Haiti. Lo Stato «bandito»


Dall’assassinio del presidente Jovenel Moise la crisi «multidimensionale» non ha fatto che aggravarsi. Oggi il Paese è in mano alle bande armate. La comunità internazionale cerca soluzioni improbabili, senza interpellare i diretti interessati. Come sempre.

«La situazione è molto complicata e ancora più preoccupante. Ci sono i banditi un po’ ovunque, e sparano. In effetti è come una situazione di guerra». Chi parla è Nicolas Pierre Louis, leader contadino dell’organizzazione Tèt kole ti paysan (Tktp) che abbiamo raggiunto telefonicamente. Si trova nella cittadina Pétite Rivière dell’Artibonite, importante snodo nella valle omonima, la più grande area pianeggiante di Haiti, nota per la produzione di riso, alimento base della popolazione.

«È una situazione catastrofica – prosegue -. I contadini della valle non sono più in grado di produrre, perché i banditi hanno occupato le loro terre, inoltre hanno rubato loro gli animali (vacche, capre, maiali che le famiglie usano come salvadanaio, da vendere in caso di bisogno, ndr). E se avevano un mulino, sovente è stato smontato e rubato. I contadini delle montagne hanno difficoltà simili e di approvvigionamento di qualsiasi cosa». Ma rilancia: «La popolazione rurale c’è, resiste, ma la situazione è estremamente critica».

Nicolas ci conferma che in alcuni importanti comuni della valle, come Pétite Rivière, L’Estère, Liancourt, le gang controllano il 100% del territorio.

«Se si ha del prodotto da vendere, è molto difficile raggiungere i mercati o le città, perché tutte le strade sono controllate dai banditi che, come minimo, chiedono un pedaggio. Sovente si utilizzano le moto per arrivare a destinazione attraverso strade secondarie. Ma è più complicato».

In senso inverso, le merci di ogni tipo che arrivavano dalla capitale Port-au-Prince, prima fra tutte la benzina, incontrano la stessa difficoltà per giungere nelle città di provincia, «così si è creata una iperinflazione, ovvero un forte aumento dei prezzi di tutti i beni per il consumatore finale».

Trenta mesi disastrosi

Negli ultimi trenta mesi il paese dei Caraibi ha visto la situazione sociopolitica ed economica degradarsi progressivamente.

Il 7 luglio 2021 il presidente Jovenel Moise è stato assassinato nel suo letto da un commando di mercenari, molti dei quali ex militari colombiani. I paesi «amici» (il virgolettato è d’obbligo), ovvero Usa e Canada, hanno subito appoggiato la presa di potere da parte di Ariel Henry, primo ministro designato da Moise pochi giorni prima dell’assassinio, ma mai investito, il quale ha costituito il suo governo «de facto». Henry è dello stesso partito di Moise, Partito haitiano tèt kale (Phtk), e ha scartato l’opzione di una coalizione proposta da altri partiti e organizzazioni sociali (nota come il Consenso di Montana, dal nome dell’hotel dove è stato firmato), che chiedeva una transizione consensuale tra tutte le parti in causa (partiti politici, organizzazioni sociali, ecc.).

Occorre ricordare che Moise aveva accuratamente evitato ogni tipo di elezione (le ultime nel novembre 2016 lo avevano portato alla presidenza), da quelle amministrative locali a quelle parlamentari, portando a scadenza ogni carica elettiva e concentrando su di sé gran parte del potere. Stava pure tentando di modificare la Costituzione.

Dopo la sua morte, le gang, gruppi di banditi organizzati e ben armati, hanno preso il sopravvento su un Governo debole e inconcludente.

Rapimenti, assassinii e violenze di ogni genere contro la popolazione sono aumentati in modo vertiginoso (secondo l’Onu nel 2023 ci sono stati 5mila omicidi, 2.490 rapimenti, centinaia di feriti). Le gang, forti di armamenti moderni e continui rifornimenti di munizioni, sono cresciute fino a controllare gran parte della capitale (compreso il centro e i quartieri popolari) e le principali vie di accesso ad essa.

La polizia nazionale (Pnh) non riusciva a contrastarli, così nell’ottobre del 2022 il premier Henry ha chiesto in aiuto una forza internazionale.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 2 ottobre 2023, tramite una risoluzione, ha dato il via libera alla creazione di una Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas). Stati Uniti e Canada non volevano però invischiarsi nell’operazione, visto il contesto mondiale complesso e le elezioni Usa in avvicinamento, oltre a un passato di esperienze fallimentari. Per questo motivo hanno fatto pressioni sul Kenya affinché guidasse tale missione, che sarà finanziata dagli Usa con oltre 120 milioni di dollari. Altri paesi, come il Benin e alcuni Stati caraibici sarebbero disponibili, per un totale di circa 4mila effettivi.

Accelerazione

Nel costante deterioramento della situazione della sicurezza, a inizio 2024 il Governo non aveva fatto alcun progresso, e Ariel Henry, il cui mandato avrebbe dovuto scadere il 7 febbraio (secondo un accordo tra alcuni attori politici e sociali, il Consenso nazionale di transizione, raggiunto il 21 dicembre 2022) non voleva affatto dimettersi.

La popolazione, allora, è scesa in piazza nel mese di gennaio per chiedere le sue dimissioni bloccando le attività del Paese fino a inizio febbraio.

Intanto le gang – una costellazione di gruppi, ognuno con il suo capo carismatico, un territorio di riferimento e spesso in lotta tra loro – sono riuscite a creare una grossa federazione, intorno a un portavoce, l’ex poliziotto Jimmy Cherizier, detto Barbecue.

Questo è stato un passaggio fondamentale, perché la coalizione delle gang, chiamata Viv ansamm (vivere insieme, in creolo), il 29 febbraio ha lanciato un attacco senza precedenti ai palazzi delle istituzioni pubbliche e alle infrastrutture strategiche (porti, aeroporti, posti di polizia e due carceri, facendo fuggire migliaia di detenuti), ma anche a strutture della Chiesa e della sanità.

In quel momento il premier Henry era in Kenya per firmare un accordo quadro che avrebbe consentito al Paese africano di guidare la Mmas.

Ma sono proprio i poliziotti stranieri che le gang non vogliono, e Barbecue in un’uscita di grande impatto mediatico, durante un’intervista, ha minacciato: «Se Henry non si dimetterà e se la comunità internazionale continuerà a sostenerlo, andremo dritti verso una guerra civile e un genocidio». Affermazione che segna un cambio di livello: le gang da esecutori, si traformano in attore politico attivo. Gli Stati Uniti, infatti, voltano le spalle al «loro» premier e il 5 marzo gli chiedono di dimettersi. Henry, trattenuto a Porto Rico (protettorato Usa), infine accetta e fa un passo indietro l’11 marzo.

Intanto c’è una riunione d’urgenza del Caricom (Organizzazione dei paesi dei Caraibi) su Haiti, in Giamaica, a cui partecipano anche Usa (con Antony Blinken), Canada, Francia e Unione europea. Ma senza la presenza di Henry (trattenuto a Porto Rico) né di una delegazione haitiana. Il gruppo decide che il Paese sarà guidato da un Consiglio presidenziale di transizione (Cpt), composto da sette membri e due osservatori, e dovrà essere espressione dei diversi settori politici e sociali del paese. Il Cpt, dopo lunghe trattative tra settori haitiani, si insedia il 25 aprile, con gli ambiziosi obiettivi di riportare la sicurezza e organizzare le elezioni. Il suo mandato non può andare oltre il 7 febbraio 2026.

Chi tira le fila

Allo stato attuale delle cose, chi ha il controllo reale del Paese, sono le gang grazie alle armi. In un quadro nel quale le istituzioni sono assenti e quelle provvisorie sono deboli e non legittimate.

Le gang sono presenti ad Haiti da fine anni Ottanta, ma – come detto – sono oggi diventate un attore imprescindibile nel quadro haitiano.

Abbiamo chiesto il parere a un militante sindacale, che ci ha chiesto l’anonimato per motivi di sicurezza: «Sono le grandi famiglie dell’oligarchia haitiana che hanno armato le gang e le riforniscono di munizioni. Ma anche i politici che chiamiamo granmanje (corrotti), i grandi senatori, deputati, sindaci. Hanno creato le gang per difendersi e difendere le proprietà dell’oligarchia (qui si intendono poche grandi famiglie haitiane, ndr) e dei grandi latifondisti. Si noti, infatti, che questi non vengono mai attaccati. Le gang, di fatto, combattono contro la popolazione, sono presenti per impedire la mobilitazione popolare contro il Governo».

I banditi controllano i quartieri popolari impedendo che la gente vada a manifestare. Negli ultimi mesi sono oltre 340mila gli haitiani sfollati a causa delle violenze e degli scontri tra bande criminali, mentre sono cresciuti gli omicidi, i rapimenti e gli stupri. Le sparatorie nei quartieri sono quotidiane.

«Ci sono deviazioni e contraddizioni interne – continua -. Ad esempio, alcune fazioni delle classi dominanti foraggiano le gang, mentre il Cpt (espressione sempre delle classi ricche, ndr) si oppone alle stesse gang, perché deve riportare la sicurezza. Ma è la popolazione che deve lottare contro questi banditi, in modo organizzato».

Quando gli chiediamo se si potrebbe negoziare con i supposti leader, è chiaro: «No, occorre combatterli e deve essere il popolo a farlo».

L’ultima speranza

Abbiamo fatto la stessa domanda a padre William Smarth che raggiungiamo telefonicamente a Port-au-Prince. Sacerdote haitiano diocesano, associato con i padri dello Spirito Santo (Spiritani), è stato molto attivo nel movimento della società civile che portò Jean-Bertrand Aristide a vincere le elezioni del dicembre 1990, le prime democratiche dopo la cacciata di Jean-Claude Duvalier il 7 febbraio 1986.

«Non ci sono negoziazioni possibili con questi banditi. Se interviene una forza seria (si riferisce a una forza internazionale di polizia, ndr), la gente stessa aiuterà, perché la popolazione ha bisogno di liberarsi: è quella che subisce di più, anche se ci sono delle zone nelle quali i banditi distribuiscono del cibo».

Padre William si sfoga: «Non va per niente bene ad Haiti. I banditi imperversano. Il Cpt funzionerà? Speriamo di sì, se i partiti politici lo faranno funzionare, e se darà vita a un Governo di transizione. A livello della sicurezza la polizia da sola non può affrontare i banditi. Ma se ci fosse una forza multinazionale la potrebbe aiutare. Che non sia però una forza di occupazione, come quella Usa del 1915». E prosegue: «I banditi si sono sviluppati ulteriormente e continuano a ricevere munizioni dall’estero in grandi quantità. Io credo che negli Usa molti pensano che il Governo sarebbe capace di controllare questo commercio di armi verso Haiti. Ma è un grosso giro di soldi. E anche di droga (vedi box). La crisi profonda è anche economica. Mentre le scuole sono chiuse da settimane a Port-au-Prince».

L’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu (Ocha) ha dichiarato che 5,5 milioni di haitiani (su 11,7) sono in emergenza umanitaria e ha chiesto una raccolta di 674 milioni di dollari per intervenire. Ma questi basterebbero solo per 3,6 milioni di persone. Massima urgenza, quindi, per la sicurezza alimentare di due milioni di persone a rischio fame.

Marco Bello


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Persone e famiglie in fuga dalla trovano rifugio nel cortile della scuola dei Vincenziani a violenza  Port-au-Prince, Haiti, 30 agosto 2023. (Photo by Richard PIERRIN / AFP)

Un rapporto Onu spiega come si alimenta la crisi haitiana

Il «pane» della guerra

Un interessante rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite su droghe e crimine (Unodc), «Haiti’s criminal markets: mapping trends in firearms and drug trafficking», uscito nel 2023 aiuta a decifrare alcune cause della crisi haitiana.

Attualmente nel Paese ci sarebbero tra le 150 e le 200 gang, bande criminali, profondamente legate alle élite politiche ed economiche. Da fine anni Ottanta Haiti è un punto di snodo fondamentale del traffico di droga dai paesi produttori (Colombia per la cocaina e Giamaica per la cannabis) ai mercati di Usa e Canada, ma anche Europa. Negli ultimi anni si è intensificato il commercio illegale di armi da fuoco e munizioni, prevalentemente dagli Stati Uniti verso Haiti.

I due traffici incrociati spiegano lo sviluppo di uno «Stato criminale» ad Haiti.

I fattori ambientali

Secondo il rapporto Unodc, alcuni fattori hanno favorito i due traffici.

Una frontiera vasta e poco controllata: 1.771 km di coste e 392 km di frontiera terrestre con la Repubblica Dominicana. Un grande numero di porti e moli privati, strade e piste di atterraggio clandestine rendono il paese estremamente accessibile al contrabbando di ogni genere di merce.

La dipendenza del Paese dall’import implica un grande flusso di merci in arrivo. Per fare un esempio, nel campo alimentare Haiti potrebbe produrre tutto il riso necessario, ma a causa di politiche economiche e doganali che hanno sfavorito i produttori haitiani, oggi circa l’80% del riso è importato. Merci (legali) che sono prima smistate in altri porti nelle vicinanze (Bahamas, Giamaica, Panama) e poi sono portate ad Haiti su battelli più piccoli.

In aggiunta l’elevato grado di corruzione, a tutti i livelli, fa di Haiti uno dei paesi più corrotti al mondo.

Inoltre, le principali strade del Paese, da Nord a Sud, dalla Repubblica dominicana verso Port-au-Prince, sono oggi controllate dalle gang, che hanno in mano tutti i punti di accesso alla capitale.

Secondo il rapporto Unodc, a causa della scarsità dei controlli e la frammentazione, è facile inserire grossi volumi di droga e di armi e munizioni nel normale flusso di merci.

Armi e munizioni

Una stima del 2020 della Commissione nazionale per il disarmo, smobilitazione e reintegrazione parlava di 500mila armi leggere presenti nel Paese, di cui solo una piccola parte sarebbe detenuta legalmente (10-15%).

La maggioranza di queste armi sono importate illegalmente, tramite reti della diaspora haitiana e intermediari, in container che giungono via mare, via aerea o via terra, nascoste in camion e auto individuali attraverso la frontiera terrestre. Sono spesso mischiate a cibo, come fagioli, farina o riso. Le armi partono dalla Florida, passano da altri porti caraibici come Kingston (Giamaica) e ovviamente dalla Repubblica dominicana. Altre sono le armi e munizioni importate legalmente (come quelle fornite da Usa e Canada a supporto della polizia haitiana) ma poi deviate e immesse in circolazione sul mercato clandestino, grazie alla mancanza di controllo e alla corruzione.

Clamoroso è l’aumento del prezzo di un’arma che raggiunge il suolo haitiano: una pistola da 500 dollari può essere rivenduta ad Haiti a 10mila (venti volte il costo negli Usa). Fucili mitragliatori da guerra, molto richiesti dalle gang, raggiungono prezzi maggiori.

Questo ci fa capire quanto sia redditizio il traffico di armi e munizioni verso Haiti, e immaginare la vastità della rete di intermediari che può alimentare. Secondo il rapporto Unodc, in Florida esistono veri punti di concentrazione di armi recuperate sul territorio statunitense, che poi sono nascoste tra altra mercanzia e dirette verso Haiti.

Le autorità della Florida hanno osservato un incremento dal 2021 al 2022 del numero di armi che transitano illegalmente per raggiungere Haiti ma anche un aumento del loro livello di sofisticazione.

Un altro aspetto fondamentale è quello delle munizioni, che garantiscono l’utilizzo delle armi, dalle pistole ai fucili d’assalto, e quindi alimento al potere alla gang. Il rapporto Unodc cita alcuni sequestri: nel luglio del 2022, di 120mila cartuccere in un caso singolo e di 25mila caricatori in un altro.

Droga

Mentre per le armi e munizioni Haiti è un paese di destinazione, per la droga, in particolare cocaina e cannabis, si tratto di un paese di transito. In alcuni casi la droga diventa merce di scambio tra gruppi criminali e per acquistare armi.

La storia di Haiti è stata influenzata da questo traffico fino dalla cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, e l’avvento di governi militari. Da allora influenti politici e uomini d’affari, membri delle oligarchie haitiane, sono stati coinvolti nel traffico.

La cocaina prodotta in Colombia, arriva direttamente o attraverso altri paesi, come il Venezuela. Viene mischiata ad altre merci nei container o lanciata in mare nei pressi della costa in pacchi localizzabili con Gps, che sono poi raccolti da piccole imbarcazioni e portate a riva. Da qui passano via terra in Repubblica dominicana, oppure su altri mezzi per la Florida, le Bahamas o verso altre isole come Turks and Caicos.

L’assenza di un effettivo controllo delle coste (il corpo di guardacoste ha un solo battello funzionante, così anche il gruppo haitiano antidroga) e la mancanza di equipaggiamento tecnico, come gli scanner, da parte degli uffici della dogana, favoriscono il traffico. L’aumento di produzione di cocaina in Colombia e il maggiore controllo del territorio da parte delle gang sono altri fattori che hanno incrementato il transito attraverso Haiti.

L’anello debole

La Polizia nazionale haitiana (Pnh) è il punto debole della catena, nonostante abbia beneficiato di programmi di rinforzo da almeno tre decenni. Una valutazione della Binuh (Ufficio delle Nazioni Unite ad Haiti), ha recensito 13mila effettivi, di cui circa 9mila in servizio (fine 2022). Da confrontare con il personale delle compagnie di sicurezza private (circa un centinaio), stimato tra le 75 e le 90mila unità.

È dunque chiaro che occorre rinforzare l’apparato della polizia haitiana, il controllo delle frontiere, il personale di guardacoste e della dogana, oltre che fornire loro mezzi adeguati e moderni per lavorare.

Un intervento necessario per riportare sicurezza e stabilità ad Haiti, continua il rapporto Unodc, è il controllo del traffico di armi e di quello della droga. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oltre ad avere espresso preoccupazione per questi aspetti, ha evidenziato l’importanza di smantellare i collegamenti tra gli attori politici ed economici del Paese e le gang. Per questo motivo ha emanato alcune sanzioni a individui (noti uomini politici e membri dell’oligarchia haitiana), come il congelamento dei beni e il divieto di viaggio (risoluzione 2653/2022), e una risoluzione di embrago su armi e munizioni (2645/2022). Ma non sembrano avere dato frutti.

Ma.Bel.

(Photo by Clarens SIFFROY / AFP)

 




Mali: «Per terminare il lavoro»

Testo di Marco Bello |


Il paese è sprofondato in una crisi socio politica acuta. La società civile e l’opposizione hanno formato un fronte unico contro il regime di Keita. Ecco che i militari ne approfittano e fanno saltare il banco. E il popolo sembra apprezzare. Ma si apre la difficile stagione della transizione.

È la mattina del 18 agosto, a Bamako. Si odono spari provenienti da Kati, poco fuori città, sede della più grande caserma del paese. Un gruppo di militari si impossessa della radio televisione e altri arrestano il presidente Ibrahim Boubakar Keita. Questi sarà costretto ad annunciare le sue dimissioni in diretta Tv.

Keita è stato eletto nel 2013 dopo la transizione seguita a un altro colpo di stato militare, quello ai danni di Amadou Toumani Touré, nel 2012, guidato dal tenente colonnello Amadou Sanogo (cfr. MC giugno 2017). Ha poi instaurato un «sistema» di governo che si è perpetrato con la rielezione del 2018, avvenuta in modo risicato e seguita da contestazioni per brogli.

Ma quest’ultimo golpe, ennesimo nella storia del paese, prende forma in un contesto particolare. È preceduto da mesi di manifestazioni di piazza e dalla nascita di un vero e proprio movimento anti governativo. Si tratta del M5-Rfp (movimento 5 giugno – raggruppamento delle forze patriottiche) e contesta la corruzione e la gestione del potere del gruppo di Ibk (come è chiamato il presidente dalla gente, dalle iniziali del nome).

«È un fronte molto ampio, dove troviamo tutta la classe politica di opposizione ma anche molte organizzazioni della società civile. È sicuramente uno dei movimenti più organizzati che ha avuto il Mali negli ultimi tempi. Il gruppo al potere ha cercato in tutti i modi di dividerlo, con diverse strategie e tentativi di corruzione, ma loro sono rimasti uniti». Chi parla è il quadro maliano di una Ong, profondo conoscitore delle dinamiche nel suo paese. «Una delle particolarità di questo movimento è che ha come mentore l’imam moderato Mahmoud Dicko».

Dicko è un intellettuale, capo religioso, equilibrato, e molto noto e rispettato, anche perché è stato presidente dell’Alto consiglio islamico del Mali per diversi anni. Conosce inoltre la vita politica del paese e i suoi attori. Non ha un ruolo ufficiale nel movimento, in quanto non fa neppure parte del Comitato strategico, ma di fatto ne è leader e riferimento morale. «Anche per questo motivo, tutti i tentativi del regime di sgonfiare il movimento e dividere l’organizzazione sono andati a vuoto».

La corruzione è grande

Ma cerchiamo di capire perché una contestazione così forte. Ancora il nostro uomo: «Il regime di Ibk era arrivato a una fase nella quale non rispondeva più alle attese dei maliani. La corruzione era molto cresciuta, e la situazione della sicurezza peggiorava ogni giorno (a causa degli attacchi jihadisti, ndr)». E continua: «Ibk di fatto non gestiva più il paese, era piuttosto la sua famiglia, ovvero la moglie e i figli, che controllava le leve del potere. Si è scoperto che addirittura imitavano la firma del presidente, che è malato, per documenti sensibili del paese».

La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le ultime elezioni legislative, tra marzo e aprile 2020, nelle quali il regime ha praticamente imposto alcuni deputati: «Non abbiamo partecipato a un’elezione ma piuttosto alla nomina di deputati. Diversi candidati parlamentari, eletti anche in zone sensibili, sono stati confermati dal ministero dell’Amministrazione territoriale, ma al passaggio alla Corte costituzionale per la validazione finale, sono state trovate delle scuse, per dire che c’erano state delle frodi, e sono stati eliminati. Così la Corte costituzionale ha messo da parte deputati eletti e ha fatto salire deputati favorevoli al regime».

(Photo by MICHELE CATTANI / AFP)

I militari ne approfittano

In questo clima si inseriscono i militari, per «terminare il lavoro iniziato dalla piazza», dicono. «Dopo tutte queste manifestazioni, che sono durate dei mesi, il regime era a terra. Il Mali non aveva governo, ma neppure l’Assemblea nazionale (il parlamento, ndr) perché era contestata. Tutto questo ha fatto sì che il potere si sia molto indebolito. Molti responsabili hanno cominciato a ritirarsi dai posti chiave. Il mattino del 18 agosto un gruppo di giovani ufficiali si sono radunati nel Comitato nazionale di salute del popolo (Cnsp), hanno preso il potere, e hanno cominciato a negoziare con M5 per mettere in piedi delle nuove istituzioni».

L’esercito approfitta della situazione e forza il cambiamento, come è già avvenuto varie volte nella storia del paese saheliano, che lo scorso 22 settembre ha festeggiato i primi sessanta anni d’indipendenza. Le istituzioni internazionali condannano l’accaduto: la Francia (ex potenza coloniale con ancora molti interessi nel paese, e un contingente di 5mila uomini per la lotta al terrorismo), l’Unione europea, ma soprattutto gli organismi sovranazionali africani, Unione africana e Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao). Quest’ultima impone sanzioni economiche e la chiusura delle frontiere, condizioni che in un paese senza sbocchi sul mare equivale a un lento soffocamento.

I militari vorrebbero instaurare una transizione di tre anni, per arrivare poi a nuove elezioni, ma gli organismi internazionali impongono che sia di 18 mesi e, soprattutto, che sia a guida civile e non militare.

La giunta militare – così viene chiamato il Cnsp -, il cui capo è il colonnello Assimi Goïta, deve però negoziare con l’altra forza presente nel paese, il M5-Frp, che, come detto, ha un largo seguito popolare, e vuole dunque partecipare alla transizione. Questa sarà retta da una «Carta di transizione» che ha ancora molti punti contestati dai vari settori del paese e attori internazionali.

I militari creano un Collegio per la designazione degli organi di transizione. Ne fanno formalmente parte, oltre al Cnsp, i sindacati principali, alcuni rappresentanti della società civile, il M5-Frp e la Cma (Coordinamento dei movimenti dell’Azawad, la parte dei gruppi armati che, nel 2015, ha firmato la pace di Algeri con il governo). «La giunta ha invitato anche la chiesa cattolica a partecipare, ma la conferenza episcopale, di concerto con i protestanti, con i quali collabora molto, ha deciso che non era il suo ruolo parteciparvi», ci spiega l’abbé Timothée Diallo, già responsabile dei media cattolici e oggi parroco di Sainte Monique. «La Chiesa cattolica, con i Protestanti e l’Alto consiglio islamico, hanno partecipato alle Concertazioni nazionali, durante i mesi agitati che hanno preceduto il golpe. Gli obiettivi erano la riconciliazione e l’uscita dalla crisi». Da notare che, dopo il golpe, gli uomini della giunta hanno fatto due visite all’arcivescovo di Bamako, «alla prima ho partecipato anche io – ci confida l’abbé Diallo -, e sono venuti per presentarsi e parlare dei motivi del loro atto».

(Photo by MALIK KONATE / AFP)

Un presidente di transizione

A un giorno dalla scadenza data dalla Cedeao, il 21 settembre, la giunta nomina presidente di transizione Bah N’Daw, e vicepresidente lo stesso Assimi Goïta. L’M5 contesta le modalità della nomina, che di fatto non avviene tramite il Collegio. Secondo il nostro quadro: «Il Cnsp non voleva coinvolgere altri nella scelta di presidente e vicepresidente di transizione. Ha fatto un protocollo che ha condiviso, ma in fondo sapeva già chi designare. Su questi due punti, non voleva discutere con M5 o altri».

Bah N’Daw, 70 anni, è un ufficiale in pensione, che è stato poi ministro della Difesa con Ibk, ma si è dimesso per critiche alla gestione. Ha pure collaborato con Moussa Traoré (il presidente-dittatore, 1968-91, recentemente scomparso il 15 settembre), anche in quel caso si era dimesso. «Nessun politico, nessun partito contesta la sua figura, solo il M5 protesta per non essere stato coinvolto nella scelta – ci dice il giornalista Moussa Balla Coulibaly, contattato telefonicamente -. Il vicepresidente Goïta, anche lui è abbastanza conosciuto, per il suo impegno come militare nella lotta al terrorismo».

Cruciale e delicata sarà la definizione dei poteri tra presidente e vicepresidente nella carta di transizione. Su questo anche la Cedeao è molto attenta.

Il quadro della Ong ci confida: «Penso che il gioco di questi militari sia molto opaco, non riusciamo a leggere qual è il loro intento, spesso danno impressione di volere tenere il potere, altre volte, sotto pressione della Cedeao, accettano di condividerlo. Ma con questa nomina è chiaro che non sono venuti per cedere facilmente il potere alla classe politica.

C’è però un consenso sulla persona che è stata scelta come presidente. La sua onestà e conoscenza delle regole di governance in Mali sono un dato di fatto. Ma resta comunque un militare, anche se in pensione». Un militare travestito da civile, si potrebbe dire, che però non ha trovato ostacoli nella Cedeao, la quale apprezza anche il primo ministro (nominato dal presidente il 28 settembre) Moctar Ouane, un politico con carriera internazionale. I negoziati Cnsp – M5, portano alla creazione del governo il 5 ottobre. I militari ottengono quattro ministeri chiave (Difesa, Sicurezza, Amministrazione territoriale e Riconciliazione). Non ci sono grossi nomi della politica e M5 ottiene tre ministeri (Comunicazione, Impiego e Rifondazione). Agli ex gruppi ribelli ne vanno tre, mentre in tutto le donne sono quattro.

«Personalmente ho molta speranza che la transizione vada a buon fine – ci racconta l’abbé Diallo – questo perché il presidente scelto è un uomo integro, sincero, ho molta fiducia in lui. È un uomo che ha sempre rifiutato la corruzione, per cui è la persona giusta per lottare contro questa piaga che è uno dei principali problemi del governo appena rovesciato».

BAMAKO, MALI – Stringer / Anadolu Agency

Embargo e crisi economica

Le sanzioni, imposte dalla Cedeao, già dopo il primo mese, creano problemi economici: «Sentiamo già, a livello delle entrate del fisco e delle dogane, un deficit a causa dell’embargo. Ma anche nel carrello della spesa delle famiglie, si vedono tanti prodotti che sono aumentati improvvisamente di prezzo, in particolare quelli che arrivano dall’estero. La giunta sta cercando di non trovarsi tra il martello della Cedeao e l’incudine della popolazione, spingendo per ottenere l’annullamento o almeno l’allentamento delle sanzioni, affinché il clima sociale maliano non si degradi ulteriormente con l’acuirsi della crisi economica». Nei giorni della nomina del presidente, si stava realizzando nel paese la visita del mediatore della Cedeao, Goodluck Jonathan, già presidente della Nigeria. Jonathan è rimasto anche durante l’investitura, avvenuta con una breve cerimonia, del presidente di transizione Bah N’Daw. E questo è stato letto come un segnale positivo.

Il 6 ottobre, vista anche la pubblicazione della Carta di transizione che impedisce al vice presidente di prendere il posto del presidente, la Cedeao annuncia la fine dell’embargo.

Altre forze vive della nazione vogliono dire la loro sulla transizione. È il caso della Cma.

«All’inizio, la Cma ha visto con favore l’arrivo della giunta, perché questi gruppi sono frustrati dalla mancata applicazione degli accordi di Algeri del 2015 (cfr. MC giugno 2017), totalmente disattesi e boicottati dal regime di Ibk. Questi non aveva né voglia né i mezzi per applicare gli accordi. La Cma resta tuttavia molto prudente per vedere se la giunta si smarcherà da questo sistema e quale sarà l’avvenire degli accordi del 2015», ci dice il quadro dell’Ong.

In effetti la Cma sta negoziando affinché l’applicazione degli accordi sia inserita nella Carta di transizione. «Sì, perché si sentono discorsi sulla modifica degli accordi di Algeri, che, secondo alcuni, non sarebbero realizzabili. Ma la Cma vuole che gli accordi siano applicati così, come sono stati firmati. Attualmente, non essendoci stata applicazione, la situazione si degrada sul terreno ogni giorno e nessuno vuole prendersi le sue responsabilità».

Ma la gente comune, cosa ne pensa di questo nuovo, brusco, cambiamento di regime? Continua l’intellettuale: «Abbiamo delle speranze, perché pensiamo che non possiamo vivere peggio di quanto abbiamo già vissuto con Ibk e il suo governo. Quindi pensiamo che stiamo rialzandoci, anche se magari ci vorrà del tempo. Occorre fare tornare una certa fiducia, tra governanti e governati, affinché i maliani si parlino tra loro, e si costruisca la nazione, perché le prospettive erano davvero catastrofiche».

Secondo un’analisi del giornalista Balla sui social media «circa l’80% delle persone attive posta testi e video in cui si chiede che la si faccia finita con la corruzione, si sostiene la giunta e il regime di transizione che deve ancora venire, per un’uscita dalla crisi e un vero cambiamento».

Transition Mali President Bah Ndaw  (Photo by MICHELE CATTANI / AFP)

Gli jihadisti non si fermano

Il Mali dal 2013 è teatro di una guerra tra gruppi radicali islamisti (cfr. MC giugno 17) e Forze armate maliane (Fama), appoggiate dal contingente francese dell’operazione Brarkhane (circa 5mila uomini), dalla Missione delle Nazioni unite (Minusma, circa 10mila la missione che ha inflitto più perdite ai caschi blu nella storia), da contingenti europei, tra cui tedeschi e italiani (nella task force Takuba, creata nel luglio di quest’anno) e dalla forza G5-Sahel.

Il capo della giunta Assimi Goïta, nel discorso del sessantesimo dell’indipendenza, ha fatto appello all’«unione sacra» dei maliani nella lotta al terrorismo, chiedendo alla popolazione di sostenere le Fama, ma anche i partner stranieri. Si erano infatti verificate manifestazioni di contestazione antifrancese e anti straniera nei giorni precedenti.

Chiediamo ai nostri interlocutori cosa può succedere con il cambio di regime.

«Non penso che il cambiamento avrà un impatto su questi gruppi, perché le loro rivendicazioni sono chiare e non cambiano in funzione del regime: vogliono l’instaurazione della legge islamica. Quello che speriamo oggi è che, con l’arrivo della giunta al potere, l’esercito maliano sia meglio organizzato e abbia più mezzi, per combattere i gruppi terroristi. Perché avevamo l’impressione che i nostri militari non avessero abbastanza mezzi e i responsabili non avessero le mani libere per fare tutto il possibile nella lotta anti terrorista», ci dice il quadro.

Ancora, secondo Balla: «Da quando è caduto Ibk, abbiamo visto una maggiore copertura aerea dei nostri militari sul terreno, che ha portato a una maggior efficacia dell’esercito nella lotta al terrorismo».

Bisogna dire che il Mali resta un paese di fatto tagliato in due. Il grande Nord, due terzi del territorio, poco abitato perché diventa Sahara, è quasi un paese a parte. Il nostro interlocutore viaggia spesso a Gao: «Nel Nord il cambiamento di regime lo sentiamo alla televisione e alla radio, ma non ha nessun impatto sulla vita. Sarà anche perché l’apporto dello stato non è sentito dalla popolazione, che sia positivo o negativo. Così anche se il regime cambia, non lo sentiremo molto a Gao, perché lo stato è qualcosa di molto lontano e non ne beneficiamo direttamente».

Marco Bello

Musulmani in preghiera a Bamako (Photo by MICHELE CATTANI / AFP)