Non voglio abituarmi

Testo di García Fernández P. Andrés |


Non voglio abituarmi.

No, non voglio.

Quando ogni giorno si sentono sparatorie accanto alla casa;
quando ogni giorno vedi decine di persone mangiare accanto ai topi, letteralmente, dai sacchi della spazzatura rotti che giacciono sui marciapiedi della capitale;
quando nelle code degli uffici o dei negozi, o dei mezzi pubblici si vedono solo volti tristi e stanchi, vestiti rammendati;
quando, nella capitale, l’acqua arriva nelle case dopo una o due settimane;
quando lo stipendio mensile di un impiegatonon è sufficiente per comprare solo quattro pagnotte.

Giorno dopo giorno… al punto che sembra (che tutto questo debba) essere normale.

Distribuzione di cibo a Carapita, periferia di Caracas, Venezuela (foto AfMC / James C. Patias)

No, non voglio abituarmi.

Non voglio abituarmi alla paura di parlare, perché perdi il lavoro e la borsa di cibo che potresti ricevere una volta al mese (dopo aver trascorso vari mesi nei canali del Delta Amacuro) …

Non voglio che la mia coscienza veda normale il contrabbando come l’unica alternativa per ottenere sapone e dentifricio, se non vuoi passare una settimana a remare (da villaggio sul fiume alla città più vicina, ndr) per vedere se il bonus che il governo offre per questo è arrivato …

Non voglio abituarmi a veder morire di tubercolosi persone lasciate abbandonate perché non possono arrivare in città…
Non voglio abituarmi a vedere bambini, giovani e adulti privati della possibilità di studiare per mancanza di quaderni e altro materiale didattico, per mancanza di libri, per mancanza di un salario degno per gli insegnanti…

Non voglio abituarmi a sentire ogni giorno che “gli altri sono i colpevoli”, gli altri non ci lasciano, gli altri…

Non voglio abituarmi a pensare che il corona-virus sia da incolpare per tutto, anche di quello che continua a non funzionare come (non funzionava) prima (del virus)…

Né voglio abituarmi a vedere la resilienza di così tante persone.

Caracas, coda per comperare cibo (Jaime C. Patias /AfMC)

Voglio rallegrarmi per ogni persona che si rialza, per ogni tentativo, per ogni sospiro di speranza.

Voglio sognare di nuovo con ogni sorriso, con ogni carezza, con ogni sforzo.

Voglio che si imprima a fuoco nella mia anima la gioia di quella bambina che dice alla mamma di sapere già le vocali e del suo fratellino più grande che, con espressione di trionfo, mi dice che lui sa già leggere e scrivere.

Voglio continuare ad emozionarmi nel vedere due anziani camminare per strada mano nella mano, innamorati; e ascoltando quei giovani fidanzati che sognano come sarà la loro famiglia, la loro storia d’amore.

Voglio rimanere senza parole di fronte alla bellezza del fiore che cresce umilmente completando con il suo colore e profumo la sinfonia della giungla e anche davanti a quella che cresce in città…

Voglio sentirmi una sola cosa con l’universo nel bel mezzo della tempesta e quando la leggera brezza mi accarezza…

Voglio fremere con ogni persona che sogna una nuova umanità e impegnarmi per ogni persona che costruisce giustizia e pace con il suo stile di vita e anche con chi lo fa attraverso i movimenti sociali e i tribunali…

Voglio gioire per tutti gli sforzi fatti in favore della riconciliazione delle persone e dei popoli.

Voglio cantare con ogni persona che si rialza dopo ogni caduta, cercando di essere migliore.

Voglio dirvi che oggi migliaia di persone si sono riconciliate, che sono nati migliaia di bambini, che centinaia di migliaia di innamorati si sono baciati (sì, anche nella quarantena), che centinaia di popoli continuano ad organizzarsi per riprendere i loro diritti, per recuperare la loro storia, le loro terre, la loro cultura, la loro dignità …

Oggi, anche oggi, come ieri e come domani, l’amore continua a vincere e a generare vita in tutto l’universo.

Voglio dirvi quello che già sapete: che Dio è Amore e che lui vince sempre e per sempre. Non lo vedete?!

García Fernández P. Andrés, aprile 2021
da Nabasanuka Comunidad Apostólica, diocesi di Tucupita, Venezuela

Bambini Warao ( AfMC)




Modi e la deriva maggioritaria

testo di Maria Tavernini |


Delegittimare i processi e le istituzioni democratiche, criminalizzare il dissenso e calpestare i principi costituzionali è una tendenza sempre più frequente nell’India di oggi. A rimetterci, soprattutto poveri e minoranze.

«Il vero buio all’orizzonte è la svolta che sta prendendo la democrazia indiana, come se fosse sulla strada della perdizione», si legge nel duro editoriale dello scrittore Pratap Bhanu Mehta, sul quotidiano Indian Express, all’indomani della storica marcia di trattori che il 26 gennaio scorso – 72ª festa della Repubblica – ha sfilato nella capitale indiana in parallelo alla parata militare ufficiale.

È stata una manifestazione enorme, con centinaia di migliaia di contadini e contadine provenienti da tutta l’India.

Dopo due mesi, accampati ai confini di Delhi, hanno invocato (e ancora oggi, mentre scriviamo, invocano) il ritiro delle liberalizzazioni decise a settembre dal governo nazionalista guidato dal Bharatiya Janata Party (Bjp). Riforma considerata lesiva dai lavoratori della terra che rappresentano oltre la metà della forza lavoro indiana, in quanto favoriscono i colossi dell’agroalimentare ai danni dei piccoli produttori.

Una protesta che ha raccolto enorme sostegno dalla società civile, anche internazionale, alla quale il governo ha risposto con indifferenza prima, e con la repressione poi.

Nuova India intollerante

La tendenza a delegittimare i processi e le istituzioni democratiche, criminalizzare il dissenso e calpestare i principi costituzionali, è sempre più frequente nell’India di oggi, tanto che lo svedese V-Dem Institute a marzo ha declassificato l’India come «autocrazia elettorale», rilevando che gran parte del declino delle libertà democratiche è avvenuto dopo la vittoria di Narendra Modi.

Lo schema usato contro il movimento dei contadini è lo stesso impiegato contro altri movimenti precedenti: screditare l’agitazione, sobillare le violenze e accusare manifestanti e giornalisti di attività «anti nazionali».

Il buio sembra davvero calare sul subcontinente, su quell’idea di democrazia laica e inclusiva che prese corpo quando, nell’agosto del 1947, l’India Britannica ottenne l’indipendenza dalla Corona, smembrandosi in un Pakistan musulmano e un’India a maggioranza hindu.

Per capire il lento e inesorabile declino delle istituzioni democratiche indiane e la svolta autoritaria e maggioritaria dell’esecutivo, bisogna raccogliere elementi sparpagliati in un arco temporale di diversi anni. L’instabile democrazia indiana, che ha resistito a passate derive autoritarie, è oggi messa a repentaglio dal suprematismo identitario del governo guidato dai nazionalisti hindu; ma, soprattutto, dall’ascesa di una «nuova idea» di India: intollerante e sciovinista.

Quella dei contadini – una mobilitazione senza precedenti, ancora in corso – è stata la prima grande protesta dopo la sospensione imposta dal coronavirus.

Foto iconica di gioventù induista sul tetto della moschea Bari del 16° secolo, pochi minuti prima che fosse totalmente distrutta nel 1992. (Photo by DOUGLAS E. CURRAN / AFP)

Islamofobia hindu

La pandemia in India si è innestata in un periodo molto delicato: a dicembre 2019, il governo aveva varato il Citizenship amendment act (Caa), un emendamento alla legge sulla cittadinanza, considerato discriminatorio verso la comunità musulmana e in netto contrasto con i principi costituzionali in quanto avrebbe reso l’appartenenza religiosa un prerequisito per la naturalizzazione.

Il Caa era solo l’ultima di una serie di azioni volte ad alienare la popolazione musulmana dell’India e a consacrare il suprematismo hindu, ma aveva avuto il merito di riunire le minoranze del paese – musulmani, Dalit, comunità tribali, donne, lgbt – in una protesta trasversale e pacifica che era stata però da subito repressa.

A fine febbraio 2020, poi, la capitale – epicentro nazionale della mobilitazione – era stata travolta da un’ondata di violenza settaria in risposta alle proteste che avevano riempito le strade del paese.

Le responsabilità del pogrom contro la comunità musulmana a Delhi Nordest erano state fatte ricadere sulle vittime, anziché sulla destra hindu, nonostante alcuni esponenti del partito avessero intimato di «dare una lezione ai traditori». Poi è arrivata la pandemia. Le proteste sono state sgomberate, ma non la criminalizzazione del dissenso.

Covid e repressione

Quando il coronavirus ha raggiunto l’India, il lockdown nazionale si è tramutato in una tragedia tristemente annunciata.

Il contesto di forte povertà, e un’economia già in forte recessione, basata per oltre l’80% su scambi informali, ne hanno amplificato l’impatto sociale.

Quando il 24 marzo 2020 il premier Narendra Modi ha annunciato la chiusura, 1,35 miliardi di persone hanno avuto quattro ore per prepararsi. Molti dei cosiddetti urban migrants, centinaia di milioni di persone che negli anni si erano trasferite dalle campagne impoverite alle grandi metropoli nel tentativo di sfuggire alla fame, ingrossando le fila dei poveri urbani, non hanno avuto altra scelta che affidarsi alla rete familiare tornando nei villaggi di origine.

Il caso dell’India – il terzo paese al mondo per numero di contagi in termini assoluti, ma i cui numeri vanno letti in rapporto alla popolazione – è particolarmente drammatico anche a causa della repressione che si è abbattuta come una scure sulla società civile, proprio nei mesi in cui si consumava una gravissima emergenza sanitaria, sociale e umanitaria.

Una famiglia nello slum di Sonagachi, Kolkata, India. / Photo ID 451906. 20/06/2010. Kolkata, India. UN Photo/Kibae Park.

Dissenso sotto la lente

Il 2020 ha visto sconvolgimenti epocali in tutto il mondo – soprattutto in termini di distruzione dei mezzi di sussistenza e aumento della povertà -, e l’India non ha fatto eccezione.

Il lockdown indiano è stato disumano, almeno per i più poveri.

Il governo, quando interrogato, non ha fornito i numeri di quanta gente sia morta di stenti nel tentativo di tornare a casa, di quanti posti di lavoro siano andati perduti per il lockdown, di quanti milioni di persone (ri)sprofonderanno nella povertà, in barba al millantato Indian dream.

La mancanza di dati sui migranti e le fasce deboli, e in generale sulla tragedia in corso, a fronte di migliaia di pagine e dati raccolti per incastrare attivisti e manifestanti accusati di sedizione e attività anti nazionali, dà la misura della distanza dell’esecutivo da una fetta di popolazione politicamente invisibile.

Nessuno tocchi il governo

https://www.flickr.com/photos/duncan/49631159326/ India – dove le mucche sono più sicure dei musulmani foto del marzo 2020

Proprio nei mesi dell’emergenza Covid, centinaia di persone sono state arrestate o accusate ai sensi della legge sulle attività illegali o di quella sulla sicurezza nazionale: due norme in base alle quali si può essere incarcerati per un semplice sospetto.

Tra gli arrestati, c’erano diversi studenti e attivisti legati alle proteste di fine 2019, incolpati di aver istigato i Delhi riots.

Altri, invece, almeno 16, sono stati fermati sulla base di accuse mai provate, per il caso di Bhima Koregaon, gli scontri tra alte caste e Dalit del gennaio 2018.

La repressione in questi mesi si è abbattuta sulle voci libere e su chi difende i diritti degli ultimi: dietro le sbarre delle sovraffollate carceri indiane in tempo di Covid sono finite attiviste incinte, anziani poeti, stimati frati, leader contadini, studenti, attivisti anticaste, noti giornalisti e docenti. La lista dei prigionieri politici è lunga: un esempio su tutti, padre Stan Swamy, gesuita che difende i diritti dei popoli tribali nelle foreste più remote del paese. Il sacerdote 83enne e gravemente malato, è in cella, in condizioni terribili, accusato di sostenere il maoismo.

La repressione del dissenso oggi, in India, non fa distinzioni: chiunque osi criticare il governo, rischia di essere accusato, intimidito, perseguitato. Anche i media e la Corte suprema hanno perso, pezzo dopo pezzo, indipendenza e imparzialità.

Declino graduale

L’ascesa del suprematismo identitario hindu è stato un processo graduale, accompagnato dal progressivo smantellamento delle istituzioni e delle salvaguardie democratiche.

Una tendenza – quella verso il nazionalismo maggioritario e militante – iniziata già dal primo mandato del Bjp.

Alle elezioni del 2014, Narendra Modi si era presentato come l’uomo del progresso, colui che avrebbe dato all’India il posto che meritava nel mondo: la sua ricetta di neoliberismo e industrializzazione sfrenata era riuscita a conquistare un elettorato stanco di scandali e corruzione, affamato di riscatto.

Già durante il primo mandato, però, l’agenda dell’esecutivo si è gradualmente spostata dalla retorica dello sviluppo alle politiche maggioritarie, escludenti e islamofobe, fedeli alle frange più estreme della destra hindu.

La marginalizzazione e la stigmatizzazione della comunità musulmana – e delle minoranze più in generale – è stata graduale e inesorabile: in questi ultimi sei anni si è tradotta in leggi antislamiche, linciaggi pubblici, violenze settarie, arresti di «voci critiche», e un diffuso clima di impunità tra le squadracce hindu.

Hindutva, o hinduità

Se le avvisaglie del primo mandato Modi non fossero state abbastanza evidenti, con il secondo mandato è ormai chiaro che l’enfasi sul progresso ha ceduto il passo all’etnonazionalismo confessionale del Bjp.

L’hindutva, o «hinduità», teorizzata da Vinayak Damodar Savarkar nel 1923, è la forma prevalente di nazionalismo in India.

Quando il partito capeggiato da Modi è stato riconfermato alle politiche nella primavera del 2019 con un mandato senza precedenti, l’esecutivo ha accelerato il progetto di un’India a trazione hindu in cui le minoranze, soprattutto quella musulmana, saranno sempre più ai margini.

Il 2020 era considerato l’anno in cui l’India sarebbe diventata una «super potenza». Stiamo invece assistendo è una profonda crisi della democrazia, del pluralismo e del secolarismo indiano.

La questione Kashmir

Pochi mesi dopo l’inizio del secondo mandato Modi, New Delhi ha unilateralmente abolito l’autonomia del Kashmir, l’unico stato a maggioranza musulmana dell’India: un territorio al centro di un’annosa disputa territoriale con il vicino Pakistan, insanguinato da 30 anni d’insurrezione separatista e una brutale repressione delle forze dell’ordine.

Da allora, il Kashmir è sotto un assedio permanente – che si somma a decenni di presenza militare massiccia, percepita come un’occupazione dai civili – con leader politici locali arrestati, giornalisti e media silenziati, attivisti perseguitati e incarcerati e diffuse violazioni dei diritti umani, come dimostrano diversi rapporti e inchieste indipendenti. Al lockdown militare e digitale – il più lungo mai imposto in una democrazia – ha poi fatto seguito quello per il coronavirus.

Un tempio al posto della moschea

Poi, a novembre 2019 è arrivata un’importante sentenza della Corte suprema su un’annosa disputa legale: quella riguardante il caso di Ayodhya. La Corte ha dato il via libera alla costruzione del tempio di Rama sulle rovine della moschea di Babur, distrutta nel ‘92 dagli estremisti di destra, avallando il fanatismo hindu.

Infine, l’emendamento alla legge sulla cittadinanza del dicembre del 2019 ha concesso alle minoranze provenienti da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan che risiedono in India – tranne quella musulmana – di avere accesso preferenziale alle procedure per la naturalizzazione.

Tutto sembra andare nella direzione dell’Hindu Rashtra, la nazione a trazione hindu anelata dal Rashtriya Swayamsevak Sangh (l’organizzazione paramilitare volontaria della destra hindu apertamente ispirata al fascismo cui era appartenuto anche l’assassino del Mahatma Gandhi), in cui non c’è spazio per le minoranze, soprattutto per i musulmani, che in India sono 200 milioni, il 14,2% della popolazione.

Frattura insanabile

Negli anni ’90, la destra hindu aveva conquistato sempre maggior peso nel panorama politico indiano. Le organizzazioni della Sangh Parivar, la cosiddetta «famiglia» – la destra hindu militante e sciovinista -, credono nella superiorità degli hindu (l’80% della popolazione) sulle altre comunità religiose, e guardano a quella musulmana come a una minaccia, alimentando un senso di insicurezza utile per mobilitare le masse.

Gli scontri settari – come quelli che avevano accompagnato la partizione dell’India britannica e l’enorme migrazione delle minoranze religiose oltre l’allora neonato confine – non sono una novità in India, ma ad Ayodhya, una polverosa cittadina nello stato dell’Uttar Pradesh, nel 1992, con la distruzione della moschea costruita nel XVI secolo dalla dinastia moghul, e i successivi massacri compiuti dagli estremisti hindu che hanno portato a migliaia di morti, si è consumata una delle pagine più buie della storia dell’India repubblicana. Tutt’oggi una frattura insanabile tra hindu e musulmani.

Foto del 2002. Una donna cerca di rimettere in sesto quel che rimane della sua casa bruciata dopo pesanti scontri tra hindu e msusulmani a Ahmedabad / AFP PHOTO/Indranil Mukherjee /AFP

La carovana dei fanatici

In quegli anni, il Ram Yath Ratra, il movimento capeggiato dalle organizzazioni della destra hindu, sostenute da Lal Krishna Advani, tra i fondatori del Bjp e allora presidente del partito, mirava alla costruzione del tempio del dio Rama ad Ayodhya.

Gli hindu reclamavano la terra dove sorgeva la moschea di Babur del XVI secolo, perché considerata il luogo natale del dio hindu e perché, a detta loro, il luogo di culto musulmano era costruito sulle rovine del preesistente tempio hindu dedicato, appunto, a Rama.

Il movimento aveva organizzato un pellegrinaggio di kar sevaks, i volontari della causa hindu: una carovana di fanatici che raccoglieva adepti e seminava violenze al suo passaggio, tanto che Advani era stato arrestato infiammando ancora di più i suoi sostenitori.

Quando i militanti avevano raggiunto Ayodhya, nel dicembre del 1992, il comizio ai piedi della moschea era stato solo il preludio dell’azione: arrampicati sulle cupole, armati di mazze e picconi, gli estremisti avevano buttato giù l’edificio sotto gli occhi della polizia. La demolizione della Babri Masjid aveva poi innescato un’ondata di scontri tra hindu e musulmani che avevano portato ad almeno duemila morti. La recente sentenza del 2019 ha chiuso il cerchio: concedendo agli hindu quel terreno e dando il via libera alla costruzione del tempio, ha legittimato di fatto il fanatismo hindu.

Modi e il pogrom del Gujarat

Quando nel 2014 l’India ha messo il suo futuro nelle mani di Modi, che prometteva di essere l’uomo del cambiamento, in molti hanno chiuso un occhio sul suo passato: lui, «figlio di un umile venditore di tè», fin da ragazzo aveva militato nel Rss, scalando poi i quadri del Bjp fino a diventare il governatore dello stato del Gujarat ai tempi del pogrom antimusulmano che nel 2002 ha insanguinato lo stato Nord occidentale, facendo oltre duemila morti, quasi tutti musulmani.

I Gujarat riots avrebbero scosso profondamente l’opinione pubblica mondiale. La scintilla che aveva innescato le violenze era stata l’incendio di un treno carico di militanti della causa hindu che stava rientrando proprio da Ayodhya, dove si era tenuto un raduno per la costruzione del tempio di Rama. L’incidente del treno – le cui reali cause non sono mai state appurate – aveva scatenato la furia dei fanatici hindu che hanno messo a ferro e fuoco lo stato in tre giorni di violenze mirate: un vero e proprio pogrom, avallato dalla polizia e dalle autorità politiche dello stato. Modi, accusato di non aver fermato le violenze, sarebbe stato poi prosciolto.

Un personaggio così polarizzante e controverso a capo dell’esecutivo, forte di una legittimazione enorme, in soli sei anni di governo si è reso artefice di un preoccupante declino delle istituzioni e dei valori democratici e costituzionali che sta facendo dell’India un paese molto diverso da quello che abbiamo finora conosciuto e raccontato.

Maria Tavernini*


* Giornalista indipendente, ha vissuto per diversi anni in India, di cui scrive per «Altreconomia», «TRT World», «Reset Doc», «Q Code Magazine», «Osservatorio Diritti», tra gli altri, occupandosi di tematiche sociali, diritti umani, questioni di genere e ambientali, nel quadro dei più ampi cambiamenti politico sociali. Nel 2021 ha pubblicato il libro No going back, Prospero editore.

 




Perché l’Oms non funziona come dovrebbe

testo di Chiara Giovetti | foto AfMC |


Gli stati membri collaborano solo se a loro conviene e la struttura burocratica dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è troppo lenta e inefficiente. La vicenda di Covax è solo il più recente esempio di mancanza di incisività per un’organizzazione nata con l’ambizione di coordinare la sanità a livello mondiale e oggi in evidente crisi.

Lo scarto fra paesi ricchi e paesi poveri nel numero di vaccini somministrati «cresce ogni giorno, e ogni giorno diventa più grottesco. Paesi che ora stanno vaccinando persone più giovani e sane a basso rischio lo fanno a spese delle vite del personale sanitario, degli anziani e dei gruppi a rischio in altri stati. I paesi più poveri del mondo si chiedono che cosa davvero intendano i paesi ricchi quando parlano di solidarietà»@.

Così Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha descritto durante una conferenza stampa dello scorso 22 marzo la situazione di disparità nell’accesso ai vaccini contro la Covid. A gennaio Tedros aveva detto che il mondo era sull’orlo di un catastrofico fallimento morale e che era necessario agire con urgenza per assicurare un’equa distribuzione dei vaccini. «Abbiamo i mezzi per scongiurare questo fallimento – ha poi ribadito il direttore dell’Oms a marzo – ma è scioccante quanto poco sia stato fatto per ridurre lo scarto».

Vaccini per tutti

Per tentare di garantire una più equa distribuzione dei test, degli strumenti terapeutici e dei vaccini per contrastare la pandemia, già dall’aprile dell’anno scorso, l’Oms ha avviato – insieme alla Banca mondiale, all’Alleanza globale per i vaccini (Gavi), e a diversi altri partner – l’iniziativa Act-A, che si propone di ampliare il più possibile l’accesso agli strumenti di lotta alla Covid (Access to Covid-19 tools accelerator).

La colonna portante dell’iniziativa Act-A per l’acquisto e la distribuzione dei vaccini si chiama Covax: secondo quanto si leggeva lo scorso marzo nel rapporto sul primo ciclo di assegnazioni@, l’obiettivo è quello di consegnare fra gennaio e maggio 2021 ai 142 partecipanti al programma 237 milioni di dosi di vaccino, per arrivare poi a due miliardi di dosi (1,8 miliardi secondo le proiezioni più recenti@) entro la fine dell’anno. Si tratta prevalentemente del vaccino AstraZeneca/Oxford – prodotto dal Serum Institute of India, che ha concluso con AstraZeneca un accordo per la licenza – e, in misura molto minore, del vaccino Pfizer Biontech.

Come spiegava l’amministratore delegato di Gavi, Seth Berkley@, Covax era nata per coinvolgere tutti i paesi del mondo, a prescindere dal loro reddito, in un unico sforzo per la negoziazione e l’acquisto dei vaccini, in modo da garantire la copertura vaccinale per il 3% della popolazione, corrispondente grosso modo al personale sanitario, su tutto il pianeta. La seconda fase sarebbe stata poi quella di arrivare a coprire il 20% della popolazione, con i paesi ad alto reddito che avrebbero comprato i vaccini autofinanziandosi e 92 paesi a basso reddito che avrebbero visto i costi coperti tramite le donazioni dei paesi più ricchi sotto forma di aiuto pubblico allo sviluppo.

Raggiunta la copertura vaccinale per il 20% della popolazione, Gavi prevedeva un meccanismo per cui, anche finanziandosi attraverso banche multilaterali, i paesi più poveri avrebbero ricevuto ulteriori vaccini sopportando una parte dei costi.

Bambino della Casa Hogar Estancia de Maria a Guadalajara, Messico

Promesse e realtà

Ad oggi, quasi nessuno dei paesi ad alto reddito utilizza la piattaforma Covax per negoziare e acquistare i vaccini. Pur con le eccezioni di Canada, Nuova Zelanda e Singapore, che comunque acquistano solo una porzione molto limitata di dosi tramite Covax, lo sfilarsi dei paesi ricchi dal meccanismo multilaterale ha contribuito a generare l’attuale situazione di stallo, in cui le principali economie mondiali usano i canali bilaterali e comprano direttamente dalle case farmaceutiche ritardando le spedizioni dei vaccini verso i paesi in via di sviluppo@.

Anche sul versante dell’appoggio da parte dei donatori, Covax fatica a decollare: secondo i dati dello scorso 21 marzo consultabili sul sito dell’Oms@, gli impegni a donare avevano raggiunto gli 11 miliardi di dollari: la Germania e gli Stati Uniti guidavano con 2,6 miliardi e altri 2,5 miliardi il gruppo dei primi dieci donatori, seguiti da Regno Unito, Canada, Commissione europea, Consorzio diagnostico per la Covid-19 (coordinato dall’Oms), Norvegia, Bill & Melinda Gates foundation, Arabia Saudita e Giappone.

L’Italia, che si era impegnata per 116 milioni di euro, si trovava al quindicesimo posto, mentre fra i donatori privati, oltre alla già citata Bill & Melinda Gates foundation, vi erano Reed Hastings e Patty Quilling, cioè il cofondatore e attuale amministratore delegato di Netflix e la moglie, che hanno promesso 30 milioni di dollari, seguiti dalla multinazionale di servizi finanziari Mastercard e dalla Chan Zuckerberg initiative del proprietario di Facebook e della moglie, solo per citarne alcuni.

Anche limitandosi solo alle promesse, il deficit di finanziamento a marzo restava di circa 22 miliardi di dollari, di cui 3,2 miliardi mancanti proprio a Covax. Quanto al lato degli esborsi effettivi, secondo una ricostruzione dell’Economist@ al 25 marzo per sostenere le attività di Act i donatori avevano effettivamente versato solo mezzo miliardo di dollari, di cui 300 milioni per i vaccini. La somministrazione è comunque iniziata il 1° marzo scorso, con il Ghana e la Costa d’Avorio come primi paesi beneficiari per l’Africa e la Colombia per l’America Latina, ma per i paesi a reddito basso e medio basso la strada sembra ancora molto in salita.

Alla data di chiusura di questo articolo, su 475 milioni di dosi somministrate nel mondo 126 milioni erano andate agli Stati Uniti, 60 milioni all’Unione europea e 30 milioni al Regno Unito: una frazione della popolazione mondiale pari a un decimo ha ricevuto poco meno della metà dei vaccini. In Africa, dove abita circa un sesto degli abitanti del pianeta, le dosi inoculate erano 8,5 milioni, il 2% del totale.

Quanto alle dosi acquistate, secondo il monitoraggio effettuato ogni due settimane dal centro studi statunitense Duke global health innovation center@, a metà marzo su 8,6 miliardi totali 4,6 erano dei paesi ad alto reddito (il 53,7%), 1,5 miliardi (17%) dei paesi a reddito medio alto, 703 milioni (8%) dei paesi a reddito medio basso e 670 milioni (7,8%) dei paesi a reddito basso, mentre l’iniziativa globale Covax aveva comprato il 13% delle dosi, pari a 1,1 miliardi di dosi.

Le numerose richieste, promosse da Ong come Medici senza frontiere e appoggiate dall’Oms, di sospendere i brevetti dei vaccini non hanno sortito ad oggi alcun effetto a causa principalmente delle resistenze di Usa, Ue, Svizzera e Regno Unito@.

Gesto simbolico di intercessione in tempi di Covid in Sud Corea

L’Oms e i ritardi della Cina

Le iniziative promosse dall’Oms per combattere il coronavirus non hanno ottenuto l’adesione e i risultati sperati anche a causa della scarsa collaborazione da parte delle principali economie mondiali e del prevalere della logica del bilateralismo.

La mancata collaborazione da parte della Cina è stata anche il motivo principale dei ritardi con cui nel gennaio del 2020 l’Oms ha allertato il mondo sul coronavirus e sulla gravità della situazione. Se pubblicamente l’Oms lodava la Cina per la gestione dell’epidemia, riportava nel giugno scorso Associated press (Ap)@, il dietro le quinte era però ben diverso: vi era notevole frustrazione tra i funzionari dell’Oms per i ritardi significativi con cui il governo cinese condivideva informazioni cruciali, ad esempio quelle sul genoma del virus, nonostante la rapidità con cui gli scienziati cinesi le avevano fornite a Pechino.

Le lodi pubbliche, continua Ap riportando il contenuto di alcune registrazioni degli incontri interni all’Oms in quelle settimane, erano parte di una strategia per invogliare il governo cinese a collaborare in una fase in cui – nelle parole del più alto funzionario dell’Organizzazione in Cina, Gauden Galea -, «ci danno le informazioni un quarto d’ora prima che vengano trasmesse su Cctv», la televisione pubblica cinese.

Burocrazia elefantiaca e immobilista

La scarsa collaborazione ricevuta non toglie, tuttavia, che l’organizzazione funzioni da anni in modo tutt’altro che impeccabile.

I ritardi dell’Oms nel dare l’allarme su un’epidemia non sono una novità: nel 2015 l’organizzazione fu duramente attaccata per aver aspettato due mesi prima di dichiarare emergenza globale l’epidemia di ebola in Africa occidentale l’anno prima. A trattenere l’Oms, nonostante i suoi funzionari sul campo inviassero a Ginevra numerose e accorate segnalazioni e richieste d’aiuto, fu il timore di danneggiare l’economia regionale e di compiere quello che i governi della zona avrebbero potuto leggere come un atto ostile@.

L’Oms condivide molte delle pecche del più ampio sistema di cui fa parte, le Nazioni Unite: in un articolo apparso nel 2016 sul New York Times dal titolo «Amo le Nazioni Unite, ma stanno fallendo»@, un funzionario Onu di lungo corso come Anthony Banbury individua i principali problemi della struttura nel suo sistema sclerotizzato di gestione del personale e nella tendenza a prendere decisioni basate sulla convenienza politica – ad esempio non scontentare gli stati membri – invece che sui valori fondanti dell’organizzazione o sulla realtà dei fatti sul campo.

Per quanto riguarda il primo ostacolo, spiega Banbury che, durante l’epidemia del 2014, era capo della missione Onu per la risposta di emergenza all’ebola, «troppo spesso, l’unico modo per accelerare le cose è infrangere le regole. È quello che ho fatto ad Accra [in Ghana] quando ho assunto un’antropologa come consulente indipendente. Si è rivelata qualcuno che valeva il proprio peso in oro. Le pratiche di sepoltura non sicure erano responsabili di circa la metà dei nuovi casi di ebola in alcune aree. Dovevamo capire queste tradizioni prima di poter persuadere le persone a cambiarle. Per quanto ne so, nessuna missione delle Nazioni Unite aveva mai avuto un antropologo nello staff prima di allora; quando io ho lasciato la missione, lei non è stata confermata».

Distribuzione di cibo ai più poveri in eSwatini.

«Un covo di squali»

I rapporti disfunzionali all’interno dell’agenzia sono anche l’oggetto delle critiche di Laurie Garrett, esperta di salute globale presso il centro di ricerca statunitense Council for foreign relations e giornalista scientifica. In una colorita intervista a Global health now, sito di informazione sulla sanità della Johns Hopkins Bloomberg school of public health, ha detto: «L’unico consiglio che ho dato a ogni direttore generale – e tutti lo ignorano, anche se poi, anni dopo, tutti mi dicono: “Come avevi ragione!” – è: cerca di ridurre al minimo i tuoi viaggi. Perché questo posto [il quartier generale dell’Oms] è un covo di squali». A detta di Garrett, sui programmi da realizzare ci sono grandi battaglie fra i dipartimenti, che si sabotano a vicenda per difendere il proprio territorio. Può succedere di veder «sparire improvvisamente interi programmi nei paesi poveri di tutto il mondo […] perché il direttore generale non era lì per dire “no”. E l’altro problema, con i direttori che viaggiano così tanto, è che si trovano in uno stato permanente di jet lag e iniziano a perdere la propria capacità di giudizio […] perché letteralmente non sanno in quale fuso orario si trovano»@.

Quella di Tedros è stata la prima elezione a scrutinio segreto estesa a tutti gli stati membri dell’Oms; prima, la decisione era presa a porte chiuse da una trentina di rappresentanti dei paesi ad alto reddito e da un gruppo di altri membri a rotazione. I casi di corruzione da parte dei paesi di provenienza dei candidati per assicurarsi i voti erano non solo numerosi, ma anche sfacciati.

L’Oms ha, storicamente, ottenuto diversi successi, come l’eradicazione del vaiolo e la realizzazione di grandi campagne vaccinali su tutto il pianeta. Molti esperti, specialmente alla luce dell’attuale crisi, invocano una profonda riforma dell’organizzazione per renderla più efficiente ma anche più indipendente dai condizionamenti politici@ per poter agire davvero come ente di coordinamento globale in un mondo in cui, ammonisce Gavi, nessuno vince finché non vincono tutti@.

Chiara Giovetti

 




Un pugno nello stomaco

 

Tempo fa ero rimasto tra lo sconcertato e il divertito quando, facendo il test online «Quanti schiavi hai», avevo scoperto di avere almeno nove schiavi. Ragione: cellulare, macchina fotografica, jeans, computer e cose simili. Per mia fortuna non ho l’automobile, altrimenti di schiavi ne avrei avuti almeno quindici. Ho pensato a quel test nei giorni tra fine febbraio e inizio marzo, quando è esplosa la notizia del massacro del nostro ambasciatore, Luca
Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo nella Repubblica democratica del Congo. Mi sono reso conto che molti dei «miei schiavi» vivono proprio là e, che lo voglia o no, anch’io ho delle responsabilità in quell’uccisione compiuta da soldataglia che, in fondo, è al soldo diretto o indiretto di chi sfrutta quella schiavitù per garantirmi – e garantirci – il livello di vita al quale siamo abituati e che riteniamo essere nostro diritto.

Questa presa di coscienza è stata quasi un pugno nello stomaco. Non è facile da accettare, soprattutto per me che – per scelta e professione – mi ritengo un difensore dei diritti dei poveri, degli oppressi, degli schiavizzati. Su questa rivista da anni scriviamo della situazione del Congo e di realtà simili. L’ultimo pezzo è uscito solo lo scorso dicembre. Mitico è il numero monografico di MC, «Giù le mani dal Congo», del 2004.

Certo non sono io personalmente a sparare, violentare, intimidire, razziare. Non sono io a corrompere i politici con mazzette e privilegi perché chiudano gli occhi su ciò che succede. Non siedo nei consigli di amministrazione delle grandi multinazionali che si spartiscono le risorse del mondo e trovano più conveniente pagare le milizie che le tasse o investire nelle infrastrutture necessarie a garantire la dignità e sicurezza dei lavoratori e il rispetto dell’ambiente. Non produco, né traffico la montagna di armi che destabilizza quelle regioni. Nonostante questo, non posso dire «non c’entro».

La triste realtà è che alla radice di quella, come di altre situazioni di conflitto, c’è il nostro stile di vita. Un modo di vivere che ci autocentra e che raramente ci offre la possibilità di aprire gli occhi sulla realtà del mondo. Siamo presi da troppe preoccupazioni, alcune futili, come i festival canori o la squadra del cuore, altre più serie come la politica, il Covid, i disastri climatici. Ma sono sempre problemi che vediamo come se toccassero solo noi. Quelli che toccano gli altri è come se non esistessero. E come la soluzione dei nostri piccoli e grandi problemi sia, in realtà, pagata da altri, poco ci interessa. Tutto questo alimenta il consumo e lo spreco come base necessaria per la sopravvivenza del nostro sistema economico. Anche la nostra politica nazionale e internazionale è drogata da eserciti di lobbisti al soldo delle grandi centrali economiche nei luoghi chiave delle istituzioni internazionali.

Ogni tanto, tragedie come quella del massacro dell’ambasciatore e della sua scorta nel Congo, o il coraggioso viaggio di papa Francesco in Iraq, ci obbligano ad aprire gli occhi sul mondo e sul fatto che tutto è interconnesso: la ricchezza di una minoranza si alimenta del sangue e delle lacrime di una maggioranza schiavizzata.

Anche la pandemia del Covid-19 e gli accelerati cambiamenti climatici, sono altri segnali d’allarme importanti. Allarmi che possono diventare un’opportunità: per guardare in faccia la realtà, per farci smettere di cercare capri espiatori o crogiolarci in teorie complottiste, e, infine, perché ciascuno assuma le proprie responsabilità.

È tempo di smettere di essere solo consumatori, fruitori e spettatori, per diventare soggetti responsabili della nostra storia, pronti per una «conversione» del nostro stile di vita, a cominciare dal nostro modo di consumare, di gestire l’ambiente, di partecipare alla vita politica, di mettere in discussione lo strapotere dei super ricchi.

Lo dobbiamo ai milioni di morti del Congo, a quelli di tanti altri paesi del mondo e a noi stessi.




Noi e Voi: dialogo lettori e missionari

Amazzonia

Cari missionari,
ritengo che quanto denunciato dall’inchiesta del Tg2 (cfr. Amazzonia: una nuova emergenza – Tg2 Dossier di sabato 16 gennaio) dovrebbe ispirare le agende politiche di tutti i paesi veramente civili e intenzionati ad affrontare la pandemia come le circostanze richiedono.

In Brasile, distruzione della foresta tropicale e mortalità da coronavirus, sono legati da un rapporto strettissimo: più l’agrobusiness criminale si espande a spese della giungla e delle comunità che da essa dipendono, più il Covid-19 ha modo di diffondersi, di radicarsi di sviluppare nuove varianti, di aumentare il suo potenziale distruttivo.

Come ha ricordato l’impresario Sidney Pollettini, una delle persone intervistate dall’équipe del Tg2, la penetrazione nell’Amazzonia continua grazie anche ai rifornimenti italiani: è dal nostro paese infatti che arrivano le macchine per la lavorazione dei tronchi tagliati: «Sono le migliori al mondo» – assicura Pollettini.

Questo, in un mondo normale, dovrebbe costituire un motivo d’orgoglio. Ma possiamo considerare normali le modalità e la velocità con le quali le foreste amazzoniche vengono sfruttate? Possiamo considerare normale il modo con cui Bolsonaro, i latifondisti, la polizia brasiliana e le squadre paramilitari trattano le minoranze indigene?

Possiamo considerare normale il tributo che il Brasile sta pagando al Covid? ffettuosi saluti

Ivo Scorfanetti
23/01/2021


Padre Giuseppe Radici

A Grumello del Monte (Bg) abbiamo ricordato con una messa il 9° anniversario di padre Giuseppe Radici (1924-2012). Grazie al parroco, don Angelo.

Padre Giuseppe, missionario della Consolata, era un amico di famiglia, concelebrò al funerale di mio padre Ezio e dedicò molto tempo alla causa dell’emigrazione orobica costituendo il Circolo dei bergamaschi di San Paolo del Brasile dove visse per oltre 60 anni.

Ogni volta che rientrava organizzavo diversi incontri ed ovunque veniva accolto con successo. Cordiali saluti,

Dott. Massimo Fabretti
Grumello del Monte, 09/02/2021

Bergamasco (orobico) genuino, padre Radici è stato inviato in Brasile subito dopo la sua ordinazione avvenuta nel 1950. Là è rimasto, servendo con grande generosità e dedizione in São Manuel, Rio do Oeste, Três de Maio e São Paulo. Significativa la sua presenza in mezzo alla comunità italiana, soprattutto di origine bergamasca. La sua avventura missionaria si è conclusa l’8 febbraio 2012.


Piccola bimba

Egregio Piergiorgio Pescali,
mi permetto di inviarle questo pensiero che mi è sgorgato alla vista dell’immagine della bimba inserita nell’articolo a pag. 49 apparso su MC 1-2 gen-feb 2021. Complimenti e auguri a tutti voi.

Volti di etnia kirghiza. Foto Piergiorgio Pescali.

«Mia piccola bimba,
da giorni, guardando la foto che ti hanno scattato,
vedo il genere umano non solo il tuo visino.

Rappresenti la vita che si vive,
il tuo sguardo esprime tutto ciò che sarai e già sei.

Cara bimba, ci osservi tutti.
Ci guardi già. Conosci, incerta, sorpresa,
ci invadi inconsapevolmente, ma già sbigottita.

Siamo noi che dobbiamo amarti.
Tu ci rimproveri, ma aspetti.

Lo esprime la luminosità del tuo sguardo,
diretto e interrogativo,
che mandi a chi ti sta difronte,
e tu ancora non conosci.

Ti voglio bene.
Possa tu essere la bambina mia e di tutti».

B. Repetti
13/02/2021


RD Congo

Egregio Direttore
sul MC 12/2020 ho letto l’ampio servizio sulla RD Congo. Sono rimasto esterrefatto della situazione catastrofica di questa grande nazione: malavita, barbarie, atrocità a tutto campo e di ogni genere, soprattutto sul corpo delle donne, sotto lo sguardo impotente delle autorità e del contingente Onu.

Voi dite che il «mondo» sta a guardare, meglio, si gira dall’altra parte. Ma ci potete dire che cosa ci può fare il cosiddetto «mondo» e quei soldati Onu che rischiano ogni giorno la vita? Cordiali saluti.

Angelo Guzzon
Cernusco Lombardone (Lecco), 28/12/2020

 

L’uccisione di Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo, ha finalmente costretto anche i grandi media a mettere in prima pagina la tragedia del Congo che in questi anni è costata milioni di morti.

Cosa può fare la comunità internazionale? Forse, per prima cosa, dovrebbe mettersi d’accordo per regolamentare le imprese multinazionali che ormai gestiscono il pianeta, l’economia, la salute e le risorse come se fossero loro proprietà privata senza rendere conto ad alcuno.

Poi, invece di una costosissima Monusco, investire gli stessi soldi per rafforzare e riqualificare l’esercito regolare del Congo e le istituzioni civili di quel paese.

      1. Porre sanzioni ai paesi limitrofi che guadagnano dalla situazione fuori controllo.
      2. Esigere la tracciabilità delle materie prime che vengono usate per cellulari, computer, batterie e prodotti simili, con garanzia di salari e servizi adeguati (salute, sicurezza, educazione, infrastrutture, ecc.) a chi lavora nella raccolta e produzione delle stesse materie prime, oltre al pagamento delle dovute tasse al governo del paese.
      3. E da parte nostra non cambiare i nostri gadget elettronici ad ogni nuova versione.

Ovviamente questi sono solo degli accenni. Il problema è complesso e, come viene ben espresso anche da papa Francesco nella Laudato si’ e nella Fratelli tutti, si tratta di pensare a un cambiamento radicale del nostro sistema economico e realizzare quella che è chiamata la «transizione ecologica» che richiede un nuovo stile di vita e un nuovo approccio alla gestione del nostro pianeta.

 


Complimenti a Chiara e Marco

Per Chiara Giovetti, autrice di un ottimo articolo sulla cooperazione marca Usa.

Una volta c’era a Panama una Escuela des Americas, dove si addestravano gli ufficiali degli eserciti sudamericani. La parte principale dell’addestramento consisteva nel selezionare i più fedeli per insegnar loro a far comprare dai loro eserciti, a caro prezzo, gli armamenti radiati dagli Usa e tenersi la differenza, assicurandosi così una eterna fedeltà. Ma poi la cosa si è risaputa ed è nata una diffidenza generalizzata verso gli ufficiali che avevano frequentato quella scuola, e si è tornati al sistema tradizionale di ricorrere alla massoneria, che nelle Americhe è molto diffusa e istituzionalizzata.

Per Marco Bello, autore di un bellissimo articolo sul Madagascar, che ho girato in lungo e in largo nel 1977. Eravamo in 12, tra cui parecchi medici che però non si sono accorti che una di noi si era presa la malaria, diffusissima. La cosa che mi ha più colpito è il culto degli antenati e della continuità della famiglia: in molte regioni le ragazze prima di sposarsi devono dimostrare di essere capaci di far figli.

Claudio Bellavita
14/02/2021

 


Andare contro corrente

Marzo, aprile e maggio 2020 e poi anche autunno e inverno: italiani impossibilitati a muoversi liberamente causa lockdown. Tutta la grande scienza e la grande tecnologia umana messa in ginocchio da un piccolissimo, microscopico virus. Ora è un virus a mettere in crisi il mondo intero, in futuro potrebbero essere megacomputer o catastrofi atmosferiche causate dal troppo inquinamento e dal continuo uso di armi. Viviamo un’era nella quale la potenza distruttiva nelle mani dell’uomo potrebbe cancellare qualsiasi segno di vita su questo satellite del sole. Come se non bastasse, la potenza dei supercomputer è tale da mettere sotto controllo e assoggettare un numero di persone superiore a quello di tutti gli abitanti della terra.

È necessario che la ragione e l’amore abbiano il sopravvento sulla follia e l’odio che imperversano nel mondo. Occorre che l’umanità agisca con più coscienza. L’insegnamento di Cristo è la più vera difesa della vita e della dignità umana. […]

Sa andare anche controcorrente, contro le mode sbagliate. Occorre diffondere maggiormente il lieto annuncio del Vangelo e soprattutto viverlo. Scomparirebbero immediatamente le numerose guerre e guerriglie che ancora ci sono. Anziché produrre armi micidiali si produrrebbero aratri nel senso di macchinari per il benessere, non per la morte, la natura sarebbe rispettata, non distrutta dall’inquinamento eccessivo per la troppa sete di denaro.

C’è grande necessità di diffondere e vivere il Vangelo più autentico. Il mondo e l’uomo hanno sete della Verità vera annunciata e vissuta da Cristo non di verità soggettive o di false verità. Cordiali saluti

Enrica Barbiroglio
11/02/2021

Gentile lettrice,
perdoni i tagli alla sua lunga lettera. Ho cercato di mantenere il messaggio centrale.

In questi giorni mi è capitato di leggere un testo che parlava dei rischi connessi all’uso degli algoritmi al servizio solo del profitto e di una scienza centrata su se stessa senza una vera riflessione etica, senza valutare le motivazioni, i vantaggi o le conseguenze del loro uso sulla dignità e libertà dell’uomo, di ogni uomo, specialmente dei più poveri e fragili.

Quando il Vangelo sintetizza tutta la «legge» in un’unica parola: ama il tuo prossimo, offre la chiave che sconvolge davvero ogni logica economica e politica, ogni relazione sociale, ogni relazione tra gli uomini.

È putroppo triste che abbiamo bisogno di un piccolissimo indomabile virus per tornare a pensare e agire da «uomini» fatti a immagine di Dio, l’Amore.

 


Cosa c’entar l’amore con la scienza?

L’amore è un sentimento, un’emozione che nasce dall’inconscio. Recentemente alcuni studi hanno dimostrato che l’attrazione fisica e sessuale è legata a fattori chimici, ma l’amore non è necessariamente legato al corpo e alle sue pulsioni; può essere qualcosa di astratto.

Chi ama il proprio Dio, qualunque esso sia o chiunque egli sia, non lo ha mai visto o non ha mai avuto contatti con lui. Alcune religioni disdegnano qualsiasi principio emozionale, compreso l’amore, perché è equiparato al desiderio che, una volta ottenuto, genera altri desideri in un crescendo di cupidigia senza fine lasciandoci nell’arsura dell’inappagamento. Anche quando sembriamo completamente appagati dall’amore, dovremo comunque fare i conti con un futuro che non lascia scampo alla sua perdita.

Ed è stata proprio la perdita della persona con cui ho condiviso gli anni più coinvolgenti della mia vita che mi ha indotto a colmare il vuoto emotivo creatosi cercando di trovare un’interazione scientifica con l’incomprensione della Morte.

La ricerca nel trovare un canale di comunicazione tra l’arida freddezza della solitudine e la spiegazione logica delle leggi fisiche e chimiche dell’Universo hanno prodotto questa serie di poesie che altro non sono che congetture e speranze, se vogliamo anche velleitarie, in cui affondare il proprio dolore e il proprio vuoto.

Piergiorgio Pescali

Il Mio Dio

Non mi interessa
avere soldi.
Se avessi soldi
vorrei avere potere.

Non mi interessa
avere potere.
Se avessi potere
vorrei avere stelle.

Non mi interessa
avere tutte le stelle.
Se avessi tutte le stelle,
vorrei avere l’Universo.

Non mi interessa
avere l’Universo.
Se avessi l’Universo
vorrei essere Dio.

Non voglio nulla
di tutto questo
perché possiedo già
soldi, stelle, Universo.

Te.

Piergiorgio Pescali, Versi d’amore e di scienza, Bertoni editore,
Corciano (Pg) 2020, 86 pagine, 14 euro.




Viene la primavera

testo di Gigi Anataloni, direttore MC |


Duemilaventuno. «Anno nuovo, vita nuova». Quattro parole: un augurio, una speranza, una preghiera. Una preghiera che, di questi tempi, diventa un grido. Ci stiamo dicendo in tutte le maniere: pazienza, resilienza, speranza! Non perdiamo la speranza. Camminiamo nella speranza. Restiamo umani. Sui giornali e sui social troviamo tutti i tipi di analisi di questa situazione. Articoli e libri si stanno moltiplicando. Papa Francesco ritorna continuamente sullo spirito necessario per navigare in questo mare in tempesta senza perdere la rotta e cogliere il tempo di grazia. Un suggerimento arrivato il giorno dell’Immacolata è quello di imparare da san Giuseppe e diventare suoi compagni di viaggio.

Anche i superiori dei missionari della Consolata tengono gli occhi puntati sulla nostra tenuta per i rischi di scoraggiamento e chiusura, perché «viviamo tempi difficili, d’incertezza, preoccupazione e anche di ansia per un futuro carico di tanti problemi».

L’invito che viene da coloro che hanno a cuore il bene comune e dei singoli, è quello di prepararsi a vivere il «dopo Covid-19» evitando la rimozione di questi mesi, assumendo invece la pandemia come opportunità per il cambiamento, senza l’ansia di tornare a essere e a vivere come prima.

Durante l’Avvento, san Pietro ci ha ricordato che i tempi duri sono i tempi della pazienza di Dio, che ci dà tempo per capire e cambiare, senza fretta. «Un giorno come mille anni, mille anni come un giorno». Questo mi ha fatto pensare al lungo e durissimo esilio di Israele in Babilonia. Cinquant’anni di lacrime e di dolore, tempo di impotenza e frustrazione. Eppure anche il tempo più fecondo della vita di Israele. È proprio in quegli anni che alcune delle parti più importanti dell’Antico Testamento prendono la forma che ora conosciamo, e che Israele approfondisce la sua spiritualità e capisce a fondo la sua identità. Cinquanta lunghi anni, dieci in più dei famosi quaranta nel deserto, per rigenerare un popolo che aveva perso le sue radici nell’ansia di essere come tutti gli altri. Cinquant’anni per dare tempo al «letame» del dolore, dell’impotenza, dell’esilio, dell’umiliazione e schiavitù, di fertilizzare la rinascita dei campi fertili di un popolo nuovo, un rinato e rinnovato popolo di Dio.

Sono sempre vivi in quelli della mia generazione i ricordi di un tempo a misura del guareschiano «Mondo piccolo», quando non c’erano ancora i bagni in casa e i bisogni si facevano sulla concimaia – e non si parlava ancora di progresso, ma di civiltà -. Il letame poi, che di plastica non aveva tracce, era sparso sui campi d’inverno per poter fertilizzare la terra, garantendo una rigogliosa e profumatissima primavera. Il problema oggi è che non produciamo più letame, ma rifiuti, troppi rifiuti.

Guardando al travaglio planetario che stiamo vivendo e alla durezza di cuore e di testa di tanti dei grandi della terra che continuano a ragionare solo in termini di potere e avere, viene da domandarsi: fino a quando? Di quanto tempo avremo bisogno per far rinascere un mondo secondo il progetto di Dio, dove gli uomini vivano da fratelli e sorelle e siano davvero giardinieri della terra, non predatori?

C’è di che rimanere scoraggiati. Questo, però, non è tempo di scoraggiamento e passività, tempo per restare incollati ai social a vedere come va a finire senza fare niente e sperare che le cose diventino migliori. Non è questo il tempo di lasciare che siano i potenti, gli influencer, i mafiosi, i guru, i santoni e i divi di turno a guidare la nostra vita. È invece il tempo dei santi, cioè delle persone normali che sanno di essere amate da Dio e si amano, e credono in se stesse. È il tempo di coloro che sanno di non essere più grandi di un seme, ma che come un seme, si consumano per tirar fuori le radici, dialogare con la terra, bucare la superficie, uscire verso il sole e crescere come un albero o uno stelo d’erba, un fungo o un fiore,  un cedro del Libano, e diventare una foresta, un prato verdeggiante, un raccolto di grano, un frutteto generoso. Non domani, ma oggi, preparandosi in questo inverno, assorbendo il fertilizzante dal letame (il dolore dell’umanità), per cambiare il mondo quando inizierà la primavera.

Ora. Questo è il tempo della più vera umanità. L’umanità dei poveri, dei miti, degli operatori di pace, degli innamorati della giustizia, dei puri di cuore. Uomini e donne vere che non si misurano con i like, gli applausi o gli zeri del conto in banca, ma con l’Amore di Dio che li riempie.




Noi e Voi: dialogo lettori e missionari

L’ospedale di Ikonda, centro di speranza

Sono una consacrata laica di Cagliari e mi trovo in Tanzania per una esperienza missionaria di due mesi per la realizzazione di un progetto di sostegno ad un orfanotrofio nella regione di Mbeya, grazie all’aiuto di tanti amici. Durante la permanenza nel paese ho avuto il piacere di dedicare una settimana all’incontro ed al servizio nell’ospedale di Ikonda, nella regione di Njombe, gestito dai Missionari della Consolata. Ho conosciuto l’ospedale l’anno scorso, quando avevo accompagnato la sorella di una suora, mia amica tanzaniana, a fare degli esami diagnostici. Ricordo la sua riluttanza: pareva una spesa troppo grande per lei, che si era sempre sacrificata per i figli ed i nipoti. Anche se il suo villaggio nella cartina geografica non sembra distante, mancando le strade dirette, occorreva prima andare nella città e poi prendere il mezzo per Ikonda: questo aveva significato prendere tre bus e viaggiare circa 14 ore, cioè dal mattino presto fino alla sera tarda. L’indomani sul presto aveva incontrato il medico che le aveva prescritto gli esami di base e quelli specialistici. Durante il giorno aveva potuto fare tutti gli esami, avere i referti, ricevere le ricette con la cura necessaria e comprare le medicine. Dunque eravamo potute ripartire all’alba dell’indomani. Ero rimasta colpita dall’ottima organizzazione e così quest’anno ho desiderato conoscere meglio la realtà della missione di Ikonda ed i missionari della Consolata: i padri Marco Turra, William Mkalula, Luis Zubia e Riccardo Rota Graziosi (francescano). L’accoglienza è stata molto buona. Ho potuto dare il mio piccolo contributo nella farmacia, organizzando il materiale per le medicazioni. È stato importante per me essere utile, nonostante parli solo un kidogo (poco) swahili.

L’ospedale di Ikonda ha circa 450 posti letto, ma non sono sempre pieni. Mediamente ne vengono occupati tra i 350 e i 400. Ogni giorno arrivano circa 250 persone per le visite ambulatoriali (con strumenti per la risonanza magnetica, la Tac, etc.), mentre il lunedì e il martedì le presenze sono circa 400.

Nell’aprile e maggio 2020 ci sono stati vari contagi del Covid-19 e sono decedute due persone, una delle quali era proprio un’infermiera della struttura, ancora debole per aver partorito qualche giorno prima. Poi la fase dei contagi è diminuita fino a cessare. Come è successo in tutto il paese. La sala di rianimazione ha solo cinque posti letto e un’emergenza con grandi numeri non sarebbe stata possibile da gestire.

Ho apprezzato che all’inizio della giornata ci sia un incontro tra i missionari e tutto il personale medico per condividere i casi più importanti e le scelte da assumere. Mentre la messa viene celebrata la sera. Ed anche se le attività ed i bisogni continuano ad essere tanti, in quell’ora la priorità dei missionari, e dei loro collaboratori – tra cui suore e catechisti -, è la preghiera a Dio, Medico delle anime e dei corpi.

Per quanto riguarda le attività mediche, rimane la domanda, dato che il contesto di vita della maggioranza della popolazione è molto povero, sul come dare continuità alle cure più impegnative. Ad esempio, nei giorni della mia visita, un’adolescente è stata ricoverata d’urgenza per un coma diabetico. Tornata a casa dopo la fase d’urgenza, come potrà continuare le cure? L’insulina ha bisogno di temperature basse per essere conservata ma probabilmente nella sua casa non c’è un frigo. L’anno scorso invece mi aveva colpito il caso di una bambina tracheotomizzata d’urgenza: come avrebbe fatto tornando nella sua capanna e respirando la polvere della strada? La domanda si può estendere alle cure più impegnative e continuative, dato che c’è la proposta di organizzare un nuovo reparto di dialisi. Le persone potranno recarsi nella sede dell’ospedale frequentemente (tre volte alla settimana) come richiede la cura?

Questi ed altri quesiti rimangono. Ma non devono oscurare il tanto bene che già si compie e la speranza concreta che viene data a tante persone grazie ad una precisa diagnosi e cura. La Tanzania è un paese ricco di risorse; eppure, la mortalità infantile e giovanile è ancora molto alta. Il nostro auspicio è che si realizzi l’esortazione alla fraternità universale di papa Francesco, ricordando che «ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente» (Fratelli tutti, n° 107).

Giada Melis
da Ikonda, 20/11/2020

Da dove è proibito ammalarsi

Mons. Pante a Wamba Covid-19

Cari amici,
saluti dal Kenya. [… Il] 2020 ci ha portato una pessima sorpresa, che nessuno si sognava, il Covid-19. Non si tratta della prima pandemia su questa terra. Già una mia nonna nel 1918 morì di febbre spagnola, una epidemia che uccise 50 milioni di vite umane. Forse il Signore permette che la natura abbassi la nostra superbia e ci insegni un po’ di umiltà e di solidarietà: ci salveremo solo se ci prendiamo cura gli uni degli altri. Pure qui in Africa, in Kenya, stiamo tremando, anche se meno che da voi in Italia. Abbiamo chiuso scuole e chiese per precauzione. I bambini che voi aiutate e sponsorizzate sono rimasti a casa con i genitori: hanno perso qualche chilo di peso, hanno perso un anno di scuola, qualcuno ha anche iniziato a rubacchiare per mangiare, qualche ragazza è anche rimasta incinta. Poi la disoccupazione è aumentata ovunque. Qui è severamente proibito ammalarsi, pena andare in fretta in paradiso. È meglio morire di fame o di Covid? Come Chiesa stiamo cercando di stringere la cinghia e dare una mano ai più poveri. In questi giorni spendiamo anche i pochi soldi rimasti per allargare le nostre scuole, creando più spazi, affinché quando riapriremo ci siano le distanze richieste come vuole il governo. Poco fa (inizio dicembre 2020, ndr) alcune scuole hanno riaperto le porte, ma solo per le classi che si preparano agli esami. Anche le chiese hanno riaperto, ma con tante precauzioni. Da noi dove non arrivano le medicine arriva la fede che qui è ancora forte, per fortuna. Però predichiamo che non basta la preghiera, occorre anche seguire le regole della salute: distanze, mascherine, acqua (…anche se non ci basta per bere!).

Carissimi, grazie sempre per la vostra amicizia e il vostro aiuto. Siamo tutti sulla stessa barca in balia della tempesta, ma non ci lasciamo prendere dal panico perché Lui è con noi, anche se sembra dormire. Diamoci una mano, siamo «fratelli tutti», come ci dice papa Francesco, e così vinceremo anche la seconda pandemia, quella dell’egoismo.

Un abbraccio, sempre con la mascherina.

+ Virgilio Pante
Maralal, Kenya, 20/11/2020


Non tutte le parabole sono di Gesù?

Il n. 18 di «Una Chiesa in uscita», in MC di ottobre 2020, è bello, argomentato, affascinante, ma un paio di affermazioni, categoriche, senza se e senza ma, mi lasciano perplesso e suscitano alcuni interrogativi.

«Oggi ci è chiaro che non tutte le parabole riportate nei Vangeli sono state dette originariamente da Gesù». Quali sono le prove incontrovertibili che permettono di fare una affermazione così categorica? Quali sono le parabole di cui si parla?

Perché non si usa una frase del tipo: «Fra gli studiosi è largamente condivisa l’ipotesi che alcune parabole non possono essere state dette da Gesù»? Ipotesi e non certezza, comunque teoria.

Come è possibile che le prime comunità, e parlo di quelle che hanno partecipato alla testimonianza diretta degli Apostoli o dei primi loro discepoli, non si siano accorte di queste aggiunte? O, pur accorgendosi, le abbiano accettate?

Mi si dirà che un esempio di manipolazione sono i Vangeli apocrifi, ma mi è stato detto che la Chiesa primordiale li ha vagliati e scartati!

La lettura del Vangelo viene accompagnata dalla frase «Parola di Dio»: possiamo pensare che la frase, «in quel tempo Gesù disse la seguente parabola», non sia vera? Ne ho parlato con un sacerdote: mi ha dato una spiegazione abbastanza contorta, che mi ricordava le spiegazioni che venivano date per dimostrare che la terra era al centro di tutto il creato.

È vero che nei Vangeli ci sono delle contraddizioni, dovute con grande probabilità al fatto che i testimoni, o chi per loro, si erano dimenticati. Ma l’aggiunta è una cosa arbitraria, che rende poco credibile il tutto. O mi sbaglio? Quante potrebbero essere le parabole che non sono mai state trasmesse?

«La comunione con Dio passa da Gesù … ci sono pratiche religiose che implicitamente lo contestano, tali pratiche sono da evitare». Di che pratiche si tratta?

E se il signor Angelo prende in considerazione quanto ho scritto, spero che non mi risponda dicendomi di consultare questo o quel libro. Distinti saluti

Mario Rondina
16/11/2020

 

Gent.mo Mario Rondina,
intanto, e a prescindere, grazie per le domande: perché sono segno di attenzione e coinvolgimento, e perché esprimono problemi veri.

1) Parole di Gesù, sì o no.

Nel nostro mondo contemporaneo posso mettere in bocca a qualcuno (tra virgolette) solo ciò che ha effettivamente detto. Anche a costo di non restituire lo sfondo: magari si trattava chiaramente di una battuta, ma comunque, se le parole sono state dette e io le riporto tra virgolette, non sono ritenuto bugiardo.

Il mondo antico era meno attento alla precisione dei particolari e insieme guardava più al contesto generale. Se nel riportare un pensiero altrui veniva in mente un esempio nuovo, lo si poteva aggiungere senza essere considerati bugiardi.

È ciò che succede nei Vangeli, che almeno in alcuni casi non riportano le parole precise di Gesù, ma il contenuto del suo messaggio, anche se a volte con parole non sue. Come lo sappiamo? Mai in modo assolutamente sicuro, ma spesso con fortissima probabilità, anche se, nel giro breve di un articolo, a volte la «fortissima probabilità» diventa «certezza», per semplificazione. Capita infatti che nei Vangeli ci siano giochi di parole possibili solo in greco (e Gesù di certo parlava aramaico), o ci sia la risposta a un problema che al tempo di Gesù non c’era ancora, o un modo di ragionare poco ebraico. Quante siano quelle «aggiunte» dipende da dove mettiamo il confine di quella «probabilità».

Dunque, i Vangeli sono inaffidabili? Se fossero stati scritti oggi, sì; ma sono prodotti del passato, e, secondo i criteri storiografici di allora, erano precisi e credibili. Gli apocrifi, come giustamente annota, non lo erano, e non sono stati inseriti nel canone. I nostri quattro ci ripropongono non sempre le parole di Gesù, ma sempre il suo pensiero.

2) Pratiche che contestano la centralità di Gesù.

In quanto alle pratiche che contestano la centralità di Gesù, per Paolo erano la circoncisione e il rispetto della legge mosaica. Se si diceva che per diventare cristiani queste erano necessarie, si sottintendeva, pur senza dirlo esplicitamente, che la fede in Gesù non era sufficiente.

Oggi può capitare che diversi gruppi di credenti si accusino reciprocamente di infedeltà alla fede, di «modernismo» o «tradizionalismo», sottintendendo che così non si sia più cristiani.

Paolo, probabilmente, ci risponderebbe che se qualche pratica diventa più importante della fede in Gesù (e non un modo di esprimerla) è pericolosa. Ma non vorrei, ora, essere io a mettere troppe parole in bocca a Paolo: non ho l’autorevolezza e la bravura degli evangelisti.

Angelo Fracchia
24/11/2020

 




Bolivia: La morte e il funerale, eventi comunitari

testo e foto di Stefania Raspo |


Il coronavirus ha impatti diversi nelle comunità indigene non soltanto perché mancano strutture sanitarie e medicine, ma anche perché è diversa la loro cultura.

Vilacaya (Potosí).  Il 19 marzo 2020, in conferenza stampa, l’allora presidente dello stato plurinazionale di Bolivia, Jeanine Áñez, decretava la quarantena in tutto il territorio nazionale. Il lockdown è durato molti mesi, anche se con intensità differente: si è iniziato con una quarentena rigida fino al mese di agosto, quindi con graduali aperture dal mese di settembre, anche se la situazione di contagio non è uguale in tutte le regioni del paese, e in alcune aree più problematiche si sono prolungate le restrizioni anche nel mese di ottobre. In queste pagine non parleremo però del numero dei contagi e dei morti, e ciò per due ragioni. La prima è banale: essi sono facilmente reperibili sui siti istituzionali. La seconda è sostanziale: i numeri sono una mera opinione in un paese che, per mesi, ha effettuato una quantità irrisoria di tamponi e, fino a oggi, non può contare su un numero adeguato di laboratori per analizzarli. Vogliamo, piuttosto, considerare due aspetti della pandemia: il fatto che che in Bolivia si abbatta su una popolazione a maggioranza indigena, e le conseguenze che il coronavirus ha avuto sulla politica.

Le culture indigene e il coronavirus

Con il suo 60 per cento, la Bolivia è uno dei paesi con la maggior presenza indigena di tutto il continente americano. Come vive la pandemia un paese con profonde radici tradizionali (ancestrali)?

A questa domanda si può rispondere sotto diversi punti di vista. A livello sociale, i gruppi indigeni (soprattutto dell’Amazzonia) sono tra i più vulnerabili, persino a rischio di estinzione: il gruppo Esse Ejja, che ormai conta pochi individui, se venisse attaccato dal virus scomparirebbe, considerando che molti suoi membri soffrono di tubercolosi. Per di più, le comunità indigene dell’Oriente boliviano (le cosiddette Terre Basse, che comprendono una buona porzione della foresta amazzonica del paese) non godono dell’assistenza sanitaria che, seppur precaria, possono avere invece gli abitanti dei centri urbani.

Donne indigene a La Paz. Foto: Kaniri – Pixabay.

Per capire come la cultura ancestrale agisce e reagisce di fronte al contagio del coronavirus, è meglio spostarsi nelle aree rurali, dove i saperi tradizionali sono ancora molto vivi. Prima di tutto, ci sono i medici tradizionali che si sono mossi e si sono incontrati per cercare insieme soluzioni alla malattia. Allo stesso tempo, si è attivata la profonda conoscenza della natura che un po’ tutti possiedono: le erbe aiutano a superare la malattia o a prevenirla. Ogni cultura, poi, ha sviluppato nei secoli terapie che comprendono anche un ambito spirituale e il contatto con le forze cosmiche.

Comunque, i contagi nell’area rurale sono stati pochi, come le morti. Forse per la bassa densità di popolazione. Forse anche per la vita più sana della gente benché – questo sia ben chiaro – viva in una condizione di povertà cronica. O forse – davvero – i saperi medici indigeni hanno le armi per combattere il coronavirus.

Detto questo, è stato però inevitabile uno scontro culturale tra gli usi e costumi delle comunità e le regole contro la pandemia imposte dalle autorità. In particolare sui modi con cui affrontare l’evento della morte che, nella maggior parte delle culture, è un forte momento collettivo, accompagnato da molti rituali con elementi cristiani e ancestrali.

Nel caso delle comunità contadine quechua, il funerale è un tempo comunitario, per questo è molto difficile che si accetti una cerimonia a porte chiuse. È successo nell’altipiano de La Paz: sono arrivati i poliziotti per disperdere il ritrovo di tante persone nel cimitero, persone che sono state prese a botte.

Qualcuno potrebbe giudicare come ignoranti e testardi gli andini, ma si tratta invece di qualcosa di profondo, perché la presenza dei defunti continua viva nella comunità. Il funerale non è un saluto formale a chi non c’è già più. Da qui scaturisce un forte shock culturale tra le comunità indigene. Tuttavia, poiché il controllo dell’ordine sociale è quasi inesistente (ci sono pochi poliziotti per vaste estensioni di territorio), il lockdown governativo è sempre aggirato con facilità.

Il villaggio di Vilacaya, dove noi operiamo da più di sette anni, si trova in un’area povera e arida. Qui ci sono centri sanitari pubblici nelle comunità più grandi, però il medico e l’infermiera visitano anche le borgate minori. Il sistema sanitario è gratuito da due anni, ma gli ambulatori sono poco forniti di medicine. In ogni caso, durante questa emergenza, hanno fatto una buona campagna di prevenzione, insegnando i comportamenti adeguati per non contagiarsi, e distribuendo mascherine alle famiglie. Tra gli operatori sanitari ci sono stati molti contagi e anche alcune morti.

Improvvisazione politica

Un altro aspetto della pandemia da sottolineare è la sua influenza sulla politica nazionale. Fin dall’inizio, alcuni analisti hanno previsto che molti governi in America sarebbero stati messi alla prova dall’emergenza sanitaria, e si sarebbero rafforzati oppure indeboliti, a seconda della gestione e politica che avrebbero attuato.

Un’infermiera al lavoro nel villaggio di Vilacaya. Foto: Stefania Raspo / MC.

Così è stato in Bolivia (non entriamo nel merito di altri paesi, anche se si potrebbe dire lo stesso): dopo i tumulti sociali che l’anno scorso hanno ribaltato il risultato elettorale, che vedeva di nuovo Evo Morales come vincitore, il paese è stato guidato da un governo di transizione, con a capo la presidente Jeanine Áñez, in vista delle nuove elezioni.

La pandemia ha fatto rimandare la data del voto almeno tre volte, l’ultima con grande tumulto popolare che ha paralizzato il paese per circa due settimane in agosto. Infatti, i parlamentari del Mas (il partito di Evo Morales, con la maggioranza di eletti) avevano cocciutamente imposto la data per inizio settembre, con grande rischio di contagi (già si calcolava che questo mese sarebbe stato il più critico). Il tribunale elettorale ha rimandato ad ottobre le elezioni, suscitando l’ira del Mas e del sindacato nazionale. Il governo non ha reagito, perché nel frattempo Jeanine Áñez si era candidata per la presidenza, e non voleva sbilanciarsi, cosa che in campagna politica significa essere strumentalizzati o a favore o a sfavore.

Eppure, al primo sondaggio sui candidati, Jeanine è risultata una delle ultime, con solo il 3% delle preferenze. Perché? La sua candidatura non è piaciuta da subito: era salita al potere dicendo di essere solamente la persona che avrebbe portato il paese a elezioni democratiche e che poi avrebbe lasciato il posto, promessa che si è rimangiata con la propria candidatura. Ma non si tratta solo di questo: il governo di transizione non ha saputo coordinare un’azione in sinergia con i governatori dei dipartimenti e delle provincie, molte volte ha agito senza consultare le altre istituzioni, e senza preavviso. È il caso della chiusura dell’anno scolastico in agosto: all’annuncio del ministro dell’istruzione, nessuno lo sapeva e gli addetti ai lavori dell’educazione sono insorti contro una decisione unilaterale e non concertata. Alla reazione generale, il governo ha fatto marcia indietro parlando di una mera chiusura amministrativa, e che le lezioni a distanza sarebbero continuate. Insomma, unafiguraccia, ma non è stato l’unico esempio di politica con il sapore dell’improvvisazione. Il risultato è che il 17 settembre Jeanine Áñez ha ritirato la propria candidatura.

I vincitori delle elezioni del 18 ottobre dovranno subito fare i conti con un paese più povero, con meno lavoro, con un sistema sanitario fragile e inadeguato all’emergenza sanitaria. Ossia le conseguenze della pandemia peseranno anche sul prossimo governo e forse anche sulla stessa stabilità politica del paese.

Stefania Raspo
(Missione MC di Vilacaya)

Cimitero di Vilacaya il 2 di novembre, ricorrenza dei morti: alcuni bambini ricevono del pane dal parente di un defunto. Foto: Stefania Raspo / MC.