Brasile. Ailton Krenak, oltre il silenzio e l’invisibilità

Da 84 anni, il mese di aprile è dedicato alla celebrazione dei popoli indigeni dell’America Latina. Quest’anno, però, per quelli del Brasile, la ricorrenza dell’Abril indígena assume un significato particolare, essendo stata segnata da due avvenimenti di portata storica.

Il 10 aprile scorso, Davi Kopenawa, leader e sciamano noto a livello internazionale, ha incontrato papa Francesco per chiedergli di unire i suoi sforzi a quelli del presidente Lula per contrastare la minaccia che ancora oggi incombe sul destino del suo popolo, gli Yanomami, rappresentata dalla nuova ondata di cercatori d’oro che si riversano nel territorio a loro riconosciuto nel 1992.

Qualche giorno prima, il leader indigeno e ambientalista Ailton Alves Lacerda (1953), del popolo Krenak (di qui il nome Ailton Krenak), era stato insignito dall’«Accademia brasiliana delle lettere» del titolo di «immortale» (riservato ad accademici illustri) divenendo il primo scrittore indigeno a insediarsi nella prestigiosa istituzione brasiliana.

Già sul finire degli anni Ottanta, Krenak, tra i promotori del movimento indigeno, era stato protagonista di un altro atto di grande valore simbolico: durante i lavori dell’Assemblea nazionale costituente di cui era partecipante – in segno di lutto e protesta – si era dipinto il viso di jenipapo (frutto che rilascia una tinta scura utilizzata in diverse culture per la pittura corporale) per mobilitare l’opinione pubblica e i parlamentari affinché approvassero i due articoli della Costituzione (varata poi nel 1988) che riconoscono gli indigeni come cittadini brasiliani e il loro diritto a vivere sulle terre da essi tradizionalmente occupate secondo la propria cultura.

Divenuto un leader riconosciuto e affermato a livello nazionale fin dalla giovane età, non ha mai smesso di denunciare i soprusi e le violenze che, dall’inizio del XX° secolo fino al periodo della dittatura militare (1964-1985), hanno segnato in modo indelebile la sua storia personale e quella del suo popolo.

Dal 1940, con l’espansione dell’industria mineraria nel Minas Gerais a opera della compagnia «Vale do Rio Doce» (Valle del fiume Dolce), il territorio krenak è attraversato da una linea ferroviaria per il trasporto dei minerali destinati all’esportazione. Da quel momento, la vita degli indigeni krenak cambiò per sempre: il contatto con gli operai provocò la diffusione di malattie e l’ambiente fu completamente stravolto: «Le nostre montagne – scrive Krenak – si sono trasformate in merce da trasportare su treni e vagoni».

Considerati un intralcio allo sviluppo, i Krenak, che già allora erano un popolo di poche decine di persone (oggi sono circa 500), furono successivamente espulsi dalla terra d’origine e segregati (tra il 1969 e il 1972) in un luogo conosciuto come il «Riformatorio». Krenak, che fu deportato in questa struttura gestita dalla polizia militare quando era ancora un ragazzo per essere «rieducato», non esita a definirla un «campo di concentramento». Solo dal 1980 in poi, dopo un’altra serie di deportazioni, i Krenak riconquistarono il proprio territorio.

Nel 2015, una nuova tragedia si abbattè sul piccolo popolo indigeno: il cedimento della diga di contenimento di una impresa sussidiaria della Vale, provocò lo sversamento nel fiume di residui tossici derivanti dell’estrazione dei minerali ferrosi. Ailton Krenak sentì l’urgenza di denunciare il disastro ambientale che aveva determinato la morte del rio Doce o «Watu», cioè «nostro nonno» in lingua krenak, che era «entrato in coma».

Nella sua lunga frequentazione del mondo del bianco, Krenak ha compreso che è necessario traslare la potenza della lingua nella scrittura – «la scrittura dell’oralità» – attraverso la quale è possibile veicolare all’esterno il discorso e le rivendicazioni dei popoli indigeni.

Anche come reazione all’ennesimo trauma vissuto dal suo popolo, tra il 2019 e il 2022 ha scritto una serie di saggi che, in poco tempo, sono diventati dei veri e propri best sellers, tradotti in diciannove paesi: Ideias para Adiar o Fim do Mundo (2019), A vida não é util e O amanhã não está à venda (2020) e Futuro ancestral (2022).

Nel suo discorso di investitura all’Accademia brasiliana delle lettere, Krenak ha dichiarato che con lui entrano nell’istituzione oltre 300 popoli indigeni – più precisamente 305 -, e ha reso omaggio non alla «lusofonia» ma alla «sinfonia» delle oltre 200 lingue native che rappresentano la diversità culturale del Brasile.

Come l’indio «sceso da una stella colorata, brillante» di cui canta Caetano Veloso, Krenak, nell’uniforme verde e oro dei sovrani colonizzatori, ma con il capo cinto da una bandana del popolo Huni kuin – «gli uomini veri» dell’Acre (ai quali è legato da vincoli di parentela e di storia) -, è atterrato sul palcoscenico della Storia per riscattare i popoli indigeni dal silenzio e dall’invisibilità a cui sono stati relegati per oltre 500 anni e per riconnetterci con la nostra ancestralità, senza la quale non può esserci futuro.

Silvia Zaccaria

 




Brasile. «Marco temporal»: il pericolo incombe

I sostenitori della legge anti indigena non si fermano né davanti alla bocciatura del massimo organo giudiziario del Brasile né davanti al veto (parziale) del presidente Lula.

Ammettiamolo: quella dello scorso 21 di settembre è stata una vittoria di Pirro. La decisione del Supremo tribunale federale (Stf) contro il marco temporal (è incostituzionale considerare terre indigene soltanto quelle occupate al 5 ottobre 1988, data di entrata in vigore della nuova Costituzione brasiliana) non è stata né storica né decisiva.

Dopo la Camera, il 27 settembre anche il Senato ha approvato il progetto di legge n. 2903 che rivede l’articolo 231 della Costituzione in merito a riconoscimento, delimitazione, uso e gestione delle terre indigene. Insomma, il marco temporal è più vivo che mai.

Il 20 ottobre il presidente Lula ha posto il veto sulla legge. In particolare, sugli articoli 4 (tempistica), 9 (indennizzo degli occupanti), 28 (popoli indigeni isolati) e 30 (coltivazioni Ogm). Tuttavia, non si è trattato di un veto integrale, ma parziale. Sono rimasti in essere gli articoli 20 e 26 che lasciano aperta la possibilità di uno sfruttamento economico delle terre indigene. Inoltre, il Fronte parlamentare agrario (Fpa, noto anche come «bancada ruralista»), che afferma di essere composto da 303 deputati federali (su 513) e 50 senatori (su 81), ha immediatamente rilasciato un comunicato ufficiale di aperta sfida al presidente e al Tribunale supremo. In esso si afferma che il Fronte non rimarrà con le braccia incrociate e farà di tutto per sovvertire i veti presidenziali. Il Fronte sostiene di agire per garantire la sicurezza giuridica, la pace nelle campagne e la dignità delle migliaia di famiglie responsabili della produzione alimentare per il Brasile e per il mondo. Non una parola viene detta sul rispetto dei diritti dei popoli indigeni e dell’ambiente.

Il sogno dei «fazendeiros» è un Brasile di vacche e soia. (Immagine da globalskybusiness.com)

Il giorno seguente (21 ottobre), l’agenzia dello stesso Fronte parlamentare ha lamentato «la mancanza di rispetto per il Congresso nazionale e per la volontà popolare» e ribadito, con toni da battaglia, la propria volontà di «garantire il diritto di proprietà» (purché – aggiungiamo noi – esso non sia in capo ai popoli indigeni).

Lapidario è il commento di fratel Carlo Zacquini, grande conoscitore della tematica indigena brasiliana: «La questione è che il veto, in ogni modo, sarà analizzato ancora dai parlamentari e ciò potrà portare a situazioni anche più pericolose. In Brasile chi comanda è il capitale, e questo non è alleato degli indigeni».

Paolo Moiola