranze religiose, che ricominciano a crescere, anche numericamente, dopo la rivoluzione e la guerra. Ottimi anche i rapporti del presidente iraniano con il Vaticano: Khatami incontra Giovanni Paolo II a Roma nel 1999.
? 2005-2013 – La presidenza di Mahmud Ahmadinejad rappresenta una svolta in senso conservatore di cui risentono anche le minoranze. Tristemente celebri le sue affermazioni negazioniste, che contribuiscono a produrre un’escalation con Israele e a isolare l’Iran.
? 2013- oggi – Hassan Rohani è eletto presidente. Una nuova svolta riformista si impone sulla scena politica iraniana.
? 2015 – A Vienna viene raggiunto l’accordo sull’energia nucleare in Iran. Protagonisti, oltre all’Iran, anche i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti) più la Germania e l’Unione europea. Mai Teheran era stata così vicina a un riavvicinamento con Washington, dopo il 1979.
? 2017 – L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti fa entrare in crisi l’accordo firmato da Barack Obama sul nucleare iraniano.
Siria 2017:
Sulla pelle dei siriani 2
La guerra siriana è entrata nel suo settimo anno. Una guerra che ha devastato e smembrato un paese laico dove la convivenza era la norma. Terroristi, mercenari e paesi stranieri hanno cacciato i siriani che si sono riversati nei paesi confinanti e in Europa. In questa intervista, molto diversa dalle verità propagandate, mons. Haddad, siriano della Chiesa melchita, difende il presidente Assad e accusa la Turchia e l’Arabia Saudita. Intanto Trump…
«Come a Damasco, anche fuori della capitale le strade sono belle, asfaltate e poco trafficate. Viaggiando verso Aleppo si vedono campi coltivati a ortaggi, verdura e frutta di vari tipi. […] Maaloula, villaggio cristiano di antichissime origini, è uno splendore con le case abbarbicate alla roccia e il monastero di Santa Tecla conservato come un gioiello. […] Aleppo è una bella, ricca e intraprendente città commerciale. Lo si vede e lo si annusa. Ad esempio, nel suo suq, uno dei più grandi mercati coperti dell’intero Medio Oriente. Ad Aleppo chiese e moschee sono vicine e nulla contraddice quella tolleranza religiosa che pare essere un connotato acquisito di questo paese. […]».
Queste righe risalgono al lontano giugno 1993, scritte durante il mio primo e unico viaggio in Siria. Tanti anni sono trascorsi e il paese di allora è scomparso sotto i colpi di quasi sette anni di una guerra – forse civile o forse soltanto importata -, fatta sulla pelle dei siriani tra cui si contano 320 mila morti, 6 milioni di sfollati interni e 5 milioni di profughi (dati delle Nazioni Unite). Una guerra che nessuno sembra in grado di fermare.
Per parlare di questo abbiamo incontrato mons. Mtanious Haddad, archimandrita della Chiesa melchita (chiesa cattolica di rito bizantino e lingua araba), a tre anni di distanza dalla prima intervista (MC, 12/2013). Nel frattempo la guerra siriana si è incancrenita e la speranza di tornare alla Siria di un tempo si è assottigliata, anche se mons. Haddad – nativo di Yabroud (Damasco), per anni in Libano e Terrasanta – rimane fiducioso, forse in virtù del suo ruolo più che per reale convinzione. Quando lui parla della sua «amata Siria» lo fa con grande partecipazione, quasi senza prendere il respiro e agitando le mani. Non ha vie di mezzo, mons. Haddad: parla chiaro e senza giri di parole, pur scusandosi – di tanto in tanto – per il fatto di dire una verità scomoda. Fastidiosa perché diversa e spesso opposta da quanto viene normalmente raccontato.
«Siriani, non lasciate la vostra terra»
Mons. Haddad, sono trascorsi tre anni dal nostro primo incontro. Da allora com’è cambiata la situazione nella sua Siria, entrata ormai nel settimo anno di guerra?
«È sempre la mia amata Siria. Mi auguro che il settimo anno non arrivi. Vorrei dare un messaggio di speranza: torneremo a vivere in Siria. Purtroppo, questi ultimi anni sono stati duri e difficili. La povertà è cresciuta. L’emigrazione dei siriani, sia musulmani che cristiani, è aumentata. Sia verso la Turchia che il Libano e l’Europa e l’America. I nostri 5 patriarchi d’Antiochia (Chiesa ortodossa siriaca, Chiesa greco-ortodossa, Chiesa cattolica sira, Chiesa cattolica maronita, Chiesa cattolica greco-melchita, ndr) hanno detto (8 giugno 2015, ndr): “Non lasciate la vostra terra”. Ma non è facile».
In queste condizioni, in cosa lei riesce a intravvedere una speranza?
«Nell’arrivo della Russia. Non solo per l’esercito, ma anche per il suo ruolo di pacificazione. La base militare russa di Hmeimim (nel nord est della Siria vicino a Ltakya, ndr) è diventata un centro di riconciliazione tra siriani».
Il presidente Assad e i media
Qual è il suo pensiero rispetto al presidente Assad?
«Vorrei dare un saluto a questo signore che rimane sempre il presidente legittimamente eletto. E finora ha lottato per conservare e difendere l’unità del suo paese e dei siriani. Dobbiamo rispettare questo presidente che non agisce per sé, né per la sua appartenenza religiosa. Non lo abbiamo mai sentito parlare a nome dell’islam. Lui parla a nome della Siria. E questo gli fa onore».
Eppure non passa giorno senza che i media non accusino Assad di ogni nefandezza, compreso l’uso di armi chimiche. Come lo spiega?
«Mi spiace vedere il comportamento dei mass media europei. La sera io ascolto Al Arabiya (emittente degli Emirati Arabi con sede a Dubai, ndr) e Al Jazeera (emittente del Qatar con sede a Doha, ndr). Poi, al mattino seguente, mi accorgo che i mass media traducono quello che hanno detto le due emittenti arabe. Da sei anni viene ripetuto lo stesso concetto: che Assad è un dittatore, definizione ripresa da Obama e dalla Clinton. E l’Europa di seguito: “Assad ha perso la sua legittimità”, “Assad deve andarsene”. Assad invece deve finire il suo legittimo mandato. L’Europa non vuole ammettere che un presidente è garantito dal suo popolo e lui è il garante del popolo».
Putin ed Erdogan
Lei ritiene positivo l’intervento della Russia di Putin in Siria?
«Sì, lo vedo come portatore di pace. Abbiamo visto che la loro presenza è importante. Prima a livello militare: hanno distrutto migliaia di obiettivi di Isis-Daesh e migliaia e migliaia di cisterne che portavano fuori dai confini il petrolio siriano. In tanti traevano profitti dalla guerra in Siria. L’arrivo di Putin ha dato fastidio all’Europa e all’America (che già da tempo hanno decretato l’embargo contro la Russia).
Questo paese è arrivato con la sua forza militare per dire “basta”: basta al furto del petrolio siriano, basta all’arrivo nel paese di migliaia di terroristi attraverso la Turchia.
Allo stesso tempo i russi hanno portato tonnellate di cibo e medicine. E hanno perso due medici in un ospedale da campo messo su per dare cure mediche al popolo siriano, senza differenze tra musulmani o cristiani (fatto accaduto il 5 dicembre 2016 a causa di un bombardamento sull’ospedale mobile civile appena montato, ndr).
In tante zone dove lo stato siriano e l’esercito sono tornati, i cittadini sono tornati a vivere insieme».
Passiamo a Erdogan, il presidente-dittatore della Turchia. Qual è il suo ruolo nel conflitto siriano?
«Mi spiace dire la verità. Dall’inizio Erdogan ha tradito la causa siriana. Ci sono 910 chilometri di frontiera in comune tra la Siria e la Turchia e lui le ha aperte per far entrare migliaia di uomini per combattere, perché “Assad deve partire, Assad non rappresenta il suo popolo”. Ma chi lo rappresenta? Lui incolpa Assad di essere un dittatore. In arabo si dice “Medico abbi cura di te stesso” (proverbio, molto famoso nell’antichità, in ambiente greco, giudaico e arabo, è usato di solito in riferimento a chi dà consigli agli altri e poi non corregge i propri errori, ndr). Erdogan non ha mai voluto il bene della Siria e soprattutto oggi è tornato al suo sogno preferito: quell’impero ottomano che portò al paese guerra, fame e vittime. Non crediate voi europei che aver dato 6 miliardi delle vostre tasse (e dalle vostre tasche) per far parcheggiare i siriani nei campi della Turchia (accordo del marzo 2016, vedere scheda cronologica) sia stato un buon affare».
È stato un accordo sbagliato?
«Avete sbagliato. Avete aiutato un dittatore, che mira ad avere benefici personali e a far parte della Comunità europea. Come vivono i siriani nei campi della Turchia? Vivono nella miseria. I nostri bimbi sono o sfruttati nel lavoro nero o uccisi per il traffico d’organi umani tra la Turchia e Israele e da qui per il resto del mondo. Sono i fatti che lo raccontano. Mi spiace dire queste cose, ma in Turchia non si può parlare di ospitalità».
E quella della Germania è ospitalità?
«La Germania aveva bisogno di manodopera tecnica e i siriani sono veramente intelligenti e hanno voglia di lavorare. Certo, con questi 700-800 mila profughi in Europa sono arrivati anche i terroristi, che però non sono siriani».
Erdogan parla molto di terrorismo.
«Ma la Turchia non può certamente essere un garante della pace. Non può esserlo, perché è stata garante dei terroristi, perché ha fatto nascere la gran parte dei terroristi».
L’ex presidente Usa Barack Obama era molto critico verso Assad.
«Obama diceva che Assad aveva perso la sua legittimità. Oggi Obama è andato per la sua strada e il nostro presidente continua a essere il legittimo presidente.
Non dovevano immischiarsi negli affari dei paesi altrui. Chi ha dato ad Obama la procura divina per dire Assad può rimanere o Assad deve andare? Doveva guardare al suo paese e lasciare gli altri fare la propria storia. Non è che l’America o l’Arabia Saudita possano darci la democrazia secondo il modello americano o saudita».
Raqqa, eletta a capitale dello?Stato islamico, è in Siria. L’Isis è ancora forte o sta perdendo terreno come si dice?
«Secondo la mia visione sta perdendo terreno. Però va a fasi. Quando la Turchia è un po’ coerente o sotto pressione dell’America e chiude le frontiere e non arrivano più terroristi, allora l’Isis perde.
Finora non ho visto l’Europa fare molto contro l’Isis, che riceve armi e terroristi tramite la Turchia. Finché questo accade, esso può rinascere o crescere. Tutti i terroristi che hanno rifiutato di fare la pace con lo stato siriano, dovrebbero tornare al loro paese».
Papa Benedetto e le armi
Si arriva sempre alle armi: a chi le fa, a chi le vende, a chi le compra…
«Papa Benedetto XVI, durante il suo viaggio in Libano (14-16 settembre 2012, ndr), aveva detto: “Io vorrei mandare un messaggio di pace per la Siria con tre parole: chiudere le tasche che pagano il prezzo delle armi, chiudere le fabbriche che fanno le armi e chiudere le frontiere da dove passano le armi”.
Se tutto questo avvenisse, i siriani non avrebbero bisogno di più di sei mesi per riunirsi tra loro e terminare con il conflitto».
Un conflitto nel quale i gruppi combattenti sembrano moltiplicarsi.
«Questi gruppi sono fluidi e anche in concorrenza tra loro. Dipende della zona dove operano. Dove sono un po’ indeboliti, si raggruppano di nuovo. Dove sono in concorrenza per il territorio, allora si fanno la guerra tra loro. Abbiamo visto anche molti cambiamenti dei loro nomi. Ad es al-Nusra oggi Hayat Tahrir al-Sham. È vero: sono tantissimi gruppi che non si arriva neppure a nominarli perché, da un giorno all’altro, cambiano nome e terreno d’azione. Vorrei non sentire più né nomi né gruppi perché la Siria ha bisogno della pace».
Arabia Saudita: soldi e sharia
Tutti questi gruppi di miliziani che combattono in Siria perché lo fanno?
«Ah, è una bella domanda questa! La gran parte sono stranieri. Combattono per avere soldi e basta. Alcuni sono arrivati in nome dell’islam per uccidere e portare la democrazia musulmana, cioè la sharia, alla Siria. La loro vocazione musulmana li spinge a porre fine alla convivenza siriana, alla democrazia siriana.
Un saudita viene a combattere perché non può sopportare i siriani, il loro modo di vivere, il loro modo di stare insieme. Non può vedere la chiesa vicina alla moschea, o il prete camminare in strada con suo fratello imam o sheik. Costoro vogliono distruggere il modello siriano in nome dell’islam, in nome del Corano. Per loro ogni cristiano è un eretico da combattere e da uccidere. Alcuni sono venuti con questa missione. E poi avranno 72 vergini in cielo, no? Detto questo, la gran parte dei combattenti sono venuti per soldi. Vanno con chi li paga di più».
A proposito di combattenti e di dollari, che ruolo hanno l’Arabia Saudita, il Kuwait, il Qatar, paesi sunniti?
«Questo è un punto importante, perché lì ci sono le tasche. Arabia Saudita, Qatar, Kuwait hanno tantissimi soldi e non sanno che farne. Non hanno pensato che potevano costruire un ospedale in ogni villaggio della Siria, della Turchia o del loro stesso paese. Se un giorno finirà il loro petrolio, che faranno questi paesi? Da sempre non vogliono né la convivenza né la presenza dei cristiani. Dicono che a Vienna c’è il più grande centro di dialogo interreligioso d’Europa (il Kaiciid, inaugurato nel novembre 2012 e finanziato dall’Arabia Saudita, www.kaiciid.org, ndr). Ma in Arabia Saudita c’è una chiesa?».
Mi pare che non sia consentito.
«L’anno scorso, il 15 agosto, hanno preso una ventina di cristiani che pregavano la Madonna, peraltro citata e rispettata nel Corano. Erano andati per pregare in una stanza senza croce e senza canti, ma forse un vicino li ha traditi. Sono arrivati gli uomini dello stato saudita e le persone sono state espulse. Allora mi chiedo: è questo il modello di convivenza che loro vorrebbero esportare in Siria?
In Siria cristiani e musulmani frequentano la stessa università, cosa che i sauditi non possono accettare. Come non possono accettare questo presidente che viene da una piccola famiglia musulmana alawita (Assad, ndr) e che loro vogliono mandare a casa per porre fine alla convivenza e instaurare la sharia anche in Siria.
In Arabia Saudita non c’è neppure una chiesa, mentre in America, ad esempio, ci sono 3.500 moschee. In Europa si accolgono molti musulmani in nome dei diritti dell’uomo. Sono d’accordo, ma dov’è la reciprocità? Io dico: chiedete per noi almeno una chiesa in Arabia Saudita, chiedete per noi i diritti come cittadini in paesi che non accettano neppure un cristiano.
A La Mecca, il loro luogo sacro, c’è una strada per i credenti e una strada per gli eretici. Se facciamo un paragone, a San Pietro, a Roma, non c’è nulla di simile. Il dialogo interreligioso deve essere fatto sulla base dell’eguaglianza: stessi diritti e stessi doveri. Nei paesi dove vige la sharia non è così».
Lei sembra molto critico verso l’Arabia Saudita.
«Finora l’Arabia Saudita da sola ha pagato 200 miliardi per distruggere le infrastrutture in Siria. Dove sono andati questi soldi? A chi fa la guerra in Siria e una gran parte in America per pagare le armi. Gli Stati Uniti hanno incassato miliardi e miliardi dall’Arabia Saudita. A prezzo del sangue siriano innocente, sia cristiano che musulmano».
I cristiani travolti dalla guerra
A proposito di cristiani, qual è la condizione di coloro che sono rimasti nella Siria in guerra?
«Nella mia amata Siria la comunità cristiana fa parte della comunità siriana. Come altri siriani anche i cristiani, avendo avuto le proprie case distrutte, hanno dovuto sfollare andando in altre zone del paese. Invece di lasciare la Siria per rifugiarsi in Libano, in Giordania o, in maniera inferiore, in Turchia hanno preferito una migrazione interna. I terroristi mettono al primo posto i cristiani, a meno che essi non accettino di convertirsi all’islam. Questo è il prezzo pagato da chi è rimasto.
Se voi europei volete aiutare i cristiani della Siria, dovreste aiutare i siriani a vivere con dignità a casa loro, ricostruendo gli ospedali, le scuole, le infrastrutture. Ma soprattutto dovreste aiutare a ricostruire la convivenza nel paese».
Aleppo caduta, Aleppo liberata
Quando la visitai Aleppo era una ricca città commerciale. Oggi è assurta a simbolo della devastazione della guerra.
«La tragedia della Siria è Aleppo. Aleppo che era nel mirino della Turchia. Dall’inizio della guerra i turchi sono venuti a smontare le fabbriche tessili della città. Quello che non hanno potuto smontare e portare in Turchia lo hanno distrutto.
Quando è stato detto “Aleppo è caduta”, noi siriani abbiamo detto con gioia “Aleppo è stata liberata”. Questa è la differenza tra chi vuole bene e chi vuole male alla Siria.
Aleppo era una città viva, commerciale, tanto da essere la capitale economica del paese. Hanno voluto ucciderla, distruggerla. Alla fine l’esercito siriano – anche con l’aiuto, come abbiamo detto, dei nostri amici russi e libanesi – ha riconquistato Aleppo. Mi auguro che anche le altre città saranno liberate e torneranno in seno allo stato siriano».
I kurdi e la Siria
I kurdi sono in prima linea nella guerra contro l’Isis.
«Da sempre i kurdi fanno parte della Siria e si sentono cittadini siriani. Nel parlamento ci sono rappresentanti kurdi, nell’esercito ci sono kurdi che fanno il servizio di leva e anche la guerra. Alcuni giocano la carta dell’indipendenza, ma la gran parte dei kurdi si sente siriana».
Tornare a una Siria unita
Mons. Haddad, se dovesse fare un appello per il suo paese, cosa direbbe?
«Di aiutare i siriani a tornare nel loro paese. Tornare a stare insieme e a ricostruire la Siria come era: un punto d’incontro tra religioni, culture ed etnie e un ponte tra Occidente e Oriente. Questa è la Siria. Noi siriani vogliamo tornare ad essere un popolo unito in una Siria unita».
Così parlava mons. Haddad prima che la devastante guerra siriana conoscesse i drammatici eventi di aprile. Se sull’attacco alla Siria è comprensibile (ma non giustificabile) il plauso di Israele, Turchia e Arabia Saudita, paesi nemici, ridicoli e imbarazzanti sono stati gli elogi al decisionismo di Trump fatti dalla gran parte dei media e dei politici occidentali.
Indirettamente lo ha fatto capire anche il vescovo siriano Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, che all’agenzia Fides ha dichiarato: «Una cosa che sconcerta, davanti all’attacco militare Usa in territorio siriano, è la rapidità con cui è stato deciso e realizzato, senza che prima fossero state condotte indagini adeguate sulla tragica vicenda della strage con le armi chimiche avvenuta nella provincia di Idlib».
Sul presunto attacco chimico il vescovo siriano Antornine Audo, presidente di Caritas Siria, ha aggiunto: «Non riesco proprio a immaginare che il governo siriano sia così sprovveduto e ignorante da poter fare degli ‘errori’ così madornali».
Sulla stessa linea critica è stato l’arcivescovo siriano Jacques Behnan Hindo: «(L’attacco Usa) era già predisposto, per questo non hanno voluto prendere in nessuna considerazione le richieste di indagini più approfondite sulle responsabilità (del fatto) avvenuto nella provincia di Idlib». Che Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, sia il vendicatore dei siriani oppressi da Assad è un’affermazione che forse neppure i suoi più accesi sostenitori potrebbero portare avanti. Il presidente dal tweet compulsivo aveva molti motivi (in primis interni) per l’attacco missilistico del 7 aprile, ma certamente non quelli umanitari. L’uomo lo ha anche pubblicamente ammesso durante l’annuncio televisivo: l’intervento era necessario per la sicurezza degli Stati Uniti («vital national security interest»). È altrettanto certo che l’intervento Usa non ha salvato un solo bambino siriano dalla guerra. Anzi, rafforzando il terrorismo jihadista (che stava perdendo davanti all’offensiva di Assad e alleati), ha giocato sulla pelle di tutti i siriani che ancora vivono e resistono nel loro paese. Costoro ancora una volta pagheranno il prezzo di decisioni e interessi estranei alla Siria. E anche a noi occidentali verrà presentato il conto.
Scheda 1
Cronologia: dagli ottomani ai missili di Trump
Siria, un paese in frantumi. Damasco, Aleppo, Kobane, Palmira, Homs, Raqqa, Idlib da città a fronti di battaglia. Eppure la pace – sostengono politici e media – sarebbe a portata di mano senza Assad al potere. Peccato che, nel recente passato, operazioni simili abbiano prodotto disastri.
1516 – 1918 – L’Impero ottomano domina su Siria e Libano, parti della regione denominata «Grande Siria».
1916, 16 maggio – Trattato (segreto) di Sykes-Picot: Gran Bretagna e Francia si spartiscono il Medio Oriente.
1919 – 1946 – Dopo la fine della prima guerra mondiale e il trattato di Versailles, la Francia ottiene il protettorato su Siria e Libano.
1940 – 1947 – Nasce e si sviluppa il partito Ba’th (Baath). Uno dei fondatori è il cristiano Michel Aflaq.
1946 – Indipendenza della Siria.
1963 – Il partito Ba’th va al potere.
1967 – Dopo la «guerra dei sei giorni», Israele si annette unilateralmente il territorio siriano delle Alture del Golan, da cui non si è mai ritirato.
1971 (febbraio) – 2000 (giugno) – Diventa presidente della Siria Hafiz al-Assad, alawita del partito Ba’th.
1973, marzo – Viene varata la prima Costituzione siriana.
2000, luglio – Diventa presidente Bashar al-Assad, di professione medico, figlio di Hafiz.
2011, marzo – Manifestazioni di protesta sulla scia delle cosiddette «primavere arabe». Inizia il conflitto.
2012, 27 febbraio – Il referendum popolare approva la nuova Costituzione siriana: non c’è più il partito unico (art. 8) e sono posti limiti alla carica presidenziale (art. 88).
2012, luglio – Iniziano i combattimenti a Damasco e soprattutto ad Aleppo.
2013, agosto – Si diffonde la notizia dell’uso di gas nervino a Damasco. Le forze ribelli accusano il governo, che nega qualsiasi coinvolgimento. Nessuna notizia certa, neppure sul numero delle vittime.
2014, gennaio – Lo Stato islamico (Daesh) conquista Raqqa, nel Nord del paese, e ne fa la propria capitale.
2014, maggio – Le forze di Assad riconquistano Homs, terza città del paese.
2014, 3 giugno – Assad e il partito Ba’th vincono nettamente le elezioni presidenziali. Dall’estero si contesta duramente il risultato.
2015, giugno – Lo Stato islamico perde Kobane, città a maggioranza kurda alla frontiera con la Turchia. La liberazione è opera delle forze kurde riunite nel Ypg, l’esercito della regione (autonoma de facto) di Rojava, il Kurdistan siriano.
2015, settembre – La Russia di Putin inizia raid aerei a sostegno del governo di Damasco.
2016, 17 marzo – Viene firmato un accordo tra Unione europea e Turchia sulla questione dei migranti. Erdogan avrà fino a 6 miliardi di euro entro il 2018 per la gestione dei campi profughi.
2016, settembre – novembre – La Germania di Angela Merkel apre le porte ai profughi siriani, salvo poi richiuderle visto l’altissimo numero di richieste di asilo e le proteste delle organizzazioni di estrema destra.
2016, dicembre – Le truppe di Damasco riconquistano Aleppo Est, da anni in mano ai ribelli. La città, patrimonio dell’Unesco, è un cumulo di macerie.
2017, marzo – L’esercito siriano riconquista Palmira, sito archeologico di fama mondiale messo a ferro e fuoco dai miliziani dello Stato islamico. La città è passata più volte da uno all’altro dei contendenti.
2017, 4 aprile – Viene diffusa la notizia di un attacco chimico a Khan Sahykhun (provincia di Idlib). Si contano oltre 70 morti. Immediatamente la responsabilità è attribuita all’aviazione di Assad (un’azione illogica vista la sua posizione di forza). Damasco e Mosca danno una versione opposta: è stato colpito un deposito in cui i ribelli avevano stivato delle bombe chimiche.
2017, 6 aprile – Due navi da guerra statunitensi di stanza nel Mediterraneo lanciano 59 missili Tomahawk contro la base siriana di Shayrat, nei pressi di Homs. Vengono distrutti aerei, piste e postazioni di rifornimento. Ci sono 15 morti. Applausi da Israele e Arabia Saudita e dai «ribelli» (terroristi, compresi). Consensi da Hollande, Merkel e Gentiloni. Dure critiche da parte di Russia e Iran.
2017, 15 aprile – Un pick up imbottito di esplosivo viene fatto saltare in aria accanto a un convoglio di autobus e ambulanze adibiti al trasferimento verso Aleppo della popolazione sciita, soprattutto donne, anziani e bambini. Rimangono uccise 126 persone, tra cui oltre 60 bambini. L’attentato è opera di una delle milizie sunnite anti-Assad. Al contrario dei fatti di Idlil, nessuno sdegno internazionale, nessuna protesta ufficiale alle Nazioni Unite, nessuna prima pagina.
2017, 16 aprile – In Turchia, dopo un referendum costituzionale falsato dai brogli, il presidente Erdogan amplifica il proprio potere. Applausi di Trump e (timide) proteste internazionali. Lui risponde parlando di «crociati», la stessa terminologia usata dai terroristi dell’Isis.
2017, 25 aprile – Aerei turchi colpiscono avamposti kurdi nell’Iraq settentrionale e in Siria, vicino alla città di al-Malikiya. Erdogan è disposto a tutto pur di impedire la nascita di uno stato kurdo indipendente.
2017, 3-5 maggio – Ad Astana in Kazakhstan riprendono i colloqui di pace tra governo siriano e gruppi ribelli con la mediazione di Russia, Iran e Turchia. Si stabilisce la costituzione di 4 zone cuscinetto.
2017, 16 maggio – A Ginevra, sotto l’egida delle Nazioni Unite, riprendono i colloqui di pace (V sessione), ma l’attenzione e le speranze sono riposte in Astana.
Pa.Mo.
Scheda 2
Dietro la guerra. Chi arma diavoli e terroristi
Come in tutte le guerre anche in quella siriana c’è chi fa enormi affari con le armi. Ma va detto sottovoce.
«Non vedo Assad come il diavolo – ha detto mons. Joseph Tobji, arcivescovo cattolico maronita di Aleppo in un’audizione alla Commissione esteri del Senato (4 ottobre 2016) -. In Siria prima stavamo bene, era un mosaico vivibile, con un Islam moderato e aperto. Adesso viviamo in compagnia della morte. […] Qualcuno ci accusa di essere venduti al governo, ma perché mi devono imporre l’idea che Assad sia il diavolo? I ribelli sono seguiti convintamente da pochissime persone. I terroristi hanno buoni rapporti con i turchi. Ho visto terroristi dell’Isis parlare amichevolmente con militari turchi. In più ci sono gli stranieri wahabiti sauditi che strumentalizzano l’Islam per scatenare la guerra».
Dopo gli eventi di aprile, la sporchissima guerra siriana è tornata ancora una volta in prima pagina. Peccato che poche volte si ricordi che questa è una guerra alimentata dal gigantesco e profittevole mercato delle armi sul quale tutte le potenze mondiali sono attori protagonisti nelle vesti di produttori e venditori.
Stando ai dati dell’istituto Sipri (Stockholm International Peace Research Institute – www.sipri.org), gli Stati Uniti continuano a guidare – con ampio margine – la classifica mondiale dei paesi esportatori di sistemi d’arma. Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Germania rappresentano il 74 per cento del volume delle esportazioni. Tra i maggiori compratori va segnalato il quarto posto dell’Arabia Saudita (con il 10% del Pil speso in armi nel 2016), attore occulto nella guerra in Siria e palese in quella (peraltro da tutti ignorata) in Yemen.
In tempi di fortissima competizione internazionale, crisi economica e occupazionale e ora anche di dilagante terrorismo è chiaro (ma non giustificato) che la produzione e la vendita di armi non vengano messe in discussione, pur se eticamente immorali. Quello che è insopportabile è l’ipocrisia e la retorica messe in campo dalle élite politiche e da molti media.
Tra i produttori ed esportatori di armi c’è anche l’Italia, ben piazzata. Stando ai dati di Sipri, l’italiana Finmeccanica-Leonardo (il cui azionista principale è lo stato) è il nono produttore mondiale. A livello di paese, l’Italia è l’ottavo maggiore esportatore.
Il problema sta proprio in questo: che una buona parte delle armi vengono vendute a paesi in guerra, palese o a bassa intensità che sia. Gli stessi paesi che poi producono milioni di profughi che andranno a spingere sulle frontiere europee e occidentali in generale.
In un mercato così florido e poco trasparente per i gruppi terroristici è quasi uno scherzo procurarsi armi (Si vedano le ricerche di Conflict Armament Research, associazione finanziata dall’Unione europea). Soltanto un esempio per intenderci. Nel sito archeologico di Palmira, i miliziani islamici del Daesh hanno seminato migliaia di mine antiuomo (di cui un tempo anche l’Italia era grande e rispettata produttrice).
La giustificazione più immediata per il businness delle armi non è cambiata nel tempo perché regge sempre: «Se non le vendiamo noi, le venderà qualcun altro». Giusto, no?