Spese militari nel mondo. Mai così alte


Gli eserciti e l’industria delle armi festeggiano il 2023 come l’anno più positivo di sempre.
Nel mondo, infatti, la spesa militare non era mai stata tanto alta: 2.443 miliardi di dollari secondo un recente rapporto del Sipri, l’autorevole Istituto di ricerca internazionale per la Pace di Stoccolma.

Per provare a dare una misura alla cifra, basti pensare che secondo l’Unesco, in un mondo abitato da moltissimi analfabeti, nel 2020 si erano spesi 2.200 miliardi per l’istruzione; secondo l’Oms nel 2019 si erano spesi 8.600 miliardi per la salute; secondo Banca Mondiale nel 2022 il debito estero dei paesi a basso e medio reddito (una delle palle al piede di centinaia di milioni di persone) era stimato in circa 9mila miliardi.

L’aumento del 6,8% in un solo anno della spesa militare globale trova le sue ragioni nello scenario di forte instabilità internazionale.

Sembra che i governi delle grandi e piccole potenze, per affrontare le crisi e i conflitti in atto, non riescano a credere ad altro che all’aumento della propria capacità di minaccia nei confronti degli avversari.

È così che nel 2023 l’Ucraina ha aumentato la sua spesa militare del 51% rispetto all’anno precedente, dedicandole il 37% del suo Prodotto interno lordo, 64,8 miliardi di dollari, e che la Russia ha aumentato la sua spesa militare del 24% consumando 109 miliardi di dollari, il 5,9% del suo Pil.

Tra i paesi europei spicca la Polonia, che ha incrementato la sua spesa militare in un solo anno del 75%; ma anche la Finlandia (54%) e la Danimarca (39%).

Altri aumenti notevoli sono stati quelli dell’Algeria, 76%, della Turchia, 37%, di Israele, 24%.

In dieci anni, dal 2014 al 2023, la spesa militare globale è aumentata di quasi un terzo, il 27%.

Bastano i primi due Paesi nella classifica per mettere insieme la metà dell’intera spesa globale: gli Usa con 916 miliardi e la Cina con 296.

Dopo Usa e Cina, troviamo la Russia (109), l’India (83,6), l’Arabia saudita (75,8).

I successivi cinque paesi sono Regno Unito (74,9), Germania (66,8), Ucraina (64,8), Francia (61,3) e Giappone (50,2). L’Italia, con i suoi 35,5 miliardi, è al dodicesimo posto.

Il Sipri, in una nota, sottolinea che con la formula «spese militari» non s’intende la sola spesa in armamenti, ma «tutta la spesa pubblica per le forze e attività militari, compresi stipendi e benefici, spese operative, acquisto di armi e attrezzature, costruzioni, ricerca e sviluppo, amministrazione centrale, comando e supporto».

I dati raccolti dal centro di ricerca svedese mostrano un mondo diviso da profondi conflitti e pronto a esplodere. L’unico elemento di unità sembra essere la fede cieca nell’idolo della forza, quella che genera il circolo vizioso a cui stiamo assistendo: io mi armo perché tu ti armi, tu ti armi perché io mi armo, e così via.

Se fosse possibile misurare in dollari anche le vite spezzate, le sofferenze, gli sfollamenti, le distruzioni, sia materiali che culturali e spirituali, le libertà negate, la visione fosca del futuro, il conto, già esorbitante, sarebbe completamente fuori dalla capacità di calcolo delle persone comuni.

Luca Lorusso




Haiti. Contro il governo, contro le gang

 

Haiti vive lo stato di «peyi lòk» (paese bloccato) da metà gennaio, quando le manifestazioni popolari scoppiate in diverse città hanno bloccato tutte le attività. Dalle scuole, alla sanità, ai trasporti e le attività commerciali. La popolazione è scesa in piazza per chiedere che il primo ministro de facto Ariel Henry, faccia un passo indietro.

Henry aveva preso il potere, grazie all’appoggio degli Stati Uniti, il 20 luglio 2021, pochi giorni dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moise. Il suo governo – de facto perché non rispetta le procedure costituzionali, in quanto le elezioni non si tengono da diversi anni – non è riuscito a dare risposte dal punto di vista della sicurezza. I gruppi armati (chiamati in creolo gang) hanno preso il controllo gran parte della capitale Port-au-Prince, di diverse città e delle principali vie di comunicazione del Paese. Le guerre tra gang nei quartieri, inoltre, hanno causato centinaia di morti e circa 313.000 sfollati. Si tratta di cittadini costretti a lasciare i propri quartieri, perché diventati insicuri o perché obbligati dai banditi. Durante il solo 2023 circa 8.400 persone son state uccise, ferite o rapite, secondo dati del Binh (Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti). Sempre dati Onu indicano un aumento di assassinii, con circa 5mila persone uccise, mentre i rapimenti sono quasi raddoppiati rispetto all’anno precedente, portandosi a 2.490.

Un accordo del 21 dicembre 2022, chiamato Consenso nazionale per la transizione, firmato da alcune parti in causa (partiti e società civile), prevedeva che Henry lasciasse il potere il 7 febbraio, data simbolo nella storia haitiana (giorno della cacciata di Jean-Claude Duvalier nel 1986). Non essendoci nessun progresso o segnale di dimissioni la gente è scesa in piazza. Ma le agitazioni popolari sono degenerate in violenza. Strade bloccate con pneumatici incendiati e pietre, saccheggi e incendi, in diverse città. La polizia ha represso le manifestazioni con violenza e lacrimogeni, causando alcuni morti e diversi feriti.

L’8 febbraio, il primo ministro Henry ha dichiarato che il suo scopo è portare il paese ad elezioni, che però non si possono organizzare in una situazione come quella attuale. Non ha quindi senso «sostituire una transizione con un un’altra transizione» e per questo motivo è deciso a non lasciare.

Pneumatici incendiati per bloccare le strade a Port-au-Prince. Foto AlterPresse.

In questo contesto, il progetto di Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas) guidata dal Kenya, approvato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu del 2 ottobre 23, avrebbe dovuto portare ad Haiti un migliaio di poliziotti keniani e altrettanti di altri paesi disponibili già il mese scorso. Missione con lo scopo di appoggiare la polizia haitiana a riportare la sicurezza. Ma il 26 gennaio scorso la Corte suprema del Kenya ha dichiarato incostituzionale la decisione di dislocare ufficiali di polizia al di fuori dei confini nazionali. Mentre il presidente del Kenya, William Ruto si dice ottimista, di fatto l’impasse sullo spiegamento della Mmas è totale.

L’8 febbraio l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, Ocha, ha espresso la sua preoccupazione per la chiusura di oltre mille scuole, l’aumento dei prezzi di generi alimentari di base a causa del blocco del commercio, e l’impossibilità del lavoro di assistenza umanitaria agli sfollati. L’organizzazione ha lanciato un allarme sul rischio di una crisi alimentare sempre più ampia.

Nella stessa data, in una nota, la Conferenza episcopale di Haiti ha lanciato un chiaro appello per «mettere fine alla sofferenza del popolo, la cui volontà si è espressa su tutto il territorio, in particolare il 7 febbraio. Il sangue, le lacrime sono colate attraverso assassinii, rapimenti, stupri perpetrati nel corso degli ultimi tre anni. Ne abbiamo abbastanza! […]».

E rivolgendosi direttamente al primo ministro: «Testimoni della miseria e della sofferenza dei nostri concittadini nei dieci dipartimenti del paese, noi vescovi della Ceh lanciamo un appello vigoroso al primo ministro, Ariel Henry, affinché si renda conto della gravità della situazione attuale e prenda una decisione saggia per il bene di tutta la nazione che è seriamente minacciata nelle sue stesse fondamenta». Una richiesta ad Henry di passare la mano.

Marco Bello




Taiwan. In gioco la stabilità mondiale?

 

Il 13 gennaio è sempre più vicino. Sarà quello il giorno in cui Taiwan deciderà il suo prossimo presidente. Una scelta che non determinerà solo il futuro di quella che la Cina considera una La lunga campagna elettorale ha vissuto il suo culmine sabato 30 dicembre, quando si è svolto il primo e unico dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza della Repubblica di Cina, il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto. Si tratta tradizionalmente del momento decisivo, visto che a dieci giorni dalle urne viene imposto il blocco di tutti i sondaggi.

Il dibattito è stato dominato dal tema delle relazioni intrastretto, su cui sono emerse le grandi differenze tra i candidati. Tutti e tre dicono di voler mantenere lo status quo, ma ognuno propone una ricetta diversa per farlo, svelando non solo diverse strategie politiche, ma anche un diverso sentimento identitario sul sottile filo che corre tra il definirsi «cinese» oppure «taiwanese».

Il favorito, Lai Ching-te del Partito progressista democratico (Dpp, sigla in inglese), ha giocato in difesa. Noto per le sue posizioni a favore dell’indipendenza formale di Taiwan, l’attuale vicepresidente ha provato a porsi in perfetta continuità con la presidente uscente, la moderata Tsai Ing-wen. Durante il dibattito, Lai ha ribadito l’impegno a mantenere la pace e si è detto disposto al dialogo con Pechino, ma senza fare concessioni sulla sovranità e soprattutto sottolineando la necessità del rafforzamento dell’esercito e di nuovi acquisti di armi dagli Stati Uniti. Ha poi attaccato i rivali definendoli «filocinesi», presentando il voto come una «scelta tra democrazia e autoritarismo», e alludendo dunque a un possibile rischio di «inglobamento» in caso di vittoria del Kuomintang (Kmt), il partito nazionalista tradizionalmente più dialogante con Pechino.

Hou Yu-ih, il candidato del Kmt, ha invece descritto le elezioni come una «proposta» di Xi Jinping: ha infatti reiterato il rifiuto a «un paese, due sistemi», il modello di fatto fallito a Hong Kong che Pechino vorrebbe applicare anche a Taiwan.

Il terzo incomodo, Ko Wen-je, è in realtà apparso a molti come il più convincente dei tre durante il dibattito. Soprattutto dai più giovani che hanno commentato sui social. Ko, ex sindaco di Taipei e leader del Taiwan People’s Party (Tpp), si racconta come l’unica possibile novità nel tradizionale bipolarismo taiwanese. Durante il dibattito ha più volte esaltato il suo Sui rapporti intrastretto descrive il Dpp come «troppo anticinese» e il Kmt «troppo filocinese», proponendosi come depositario della linea di «riduzione del rischio», coniata da Unione europea e Stati Uniti: «Taiwan può diventare un ponte tra Washington e Pechino invece che un punto di tensione», sostiene, anche se non ha elaborato una proposta concreta per riavviare il dialogo.

Il favorito è senza dubbio Lai, che negli ultimi sondaggi disponibili era dato in vantaggio con una forbice che a seconda dei casi variava tra i 3 e i 10 punti. Al secondo posto Hou, con Ko non lontano. L’alleanza tra i due, naufragata a fine novembre, avrebbe con ogni probabilità messo fine al dominio del Dpp che dura dal 2016. Portando a un abbassamento delle tensioni militari con Pechino, ma a un prevedibile aumento del pressing politico per arrivare a un accordo che lo stesso Kmt non può garantire. Nel discorso di fine anno, Xi Jinping ha ribadito che la «riunificazione è una necessità storica». Un avvertimento che non cambierà i calcoli dei taiwanesi alle urne.

Molto importante poi il risultato delle elezioni legislative. Secondo tutte le proiezioni, nessun partito dovrebbe avere la maggioranza allo yuan legislativo (il parlamento unicamerale). Ciò significa che un’ipotetica presidenza Lai partirebbe azzoppata, con potenziali problemi nel far passare una serie di riforme e provvedimenti, a partire da quelli in materia di difesa. Uno scenario instabile che potrebbe non dispiacere a Pechino, che potrebbe provare a far leva sulle divisioni interne per guadagnare posizioni anche a livello politico.

Lorenzo Lamperti, da Taipei