India. Modi, l’autocrate induista

 

Con 1,4 miliardi di persone l’India è il paese più popoloso al mondo. Un paese in rapida crescita economica e politica, dal 2014 guidato con mano ferma da Narendra Modi. Per la sua abilità a muoversi su fronti opposti, il primo ministro indiano può essere paragonato a Recep Erdoğan. E, come il presidente turco, Modi utilizza la religione – nel suo caso, l’induismo – per consolidare il proprio potere. Il primo ministro ha gioco facile essendo il leader del «Bharatiya janata party» (Bjp), partito della destra nazionalista e induista, che detiene solide maggioranze in entrambe le camere del Parlamento indiano.

Nel paese gli induisti sono circa l’80 per cento del totale, i musulmani il 14 per cento e i cristiani il 2,3 per cento. Da anni i cristiani – circa 30 milioni, concentrati soprattutto nel Kerala e nel Tamil Nadu – sono oggetto costante di violenze e attacchi. Nel maggio 2023, soltanto nello stato di Manipur (India del Nordest) sono state distrutte 249 chiese.

Per i musulmani – che comunque sono circa 200 milioni (la più consistente minoranza religiosa al mondo) – non va meglio. Anzi, le discriminazioni nei loro confronti iniziarono già nel 1947, quando l’Impero britannico divise il subcontinente indiano nell’India (a maggioranza induista) e nel Pakistan (a maggioranza islamica), quest’ultimo nel 1971 scissosi dalla sua parte orientale divenuta Bangladesh (anch’essa islamica).

A fine luglio 2023, ci sono stati gravi incidenti tra induisti e musulmani nello stato di Haryana (India settentrionale). Il risultato è stata la distruzione di circa 1.200 tra case e negozi appartenenti alla minoranza islamica.

La Costituzione indiana parla della libertà di religione negli articoli dal 25 al 28. In particolare, l’articolo 25 afferma: «[…] tutte le persone hanno ugualmente diritto alla libertà di coscienza e al diritto di professare, praticare e diffondere liberamente la religione». Nonostante questo, l’ultimo attacco alla parità sancita dalla carta costituzionale arriva da una norma dello Stato, il «Citizenship amendment act», legge approvata nel dicembre 2019, ma entrata in vigore soltanto in questo mese di marzo. Essa prevede una corsia preferenziale verso la naturalizzazione per indù, parsi, sikh, buddisti, giainisti e cristiani fuggiti in India da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan prima del 31 dicembre 2014. La legge esclude i musulmani, che sono maggioranza in tutte e tre le nazioni.

La presidente dell’India è Droupadi Murmu, donna di etnia Santhal. La carica è altisonante, ma il potere effettivo è inconsistente. Il paese è saldamente nelle mani di Narendra Modi che, a partire dal 19 aprile, cercherà di ottenere il suo terzo mandato. Come sempre accade per gli autocrati, il successo è assicurato.

Paolo Moiola




Palestina. Un Gesù Bambino con la kefiah

Meno di trenta chilometri separano Ramallah da Betlemme. Nonostante questo, soprattutto per i Palestinesi, recarsi alla cittadina della natività è diventato quasi impossibile.

I taxi aggirano i check-point israeliani passando dalle montagne, dalle valli senza strade asfaltate, tra i vicoli dei villaggi e gli uliveti. È impossibile evitarli tutti. In uno, quello principale sulla congiunzione che va verso Gerusalemme, ogni macchina viene ispezionata con cura. Molte sono le persone che vengono fatte scendere per essere perquisite. A volte ci vogliono ore. Per questo ci si sposta solo se strettamente necessario.

Natale 2023: una Betlemme vuota e triste. (Foto Angelo Calianno)

Normalmente, in questo periodo prenatalizio, Betlemme è affollata di turisti e pellegrini che si recano in visita alla basilica della natività. Centinaia sono i negozi di articoli religiosi e souvenir, oggi quasi tutti chiusi. Betlemme vive di turismo per il 70%. Dal 7 ottobre però, non è più così. Pur essendo domenica, sono pochissimi i fedeli che hanno assistito alla messa. Lo spiazzo antistante la basilica, sempre pullulante di macchine e autobus, è tristemente vuoto.

Entrando all’interno della Basilica, incontro padre Athanasios, uno dei sacerdoti greco ortodossi della chiesa. Racconta: «Io sono qui da più di 30 anni. Ho vissuto entrambe le intifada, ma non ho mai visto la chiesa così vuota come in questi ultimi due mesi. Non solo la chiesa, guardati attorno, tutti i negozi sono chiusi. Sono intere famiglie che dipendono dal turismo religioso. Queste persone possono resistere con i propri risparmi per un po’. Poi sarà davvero impossibile, se qualcosa non cambia presto. Noi celebreremo, come sempre, tutte le funzioni. Ma verranno solo i fedeli di Betlemme, per chi vive nelle città e nei villaggi vicini, sarà impossibile spostarsi».

Una signora, che ha appena acceso una candela all’interno della grotta della natività, dice: «Noi cristiani siamo sempre meno qui. I miei figli sono in America, hanno trovato lavoro lì e non torneranno. I fedeli rimasti sono quasi solo persone della mia generazione, tutti anziani. I cristiani, però, non vanno via per un problema di convivenza con i musulmani, anzi, viviamo assolutamente fianco a fianco senza nessuna difficoltà. La maggior parte delle persone va via perché l’occupazione militare israeliana è diventata soffocante. Fa poca differenza se musulmani o cristiani, per loro siamo Palestinesi, e quindi non abbiamo diritti».

La cappella nella grotta, normalmente, è il punto più affollato della basilica. La piccola scalinata porta ad uno spazio ristrettissimo. Soprattutto a Natale, ci vogliono ore di fila per accedervi. Oggi è totalmente vuota. Sono presenti solo due suore, scese qui per accendere una candela.

Spostandomi verso il centro, ritrovo nei fatti le parole di padre Athanasios, una lunga via deserta fatta di negozi dalle porte chiuse. La città si rianima verso il centro, lì dove ci sono i bazar arabi. In queste stradine trovo la Chiesa evangelico luterana della natività. Questo luogo è salito, di recente, agli onori della cronaca per il suo presepe.

In questa particolare natività si rappresenta Gaza. Gesù Bambino è avvolto da una kefiah e giace su un mucchio di macerie. Il suo artefice è il reverendo Munther Isaac, giovane pastore palestinese. Mi confessa: «Non mi aspettavo tutto questo clamore mediatico. Da quando ho realizzato il presepe, mi richiedono anche dieci interviste al giorno. Sono esausto. Oggi sono venuti anche quelli della Rai, a loro ho detto: “Non dovreste essere qui. Questa chiesa non è una notizia. Dovreste documentare quello che sta accadendo a Gaza”».

La moschea di Omar Ibn Al-Khattab sorge proprio di fronte alla basilica della natività. Spesso, le campane della chiesa risuonano contemporaneamente al canto del muezzin, il richiamo alla preghiera per i musulmani. Betlemme è sempre stato un grande esempio di convivenza tra religioni.

Quindici anni fa, la percentuale di cristiani della cittadina era dell’80%. Oggi, causa le continue limitazioni imposte da Israele, i cristiani sono appena il 10% degli abitanti di Betlemme.

Lo scorso 29 novembre, le autorità locali hanno annunciato che si terranno le messe, ma, festeggiamenti, processioni e i tradizionali concerti verranno annullati, per solidarietà nei confronti della popolazione di Gaza.

Angelo Calianno da Betlemme




Cristiani e musulmani: una parola comune


A partire dal documento firmato nel febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb, un libro che segue le recenti tappe del dialogo tra le due più diffuse religioni al mondo, ricco di sfide difficili, ma belle.

Anche nel nostro tempo segnato da secolarizzazione e pluralismo, le religioni hanno un ruolo importante per la costruzione di un rapporto pacifico tra le culture.

Un segno di questo è la rilevanza assunta dal Documento di Abu Dhabi, poche pagine firmate da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar, il 4 febbraio 2019, nell’ottavo centenario dell’incontro di san Francesco d’Assisi con il sultano d’Egitto.

Ne parlano nel loro volume: Per una fratellanza umana. Cristiani e musulmani uniti nella diversità, edito da Paoline nel 2021, Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba, e Antonio Cuciniello, assegnista di ricerca in studi islamici, entrambi presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.

I due autori rileggono quel documento sotto il profilo dei rapporti tra la Chiesa cattolica e i musulmani, e lo inquadrano nel percorso compiuto negli ultimi decenni, indicandone gli orientamenti di fondo: il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità, la sincerità delle intenzioni (papa Francesco); il «proclamare con chiarezza ciò che abbiamo in comune» (Benedetto XVI); infine i quattro livelli della solidarietà spirituale enucleati da padre Maurice Borrmans, islamista francese e missionario dei Padri Bianchi: il dialogo dei cuori; il dialogo della vita; il dialogo audace su Dio e sull’uomo; il coraggioso dialogo del silenzio, in cui Dio parla al cuore di ciascuno.

Gli autori Barca e Cuciniello ripercorrono, quindi, alcune delle tappe del dialogo islamocristiano che hanno fatto maturare il Documento di Abu Dhabi.

Scrivono della Lettera aperta a sua santità papa Benedetto XVI inviatagli da trentotto sapienti musulmani nel 2006 dopo il suo famoso discorso di Ratisbona (per il quale il trascendentalismo islamico separava fede e ragione). In essa ribadivano che «l’unità di Dio, la necessità di amarlo e la necessità di amare il prossimo sono il terreno comune tra islam e cristianesimo», ricordando che Corano 16,125 invita i musulmani al dialogo con ebrei e cristiani.

I due studiosi della Cattolica ricordano poi la lettera indirizzata nel 2007 da 138 esponenti musulmani a capi religiosi cristiani, intitolata Una parola comune tra noi e voi, citazione del Corano 3,64: «Veniamo a una parola comune tra noi e voi». In essa si sostiene che le differenze tra le religioni non devono provocare odio e conflitto, ma il «gareggiare nelle opere buone» (Corano 5,48).

Nel 2016, trecento personalità musulmane da centoventi paesi, nella Dichiarazione di Marrakech sui diritti delle minoranze religiose nei paesi a maggioranza musulmana, auspicavano una «giurisprudenza della cittadinanza» come base comune per superare le discriminazioni religiose.

Infine, nel Documento di Abu Dhabi, breve e semplice, cristiani e musulmani hanno indicato insieme i valori che li accomunano e che appartengono anche all’etica laica delle dichiarazioni moderne dei diritti.

La fratellanza umana, in tutte le spiritualità, sostiene la dignità di poveri, deboli, vittime.

«In nome di Dio», musulmani e cristiani riconoscono questa fraternità e la cultura del dialogo.

Il pluralismo religioso è parte della volontà di Dio. I linguaggi religiosi orientano, più che definire. Il concetto occidentale di laicità è espresso col termine arabo che significa «civile», né militare, né confessionale.

In particolare, «Dio ha proibito di uccidere, perché chiunque uccide una persona è come se uccidesse tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se salvasse l’umanità intera», detto ebraico, poi islamico, ora anche cristiano, che suggerisce oggi l’illiceità di ogni guerra, incapace di realizzare giustizia.

Nel Documento sono affermati anche i diritti della donna.

Nasce un islam europeo che non è più solo importato. In Italia sono 2,7 milioni i musulmani residenti, tra cittadini italiani e stranieri.

Le giovani donne musulmane a scuola studiano più degli uomini, rispettano i genitori, ma non si riconoscono nel modello materno: cercano un compagno di vita da pari a pari. Se mettono il velo, lo fanno per scelta.

Nello stesso 2019, la dichiarazione, Una fratellanza per la conoscenza e la cooperazione, delle maggiori rappresentanze musulmane di Italia e Francia, ha aderito al Documento di Abu Dhabi e ha istituito, in scuole e università, consigli culturali per un patto educativo globale interreligioso.

Enrico Peyretti

Per approfondire

 

 

 

 

 

 

 

  • Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale. Guida alla lettura di Giacomo Costa, Elledici 2021.
  • Teologia del pluralismo religioso, Pazzini Editore 2013.
  • Il Corano. A cura di Layla Mustapha Ammar. Introduzione, traduzione e commento di Alessandro Bausani, BUR, 2006.
  • Cristianesimo e Islam in dialogo, Claudiana 2004.
  • Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi 2003.
  • Storie italiane di buona convivenza, EDB 2004.
  • Vite e detti di santi musulmani, TEA 1988.
  • Detti e fatti del profeta dell’Islām, Utet 2009.
  • Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 2004.
  • Per un consenso etico tra culture, Marietti 1995.

 

 

 

 

 

 

 


Librarsi per la pace

Inizia con questo numero una nuova collaborazione tra Missioni Consolata e il Centro studi Sereno Regis. In un tempo di generale «chiamata alle armi», sentiamo il bisogno di tutti i contributi possibili per far crescere la cultura della pace.

I l Centro studi Sereno Regis (Cssr) è uno spazio culturale nato a Torino nel 1982 dall’iniziativa di alcune persone impegnate nei campi della pace, nonviolenza, obiezione di coscienza, disarmo, ma anche dell’ambiente, educazione e partecipazione dal basso (ad esempio con il sostegno al sorgere dei comitati di quartiere).

È oggi uno dei più importanti e riconosciuti centri italiani di documentazione e promozione della cultura della nonviolenza e della trasformazione nonviolenta dei conflitti con un patrimonio archivistico unico nel suo genere.

La «mission»

La mission del Cssr si declina in tre ambiti trasversali: ricerca, formazione e azione, e prevede un forte investimento nella condivisione del suo patrimonio archivistico e dei suoi studi, attraverso un programma di attività mirate a intensificare la relazione con il territorio e al coinvolgimento di ampi settori della società con un approccio libero, inclusivo e cooperativo.

La programmazione culturale, che si fonda sull’utilizzo di discipline diverse in dialogo tra loro (tra cui, ad esempio, le arti e il cinema, oltre alle iniziative educative, alle analisi offerte in convegni, e così via), è indirizzata all’approfondimento, alla discussione, al confronto sui temi cardine dell’ambiente, della pace, del dialogo, della partecipazione democratica.

Domenico Sereno Regis

Il Centro studi prende il nome da uno dei suoi fondatori, scomparso prematuramente nel 1984, Domenico Sereno Regis, partigiano nonviolento e, tra le altre cose, instancabile animatore dei primi comitati di quartiere nella Torino del dopoguerra. Il tema della partecipazione consapevole e diffusa, infatti, è da sempre una cifra della vita associativa del Centro. Facilitare i processi partecipativi, dare voce a chi non ne ha, accompagnare lo sviluppo di associazioni e movimenti verso il raggiungimento dei loro obiettivi, fa parte delle competenze che negli anni l’associazione ha sviluppato insieme all’approfondimento delle «tecnologie sociali» che permettono a questi processi di raggiungere i propri obiettivi con inclusività ed equità.

Nonviolenza e riconciliazione

Le figure di Domenico Sereno Regis (1921-1984) e di Nanni Salio (1943-2016), quest’ultimo presidente del Centro studi fino alla sua scomparsa, hanno dato le radici culturali e impersonato le motivazioni politiche e filosofiche dell’associazione.

L’ambito socioculturale di riferimento nel quale il Centro studi si riconosce è quello più ampio e complessivo del Movimento internazionale della riconciliazione (Mir) e del Movimento nonviolento (Mn), a livello internazionale rappresentato dall’Ifor (International fellowship of reconciliation, sei premi Nobel per la pace), di cui il Mir è la sezione italiana, e dalla War resisters’ international, di cui è sezione italiana il Movimento nonviolento.

Luca Lorusso e Cssr

MIR E MN

Il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione) opera congiuntamente al Mn (Movimento nonviolento).
Sulla base dell’insegnamento dei maestri della nonviolenza (Gandhi, M. L. King e Aldo Capitini) il Mir è impegnato nella contestazione radicale della guerra e della dottrina militare, di un modello di sviluppo piramidale basato sulla rapina di risorse umane e naturali, di una democrazia formale che sancisce di fatto il sopruso del forte sul debole.

Persegue il fine di una società pacificata più che pacifica, dove cioè il conflitto venga risolto in modo nonviolento, ma non negato o rimosso. Per questo è attento alle dinamiche sociali, ai fatti politici locali e internazionali, a quanto si muove dal basso nella direzione di una crescita del «potere di tutti».
Gli strumenti del suo agire, in base al principio gandhiano della connessione tra mezzi e fini, rispondono integralmente ai criteri di verità, gradualità, lealtà verso l’avversario.
Il Mir, pur essendo di matrice religiosa, rispetta e valorizza la tradizione laica. Il Mn, pur essendo di matrice laica, rispetta e valorizza ogni fede religiosa.

Cssr

https://serenoregis.org
https://www.ifor.org
https://www.wri-irg.org




Chi è il nemico?

Testo di Gigi Anataloni, direttore MC


Oggigiorno è facile imbattersi in qualcuno convinto che «l’Islam vuole distruggere il Cristianesimo e quindi bisogna tenere lontani i migranti che ne sono la testa di ponte». Espressioni come questa, scritte in modo meno educato, ricorrono con frequenza impressionante nei commenti sui social o nelle interviste Tv. Apparentemente sembrano dichiarare una seria preoccupazione per il futuro della nostra religione, in realtà rivelano un atteggiamento in aperto contrasto con la nostra fede.

Non voglio sottovalutare il pericolo e l’aggressività di un Islam radicale e fondamentalista, come quello promosso e finanziato da diversi paesi del Golfo, i quali continuano a essere sostenuti dall’attuale governo americano che pure ha tra i suoi sponsor le ali più integraliste e tradizionaliste del cristianesimo cattolico ed evangelico. Questo tipo di Islam, di cui l’Isis, Al Qaeda e altre organizzazioni fondamentaliste sono espressione, sta portando terrore e lutti in molte parti del globo, e non sono solo i cristiani a soffrirne, ma anche i musulmani stessi, oltre ai fedeli di altre religioni.

Sono anche ben cosciente che l’Islam si ritiene l’unica religione vera, ma condivide questa certezza con Ebraismo e Cristianesimo, che – pur in modi diversi – considerano Abramo come loro padre nella fede. Questa convinzione è stata abbondantemente usata nella storia come una liberatoria anche dai cristiani per giustificare guerre di religione e conquiste.

Tornando alla nostra Italia: secondo le statistiche dell’Istat, elaborate dall’Ismu, nel 2018 quasi il 58% degli oltre 5 milioni di immigrati in Italia sono cristiani e poco più del 28% sono musulmani.

Ovviamente non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte al pericolo costituito dal fondamentalismo o dal terrorismo islamico (o di altre religioni e sette). Però dire che l’Islam vuole distruggerci come cristiani – e che quindi occorre difenderci con tutti i mezzi dai suoi fedeli invasori – rischia di essere non solo una fake news ma soprattutto un alibi alla crisi di fede in Europa e una scelta, quella dell’odio del nemico, che Gesù ha decisamente condannato sia col suo esempio personale che con le sue parole.

In realtà i primi nemici del Cristianesimo siamo proprio noi cristiani. Guardiamoci con oggettività. Analizziamo le nostre scelte quotidiane di vita, le priorità che abbiamo, l’uso del nostro tempo, l’immagine ideale che abbiamo di noi stessi, i sogni che trasmettiamo ai nostri figli. Forse, pur chiamandoci cristiani, in realtà siamo diventati degli idolatri e seguiamo molti dei. Al primo posto c’è il dio denaro e poi i suoi molti accoliti come il benessere, il successo, l’affermazione personale, il prestigio, il potere, il desiderio di eterna giovinezza, l’avere tutto senza fatica. Così la domenica non è più il giorno del Signore ma il weekend, al centro dei nostri interessi non c’è più la persona ma il profitto, la comunità è resa vana da indifferenza e individualismo, il lavoro diventa sfruttamento, il divertimento sostituisce allegria e felicità, il bullismo corrompe le relazioni di amicizia… In casa non si prega più insieme, ma neanche si mangia insieme e ci si parla poco: dominano la Tv sempre accesa, il computer e il cellulare. Chi ti considera se dici che vai a messa, che preghi, che fai servizio nella comunità, aiuti i poveri, hai cura dell’ambiente? Un’ora di messa la domenica è lunga e pizzosa, ma fare la coda per ore in autostrada per andare al mare e ai monti o davanti a un certo negozio per avere l’ultimo gadget tecnologico non fa problema. Fare allenamenti estenuanti per imparare uno sport o altre attività è un impegno necessario se si vuole essere qualcuno, stare bene o essere accettati, andare al catechismo con fedeltà e partecipazione per diventare una persona migliore è un peso. Poveretto poi uno che pensasse di diventare sacerdote o suora o missionario: deve rinunciare a tutto.

È fin troppo facile fare la lista degli atteggiamenti idolatrici che mettono in evidenza come siamo proprio noi i primi nemici della nostra stessa fede. Piangerci addosso non serve, neppure alimentare le paure. La strada è quella della conversione per dare una bella scossa alla nostra fede, per amare davvero il Dio Misericordioso e gli altri (tutti gli altri) e per porre la nostra speranza in ciò che
ci costruisce come uomini a immagine di Gesù.




Un’India per soli indù.

Il nazionalismo induista contro le minoranze

Dopo dieci anni dagli assalti anticristiani avvenuti nello stato di Orissa,
la situazione non è migliorata. Anzi. L’ideologia nazionalista indù, al potere
dal 2014, sembra voler soffiare sul fuoco. E le minoranze, non solo quella cristiana,
hanno sempre più paura.

Il 23
agosto del 2008, nello stato dell’Orissa, nell’India orientale, scoppiò la
peggiore persecuzione contro i cristiani della storia del paese. Sono passati
più di dieci anni da allora, eppure continua a essere forte la difficoltà
indiana di mantenere l’equilibrio tra il progresso, il particolarismo e i suoi
ideali di convivenza e nonviolenza.

In quei giorni di violenza che costrinsero alla fuga 50mila
individui e provocarono un centinaio di morti, la devastazione delle abitazioni
dei cristiani e dei loro luoghi di preghiera, l’esproprio delle loro terre e la
confisca dei loro beni dimostrarono che le forze di ispirazione religiosa induista,
connesse anche a interessi economici e di potere, erano in grado di operare
nell’impunità. Infatti, non solo mancò un’opera di prevenzione da parte delle
istituzioni, ma ci fu anche un intervento tardivo e parziale delle forze
dell’ordine per fermare le folle di indù che, in diversi casi, provenivano da
altri distretti e persino da altri stati dell’India.

(Photo by DESHAKALYAN CHOWDHURY / AFP)

Impunità e paura

Sul piano della giustizia, l’impunità su ampia scala ha segnato
finora le decine di processi avviati contro presunti esecutori e organizzatori
delle violenze del 2008. La propaganda induista descrive quegli eventi come
reazione spontanea all’uccisione del leader estremista indù Swami Laxmanananda
Saraswati, della quale peraltro si erano da subito dichiarati autori i
guerriglieri maoisti attivi nella regione.

Per gli avvocati e gli attivisti che ancora oggi si occupano di
sostenere le vittime, la maggioranza dei crimini non sarebbe registrata
correttamente dalla polizia e quelli già passati in giudicato si sono risolti
perlopiù in mancate condanne.

Il sistema di tribunali speciali che giudicano con rito abbreviato
ha registrato qualche successo, ma l’isolamento geografico della zona, il clima
di paura diffusa, le intimidazioni e minacce, le manifestazioni organizzate
addirittura all’esterno del tribunale, hanno spinto molti testimoni al silenzio
o a una verità parziale e a un basso profilo giudici e legali.

La situazione di rancori e di sospetto e il rischio sempre
presente di nuove violenze rendono l’impegno per la giustizia assai difficile.
D’altra parte, quando su dodici giudizi per omicidio, solo uno si è chiuso con
una condanna, pace e riconciliazione restano obiettivi lontani.

Vecchie e nuove logiche di sottomissione

Come sottolinea John Dayal, attivista cattolico tra i più accesi
nel contrastare l’offensiva dei radicali indù, «l’impegno settario degli
estremisti in Orissa è vecchio di quarant’anni, e il distretto di Kandhamal è
stato da loro scelto per il suo isolamento e per il significato che ha per la
popolazione cristiana.

Obiettivo immediato di quelle violenze era di estendere
l’esperienza di sottomissione del Kandhamal ad altri distretti, quello finale
di rimuovere ogni traccia del cristianesimo tra le comunità indigene per
poterle così del tutto asservire alle vecchie logiche castali e alle nuove
logiche del potere economico e politico».

Nonostante l’attenzione della comunità internazionale e della
Chiesa non siano mai mancate, nulla mostra, a distanza di dieci anni, che la
situazione si sia modificata, se non di facciata.

Ancor più dopo la vittoria dei nazionalisti induisti nel maggio
2014 sotto la guida di Narendra Modi, leader del Bharatitya Janata Party
(Bjp). I nuovi attori istituzionali hanno portato maggiore impunità per gli
estremisti e legittimazione ufficiale a iniziative come la riconversione
all’induismo, la proibizione della commercializzazione e del consumo di carne
bovina, il rafforzamento dei tradizionali consigli di villaggio e altro,
rafforzando il grande progetto di un’India per soli indù.

www.flickr.com/photos/adamcohn/45461015822/

Induità e discriminazioni

La dottrina dell’hinduttva (induità) è al centro degli
interessi e delle azioni della maggioranza politica che guida, da oltre quattro
anni, il governo centrale e sempre più stati e territori dell’immenso paese
asiatico, vasto dieci volte l’Italia e con una popolazione di 1,35 miliardi di
individui all’80 per cento di fede indù.

Dopo decenni di governo pressoché ininterrotto del Partito del
Congresso, ispirato dagli ideali indipendentisti e gandhiani, ora, il partito
confessionale filoinduista Bjp propone una cittadinanza piena ai soli indù,
lasciando alle altre comunità religiose la scelta tra conversione,
discriminazione ed esilio.

Difficile valutare i risultati delle campagne
di conversione che hanno interessato e ancora interessano milioni di indiani.
Per molti di essi si tratta di una «riconversione»: storicamente il
cristianesimo e, in misura minore, l’islam e il buddhismo, sono rifugio di indù
che sfuggono ai limiti e agli abusi del sistema castale, centrale
nell’induismo.

L’induizzazione procede erodendo la
consistenza delle fedi che nei secoli sono nate per scissione dall’induismo,
usando incentivi e pressioni per promuovere l’identità indù, mentre le leggi
anticonversione e la tolleranza verso i gruppi radicali e xenofobi che si
appoggiano all’induismo per ottenere benefici e potere, rendono difficoltose la
pratica e l’esistenza stessa sul territorio indiano delle religioni considerate
«straniere» come l’islam e il cristianesimo.

I discorsi d’odio dei leader

A confermare il ruolo della politica filoinduista in una
situazione di crescente tensione, ci sono i dati diffusi qualche mese fa da New
Delhi Television (Ndtv), dai quali emerge che i responsabili di «discorsi
d’odio» registrati dall’inizio della legislatura che si avvia al termine il
prossimo anno, sono stati per il 77 per cento esponenti del Bjp.

Nessun provvedimento è stato preso nei loro confronti. Ad esempio,
contro la ministra per le Industrie agroalimentari Niranjan Jyoti, già abituata
a proclami sopra le righe, che in una dichiarazione pubblica ha affermato che
gli indù sono da considerarsi discendenti del dio Rama, mentre gli altri –
musulmani, cristiani, sikh, jain, buddhisti, parsi, atei – sarebbero dei «bastardi».

Che dire poi di Yogi Adityanath, ora capo del governo nel più
popoloso stato indiano, l’Uttar Pradesh, secondo il quale per ciascuna donna
indiana sposata a un musulmano e convertita all’islam, gli indù dovrebbero
sposare con la forza cento donne musulmane e convertirle come ritorsione?

© Un photo / Mark Garten

Dal divieto di conversione alle «guerre delle mucche»

Preoccupa che questioni un tempo considerate anacronistiche e
innocue dalle stesse minoranze, siano oggi diventate strumenti di dominio
dell’induismo estremista.

L’accusa di proselitismo nei confronti dei cristiani ha alimentato
l’ondata di provvedimenti legislativi per proibire ogni iniziativa che
incentivi o forzi gli indù a un cambio di fede. Anche l’attività di sacerdoti,
religiosi, pastori nelle chiese è stata limitata fortemente, e addirittura nelle
scuole e nelle istituzioni socioassistenziali avviate o gestite da cristiani.

Pesa invece sui musulmani l’accusa induista di «jihad matrimoniale»,
ovvero di perseguire una strategia di matrimoni con donne indù al fine della
conversione e di avere una prole ampia allo scopo di arrivare al sorpasso
demografico dei musulmani sugli indù.

Soprattutto tra i musulmani si contano le vittime della «guerra
delle mucche» dichiarata dai leader indù contro chi macelli i bovini, animali
legati alla tradizione religiosa indù, ne utilizzi pelli e altre parti e ne
consumi le carni, attività appannaggio nei secoli di islamici, dalit e
cristiani.

Significative le esternazioni di Subramanian Swami, parlamentare
del Bjp, che lo scorso anno ha chiesto una legge per condannare a morte chi
uccida le mucche. Il tentativo non è andato in porto, ma questo non ha fermato
in diversi stati l’approvazione di provvedimenti che vietano la macellazione e
il trasporto di carni bovine. Non senza ricadute cruente, come dimostrano le
aggressioni di gruppo registrate, a volte i linciaggi di musulmani e dalit («esclusi»,
un tempo noti come «intoccabili») motivati dalla loro dipendenza dall’uso
commerciale e alimentare di questi animali.

© Deshakalyan Chowdhury / Afp

I dalit e le prossime elezioni

In questo quadriennio di controllo nazionalista sul paese e di
quasi annichilimento del Partito del Congresso, le violenze ispirate,
ammesse o non sanzionate degli estremisti sono state una realtà preoccupante
per le minoranze. «Siamo ormai al crollo dello stato di diritto. Ogni giorno i
mass media riportano notizie di atrocità compiute contro le minoranze
religiose, i dalit e i tribali», ha sottolineato Jignesh Mewani, leader dalit e
parlamentare nello stato del Gujarat, roccaforte di Narendra Modi.

Lo scorso aprile è stato segnato da scontri tra polizia e
manifestanti dalit: roghi, posti di blocco, coprifuoco, morti e feriti si sono
registrati in varie zone dell’India mettendo in rilievo il disagio profondo di
questi gruppi meno favoriti della comunità indù.

La loro rabbia si è espressa con la dichiarazione di un «Bharat
bandh» (blocco dell’India) dopo che la Corte suprema si era opposta all’arresto
di chi violi la legge vigente sulla tutela della loro dignità. Le tensioni
hanno coinvolto la maggior parte dei grandi stati settentrionali, incluso il
territorio della capitale, che ospitano la maggioranza dei 250 milioni di
dalit. La Legge sulla prevenzione delle atrocità verso le caste e tribù
registrate
è del 1989, e rappresenta uno dei paradossi dell’India odierna,
la cui Costituzione proibisce le caste, già vietate in precedenza dai
colonizzatori britannici.

Per certi aspetti, le tensioni della scorsa primavera hanno
anticipato alcuni temi della campagna elettorale verso il voto per il rinnovo
del parlamento nazionale del maggio 2019. L’opposizione guidata dal Partito
del Congresso
, infatti, ha sostenuto le proteste «di migliaia di fratelli e
sorelle dalit che chiedono la tutela dei loro diritti», mentre il governo
nazionalista, dal canto suo, ha chiesto, da un lato ai partiti di non accentuare
le tensioni sociali, e dall’altro alla Corte suprema di ripensare la sua
posizione. Riguardo a queste ultime, è difficile non rilevare il paradosso del
sostegno ai fuoricasta da parte di un governo che esprime l’ideologia che ha
nei secoli contribuito alla loro subordinazione.

Cristiani perseguitati

La comunità cristiana, che conta circa 30 milioni di fedeli (il
2,3 per cento degli indiani), è pure sotto attacco. Negli ultimi anni si sono
moltiplicati drammaticamente gli assalti a chiese, incontri di preghiera e
istituzioni culturali e caritative. Secondo segnalazioni di attivisti
cristiani, le autorità tendono a ignorare le denunce e a minimizzare i fatti e,
quando arrestano presunti colpevoli, li indicano nei rapporti come «individui
affetti da disturbi mentali».

A documentare questa situazione sono vari studi e rapporti. Tra i
più recenti quello della Commissione statunitense per la Libertà religiosa
internazionale
(Uscirf), che ha messo apertamente sotto accusa il governo
indiano per lo scarso impegno nel prevenire «una pressione diffusa contro le
minoranze religiose e contro i dalit che raggruppano fuoricasta, tribali e
aborigeni e che totalizzano il 20 per cento degli 1,35 miliardi di indiani».

Il rapporto ha registrato che «nel 2017 le condizioni della libertà
religiosa hanno visto proseguire la tendenza al peggioramento» e che «la realtà
di una società multiculturale e multireligiosa come quella indiana è minacciata
da una crescente concezione esclusivista di identità nazionale basata sulla religione».

A confermare un incremento della persecuzione ci sono anche dati
governativi diffusi a febbraio: 111 uccisi e almeno 2.398 feriti in 822 episodi
di violenza settaria nel 2017, contro 86 morti e 2.321 di 703 eventi nel 2016.

Stefano Vecchia




Una fede pericolosa: Crescono le persecuzioni anticristiane nel mondo

Testo di Cristian Nani – direttore di Porte Aperte Onlus – Foto Open Doors |


Persecuzioni. Nel mondo un cristiano ogni 12 viene perseguitato: oltre 215 milioni di persone vessate e discriminate a causa della loro fede. Sono stati 3.066 i martiri nel 2017, e migliaia le chiese, le abitazioni, i negozi di cristiani distrutti. Il rapporto World Watch List 2018, pubblicato da Porte Aperte/Open Doors, mostra, in una classifica, le 50 nazioni dove le persecuzioni sono maggiori.

Henry fa il falegname, un’attività che ama e svolge nella sua città, Marawi (Sud delle Filippine). Il 23 maggio 2017 è un normale giorno di lavoro per lui, quando qualcuno bussa alla porta. Aprendo si trova di fronte un gruppo di sconosciuti. Lui domanda chi siano, loro rispondono: «I tuoi assassini».

Il commando fa parte di un gruppo affiliato all’Isis, miliziani di varia estrazione in grado di prendere in ostaggio l’intera città di Marawi per cinque mesi1.

Henry (nome di fantasia, ndr) viene malmenato e incappucciato per essere condotto in una sorta di carcere nel quale è tenuto in ostaggio per vari giorni. Quando verrà liberato dalle forze militari filippine, racconterà di aver visto l’inferno. Persone rapite con lui vengono bendate e decapitate, alcune donne sono violentate: lui e altri sono costretti a guardare.

Nell’agenda di questi gruppi è chiaro l’intento di eliminare la presenza cristiana dalla zona.

Henry è tra le molte vittime di quella che Porte Aperte nel suo rapporto annuale World Watch List 2018 definisce «oppressione islamica», cioè la fonte primaria di persecuzione dei cristiani nel mondo.

Reena, vietato convertirsi

Reena invece è una ragazza di 19 anni che viveva in un villaggio in una zona remota dell’India (per ragioni di sicurezza non citiamo il nome del villaggio, né il vero nome della ragazza, ndr).

Lei e la famiglia sono ex induisti convertiti alla fede cristiana.

In cerca di lavoro come insegnante, nel settembre del 2016 era approdata in una scuola per un colloquio: «Il preside mi ha offerto dei dolcetti tipici, che ho mangiato – ha raccontato -. Da lì in poi non ricordo più nulla». Drogata e privata della libertà per svariati giorni, ancora oggi non ricorda niente di quello che ha subito. I partner locali di Porte Aperte che la seguono nella cura del trauma, pensano che Reena abbia rimosso il ricordo di quei giorni perché troppo doloroso. Quando ha ripreso conoscenza, si è ritrovata in un treno fermo in un luogo a 14 ore di distanza da casa sua.

Oggi Reena sta abbastanza bene, non ha ancora trovato un lavoro, ma nel frattempo è tornata a scuola per continuare gli studi.

Gli aggressori rimangono impuniti, mentre il preside della scuola continua a minacciare la famiglia, ed è per questa ragione che la ragazza si è trasferita da suo fratello in un altro villaggio.

Il numero di aggressioni di questo tipo contro i cristiani in India stanno aumentando.

Reena è una delle vittime della seconda più importante fonte di persecuzione anticristiana nel mondo: il «nazionalismo religioso».

L’ostilità anticristiana

Monitorando oltre 90 paesi, con ricerche che partono anche dal basso (quindi dal campo missionario, grazie alla presenza nel territorio), Porte Aperte fotografa ogni anno la persecuzione anticristiana nel mondo attraverso il rapporto World Watch List.

Per persecuzione s’intende «qualsiasi ostilità subita come conseguenza dell’identificazione dell’individuo o di un intero gruppo con Cristo. Questa può includere atteggiamenti, parole e azioni ostili nei confronti dei cristiani».

Il rapporto evidenzia, in una sorta di classifica, i primi 50 paesi dove maggiormente si perseguitano i cristiani. Nelle posizioni più «basse» si trovano i paesi nei quali si è registrato un livello di persecuzione «alto». Salendo verso i primi posti, si passa attraverso un livello «molto alto» per approdare, nelle prime posizioni, al livello della persecuzione «estrema».

La metodologia adottata per stilare la Wwlist considera ogni sfera della vita dei cristiani (privato, famiglia, comunità, chiesa, vita pubblica e violenza) ed è progettata per monitorare le strutture profonde della persecuzione e non solo gli incidenti violenti.

Il team di ricerca distingue due categorie principali con cui la persecuzione può esprimersi: la prima riguarda le pressioni e le vessazioni subite in ogni aspetto della vita che si manifestano in una quotidiana miscela di soprusi, abusi, marginalizzazione e violazione di diritti fondamentali come l’accesso alle cure, al lavoro, all’istruzione, alla giustizia, e così via. La seconda categoria di persecuzioni, invece, è la violenza, quella di fatto più riportata dai mezzi di comunicazione poiché più d’impatto in termini mediatici. Sebbene la seconda sia quella più visibile e quasi l’unica presente nel dibattito pubblico, è la prima quella più diffusa: la prevaricazione nascosta e costante che devasta la vita di milioni di cristiani a causa della loro fede.

Iraq: campo di sfollati cristiani

Dietro ogni persecuzione c’è un persecutore

Ma chi sono gli attori di questo fenomeno? È chiaro che si tratti di singoli individui, ma anche di gruppi, o addirittura istituzioni, ostili ai cristiani. Ecco un elenco di quelli che nei fatti sono veicoli di odio e intolleranza anticristiana: governi locali e nazionali; leader di gruppi etnici; leader religiosi non cristiani; leader di altre chiese cristiane; movimenti radicali; normali cittadini, incluse le folle istigate in vari modi; le famiglie stesse dei cristiani; i partiti politici; gruppi rivoluzionari o paramilitari; il crimine organizzato; organizzazioni multilaterali.

È importante avere in mente questa varietà di attori poiché fa comprendere come, per esempio in alcune aree rurali della Colombia, sia successo che certi leader di gruppi indigeni, con la connivenza delle autorità locali, abbiano inflitto a membri dello stesso gruppo indigeno convertiti al cristianesimo gravi vessazioni fino all’incarcerazione, tortura, esproprio dei beni ed espulsione dal villaggio. Quando l’attore è uno stato, per fare un altro esempio, la dinamica cambia: le Maldive, dove molti italiani trascorrono le proprie vacanze, sono un paese islamico che ritiene ogni maldiviano necessariamente musulmano. Questo comporta che, quando un maldiviano si converte o è semplicemente interessato al cristianesimo, affronta pressioni dallo stato stesso. Il Pakistan, con la famosa legge contro la blasfemia (emblematico il caso di Asia Bibi), è un altro esempio di stato che prevarica, ma supportato da movimenti radicali che puntano all’eliminazione della presenza cristiana. Mentre in Messico i cartelli della droga possono aggredire le chiese che in qualche modo interferiscono con i loro scopi criminali, in Sri Lanka è accaduto che monaci buddisti abbiano incitato le folle a inveire e aggredire i cristiani locali considerati agenti contaminanti della cultura tradizionale del paese.

Trend della persecuzione

Nigeria: Uno dei sopravvissuti agli attacchi dei Boko Haram

In termini assoluti la persecuzione aumenta. È questo che emerge dalla Wwlist 2018 che prende in considerazione il periodo 1 novembre 2016 – 31 ottobre 2017. Nella classifica delle prime 50 nazioni dove più si perseguitano i cristiani, troviamo ben tre paesi con un punteggio al di sopra di 90 su 100: Corea del Nord, Afghanistan e Somalia (rispettivamente 1°, 2° e 3° posto), con un livello di persecuzione estremo a tal punto da rendere la vita impossibile per i cristiani e da costringerli alla clandestinità.

La Corea del Nord e l’Afghanistan quest’anno hanno un punteggio del tutto simile: solo per poco il regime di Kim Jong-un è al primo posto (per il 15° anno di fila). Essere scoperti in Corea del Nord a partecipare a una riunione di preghiera o in possesso di una Bibbia, può significare la morte o la reclusione nei famigerati campi di rieducazione, veri e propri lager denunciati anche dalle Nazioni Unite. Si stima che tra i 40 e i 70mila cristiani languiscano in questi campi a causa della loro fede. Per quanto riguarda l’Afghanistan, sebbene sia un paese più conosciuto in Italia rispetto alla Corea del Nord, rimane altresì poco noto per le condizioni dei cristiani che vi abitano, costretti a vivere nel terrore di essere scoperti. Convertirsi dall’islam al cristianesimo in Afghanistan significa andare incontro al ripudio della famiglia e della società, fino alla tortura, all’incarcerazione e alla morte.

Nel mondo sono ben 11 le nazioni in cui si registra una persecuzione estrema simile a quella dei paesi appena citati. Tra le regioni del mondo in cui i cristiani vengono perseguitati, l’Africa cresce, avendo alcune sue nazioni nelle prime posizioni (Somalia 3°, Sudan 4°, Eritrea 6°, Libia 7°). In Asia centrale, in paesi come Uzbekistan (16° posto), Turkmenistan (19°), Tagikistan (22°) e Kazakistan (28°), dal dissolvimento dell’Urss, l’islam è cresciuto esponenzialmente, anche nella sua corrente più oppressiva, generando intolleranza nei confronti dei cristiani.

Tra le fonti di persecuzione, il nazionalismo religioso, in particolare legato all’induismo e al buddismo, risulta in forte aumento, soprattutto in seguito all’incremento delle violenze anticristiane in India (11° posto) e delle discriminazioni in paesi buddisti come Laos (20°), Myanmar (24°), Nepal (25°, nuovo ingresso nella classifica) e Buthan (33°).

I numeri della persecuzione

Sono stati 3.066 i martiri cristiani accertati nel 2017, di cui 2.000 solo in Nigeria del Nord, regione interessata dall’estremismo islamico. Oltre 215 milioni sono i cristiani perseguitati nel mondo (1 ogni 12) secondo la Wwlist. Almeno 15.540 attacchi sono avvenuti ai danni di chiese, case e negozi di cristiani: bruciati, saccheggiati o totalmente distrutti. Impressionante è il fenomeno dei matrimoni forzati, particolarmente forte in Pakistan: almeno 1.240 giovani donne cristiane sono state rapite e forzate a sposare uno sconosciuto. Oltre 1.000 sono stati i rapimenti a fine di abuso e violenza carnale. Tutto ciò prefigura chiaramente quella che viene definita la doppia vulnerabilità delle donne cristiane in questi contesti: perseguitate in quanto cristiane e in quanto donne.

Questi dati sono solo la punta dell’iceberg, poiché il sommerso, il non denunciato, è potenzialmente enorme (basti pensare anche solo all’impossibilità, in alcuni contesti, di denunciare un crimine o un abuso a causa della connivenza delle autorità locali).

L’India: la grande democrazia

Vale la pena soffermarsi sul caso dell’India, salita addirittura all’11° posto della Wwlist, con un grado di persecuzione definibile estremo. Il partito Bjp (Bharatiya Janata Party) al governo con il primo ministro Modi, ha una chiara agenda volta a induizzare il paese, facendo forte leva su un nazionalismo religioso che inevitabilmente crea intolleranza nei confronti dei non induisti e decreta un’emarginazione dei cristiani. I fatti dicono che il numero di attacchi contro comunità cristiane (che a volte hanno provocato anche morti) è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni.

L’India, quella che gli europei conoscono come una grande e pacifica democrazia, non esiste più da tempo, e i primi a pagarne il prezzo sono proprio i cristiani.

Quando nei consessi internazionali si addebitano alle autorità indiane violazioni dei diritti fondamentali dei cristiani, esse rispediscono aspramente le accuse al mittente senza alcuna spiegazione.

Una fede pericolosa

È dunque la fede cristiana una fede pericolosa?

Ebbene sì, in molti paesi e per oltre 215 milioni di uomini e donne. Esattamente come era pericoloso essere cristiani ai tempi della chiesa primitiva, quella degli Atti degli apostoli, là dove la fede cristiana ebbe inizio.

Cristian Nani
direttore di Porte Aperte Onlus

Note:

1- Il 23 maggio 2017, Marawi (città di circa 200mila abitanti, capoluogo della provincia di Lanao del Sur, isola di Mindanao) è stata occupata dai jihadisti del gruppo Maute (un clan familiare locale che ha giurato fedeltà allo Stato Islamico) con l’appoggio del gruppo radicale filippino Abu Sayyaf. Lo scopo era quello di creare una sorta di califfato fedele ai principi dell’Isis.

L’esercito regolare di Manila ha messo sotto assedio la città con oltre 7mila militari e bombardamenti aerei. Dopo 148 giorni, a ottobre, i jihadisti sono stati sconfitti. Secondo l’agenzia Fides: «Sono oltre 1.000 le vittime del conflitto: 163 soldati, 822 militanti e 47 civili». Secondo l’Ocha, delle 350mila persone fuggite dall’area durante il conflitto, molte devono ancora rientrare.


Le fonti della persecuzione

  1. Oppressione islamica: l’obiettivo è portare il paese o il mondo sotto la «Casa dell’islam» attraverso azioni violente o meno, che colpiscono i cristiani in modo particolare. Esempi: Pakistan, Iran, Arabia Saudita.
  2. Nazionalismo religioso: lo scopo è imporre la propria religione come elemento caratterizzante della propria nazione (principalmente induismo e buddismo, ma anche altre religioni). Esempi: India, Nepal o Sri Lanka.
  3. Antagonismo etnico: cerca di introdurre con forza l’influenza di norme antiche e tradizioni in un contesto tribale. Spesso si presenta sotto forma di religione tradizionale che si oppone alla presenza di cristiani nella società. Esempi: Yemen, Somalia o Afghanistan.
  4. Protezionismo denominazionale: cerca di mantenere la propria denominazione cristiana come unica espressione legittima o dominante del cristianesimo nel paese e quindi vessa qualsiasi altra denominazione. Esempio: Etiopia.
  5. Oppressione comunista e postcomunista: cerca di mantenere il comunismo come ideologia prescrittiva e/o controlla la chiesa attraverso un sistema di registrazione e di sorveglianza. Esempi: Corea del Nord, Laos o Vietnam.
  6. Intolleranza secolare: ha lo scopo di sradicare la religione dal dominio pubblico e, se possibile, anche dal cuore delle persone, e impone una forma di laicità atea come una nuova ideologia di governo. Esempi: si tratta di una tendenza che diffonde un sentimento anticristiano, ad esempio quando i cristiani difendono principi morali collegati alla propria fede (famiglia e matrimonio tradizionale, ecc.).
  7. Paranoia dittatoriale: siamo di fronte a un dittatore che fa di tutto per mantenere il potere e reprime con forza qualsiasi cosa sembri una minaccia. Esempi: Eritrea, Corea del Nord.
  8. Corruzione e crimine organizzati: l’obiettivo è creare un clima di impunità, anarchia e corruzione al fine di arricchirsi. Esempi: Messico, Colombia.

C.N.


Porte Aperte/Open Doors

Porte Aperte/Open Doors è un’agenzia missionaria attiva da oltre 60 anni nel campo del sostegno ai cristiani perseguitati di ogni denominazione. Nasce dalla visione di un missionario, conosciuto come Fratello Andrea, «Il contrabbandiere di Dio» (dal titolo del best seller che racconta la sua storia).

L’opera missionaria, iniziata nel 1955 portando Bibbie oltre la cortina di ferro, oggi è diventata un’organizzazione attiva e strutturata in oltre 80 paesi. Conosciuta negli ultimi anni soprattutto per il report sulla persecuzione anticristiana nel mondo (World Watch List), oggi opera attraverso molti progetti che spaziano dagli aiuti umanitari di prima necessità al sostegno spirituale e psicologico alle vittime, dalla fornitura di materiale formativo cristiano alla costruzione di infrastrutture utili alle comunità locali. Inoltre opera nei paesi liberi affinché si diffonda nell’opinione pubblica internazionale una sempre maggiore consapevolezza sulla condizione dei cristiani in queste nazioni.

Porte Aperte Onlus
CP 114 – 35057 San Giovanni Lupatoto (VR)
www.porteaperteitalia.orgsito internaz.: www.opendoors.org

 




Diminuiscono gli ortodossi nel mondo


Nel 1910 un cristiano su cinque nel mondo era ortodosso, il 20%. Cento anni dopo solo uno su otto, il 12%. Mentre i cattolici e i protestanti sono quadruplicati, passando da 490 milioni complessivi nel 1910 a 1,9 miliardi nel 2010, gli ortodossi sono «soltanto» raddoppiati, da 125 milioni agli attuali 260.

Sono questi alcuni dei dati che si trovano nel rapporto «Orthodox Christianity in the 21st Century» (I cristiani ortodossi nel 21° secolo) pubblicato oggi dal Pew research center.

Ma da cosa dipende questa differenza tra il ramo ortodosso della cristianità e gli altri due? Il Pew Center risponde che il motivo principale è la crescita di cattolici e protestanti fuori dai confini dell’Europa, potremmo dire l’azione missionaria. Mentre, infatti, i cristiani ortodossi sono, ancora oggi, prevalentemente europei (il 77%) – nonostante il caso particolare dell’Etiopia che da sola ne conta 36 milioni, costituendo la fetta di ortodossi in maggiore crescita -, i cattolici e i protestanti attualmente sono in gran parte in America Latina, Africa Subsahariana e Asia, cioè i continenti con maggiore crescita demografica. In particolare, oggi si trova in Europa il 24% dei cattolici e il 12% dei protestanti. Nel 1910 la quota per entrambe le confessioni era del 50% circa.

Al «caso» degli ortodossi etiopi il Pew center dedica ampio spazio nella sua ricerca, soprattutto per sottolinearne la singolarità. La chiesa ortodossa etiope si distingue dalle altre, oltre che per la sua storia che affonda le radici nella predicazione di un viaggiatore di Tire (in Libano) chiamato Frumentius, nel quarto secolo dopo Cristo, per la grande osservanza dei suoi fedeli. La maggior parte degli ortodossi vive, infatti, in paesi ex sovietici che presentano livelli bassi di religiosità: in Russia, paese in cui risiede la più grande popolazione ortodossa al mondo (101 milioni), solo il 6% dei fedeli afferma di frequentare la chiesa almeno una volta alla settimana e solo il 15% dice che la religione è «molto importante» nella sua vita. In Etiopia va in chiesa almeno una volta alla settimana il 78% dei cristiani ortodossi, mentre afferma che la religione è «molto importante» nella sua vita il 98%.

Tra gli altri dati interessanti illustrati dal report c’è quello che riguarda l’opinione degli ortodossi circa l’omosessualità: la maggioranza (a eccezione degli ortodossi greci e statunitensi) sostiene che non dovrebbe essere accettata; quello che mostra un’opinione fortemente negativa a riguardo del sacerdozio femminile e quello che descrive un’apertura (sebbene non maggioritaria) nei confronti di una possibile comunione con la chiesa cattolica romana.

Luca Lorusso




Cristiani, non «cretini»


Tra nostri amici d’Oltralpe, un tempo, c’erano molti montanari che soffrivano di ipotiroidismo nelle valli dell’Alta Savoia. Erano persone che restavano piccole, deformi, con il gozzo, e talmente semplici nel modo di pensare che a molti sembravano vivere fuori da questo mondo. La loro sofferenza e la loro semplicità faceva tenerezza a tutti, per questo venivano chiamati «poveri cristi», in franco provenzale crétin (o créstin [dal francese chrétien e latino christianus]). Era allora un’espressione senza malizia, anzi piena di affetto e compassione, che paragonava le loro sofferenze a quelle di Cristo. Ma, togli la compassione, ecco che crétin diventa sinonimo di «stupido, imbecille e simili, per lo più come titolo d’ingiuria», come scrive la Treccani; un epiteto che viene poi applicato soprattutto ai cristiani che, poveri loro, abituati ad avere la testa nelle cose del cielo (cioè «stupidi e insensati quali sono, sembrano quasi assorti nella contemplazione delle cose celesti», come scriveva il linguista Ottorino Pianigiani nel 1907, citato da Piergiorgio Odifreddi in un suo libro di cent’anni dopo), non erano in grado di capire le cose di questa terra, rifiutando l’illuminazione della scienza. Oggi pochi conoscono le origini e le trasformazioni storiche di questa parola e dando del «cretino» a qualcuno in genere non si intende offenderlo perché cristiano…

Eppure, ancora oggi, troppi cristiani vengono trattati da «cretini». Non solo, ci sono anche molti che vorrebbero che i cristiani si limitassero ad essere dei «cretini» che si occupano solo delle cose del cielo lasciando quelle della terra a chi sa come va il mondo (meglio una Chiesa cretina che cristiana!).

Il dato triste è che ci sono cristiani, ecclesiastici – anche di alto rango – e laici scrupolosamente cattolici, che condividono questo modo di pensare (ovviamente non espresso nei termini rozzi che sto usando io) e quindi se la prendono con papa Francesco che invece sulle cose di questo mondo ha molte cose da dire, e con ragione, toccando temi come il modo in cui si gestisce il dramma dei migranti, l’ambiente, l’assurdità della guerra e la sconcia «madre di tutte le bombe», il traffico delle persone, la litigiosità irresponsabile dei politici… Un papa che è troppo impegnato a scrutare gli uomini e i loro problemi, e che si dimentica di guardare in alto, verso il cielo, al sacro, al «trono di Dio».

La realtà, invece, è che essere cristiani è tutt’altro da essere cretini. È vero, il cristiano è chiamato ad «alzare gli occhi e levare il capo» (cfr. Lc 21,28), a essere nel mondo senza essere del mondo (cfr. Gv 15,18), a cercare le cose di lassù (cfr. Col 3,1), a «farsi un tesoro nei cieli» (cfr. Lc 12,33), a «cercare il regno dei cieli e la sua giustizia» (cfr. Mt. 6,33), ecc., ma anche ad abitare il mondo con responsabilità e audacia. Anzi. È proprio il guardare al «cielo» che rende il cristiano capace di vedere da una prospettiva diversa e di riconoscere tutto quello che è falsamente umano, che è contro l’uomo, che lo manipola, lo sfrutta, lo usa …

Proprio da chi gli dà il nome, Gesù il Cristo, il cristiano impara a vedere la persona, tutta la persona in quanto tale, senza pregiudizi su nazionalità, sesso, religione. Anche se, in effetti, guarda l’umanità con un «difetto di vista»: ha un occhio privilegiato per gli «scarti», i poveri, gli sfruttati, i trafficati, gli stranieri, i migranti, i disprezzati, quelli che non contano e sono solo percentuali anonime nelle statistiche. Per il cristiano la persona non è un numero in un database, ma un volto, un nome e una storia, una vita amata da Dio.

Tutto questo spinge il cristiano a essere attore della storia, non spettatore, un attore che partecipa alla costruzione di un mondo migliore, che non è sua proprietà, ma gli è stato affidato in custodia. Per questo, tra le altre cose, è geloso della libertà di coscienza, sua e degli altri.

I paesi in cui lui vive potranno decidere che l’aborto è legale, l’eutanasia possibile, il divorzio una cosa normale, la guerra un mezzo legittimo, la prostituzione un lavoro come un altro, il matrimonio…, ma il cristiano, nel rispetto delle scelte altrui, continuerà a rifiutare aborto ed eutanasia, a credere che il matrimonio è l’unione per tutta la vita di un uomo e una donna e che i figli hanno il diritto a un padre e una madre, che la prostituzione è sfruttamento, che la guerra non porta la pace, e via dicendo. E rimarrà convinto che il riposo domenicale non solo è necessario per lo spirito, ma serve al bene essere di tutta la persona; e che ciascuno vale per quello che è e non per quello che ha; che l’ambiente, il mondo e le sue risorse sono bene comune; che la scienza non è contro la fede, ma una compagna che aiuta a scoprire la profondità della sapienza di Dio nell’uomo e nel creato.

È vero, non sempre i cristiani sono coerenti con quello che predicano. Non essendo cretini, sanno bene di essere deboli e fragili come tutti gli umani, ma non per questo rinunciano a testimoniare quello in cui credono, per il quale molti (troppi) ancora oggi pagano con la loro stessa vita.




Di “Banca Etica” e una domanda: “Siete ancora cattolici?”


Etica o non etica?

Carissimi Missionari,
Vi scrivo dopo aver letto l’articolo vergognosamente autocelebrativo di Sabina Siniscalchi riguardo Banca Etica (MC 04/2017 pag. 22), entità di cui posso dire qualcosa essendo stato membro del Git (Gruppo di Intervento Territoriale) di Novara durante il triennio 2011-2014 (oltre che socio singolo di Libera) le cui vicende non ho mai smesso di seguire riservandomi di scrivervi ancora per esaurire l’argomento, in più è diventata la banca d’appoggio del M5S quindi ha fatto il suo ingresso in politica.

Parto da quel «di Banca Etica fa parte Etica sgr…». Chiariamo subito, Banca Etica è azionista di maggioranza (da circa due anni detiene il 51%) di Etica sgr che venne fondata il 5/12/2000 grazie alla partecipazione dei seguenti soci:

– Banco Popolare di Milano (Bpm), secondo azionista col 24,44%;
– Cassa Centrale Bcc nordest,10,22%;
– Banca Popolare dell’Emilia Romagna (Bper), 10%;
– Banca Popolare di Sondrio (Bps), 9,87%.

Bene cominciamo subito col chiarire che ritroviamo ogni anno Bpm, Bper, e Bps incluse nelle tabelle del Mef delle cosiddette Banche Armate, così note ai partecipanti del mondo etico. Paradossale poi che Bper abbia ricevuto fondi anche per gli arcidiscussi F-35. Banca Etica a Novara faceva parte del coordinamento no F-35 insieme alla partner Libera.

A queste aggiungiamo Bcc Cernusco sul Naviglio che viene indicata da Etica sgr tra i promotori dei «fondi etici».

Proprio tra questi collocatori ancora adesso vediamo ben due banche coinvolte in inchieste per mafia: la Bcc di Borghetto Lodigiano e la ancora più famigerata Bcc sen. Grammatico di Paceco (a sua volta tra quelle convenzionate col M5S per il famoso microcredito) commissariata per infiltrazioni mafiose il 16 novembre dopo 6 anni di indagini e dopo che nel 2013 avvennero i primi sequestri di beni. Questa vicenda meriterebbe un servizio a sé.

Sempre a proposito di mafia ricordo che Banca Etica è stata, insieme ad Unipol e Banca prossima, tra le principali finanziatrici della cooperativa 29 Giugno di Salvatore Buzzi e che Libera sui suoi bollettini indicava sempre Unipol e Banca Etica, anche sponsor dei Circoli Arci. Vogliamo rinfrescarci la memoria solo sulle vicende Bpm ancora in corso? Ci fu il caso dell’«obbligazione» convertendo 2009-2013 che vide 15.000 risparmiatori perdere tra il 50 ed il 70% del capitale investito, mentre nel 2012 Ponzellini, da presidente della Banca, venne arrestato durante l’inchiesta sui finanziamenti all’Atlantis Plus di Corallo, processo ancora in corso. Poi, il 17/04/2015 arriva la condanna per anatocismo. Ma il dato più clamoroso, e su questo per ora chiudo, è che la gestione dei fondi etici è stata affidata a quell’Anima Sgr di cui dovremmo sentire parlare tutti i giorni essendo stata creata grazie all’accordo (oltre che con Clessidra sgr) con un certo Monte dei Paschi di Siena più Credito Valtellinese + … Banca Popolare di Etruria e Lazio.

In seguito parleremo dei fondi etici e delle argomentazioni che possono scaturire da un’approfondita analisi del mondo etico. Grazie

Matteo Spaggiari
Novara, 12/04/2017

Ricevuta questa email, ci è sembrato giusto girarla immediatamente a colei che aveva scritto l’articolo incriminato.


La risposta di Sabina Siniscalchi

Egregio Sig. Spaggiari,
dalla nostra anagrafica non risulta che lei sia stato socio di Banca Etica, pertanto non può essere stato componente del Git di Novara, tuttavia rispondiamo ugualmente alle sue pesanti critiche per rispetto dei lettori di Missioni Consolata.

Banca Etica ripudia la guerra e da sempre offre ai propri soci e clienti la garanzia che il loro risparmio non viene investito in imprese che operano nel settore degli armamenti. Anche Etica Sgr, società del Gruppo, adotta da sempre severi criteri per la scelta degli investimenti, tra cui la totale esclusione di società coinvolte nella produzione di armamenti o parti di essi. 

Ma il nostro impegno è anche quello di fare pressione sul resto del mondo bancario, per questo siamo stati tra i promotori della campagna «banche armate», di tante altre iniziative contro la guerra e gli armamenti, incluso, come lei stesso ricorda, il coordinamento contro gli F-35 di Novara.

Questa azione è complessa e faticosa, ma non ci siamo mai esentati dal portarla avanti pur tra mille difficoltà. Anche la compartecipazione di altre banche in Etica sgr – società di cui abbiamo il pieno controllo detenendo il 51% delle azioni e nominando la maggioranza dei consiglieri – ha proprio questa funzione di contaminazione e di influenza perché si producano cambiamenti significativi nel sistema finanziario e delle imprese.

La nostra azione di persuasione morale ha già prodotto risultati concreti: le banche socie di Etica Sgr hanno adottato politiche sugli armamenti che includono la piena trasparenza e la graduale dismissione dal comparto, alcune di esse figurano ancora nella relazione ministeriale ex legge 185 (che è sempre più opaca come denunciano i nostri amici di Rete Disarmo) perché hanno acquisito banche più piccole operanti nel settore.

Potremmo accontentarci di fare bene il nostro mestiere, vale a dire la finanza etica, chiuderci nella nostra nicchia e non farci contaminare da nessuno, ma la nostra aspirazione, quella dei nostri soci e dei nostri clienti, è ben più grande: è la volontà di impegnarsi per cambiare un sistema che produce ingiustizia e sofferenza.

Uscire dal guscio comporta tanta fatica e qualche errore. A tale proposito le segnalo che  la magistratura ci ha espresso sincero apprezzamento per la collaborazione offerta nell’inchiesta Mafia Capitale che non ci ha visto tra i colpevoli, ma tra le vittime.

Nel 2016, Banca Etica ha realizzato un utile di 4 milioni e 318 mila euro (l’utile del Gruppo raggiunge i 6 milioni), ha raccolto 1 miliardo e 227 milioni di risparmio con un incremento del 15% rispetto all’anno precedente e ha concesso 970 milioni di finanziamenti a progetti di sviluppo sociale e ambientale: si tratta di risultati piccoli rispetto ai volumi della finanza tradizionale, ma sono il segnale che un’altra finanza è possibile.

Finisco col dirle che Banca Etica non è controllata né dai 5 Stelle né da nessun altro partito o movimento politico, ma è orgogliosa di essere una banca cooperativa in cui gli oltre 40.000 soci contano tutti allo stesso modo – secondo il criterio di una testa/un voto – indipendentemente dalle quote di capitale possedute; proprio questi soci, partecipando alla vita della banca attraverso i Git, ci aiutano a non tradire mai la nostra missione e i nostri valori.

Sabina Siniscalchi

Siete ancora cattolici?

Gentile Redazione,
ho letto il giusto richiamo ai lettori a sostenere le spese di stampa e spedizione per la rivista. Premetto di sapere di non essere un lettore/finanziatore modello. […] Fatto sta che io la rivista la ricevo, la leggo e la faccio anche leggere. Vorrei fare però delle considerazioni. Con spirito costruttivo. […]

Dunque, io dopo varie vicissitudini sono arrivato (anzi dovrei dire tornato) ad accogliere il cristianesimo (ovviamente cattolico e romano, da italiano) in maniera convinta e oserei dire anche filiale. So cosa vuol dire essere scettici e critici verso il clero cattolico, perché lo sono stato anch’io. Non ho paura della critica anche perché alla fine permette di smascherare le menzogne. Ma trovo che nel mondo ecclesiale ci siano certi partiti presi, e certe posizioni che richiedono di mettere i puntini sugli «i».

Sono tempi in cui c’è chi sostiene che Gesù non abbia mai detto nulla contro l’omosessualità e con ciò imbastisce una sua pseudo teoria dell’accoglienza dei gay. Poi abbiamo chi dice che Gesù va interpretato perché non diceva cose universali, ma inserite nel suo tempo e con ciò imbastisce una pseudo pastorale del mondo moderno.

Per quanto riguarda la stampa missionaria italiana lo scenario è desolante (pensando alla situazione di solo 10 anni fa). Popoli ha chiuso. Africa ha cambiato redazione e si è subito esibita nell’elogio del matrimonio omosessuale. Ora sul sito di Missioni della Consolata vedo una bella bandiera arcobaleno a sette colori (per fortuna!). Ma perché non spiegate quale è la differenza con la bandiera arcobaleno a 6 colori? Almeno si eviterebbe la confusione di credere che la rivista si vuol far riconoscere come gay friendly. Voglio sperare che sia così, vero? Non crede che ci sia già una gran confusione in giro e che il clero debba fare chiarezza secondo il mandato di Gesù?

Nella rubrica «Insegnaci a pregare» di gennaio leggo: «Chi scrive, e quasi certamente chi legge, proviene da una formazione catechistica deformante che ci ha educati più all’ateismo pratico che allo spirito del Vangelo», ecc. Ma insomma è mai possibile che il culto di questo benedetto Concilio Vaticano II arrivi al punto di tale disprezzo dell’esercito di buoni cristiani che hanno tramandato la fede ai propri figli, amici e compaesani? Non è che don Farinella si sia un po’ montato la testa a credere di poterne sapere più di una nonna che insegna il rosario ai nipotini perché lui ha la laurea al Biblico di Roma? Ma si rende conto di cosa sta dicendo? È veramente sicuro lui di saperne di più di pedagogia? Mi sembra che l’insegnamento di Gesù suggerisca di dar più retta alla nonna pia che al plurilaureato in teologia.

Vivo in Germania e quindi sono immerso nel cattolicesimo critico, talmente critico che si elogiano tutti gli altri tranne la Chiesa Cattolica sempre presa di mira dai «teologi» (chissà perché hanno studiato tutti a Tübingen…). Qui da me guai a citare il KKK (Catechismo della Chiesa Cattolica). È tutto un «cercare», «sentire lo spirito», «rimanere in ascolto», ma mai e poi mai si deve poi trovare o sentire qualche cosa. Salvo che lo abbia sentito e trovato qualche «teologo» […].

Lascio stare i retroscena e le «manovre» riguardo al passato Sinodo della famiglia e relativo documento venuto dopo. Parlo dei retroscena che ho visto e vissuto e che abbondantemente superano la soglia di lealtà verso chi crede che in 2000 anni di cristianesimo, innumerevoli martiri e santi abbiano da insegnare qualche cosa di più dell’ultimo «teologo». Il quale sì «ha coraggio e fede nello Spirito» (ci dice don Farinella), mentre i catechisti di prima erano tutti storditi e non sapevano di essere complici di «un clero incapace (sic!) che ha dato vita a una catechesi inadeguata guardando più alla quantità che alla qualità».

Vorrei sapere se il mio sperare in una rivista di sicuro indirizzo cattolico è ben posto perché sinceramente tutta questa «catechesi al contrario» è di una noia mortale.

Ho una figlia di undici anni e, dopo aver parlato con la responsabile della pastorale della parrocchia e con l’insegnante scolastica di religione, ho deciso di prendere i tanto vituperati catechismi e trasmettere a lei l’Abc della fede. Mi vanno bene tutti i catechismi, dall’ultimo compendio a quello tridentino, che, fino a prova contraria, hanno ottenuto più risultati in quantità e qualità dei «teologi» che hanno studiato pedagogia.

Mi scusi lo sfogo, ma non se ne può più. Un po’ di umiltà non farebbe male. Per il resto la rivista è sempre più di geopolitica (adesso come adesso l’aspetto che preferisco), sociologia, relazioni internazionali, ma sempre meno di formazione Cristiana (il sottotitolo è ancora Rivista missionaria della famiglia). Sono capaci tutti a dare la colpa agli altri. Potrei andare avanti ma forse sono già stato troppo noioso e mi fermo qui. Faccio la mia offerta ma sono alquanto deluso, anche se speranzoso. Cordiali saluti

Andrea Sari
21/04/2017

Caro Sig. Andrea,
ho pubblicato la sua lettera dall’A alla Z. Ho cercato di comprendere il disagio che lei prova e cerco di rispondere con la sua stessa franchezza.

Avrà visto che ho cambiato il fondo del link allo sfogliabile per evitare equivoci. Ma ho pensato: «Cavolo, mi hanno rubato l’arcobaleno!». Sarà che sono stato abbastanza fuori dall’Europa, ma l’arcobaleno a me ricorda sempre e solo quello di Noè (Gen 9) ed è un motivo di gioia, anche se ai miei amici keniani dava tristezza perché «portava via la pioggia».

Le pagine di don Paolo Farinella fanno certamente discutere per alcuni suoi commenti sulla vita della Chiesa, ma offrono soprattutto il pane buono e solido della Parola di Dio trattando i lettori da cristiani adulti nella fede (vedi 1 Cor 3,1-3 in parallelo con Eb 5,13-14).

Quanto al Vaticano II, mi sembra che in realtà succeda il contrario di quanto lei scrive: lo si rifiuta nel nome della «Tradizione» della Chiesa. Ma quale «Tradizione»? Non è forse una scelta di parte quella di prendere dalla «Tradizione» quello che piace? Accogliere lo spirito del Concilio è essere innestati nella fede antica e solida della Chiesa per viverla nell’oggi e non è certo disprezzare la fede semplice e genuina della «nonna». Ce ne fossero ancora tante di quelle nonne. Vorrei avere io la fede genuina, forte e operosa che ho visto vivere da persone che fanno parte della mia infanzia.

A oltre 50 anni dal Vaticano II, si può dire senza paura che quel concilio è stato un grandissimo avvenimento di grazia per la Chiesa e appartiene a pieno titolo all’autentica «Tradizione». Vi parteciparono oltre 2.000 vescovi di tutto il mondo, un papa che ora è santo, un altro che ora è beato, e altri tre futuri papi, di cui uno, Giovanni Paolo II, anch’egli santo e un altro che ha poi fatto la scelta coraggiosa e inedita di dimettersi. Hanno sbagliato tutto? Sono stati meno «Tradizione» dei 25 vescovi e 5 superiori generali presenti all’inizio del Concilio di Trento nel 1545 o dei 255 dell’ultima sessione del 1563?

Quanto a noi cerchiamo di essere profondamente ancorati alla Parola di Dio e all’insegnamento della Chiesa, di cui il Vaticano II è un pilastro. E lo facciamo con amore e passione per la Chiesa, ringraziando lo Spirito di vivere in questo nostro tempo di Grazia.

Nella rivista, siamo coscienti di correre il rischio di essere troppo sociali, ma siamo convinti che l’autentico annuncio del Vangelo deve tener conto di «tutto l’uomo», non solo della sua dimensione spirituale. Nello stesso tempo non ci siamo mai tirati indietro nell’affrontare argomenti che riguardano la fede e la vita della Chiesa.

Cerchiamo di servire la verità nella carità senza seguire la moda o cercare popolarità, consci di non essere tuttologi e di avere tanto da imparare. Grazie.