Carissimi amici,
ho in mano la rivista di aprile e sfoglio il dossier sulla chiesa a Dianra (Bellezza che evangelizza. Una chiesa inculturata in Costa d’Avorio), ricordando la gioia di padre Matteo Pettinari quando gliel’abbiamo inviata in anteprima.
Contemplo la Gerusalemme del cielo, dove la vita di comunione non ha fine, e chiedo aiuto al Signore per tutti noi, straziati dal dolore: padre Matteo, il 18 aprile scorso, ha avuto un tragico incidente stradale ed è entrato in quell’abbraccio d’oro. Ci siamo arrabbiati col Signore, ci siamo sentiti soli e persi, abbiamo pianto, di rabbia e dolore.
È il dolore della famiglia Pettinari per la perdita del caro Matteo, figlio e fratello amato, è il dolore della nostra Chiesa diocesana di Senigallia e di tutti gli amici di oggi e di sempre, è il dolore dei Missionari della Consolata, è il dolore di tutta la comunità di Dianra, mentre il volto di Matteo torna al cuore, con tutta la sua straordinaria bellezza di pastore innamorato: innamorato del Signore, della Chiesa, della sua missione, di ogni uomo e ogni donna che incontrava sul cammino. Il volto di Dio che si fa accanto, che dà la vita per tutti, che ci viene a cercare.
E allora attraversiamo con Matteo questo tempo di dolore, e dopo la rabbia e la disperazione, dopo l’assenza che sentiamo, piano piano arriva la Consolazione per ciascuno di noi. E Matteo manda segni in ogni momento tanto da farci esclamare: Matteo c’è! Continua a essere tra noi in modi e forme che scopriamo ogni giorno. Ci sorprende venendo ancora a «scomodare» le nostre vite e a non farci fermare.
È lui stesso a donarci parole per trasformare il dolore in una strada che ci fa sentire sorelle e fratelli del mondo intero. Condivido con voi uno stralcio di un audio che padre Matteo ha inviato a una amica per Pasqua.
«A me fa tanto bene sprofondarmi in questo pensiero:
Cristo ha trasformato la morte da un sepolcro chiuso, sigillato, in una porta spalancata.
La pietra che rotola via, quindi, il sepolcro aperto, sono il segno del fatto che con Lui, in Lui, e per Lui, per chi crede in Lui, per chi vive veramente gettando il cuore dentro la Sua vita, cercando di accoglierla giorno dopo giorno, la morte è una porta spalancata
verso un futuro tutto da scoprire, tutto da vivere.
Allora è bello pensare, e credere, e anche fare l’esperienza
che tutti i nostri cari che bruscamente o dopo una malattia,
in maniera per noi incomprensibile, ci hanno lasciato,
è bello sapere che per loro si è spalancata questa porta
ed è iniziato un nuovo percorso, una nuova vita, tutta da vivere,
da gustare, da scoprire, una vita che non muore, che non finisce.
Questo il pensiero in cui sprofondare.
È bello che Paolo dica (cfr. 1 Tess 4,13-18): “Non voglio fratelli che siate privi di speranza come tutti gli altri”.
Questo per noi è da sapere: che vivremo sempre con Cristo.
Questa speranza non ci cancella l’assurdità di questa vita in alcune sue sfaccettature, in alcune sue esperienze, però ci apre a un senso.
Anche dentro il sepolcro, da lì dentro, si può fare esperienza di un nuovo inizio: dentro le nostre paure, quindi, dentro quello che non
capiamo, dentro l’assurdo, c’è qualcosa che va aldilà di quello che ci è dato con la nostra testa di capire.
Anche lì dentro si può fare strada, si può fare spazio, anche in maniera non percettibile, non sensibile,
una possibilità nuova di amare. Non c’è da capire, c’è da amare, c’è da darsi tutto fino in fondo.
La fede cristiana non dà
risposte razionali a certe domande.
La fede cristiana propone
di amare sempre,
amare comunque, amare per primi,
amare fino a dare tutto,
amare fin quando fa male,
amare anche quando non si capisce
perché si deve amare
o perché si è chiamati ancora
a riscommettere sul dono di sé.
Questo vorrei chiedere
come dono per me,
per te, per le persone
che amiamo,
per le persone
che incontriamo».
padre Matteo
Grazie amico grande, portiamo con noi il tuo sguardo e il tuo sorriso, la tua energia, la fede in Dio Padre buono, che comunica la vita indistruttibile e l’Amore sempre. Ora rendici testimoni credibili del tanto amore che ci hai donato.
Daniela Giuliani Senigallia, 26/04/2024
Lettera aperta
A partire dal mese di aprile, MC si è presentata ai lettori con una impaginazione, a primo impatto, più sobria e una qualità di carta differente. Marco Bello, direttore editoriale, ci ha spiegato che il cambiamento è dovuto, in termini di denaro, a favorire investimenti anche per la rivista online, che ultimamente compare settimanalmente, con aggiornamenti, sui nostri schermi dei computer. E che sicuramente è seguita più agevolmente da un pubblico di lettori giovani o comunque da chi ha dimestichezza con la digitalizzazione, se non addirittura la preferisce.
«Missioni Consolata» ha una sua storia importante, legata all’istituto missionario dell’Allamano, ed io, oltre che leggerla, ho avuto anche il privilegio di collaborarvi anni addietro. Sono quindi felice delle novità positive, che la rendono sempre più fruibile attraverso nuove rubriche, tenute da esperti dei diversi settori, e articoli che offrono la possibilità di argomentare con intelligenza soprattutto di politica estera. Questo è importante, a mio parere, perché i nostri missionari si calano, per svolgere il servizio, in parecchi Paesi del villaggio-mondo e noi che li seguiamo dall’Italia abbiamo così cognizione delle effettive problematiche che essi si trovano a dovere affrontare, giorno dopo giorno, e il nostro aiuto a loro diventa un aiuto mirato.
Inoltre «Missioni Consolata» offre molte letture di spiritualità che favoriscono la crescita interiore della persona in un panorama, per quanto riguarda la carta stampata, decisamente povero di questo genere di contenuti, se non rare eccezioni. E la guida del lettore avviene attraverso un linguaggio comprensibile ai più. E ciò non è poca cosa. È facile salire in cattedra, difficile è farsi comprendere da molti. Importante è il dialogo con i lettori (le lettere alla rivista) che, da sempre, è stato uno spazio privilegiato, molto curato dai direttori che si sono avvicendati. E continua a esserlo.
Interessante è anche la presenza delle diverse agenzie stampa che ci fanno conoscere gli eventi della Chiesa nel mondo ma ci fanno prendere dimestichezza con l’utilizzo delle stesse, in modo di avere a nostra volta, come lettori interessati, un’informazione puntuale in qualunque altro momento. Insomma «Missioni Consolata» è scuola se sappiamo leggerla. Un grande «grazie» a tutti coloro che vi lavorano e lo fanno senza mai risparmiarsi. Un «grazie» sentito, che può leggersi tranquillamente come gratitudine.
Marianna Micheluzzi Olbia 26 aprile 2024
Grazie dell’incoraggiamento. Uno dei vantaggi della nuova carta è che la lettura dei testi è più facile, anche se la qualità delle immagini ne risente un po’, ma stiamo lavorando per ottenere i risultati migliori.
I tempi che viviamo richiedono vigilanza e discernimento per servire davvero la missione e i poveri anche con la comunicazione. A volte non è facile scegliere il meglio tra chi pensa che il digitale sia l’unica strada ormai da seguire e chi ritiene che la carta sia ancora lo strumento più efficace per una comunicazione profonda che stimoli la riflessione, il coinvolgimento, e aiuti le persone a una presa di responsabilità che vada oltre l’emotività di pochi momenti. Noi ci stiamo provando. È un’avventura interessante e sfidante. Grazie per il sostegno e l’incoraggiamento che riceviamo da molti. Benvenute anche le critiche che ci aiutano a riflettere e stimolano a cercare vie nuove.
Certo, il desiderio sarebbe che queste pagine restassero un luogo di incontro, di riflessione e di scambio, ma siamo anche coscienti che oggi il digitale esige immediatezza, cosa che qui non è possibile, avendo il processo di stampa tempi più lunghi. Buona lettura.
Eccezionale
Direttore buongiorno,
non trovo le parole per ringraziare Lei ed i suoi collaboratori per il numero di marzo della rivista. Quanta ricchezza di informazioni, quanti temi trattati, con la consueta competenza e passione, che non si leggono da nessuna parte.
Non che i precedenti fossero «scarsi», anzi, ma quello di marzo 2024 lo trovo davvero un numero eccezionale: Palestina, Brasile, Congo, Cina. Quante notizie sconosciute ci avete dato. E prezioso anche il dossier sulla rete di scuole con Penny Wirton (altro che le stupidaggini che continuiamo a sentire in questi giorni sul limite del 20% di alunni non italiani in classe).
Voglia il Signore dare a lei e ai suoi collaboratori tanta vita e tanta energia per continuare in questa vostra preziosa opera di informazione. E che la Madonna della Consolata vi assista sempre. Un grande Grazie, ma proprio grande.
Alfio Bolzonello 02/04/2024 (Treviso)
Il mistero della @
Buongiorno,
da parecchi anni sono un sostenitore della vostra rivista. Apprezzo in modo particolare servizi sulla socialità, rispetto dei diritti umani e l’obiettività dei queste informazioni. Mi incuriosisce il significato della chiocciolina (@) che ogni tanto viene inserita in certi articoli. Non ho ancora trovato qualcuno che me ne dia una spiegazione. Complimenti ancora per i contenuti sociali della rivista. Per certi versi la definirei, (come complimento) di una sinistra onesta e sincera. Grazie e Cordiali saluti
Sergio Lanfranconi 02/04/2024
Grazie di cuore del vostro incoraggiamento. Di questi tempi ne abbiamo proprio bisogno.
Quanto alla chiocciolina (@) che appare nella rubrica «Cooperando», è un simbolo per ricordare che c’è un link a un testo che si trova nell’internet, a cui uno può accedere, se interessato, dalla nostra edizione digitale. Mettiamo quel simbolino perchè i riferimenti sono così tanti che stampati occuperebbero diverse colonne di testo, mentre sul web sono lì, immediatamente accessibili.
Kwaheri Guka
In pochi giorno il Signore si è preso il più giovane e il più vecchio dei missionari della Consolata italiani, il 14 aprile padre Antonio Bianchi, classe 1922, da Verbania (Vco), e il 18 aprile padre Matteo Pettinari (vedi pagina precedente), nato a Chiaravalle (An) nel 1981.
Padre Bianchi, detto Guka (nonno), ordinato nel 1945, dopo essere stato diversi anni in Portogallo, era arrivato in Kenya nel 1955, all’età di 33 anni, durante la lotta per l’indipendenza. Lì ha trascorso la maggior parte della sua vita missionaria, lavorando in varie missioni e dedicandosi soprattutto alla pastorale e all’evangelizzazione, facilitato da una memoria raffinata e dalla perfetta conoscenza della lingua kikuyu. Assegnato inizialmente a Ngandu-Murang’a, oggi diocesi, ma all’epoca terreno favorevole ai combattenti Mau Mau, in seguito, venne mandato a Ichagaki, sempre nella diocesi di Murang’a. Negli anni ‘90 è stato nella nuova missione di Rumuruti, nella diocesi di Nyahururu, e poi nella parrocchia di Makima, nella diocesi di Embu.
Ritirato ormai da diversi anni nella casa centrale di Nairobi, dove curava l’orto con passione e competenza, è morto due mesi prima del suo 102° compleanno, proprio nella III domenica di Pasqua, giorno in cui il Vangelo ci invitava a testimoniare il Cristo vivo, Cristo risorto. Questa è stata senza dubbio la sua vita missionaria e apostolica. Ha vissuto la sua vocazione in modo esemplare, tutto per Gesù, tutto per il Vangelo. Che riposi in pace, tra le braccia del buon Dio, che ha tanto amato e servito.
adattato da Cisa news, Nairobi
Costa d’Avorio. Una Chiesa inculturata. Bellezza che evangelizza
Costruire una chiesa per dire la bellezza della fede. La missione prende casa
Presenti dal 2002 nella diocesi di Odienné, Nord della Costa d’Avorio, in zona musulmana e animista, i Missionari della Consolata accompagnano la crescita della Chiesa locale. Annunciano il Vangelo con opere di promozione umana. Nel 2019 hanno inaugurato la nuova chiesa: umile, ma bella come una basilica. Una costruzione che parla della missione con la M maiuscola.
Dianra Village si trova nel Nord della Costa d’Avorio, nella regione del Béré, diocesi di Odienné. La parrocchia, dedicata a san Joseph Mukasa, catechista ugandese nato nel 1860, martirizzato nel 1885, proclamato santo nel 1964, è sorta nel 2012 ed è stata affidata ai Missionari della Consolata che sono presenti nell’area dal 2002. Il vescovo locale ha affidato loro l’intero dipartimento di Dianra che si estende su un territorio di tremila chilometri quadrati e conta attualmente duemila cattolici su una popolazione di circa centoventimila abitanti, prevalentemente musulmani e animisti.
In questo contesto la missione percorre i sentieri dell’annuncio, della consolazione e del dialogo attraverso un impegno di evangelizzazione dai molteplici volti, che incarnano il desiderio di manifestare a tutti la tenerezza di Dio.
Insieme alle persone con cui condividono questa meravigliosa avventura, i missionari visitano i villaggi per l’annuncio del Vangelo, si aprono alle ricchezze delle culture che li accolgono, realizzano progetti educativi (alfabetizzazione serale e scolarizzazione) e di appoggio all’economia domestica (microcredito per donne e apicoltura). Sperimentano lo stupore della fraternità interreligiosa di cui è intessuto il loro quotidiano e, inoltre, amministrano un centro sanitario che oggi fornisce diversi servizi: dispensario, maternità, studio dentistico, laboratorio analisi, centro trasfusioni, salute mentale, accompagnamento di persone sieropositive e affette da tubercolosi, centro nutrizionale e telemedicina in cardiologia.
Segno del Regno nel cuore del mondo
Qui, su un piccolo poggetto di pietra rossa, nel 2019 è stata inaugurata la nuova chiesa, costruita con la più umile delle architetture, ma capace di stupire chi arriva come fosse una basilica.
Il progetto della chiesa parrocchiale è nato e si è sviluppato innanzitutto nel cuore e nel desiderio dei fedeli della comunità.
Successivamente condiviso con i missionari della Consolata e da loro accolto, ha visto l’approvazione del vescovo diocesano e ha potuto realizzarsi grazie alla comunione di amicizia con tanti che lo hanno appoggiato spiritualmente, tecnicamente e finanziariamente.
Questa storia ci parla di un cammino lungo, bello e faticoso, fatto di piccoli passi e di sorprese, di incontri inaspettati e di provvidenza, di vita donata e gratuita offerta di sé… in una parola del mistero della Chiesa, segno vivente dell’inizio del Regno nel cuore del mondo.
Un segno di cui questa chiesa è un’ulteriore testimonianza fatta architettura e arte, capace di parlare della bellezza di Dio e della vita nuova in Cristo a chiunque la contempli.
«Voi siete tempio di Dio» (2 Cor 6,16)
Nel quinto anniversario della dedicazione della chiesa, abbiamo pensato di raccontare in un dossier la sfida missionaria del cantiere. La costruzione della Chiesa, infatti, va ben oltre i mattoni e gli affreschi: è occasione per rivelare a ogni uomo che egli stesso è tempio di Dio, a ogni comunità che è chiamata a essere popolo di Dio. La sfida di inculturazione che abbiamo raccolto in questo spazio liturgico crediamo possa raccontare la sfida della missione stessa nel mondo.
Matteo Pettinari
Dare forma visibile al mistero della salvezza.
Una chiesa per Dianra Village
Una consacrata di Senigallia, architetto, viene coinvolta nella progettazione di uno spazio liturgico in un territorio di prima evangelizzazione. Il suo racconto degli elementi architettonici della chiesa è lo spunto per una riflessione, quasi un canto di lode, sulla bellezza come strumento di annuncio.
La chiesa parrocchiale San Joseph Mukasa di Dianra Village nasce dalla fede grande del catechista Maxime Soro e della sua gente, dalla premura dei padri missionari, dalla generosità di molti, sia locali che italiani, e dalla follia del mio amico padre Matteo Pettinari, che nel 2012 mi ha chiesto di dar forma al loro sogno di celebrare le meraviglie di Dio in un edificio che potesse annunciare il suo amore per noi.
Quello di Dianra era il mio primo cantiere. Io abito nella diocesi di Senigallia (An), ed ero a 7.186 km da lì, ma fortunatamente padre Matteo mi ha accolta diverse volte nella missione e mi ha insegnato ad ascoltare e amare la terra e la gente, perché, se uno spazio deve parlare di Dio, allora deve parlare il suo linguaggio, che è la comunione.
La nuova chiesa di Dianra Village ha sostituito la piccola cappella costruita dai primi catechisti nel 1986 e ormai incapace di contenere la comunità.
Nel terreno della parrocchia sorge un poggetto da cui si apre la vista sul villaggio. Qui vi sono la casa parrocchiale, con stanze per l’ospitalità e gli incontri, le aule per il catechismo e l’alfabetizzazione e il centro sanitario della missione. Ma il cuore spirituale della comunità è il boschetto accanto alla chiesa: sotto questi alberi secolari, padre Marcel Dussud, della Società delle missioni africane, celebrò la prima messa nel 1985. Qui, ancora oggi, c’è la grande pietra usata come altare.
La chiesa di Dianra è costruita attorno al fonte battesimale nel quale, durante la notte di Pasqua, scendono i catecumeni che si spogliano dell’abito vecchio per indossare quello di luce. Una volta battezzati, i nuovi cristiani «salgono» nella «stanza al piano superiore», nel corpo centrale della chiesa, nel quale tutto viene dato in dono dalla mano aperta del Padre che è rappresentata nel punto più alto sopra l’altare.
Tutta la vita è attratta dall’oro della Gerusalemme celeste dipinta nell’abside: lì tutto ciò che oggi è fatica e sudore diventa oro pieno di luce.
Ogni volta che lavoravo in cantiere, mi tornavano alla mente le parole di Gesù: «Perché abbiano la vita in abbondanza». Ecco, questo desidero e di questo credo parli la nostra piccola grande chiesa.
La stanza al piano superiore
Alla samaritana che gli chiede quale sia il luogo adatto per adorare Dio, il Signore risponde: «È giunto il tempo, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4).
La nostra non è la religione del tempio e, per capire come edificare un luogo per la liturgia, è stato necessario comprendere dove e come ogni liturgia si svolge, perché l’edificio di mattoni potesse essere vero ponte del mistero di salvezza.
Nell’Ascensione, Cristo sale in cielo portando la natura umana nella dimora dell’Altissimo. Nella Pentecoste lo Spirito scende sulla terra e si nasconde nell’uomo per renderlo simile a Dio.
La liturgia della Chiesa è un dare forma, voce, spazio, materia, a questa azione della Trinità: ovvero è un accogliere lo Spirito che scende in noi e che ci rende Corpo di Cristo; ed è un salire in cielo, alla Casa del Padre, in Cristo.
Il brano che narra la Pentecoste ci dice che gli apostoli si riuniscono in una stanza al piano superiore. Progettando uno spazio nel quale celebrare il mistero della divina liturgia, abbiamo scelto di approfondire la Parola proprio su questo: la stanza al piano superiore è, ad esempio, la stanza del Re (Gdc 3,20; 2 Sam 19,1; Ger 22,14), ed è anche una stanza nuziale (CdC 1,4).
I fedeli di tutti i tempi hanno voluto edificare chiese che cantassero con la loro bellezza le lodi di Dio. Le case dei re, quelle del capo villaggio o del prefetto, anche a Dianra, si distinguono dalle altre per i colori della facciata e alcuni semplici elementi decorativi. E così anche la chiesa. Però, mentre le case dei potenti sono private e inaccessibili, la casa del nostro Re è aperta a tutti, è una bellezza a cui possono prendere parte tutti.
La chiesa è anche luogo di intimità con lo Sposo. Può sembrare fuori luogo far riferimento all’intimità coniugale in un contesto culturale poligamo come quello del Nord della Costa d’Avorio. Ma proprio per questo il messaggio cristiano è salvifico: Cristo ti ama, ti chiama, ti cerca personalmente, non come uno tra tanti, ma come persona unica e speciale.
La stanza al piano superiore, poi, per la Scrittura è anche il luogo della vita eterna (1Re 17,19; 2Re 4,10; At 9,36-43) e dell’Eucarestia (Mc 14,15; Lc 22,12; At 1,13; At 20,8).
Ogni chiesa è luogo di resurrezione e di festa: questa pienezza di vita che ci attende in paradiso, già ora ci è donata mediante i sacramenti. L’asse principale dello spazio liturgico parte dal fonte battesimale, posto all’ingresso, e culmina nell’abside, nella piazza d’oro dell’Apocalisse.
La centralità dell’altare richiama il banchetto a cui il Signore ci invita. E questa comunione con Lui rende anche noi Corpo di Cristo, sue membra. La pianta a croce latina è dall’antichità simbolo della Chiesa-Corpo di Cristo.
La stanza al piano superiore, infine, è nei cieli (Ap 4,1), ed è, al tempo stesso, nel cuore della città (At 1,13; At 9,37; At 20,8): la liturgia per noi cristiani non è un rito, ma partecipazione alla festa che i santi celebrano in cielo. Lo spazio liturgico è luminoso, colorato, più bello possibile, nell’intento di accendere nei fedeli il desiderio del paradiso. Allo stesso tempo la chiesa è fontana del villaggio, luogo da cui sgorgano pace, mitezza, gioia, bellezza, amicizia, riconciliazione per tutti. Ecco perché lo spazio attorno alla chiesa diventa una piazza, il luogo della danza e della festa.
Venite a me voi tutti
Quando arrivi sul poggetto dove è costruita la chiesa, ti accoglie un portico.
Come accadeva già nelle prime chiese cristiane, vi è uno spazio dedicato al catecumenato, all’iniziazione cristiana, esperienza e tempo di grazia in cui la persona che si sente attirata dalla testimonianza e dall’annuncio comincia a leggere la propria vita con lo sguardo della rivelazione cristiana.
Il portico mette in dialogo alcuni simboli cristiani con l’arte tradizionale senufo (etnia maggioritaria nella zona, ndr). Le persone che arrivano, infatti, non vedono come prima cosa una iconografia cristiana che non saprebbero decifrare, ma simboli che, da un lato richiamano la loro esperienza quotidiana e, dall’altro, attirano a qualcosa di nuovo (inframezzati ai simboli senufo vi sono, ad esempio, alcuni simboli paleocristiani come il pesce).
Sotto il portico si svolgono le catechesi e le settimane di formazione residenziale. È un luogo che prepara, quindi, all’ingresso in chiesa e all’ingresso nella Chiesa, ma è anche luogo e spazio di relazione. Concretamente, così come c’è stato bisogno che alcuni padri traducessero il Vangelo in lingua senari (una delle lingue parlate dai Senufo, ndr), così anche l’architettura dice la necessità di mettersi in dialogo con la cultura specifica del popolo che abita questo luogo.
Il portico è lo spazio del dialogo tra il Vangelo e la realtà, di incarnazione e di inculturazione. Non a caso è verde: perché ci ricorda che già tutta la creazione e tutte le culture, e i popoli, portano i semi del Verbo e gemono nell’attesa di poter celebrare il creatore (Rm 8,19-24).
Nel portico c’è tutto il verde della foresta, della savana, e la cultura di questo popolo che attende Cristo, così come ogni uomo. L’uomo in ricerca è simboleggiato dalle cerve che sono disegnate con l’arte senufo, perché la cerva ci ricorda l’anelito dell’uomo a Dio: la tradizione dice che la cerva che mangia il serpente nell’arsura cerca l’acqua come noi cerchiamo il Signore dopo il peccato.
Sotto il portico è raccontato questo incontro attraverso tre icone dipinte sopra le porte, raffiguranti i vangeli che la chiesa utilizza come testi di riferimento nel tempo quaresimale per il cammino dei catecumeni.
Io sono la porta, dice Gesù (Gv 10), e noi abbiamo costruito una porta enorme, da cui tutti posso entrare: nel portale è inciso il simbolo di Cristo (P) ed è raffigurato il Buon pastore che attira a sé le pecore: «Venite tutti a me», Ye myé yaa maa mì mà, in senari. È Cristo che ci attende, ci attira a sé, viene a chiamarci fuori dalle tenebre, per salvarci dalla morte.
Chi arriva in questo luogo santo non può che alzare lo sguardo e incontrare il suo.
Attorno al Cristo, sul portale c’è un arco dipinto con i simboli tradizionali senufo: il Cristo viene a chiamare tutte le culture e tutti i popoli, nessuno escluso. Non ci sono più persone o gruppi maledetti esclusi dalla grazia. Ogni cosa è chiamata a ricapitolarsi in Cristo, a ritornare a Lui.
Daniela Giuliani
La materia trasfigurata dall’amore
È il Natale del 2012 quando in tantissimi rimangono fuori dalla piccola cappella perché non c’è più posto. A sorpresa, padre Matteo mi presenta alla comunità: l’amica architetto che progetterà la nuova chiesa. Il mio stupore e timore sono grandi. Gli abbracci della gente dicono: «Dio si è ricordato di noi».
Seguono tre anni di ascolto dei missionari, della tradizione del popolo senoufo, di Maxime e dei catechisti, di amici artisti e tecnici. Poi tre anni di cantiere. È un lavoro che ci insegna tanto: sulla cultura locale, sulla fede della gente semplice, sui materiali del posto, sul cammino dei nuovi cristiani che a Pasqua ricevono il battesimo e danzano tutta la notte, sulle architetture copte e siriache che sono le più vicine alla terra ivoriana.
Procediamo spesso a tentoni, senza pretendere di capire tutto. Viviamo l’obbedienza alle ispirazioni che piano piano arrivano.
E con stupore i mattoni impastati uno a uno diventano muri, archi, volte. Cose mai viste a Dianra, realizzate da una piccola impresa locale. E poi le mattonelle, scarto di un magazzino di Abidjan, che i catecumeni dapprima frammentano, e poi ricompongono, con l’aiuto di giovani italiani arrivati a Dianra per un’esperienza di missione.
E poi c’è Soro, un uomo piccolo di statura che si arrampica su trabattelli di fortuna per affrescare le pareti usando tre barattoli di colori da carrozzeria con un’abilità degna dei migliori artisti.
In chiesa lavorano differenti abilità, lingue, etnie e religioni. Potrebbe essere una Babele, ma non lo è. Chi fa i mosaici a terra, chi dipinge le pareti, chi costruisce la volta a botte. Ciascuno è qui non per essere il primo, ma per servire nell’unità.
Lo spazio liturgico è abitato, è spazio di incontro. La Liturgia che vi si celebra mette in relazione la vita della terra (fatta dell’ocra delle case di terra cruda, del verde delle piantagioni di anacardo, del rosso delle strade) con quella del cielo (dove il rosso di Dio e il blu dell’umanità danzano insieme, i volti dei santi ci fanno compagnia e l’oro di Dio illumina tutto).
Ciascuno si ripete: «Quando sono debole è allora che sono forte, perché Tu sei la mia forza!». Si è generativi solo se in relazione. E la relazione è concreta: ad esempio sta nel fatto di non poter usare i materiali che vorresti, di non poter decidere tu, di fidarti dell’altro. Allora ciò che edifichi non parla più solo di te e a te, ma partecipa della bellezza di Dio.
Se un tetto di lamiera, la vernice da carrozzeria, le mattonelle di scarto, possono divenire «la chiesa più bella della Costa d’Avorio», come amano definirla le persone del luogo, allora anche la loro vita di stenti, le loro case di terra cruda, il loro villaggio, possono essere i più belli della Costa d’Avorio!
D.G.
Catecumeni nella notte di Pasqua
Celebrare la vita nuova
Il racconto meditato di una veglia pasquale nella quale 27 catecumeni ricevono il battesimo. Ogni elemento architettonico e iconografico della chiesa di Dianra accompagna la celebrazione e il senso della vita cristiana che i battezzati vivranno.
Questa è la notte delle notti, la notte di Pasqua: i catecumeni della missione di Dianra Village sono ventisette e oggi, vestiti di bianco, celebrano la vita nuova che è data loro in dono. Nessuno può trattenere la gioia e la commozione, che si fanno danza, canto, rendimento di grazie.
Tutta la chiesa è costruita per celebrare questa notte, nella quale Cristo con la sua morte e resurrezione ci dona la Vita nuova, che non muore più.
Quando si entra in chiesa attraverso il portale si fa memoria della vita nuova che abbiamo ricevuto, o ci si prepara a riceverla. Sul portale è dipinto il Buon Pastore che chiama le pecore a uscire dalle tenebre, dalla morte, per trovare vita in lui.
Come nell’arte paleocristiana, anche qui il Pastore che prende la pecora sulle spalle è figura di Cristo che vuole donarci vita in abbondanza. Cristo nel battesimo ci innesta in sé. Lui è la Porta e, attraverso di lui, entriamo in una nuova vita, nella Chiesa, suo Corpo (Eb 9,24-28).
Entrando dal portale ci si ritrova sotto una volta a botte dipinta di azzurro che ci avvolge come un grembo materno, un grembo di cielo, al cui centro è collocato il fonte battesimale: è la Chiesa che genera i suoi figli portandoli a Cristo nel sacramento del battesimo. Lo Spirito santo è dipinto sul portale come una colomba, e a terra, nel mosaico, come una fiamma e come un uovo fecondo, perché è nello Spirito e da esso che riceviamo la Vita (Gen 1,2; Gv 3,1-8).
Al centro c’è il fonte battesimale a forma di croce, con tre gradini che scendono e tre che salgono: rinasciamo immersi nella morte di Cristo, nella sua Pasqua (Rm 6,1-14)
Ed eccoli i catecumeni di Dianra, che nella notte di Pasqua, al buio e vestiti di bianco, scendono i tre gradini del fonte, morendo alla vita vecchia con Cristo. Chinano il capo, i padrini tengono una mano sulla spalla, padre Matteo li battezza versando l’acqua sul capo che scende e bagna le vesti. Poi sollevano il capo e risalgono i gradini verso la comunità. Risorti con Cristo. Il volto è raggiante.
Le pareti interne del fonte sono rivestite di mattonelle azzurre che rimandano all’acqua viva del battesimo a cui sempre possiamo attingere: la porta e il fonte posti all’ingresso della chiesa permetteranno in futuro a questi nuovi cristiani di fare memoria del dono ricevuto questa notte.
E chi questo dono non può riceverlo o lo ha dimenticato? Di fronte agli uomini e alle donne di Dianra, in un contesto di primissima evangelizzazione, nel quale i cristiani sono minoranza, di forte presenza dell’islam e dell’animismo, le domande sulla salvezza diventano urgenti.
Per questo nella chiesa abbiamo aperto altre due porte ai lati del portale: quella del battesimo delle lacrime, per ricordare che Cristo accoglie tutti coloro che sono nel pianto, e quella del battesimo del sangue, per ricordare che la partecipazione al sacrificio di Cristo può avvenire anche «fuori» della Chiesa, come i piccoli santi della strage degli innocenti (Mt 2).
Nel pentimento e nel dono di sé tutti possono entrare nello spazio della salvezza che è Cristo.
Vivere da figli, imparando ad amare
I neofiti escono dal fonte, e si apre per loro la vita cristiana. Il primo passo poggia su una croce. E anche quello dopo e quello dopo ancora, su croci colore rosso che guidano il cammino fin sotto l’altare. Cantano percorrendo la navata. Sanno di non essere più soli nel cammino.
La forma della vita nuova, della vita cristiana, è la croce, è l’amore. Questa via crucis è in realtà una via amoris, un cammino di amore che ci fa diventare sempre più conformi a Cristo.
Il percorso della vita cristiana va dalla vita ricevuta alla vita donata, è un percorso che inizia dal battesimo che abbiamo ricevuto gratuitamente e termina sull’altare, laddove offriamo con Cristo, per Cristo, in Cristo, la vita al Padre.
Questo percorso non si fa da soli, ma dentro un popolo: la navata, infatti, ricorda una barca, simbolo della Chiesa, e alle sue pareti ritroviamo volti e storie di questo popolo che cammina, da un lato quello di Israele nell’Antico testamento, dall’altro quello di Cristo nel Nuovo testamento.
I neobattezzati arrivano così davanti all’altare. Lì, a terra, un mosaico pieno di colori con una croce al centro segna il punto in cui per la prima volta si ciberanno del Corpo di Cristo.
Si inchinano. Qui la terra tocca il cielo. La loro umile vita tocca l’infinito di Dio.
Questo luogo, nelle chiese antiche si chiama onphalos (ombelico in lingua greca), ed è collocato spesso sotto la cupola, il punto in cui la costruzione dell’uomo arriva a toccare il cielo, e si apre facendo entrare un raggio della luce di Dio che ci raggiunge. L’ombelico è il baricentro dell’uomo ed è il punto tramite il quale, quando si trova nel gremo materno, riceve il nutrimento. Nell’onphalos noi riceviamo il nutrimento per il cammino, il corpo e il sangue di Cristo.
Attorno all’onphalos, quattro pilastri ricordano i pinnacoli che reggono la cupola: in essi sono raffigurati gli evangelisti, perché è l’ascolto della Parola che sorregge il nostro cammino e ci rende amici di Dio.
Dopo l’inchino, ora i nuovi cristiani alzano il capo e il loro sguardo si fa raggiante: dopo essere morti e risorti nel fonte, dopo aver percorso nella navata il cammino in una via crucis d’amore, dopo aver ricevuto il nutrimento del Pane di vita e della Parola, ora non sono più schiavi, ma figli amati e amici del Signore e, alzando lo sguardo, incrociano lo sguardo del Cristo Risorto, in Gloria.
Chi entra in chiesa nota subito l’assenza del crocifisso al centro dell’abside, tipico di molte chiese degli ultimi secoli. Qui a Dianra abbiamo ripreso la tradizione del primo millennio nella quale al centro dell’abside vi era sempre il Risorto, il Veniente, il Pantocrator, a ricordarci che la croce non è punto di arrivo, il compimento della vita cristiana, ma il cammino, la forma pasquale della vita cristiana e dell’amore che si dona, che trova pienezza e compimento nella gloria, nella Gerusalemme celeste.
Il culmine della vita nuova ricevuta nel Battesimo e del cammino cristiano è la Vita Eterna, il Paradiso.
Ora non è più notte. La luce ha vinto le tenebre. Non dobbiamo più temere la morte. Esplode tra i neofiti il canto dell’Alleluja.
Daniela Giuliani
Rappresentare un Dio accessibile
La parola si fa carne e volto
In questa terra a maggioranza islamica, dove è proibito raffigurare Allah, e dove nella religione tradizionale è causa di morte vedere il volto delle maschere sacre, il volto di Cristo è dirompente.
La fede nasce dall’ascolto. Mi commuovo ogni volta che sento annunciare il Vangelo in senari, la lingua locale del popolo senufo. Perché Dio Padre non potrebbe parlare a questa gente se alcuni missionari innamorati di Dio e degli uomini non avessero fatto la fatica di imparare questo idioma e di tradurre la Buona Novella.
Allo stesso modo, a questa Parola urge un volto. Perché la nostra non è la fede del libro, ma è la fede in Cristo Gesù che si è fatto uomo ed è venuto a rivelarci il volto di Dio.
In questa terra a maggioranza islamica, dove è proibito raffigurare Allah, e dove nella religione tradizionale animista è causa di morte vedere il volto delle maschere sacre, il volto di Cristo è dirompente. È il volto di un Dio che non è inaccessibile e ci vuole incontrare, è il volto dell’amore. È il nostro volto, di noi che siamo creati a sua immagine e somiglianza.
Gli affreschi della chiesa mostrano volti, rendono presenti coloro che sono raffigurati, chiedono un incontro. E sono accessibili a tutti, non occorre saper leggere o conoscere chissà quali dottrine: basta lasciarsi incontrare dal suo sguardo.
Si è incarnato
Nella navata che rappresenta il cammino del popolo di Dio, le pareti sono affrescate con la storia della salvezza. Avendo l’altare di fronte, sulla sinistra sono rappresentati episodi dell’antico testamento, sulla destra del nuovo.
Una storia della salvezza che comincia dal principio, con Adamo ed Eva, e trova compimento nell’incarnazione, fino alla morte e resurrezione di Cristo. Il Risorto spalanca le porte degli inferi e libera Adamo ed Eva dalla morte. E con loro ciascuno di noi, raggiunti dall’annuncio.
A chiunque entra nella chiesa, missionario o neofita che sia, illetterato o teologo, le scene della salvezza pongono una domanda: la luce viene nel mondo, sei pronto ad accoglierla e a riconoscerti figlio di Dio? O sceglierai di restare nelle tenebre?
I quattro pannelli dell’Antico testamento riprendono le grandi tappe della liturgia della Parola della notte di Pasqua.
Adamo ed Eva nel giardino (Gen 3,1-13): qui contempliamo l’origine di ogni peccato. Eva si mette in ascolto del serpente, anziché dialogare con Dio, e sceglie di disobbedire, di dar credito alle menzogne della tentazione, di non fidarsi del Signore che ha dato loro la vita. L’uomo sceglie qui di rompere la sua relazione con Dio.
Caino e Abele (Gen 4,1-16): nella seconda icona contempliamo le conseguenze della rottura con Dio, che porta alla rottura della relazione con il fratello. Dall’albero da cui Eva coglie il frutto della disobbedienza, simbolicamente è presa anche la pietra con cui Caino uccide Abele. Il non ascolto di Dio ci rende sordi al fratello.
Abramo e il sacrificio di Isacco (Gen 22,1-19): nella terza immagine troviamo Abramo, padre nella fede, primo dei credenti. In lui, che torna a dialogare con Dio e a fidarsi della sua Parola, si compie la prima alleanza. Qui è raffigurato nell’atto di sacrificare Isacco (figura di Cristo, il quale si offrirà allargando le braccia sulla croce).
Mosè e il passaggio del Mar Rosso (Es 15,1-21): l’ultima scena dall’Antico testamento raffigura Mosè che, nella notte della Pasqua ebraica, apre le acque del Mar Rosso, e porta in salvo gli israeliti. Vittoria di Dio sul faraone d’Egitto, notte di liberazione dalla schiavitù, che accende anche in noi la speranza di una salvezza possibile, di una vita nuova in cui non essere più schiavi, che troverà compimento nel battesimo.
Specularmente, le icone raffigurate sulla parete di destra narrano il mistero di Cristo instaurando un dialogo di rimandi tra antico e nuovo testamento.
L’annunciazione (Lc 1,26-38): nella prima scena contempliamo il sì di Maria, la nuova Eva, che rivolge l’orecchio e il cuore alla Parola. Si mette in ascolto di Dio che in Lei compie le sue promesse. E il rotolo della Parola, che Maria abbraccia, diventa il cammino verso l’altro, verso Elisabetta.
La visitazione, l’incontro con Elisabetta (Lc 1,39-56): se in Caino abbiamo visto che la disobbedienza rompe la relazione con Dio e con il fratello, in Maria vediamo invece che l’obbedienza e l’ascolto ci rendono capaci di andare verso l’altro, di portare la novità che è Cristo nelle relazioni.
La natività (Lc 2,1-20; Mt 2,1-12): la terza scena raffigura la natività del Signore, ed è posta in dialogo con il sacrificio di Abramo. Lì Abramo è pronto a offrire il figlio per non rompere l’alleanza con Dio, qui è Dio Padre che offre il Figlio per l’umanità. Nessun sacrificio è più necessario, Cristo si fa uomo, Dio-con-noi, e viene a salvarci.
Il battesimo di Cristo nel Giordano (Lc 3,21-22): l’ultima scena, di fronte a quella di Mosè che apre il Mar Rosso, raffigura il battesimo di Cristo. Gesù scende nel Giordano come dentro una tomba, si immerge nella morte dei nostri peccati, per darci vita. Il suo battesimo santifica le acque del Giordano e quelle di ogni fonte battesimale: immersi in Lui, anche noi possiamo partecipare alla liberazione dalla schiavitù della morte e del peccato, come gli israeliti che attraversano il Mar Rosso.
Il compimento della storia dell’alleanza
Completa il ciclo del Nuovo testamento, ormai giunti dinanzi all’abside, l’icona della passione e morte di Cristo: è Cristo che dà la vita per noi, in una kenosis (svuotamento) che comincia con l’incarnazione, trova prefigurazione nel battesimo, e arriva fino alla morte in croce (Gv 19,16-30). È lui il Figlio mandato dal Padre per salvarci. È lui che ci mostra l’Amore del Padre, che avevamo perduto.
E dalla parte opposta, il compimento della storia dell’umanità, la resurrezione di Cristo raffigurato nella discesa agli inferi (At 2,22-31; Ap 1,17-18). Qui ritroviamo Adamo ed Eva, quindi tutta la storia, tutta l’umanità, ogni popolo che sta nello sheol (il regno dei morti). Cristo vi entra e dona vita nuova all’umanità, aprendo per sempre le porte degli inferi. Cristo è davvero risorto!
Per la salvezza del mondo
Tra lo spazio della navata, che è quello del popolo in cammino, dell’ascolto e della catechesi, e lo spazio dell’abside, è collocato un arco. Questo introduce all’altare e al mistero eucaristico, come per l’iconostasi delle chiese ortodosse.
Nella sommità dell’arco troviamo la mano del Padre aperta che ci ricorda che Dio è amore che dona tutto, dona se stesso nel sacrificio del Figlio per la salvezza e la vita del mondo. Tutta la liturgia ha origine in questa mano sempre aperta.
Accanto alla mano del Creatore, fonte e sorgente della liturgia che si celebra sulla Terra, troviamo due angeli che ci ricordano la liturgia che si celebra nei cieli, speculari a due altri pannelli in stile batik tradizionale che si trovano in basso e riproducono alcune donne che portano doni danzando, e due ballafonisti che suonano.
La liturgia terrena, che vede il popolo lodare il Signore con la danza e l’offerta dei doni, è speculare a quella celeste nella quale gli angeli portano anch’essi doni all’Altissimo e suonano cimbali e sistri: segno della comunione tra cielo e terra.
Nelle liturgie di Dianra, le offerte, in monete o in natura, non sono raccolte tra i banchi, ma vengono deposte ai piedi dell’altare dai fedeli che, danzando in processione, compiono un percorso di offerta di sé all’altare di Cristo, un’offerta importante per la vita della Chiesa.
L’altare
L’altare è il cuore dell’azione liturgica dell’eucarestia, la mensa nella quale Cristo ci ha resi partecipi del suo dono d’amore.
L’altare della chiesa è di forma quadrata: ricorda i quattro punti cardinali, e quindi l’universalità della salvezza. È un’offerta per la vita del mondo, per tutti, per ogni continente, ogni popolo.
L’altare è costruito su delle pietre prelevate dalla comunità dal poggio sul quale sorge la chiesa.
Qui, sotto gli alberi, ci sono delle grandi pietre usate come altare dai primi missionari arrivati negli anni 80: l’altare di oggi si fonda sulla fede di chi ci ha preceduti e ha dato la vita perché giungesse a noi il Vangelo. Incastonata nell’altare si trova anche la reliquia di santa Maria Goretti, dono della diocesi di Senigallia, a significare anche il legame di fede tra la Chiesa locale italiana e quella di Dianra.
L’abside
Il compimento dell’azione liturgica che parte dalla mano aperta del Padre e ci invita a offrire la nostra vita, è rappresentato nell’Apocalisse, ai capitoli 21 e 22, e raffigurato nell’abside della chiesa.
Il Cristo seduto sul trono, la piazza d’oro, la Gerusalemme celeste adorna come una sposa, la comunione dei santi.
Fiumi d’acqua viva sgorgano dal trono di Cristo, e non avremo più sete, e anche le nostre capanne diventeranno d’oro, perché ciò che noi costruiamo nell’amore è partecipazione del regno e lo ritroveremo trasfigurato ed eterno in paradiso.
Accanto ai fiumi di acqua viva che danno vita e agli alberi i cui frutti guariscono le nazioni, troviamo il popolo di Dio in cammino: una famiglia che raccoglie il cotone, altri che raccolgono il riso, accanto a un operatore sanitario, un maestro, un catechista.
L’abside rivela l’orizzonte e il compimento della vita cristiana: alla sera della vita torneremo al Padre, con i suoi doni e il frutto del nostro lavoro, e celebreremo insieme a tutti i santi la misericordia e la bontà del Signore.
Nella liturgia che celebriamo tra noi e con tutti i santi e i defunti che ci hanno preceduto nella fede e, allo stesso tempo, nella «liturgia» quotidiana del lavoro, dell’attività pastorale, ciascuno è parte della trasformazione del mondo dove ogni cosa partecipa dell’amore e loda il Creatore.
La liturgia domenicale diventa sorgente e maestra dell’arte della vita.
Il granaio
La cappella feriale, luogo della custodia del Santissimo, è realizzata come un grande granaio: un volume rotondo, alto, che riprende le architetture rurali dei villaggi nei quali ogni nucleo ha uno spazio per custodire il riso o il cotone, ciò che dà sostentamento alla famiglia.
Chi vede un granaio sa che lì si custodisce ciò che dà nutrimento ed è fonte di vita.
Il granaio è la cappella dove ci si ritrova in fraternità attorno alla mensa della Parola e del Pane.
Il granaio è luogo di intimità, di adorazione silenziosa, ma ricorda anche che la liturgia è per la salvezza del mondo che attende quel pane di vita, e che noi discepoli siamo chiamati a farci pane per il villaggio, a farci missionari.
A indicare questa missione è il mosaico composto sul pavimento del granaio: raffigura un pane nel quale riconosciamo Cristo con il costato trafitto da cui sgorga la grazia dei sacramenti. Questo pane genera altri dodici pani che ricordano che anche noi siamo chiamati a farci pane. «Noi diventiamo ciò che riceviamo», diceva san Gregorio Magno: nutrendoci di Cristo diveniamo pane di vita per chi ha fame, cibo per la salvezza del mondo.
Dietro l’altare abbiamo posto una croce in legno composta da una pala verticale che raffigura Cristo mentre offre il pane e il vino, e da due pale orizzontali che presentano i dodici apostoli chiamati a nutrirsi di quel pane per portarlo al mondo.
È significativo farci Corpo di Cristo proprio qui, dove si riuniscono in special modo i catechisti e i responsabili della comunità. Da qui attingono la grazia di divenire uno, un solo corpo e un solo spirito, per poi tornare al villaggio tra la gente.
Sotto il tuo manto
Nell’incrocio del transetto, andando verso il granaio, troviamo uno spazio dedicato alla statua della Consolata e alla devozione a Maria.
Maria è cammino della Chiesa. È lei che indica la via: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5).
Maria è la via dell’incarnazione. Grazie a lei, Dio ha posto la sua tenda tra gli uomini: per questo abbiamo decorato questo spazio come una tenda.
La preghiera dell’angelus, che i Missionari della Consolata recitano prima di ogni azione liturgica, ci ricorda il mistero dell’incarnazione: senza Maria il Verbo non avrebbe preso carne.
Maria ci insegna a confidare in Dio. La preghiera del Magnificat, che i fedeli recitano ogni mattino qui in chiesa, è anch’essa una chiave di lettura per la liturgia: la nostra piccolezza può aprirsi alle grandi opere di Dio se gli affidiamo ogni cosa.
Maria Consolata, dona a noi il Consolatore. Questo spazio, questo angolo mariano, è visibile e accessibile anche dall’esterno, e chi passa può fermarsi a pregare. È a lei che per prima chiediamo conforto e consolazione e spesso è proprio con Maria che avviene il primo incontro del fedele.
Maria è raffigurata con il manto aperto, è il manto di misericordia, di accoglienza, di protezione, di intercessione. Nel suo grembo è dipinto il volto di Cristo, perché in lei Dio si incarna e si dona a noi.
E Maria, raffigurata con le mani alzate nell’atto di imitare il Cristo, è anche la «somigliantissima», colei che, primizia tra i credenti, si fa simile al figlio, la tutta santa, ci insegna la via della santità.
Daniela Giuliani
Il giorno della dedicazione
Dianra Village, 3 marzo 2019. Dal centro sanitario parte la processione composta dal vescovo di Senigallia, monsignor Franco Manenti, con l’emerito monsignor Giuseppe Orlandoni, dal vicario di monsignor Antoine Koné, il vescovo di Odienné, dai padri missionari giunti da tutta la Costa d’Avorio, e dalla comunità di Dianra. Arriva davanti alla porta della chiesa dove il rito di dedicazione prevede che l’architetto, i muratori, gli artisti e i donatori consegnino simbolicamente la nuova chiesa al vescovo.
In un istante rivivo tutti i sei anni di lavoro.
Ricordo la notte di Natale del 2012, i dubbi, i racconti di Maxime, le visite ai villaggi per trovare terracotte e ispirazioni. E poi Konaté e i suoi tecnici e muratori
Silue, Noel, Fofana. Ricordo Gioele, Martina, Francesco, e i tanti catecumeni. Il paziente Abou chino sui mosaici, Riccardo e Carla.
E poi i siti copti e l’aiuto di Stella che aprono al lavoro sui dipinti. E Soro: grazie al lavoro di questo giovane, piccolo di statura e silenzioso, e ai suoi tre barattoli di colori da carrozzeria, ogni uomo e ogni donna oggi possono incontrare il tuo sguardo d’Amore, Signore.
Ecco, la processione è arrivata a noi, padre Matteo illustra l’impostazione della chiesa, come già tante volte gli è capitato di fare perché la comunità crescesse insieme al cantiere in questi anni, e noi consegniamo le chiavi. Per la Gloria di Dio e la Salvezza del Mondo, ci ricorda la liturgia.
Il vescovo bussa tre volte e si spalanca la porta. E in uno sguardo pieno di stupore ci appare la chiesa adorna come una sposa pronta per il suo sposo.
È gioia grande. Percorriamo la navata: dal fonte battesimale, grembo di vita nuova, alla Gerusalemme celeste, dove un giorno ci ritroveremo tutti nell’Amore che non ha fine.
Tutti gli occhi ora sono rivolti verso Te, Signore.
Noi artigiani e artisti ci facciamo piccoli da una parte: sappiamo bene che il vero Architetto sei tu. Che tutto hai disposto per avere una dimora in cui lasciarti incontrare dagli uomini e dalle donne di Dianra.
Magnificat anima mea!
D.G.
Hanno firmato il dossier:
Daniela Giuliani
Consacrata dell’Ordo Virginum della diocesi di Senigallia, architetto.
Matteo Pettinari
Missionario della Consolata, in Costa d’Avorio dal 17 gennaio 2007. Dal 17 dicembre 2011 vive e lavora nella missione di Dianra. Da luglio 2022 è il superiore della delegazione dei Missionari della Consolata nel Paese. È parroco a Dianra Village.
Per ulteriori immagini e video: Canale youtube «Consolataivoire».
In Costa d’Avorio microcredito di gruppo per aiutare le mamme imprenditrici
articolo di Cristina Uguccioni tratto dall’inserto “L’economia civile” di Avvenire, 8 settembre 2021 foto Archivio fotografico Missioni Consolata
Quando si attinge alla compassione di Dio per le sue creature, quando ci si lascia toccare nell’anima dai patimenti altrui, e si cercano soluzioni (anche economiche) per far superare privazioni e sofferenze, chi non c’è la fa più riprende fiato e speranza scoprendo la propria vita benvoluta e accudita. Accade ovunque nel mondo. Anche in Costa d’Avorio: qui, nel nord del Paese, sorge una missione composta da due parrocchie (a Dianrà e a Dianrà Village) e da un centro pastorale (a Sononzo). Fondata nel 2001 dai missionari della Consolata, si estende su un territorio di oltre 3.000 chilometri quadrati ed è abitata da circa centomila persone il 3% delle quali cattoliche. La maggioranza della popolazione è musulmana o seguace della religione tradizionale.
In questa zona del Paese, reduce da un conflitto durato quasi 10 anni, si vive in condizioni di grande povertà, la denutrizione infantile è diffusa, il tasso di analfabetismo è molto elevato come lo è quello della mortalità materna e neonatale. Nel corso degli anni i missionari della Consolata hanno avviato diverse attività in campo educativo, sanitario e sociale, fra le quali un importante progetto di microcredito. «Nato nel 2005, questo progetto legato alla Caritas parrocchiale si propone di accompagnare e sostenere la popolazione femminile, che nella società locale conta assai poco e affronta ogni giorno molte fatiche», racconta padre Matteo Pettinari, alla guida della missione con due confratelli. «In Costa d’Avorio sono le donne, sovente analfabete, a farsi carico della famiglia: lavorano duramente, crescono i figli e li mantengono. I padri sono spesso assenti o disinteressati alle necessità dei bambini e della moglie, dalla quale pretendono sottomissione». Grazie al microcredito le donne (cristiane, musulmane e seguaci della religione tradizionale) riescono ad acquisire autonomia, maggiore stabilità economica e fiducia nelle loro capacità. Per accedere al finanziamento, sono invitate a riunirsi in gruppi di cinque. Ciascuna poi presenta il proprio progetto che deve essere approvato dai membri (di fede diversa) che compongono l’équipe istituita ad hoc presso la missione. Ad ogni donna viene quindi erogato il prestito, che ammonta a circa 130 euro annui e viene offerto per tre anni. Ogni gruppo si impegna a restituire in tre rate, dopo un anno, il 110% di quanto ricevuto. Se una donna non riesce ad effettuare il rimborso, l’anno successivo il microcredito non sarà concesso né a lei né alle altre quattro componenti del gruppo. «Abbiamo fissato questa regola e desideriamo che si costituiscano i gruppi per incoraggiare le donne a fare rete, a sentirsi responsabili le une delle altre e ad aiutarsi reciprocamente», dice padre Matteo. «Il rimborso del 110% ha consentito, anno dopo anno, di continuare ad ampliare il numero delle beneficiarie del credito: attualmente sono 200. I gruppi restituiscono sempre il prestito ricevuto sia perché le donne si impegnano molto per far funzionare le loro attività sia perché sono generose nel soccorrere le amiche inventando soluzioni felici per risolvere le difficoltà. Tra loro nascono saldi legami, che coinvolgono anche le famiglie: il nostro progetto di microcredito sta contribuendo non solo a contrastare la povertà, ma anche a creare comunità più coese e a favorire la serena convivenza tra persone di fede diversa».
In genere i progetti presentati dalle donne riguardano l’avvio o il potenziamento di piccole attività legate al commercio o alla ristorazione: c’è chi chiede il prestito per acquistare il mais e preparare una bevanda locale molto richiesta, chi per avviare un ristorantino, chi per acquistare un maggior numero di prodotti da vendere al mercato. «Le donne si dimostrano sempre molto tenaci, intraprendenti e creative: lavorano per il bene dei figli e ottengono ottimi risultati riuscendo a migliorare la situazione economica della loro famiglia e a mandare i bambini a scuola», dice padre Matteo. «In passato un nostro confratello provò ad avviare il microcredito anche per gli uomini, ma fu un fallimento; gli uomini, infatti, anteponevano le proprie esigenze a quelle della famiglia». Le donne che beneficiano del prestito sono invitate dai missionari della Consolata a partecipare ad alcuni incontri, presso la missione, dedicati alla salute, all’educazione dei figli, all’economia domestica. «Questi momenti formativi, che offrono strumenti per meglio affrontare i problemi della vita quotidiana, sono preziosi: talvolta sono gli unici che le donne frequentano nel corso della loro vita», sottolinea padre Matteo che, pensando al futuro, aggiunge: «Stiamo valutando la possibilità di finanziare progetti più consistenti e di invitare le donne a costituire piccole cooperative. Vedremo se accoglieranno la nostra proposta». L’obiettivo è sempre lo stesso: generare vita buona, mettere al mondo felicità per altre creature.
Un quarto di secolo di missione, mai solitaria, ma comunitaria, ecclesiale. In un paese straziato da crisi e guerre civili tra etnie diverse. I missionari della Consolata hanno accettato i rischi e sono rimasti con la gente. Sempre.
L’approssimarsi del 25° anniversario del nostro arrivo in Côte d’Ivoire (23 gennaio 1996) ci offre l’opportunità di raccontarvi la nostra missione in questa stupenda terra, benedetta e martoriata. Nel mio servizio all’Istituto, ho avuto la grazia di accompagnare da vicino il cammino dei nostri missionari, discernendo insieme stile, priorità e sfide della loro testimonianza e del loro servizio. Ho visto crescere il seme gettato dalla fantasia di Dio e dei nostri fratelli, e ne ho potuto contemplare i primi frutti. Anche con queste mie parole, desidero incoraggiare i passi di un percorso in cui il Signore ci chiede audacia per seguirlo e servirlo sui sentieri dell’ad gentes.
In queste pagine faremo memoria grata dei doni ricevuti e accolti in mezzo alle ripetute crisi attraversate, ci soffermeremo sulla passione con cui oggi le nostre comunità sfidano un presente non facile, e faremo nostro lo sguardo di speranza con cui i nostri missionari scrutano l’orizzonte del futuro, dandosi priorità chiare e prospettive coraggiose.
Visitando le missioni del Sud e del Nord della Côte d’Ivoire in questi anni, ho sempre incontrato un gruppo di giovani missionari che non ha mai smesso di sognare una missione «diversa», marcata da semplicità nelle strutture, desiderio di camminare al ritmo della gente e chiarezza nel pensare che la missione non sia mai un’avventura solitaria, ma un’impresa comunitaria, ecclesiale, fraterna. Inoltre – ed è questa una luce che ha rischiarato l’oscurità della recente storia di questo paese – pur essendo stati questi nostri 25 anni di missione in terra ivoriana segnati da una serie interminabile di crisi politico militari, i nostri missionari hanno scelto di non abbandonare mai la loro gente e le loro missioni. Hanno accettato tanti rischi – della ribellione e della guerra prima, dell’instabilità e dell’incertezza croniche poi – pur di restare accanto alle persone, di esserci, di non scappare. Credo che questa eredità preziosa sia un dono all’Istituto e ci indichi con semplicità che la missione è prima di tutto e soprattutto lo stile di una presenza che rende visibile la prossimità di Dio dentro ogni situazione. Buona lettura!
Stefano Camerlengo
Nell’ottobre 1985 il governo ivoriano chiese che il paese fosse conosciuto in ogni lingua come Côte d’Ivoire. Malgrado ciò, purtroppo, continuiamo a tradurlo nelle varie lingue (Ivory Coast, Costa de Marfil, Costa d’Avorio, ecc.). Solo in ambito Onu la Côte d’Ivoire fa applicare con tenacia questa sua volontà: in quella sede il nome non è mai tradotto, neanche in inglese. È per questa ragione che neanche noi lo tradurremo in queste pagine.
Storia di una presenza importante
Un nuovo metodo missionario
I primi tre missionari arrivarono tra fine ‘95 e inizio ‘96. La prima missione fu in una grande bidonville del Sud. Poi ne seguirono altre, e l’apertura al Nord. E le opere di consolazione iniziarono ad arrivare, come frutti di un grande lavoro di semina e concimazione.
Correva l’anno 1993, i missionari della Consolata celebravano il IX Capitolo generale a Roma. L’Istituto era presente in Africa fino dalla sua fondazione, ma le aree alle quali aveva offerto consolazione erano state l’Africa dell’Est, quella australe e quella centrale. Si volevano allargare gli orizzonti.
È così che è stata fatta la scelta di un paese francofono. Si voleva «esprimere la novità nello stile e nelle espressioni dell’azione evangelizzatrice dell’Istituto» (cfr. atti IX Capitolo generale).
Dopo uno studio e svariati viaggi della Direzione generale in Camerun, Repubblica Centrafricana e Côte d’Ivoire, lo Spirito Santo ha indicato quest’ultimo paese. La proposta della chiesa locale era di andare in una diocesi nuova, eretta da sei anni, per contribuire alla formazione della comunità cristiana, in una realtà di bidonville dove provare un metodo di missione nuovo.
La bidonville… per iniziare
Nel territorio della diocesi, i missionari della Consolata hanno scelto la periferia di una grande città sulla costa: San Pedro. Si tratta di una vasta bidonville chiamata Bardot (dal termine in krou «badô», ovvero «venire»). I missionari hanno cercato un luogo per inserirsi in un ambiente povero e urbano, nella semplicità di vita, di mezzi e di strutture, e con una grande prossimità alle condizioni di vita della popolazione.
È stato così che padre Armando Olaya è arrivato il 15 dicembre 1995 ad Abidjan e ha in seguito
accolto, come responsabile del gruppo, i padri Manolo Grau e Andrés García, il 22 gennaio 1996, accompagnati dal padre Richard Larose, consigliere generale. Il giorno dopo tutti e tre sono arrivati al centro Cossé-a-Dio (che vuol dire, la casa di Cossé, uno dei primi missionari della regione), un centro diocesano di accoglienza gestito dalle suore dell’Immacolata concezione di Notre Dame di Lourdes.
Poco tempo dopo l’arrivo dei missionari,
il vescovo di San Pedro, monsignor Barthélémy Djabla ha chiesto loro un impegno nella parrocchia cattedrale e ha nominato padre Armando parroco.
I frutti visibili del servizio dei missionari nel quartiere sono stati la grande sala dove la comunità cristiana della parrocchia cattedrale ha tenuto le sue celebrazioni per oltre 20 anni, fino a oggi, perché la cattedrale di San Pedro è ancora in costruzione.
Un altro frutto è stata la scuola primaria di Watté, un piccolo villaggio dell’interno, difficile da raggiungere durante la stagione delle piogge, e la scuola di Magnéry, altro villaggio. Esse offrono ognuna, ancora oggi, la scolarizzazione a più di 250 bambini. Una terza opera di consolazione è stata la maternità Consolata, vicino al terreno della parrocchia cattedrale, che ha migliorato la salute della popolazione di San Pedro e dintorni.
Tutte queste realizzazioni della missione di Bardot sono ora in gestione alla diocesi, perché la Consolata cerca di essere il lievito della pasta. È stato questo il nuovo stile che abbiamo cercato di incarnare con la nuova apertura nel paese.
Al di là delle infrastrutture, i missionari hanno sviluppato tutto un lavoro di formazione di leaders e agenti pastorali. Hanno messo in piedi le comunità ecclesiali di base che si riuniscono ancora oggi ogni mercoledì nei diversi quartieri del territorio parrocchiale. Hanno organizzato i diversi gruppi parrocchiali, come anche l’evangelizzazione, con delle visite regolari nei villaggi dell’interno nonostante l’impraticabilità delle strade a causa della pioggia.
Babele linguistica
Una delle prime sfide per i missionari è stata l’apprendimento della lingua locale. Essendo un ambiente urbano, San Pedro era (ed è) un crocevia di culture e lingue. All’inizio, i missionari hanno fatto la scelta di imparare ognuno una lingua. Sono state selezionate il baoulé, il krou e il mooré. La prima essendo la lingua dell’etnia più numerosa in Côte d’Ivoire, la seconda è la lingua della popolazione originaria di San Pedro e la terza è la lingua dei mossì, il gruppo etnico del Burkina Faso più numeroso in Côte d’Ivoire e maggioritario nella chiesa cattolica ivoriana. Ma questo impegno, con il tempo, è diventato troppo pesante perché le comunità sono miste, con persone di lingue e origini diverse e occorreva leggere le letture e tradurre l’omelia in quattro lingue affinché tutti potessero capire.
Altri missionari che hanno partecipato attivamente allo sviluppo di questo stile di missione a Bardot sono stati padre Pietro Villa, padre Martín Serna e padre Clovis Audet.
La parrocchia cattedrale è stata riaffidata alla diocesi nel giugno 2002 e la missione chiusa nel 2003.
In mezzo alle piantagioni di palma
Un anno e mezzo dopo l’arrivo dei primi missionari, padre Flavio Pante ha raggiunto il gruppo per aprire con padre Andrés García la missione di Sago (che in godié vuol dire «il riso che abbiamo seminato»), località isolata nella foresta ivoriana, in un territorio dove le piantagioni di palme sono numerose a causa della raffineria situata a Bolo.
Sago è stata la prima parrocchia in quanto tale affidata ai missionari della Consolata in Côte d’Ivoire ed è ancora gestita dall’Istituto. Si tratta di un vasto territorio con strade molto degradate a causa delle piogge ricorrenti. In questa parrocchia la popolazione locale è dell’etnia Godié, ma la maggior parte dei cristiani sono immigrati del Burkina Faso che sono venuti a lavorare nelle piantagioni di palma.
Padre Zachariah King’aru ha completato la comunità di missionari quattro mesi dopo. I tre abitavano in una piccola casa e hanno cominciato la costruzione della missione e della chiesa sotto la direzione del fratello Pietro Menegon, arrivato a questo scopo.
La realtà pastorale di Sago era molto sfidante, perché la popolazione locale, i Godié, frequentava molto poco la chiesa cattolica e gli agenti pastorali più presenti erano burkinabè. Questo creava difficoltà nella continuità del lavoro pastorale, perché gli agenti più impegnati viaggiavano sovente per andare al loro paese di origine. Era complicato programmare le attività della pastorale.
I missionari hanno fatto un lavoro instancabile per arrivare a tutti i villaggi con una certa frequenza e per stabilire una pastorale d’insieme su tutto il territorio della parrocchia, malgrado le difficoltà nelle vie di comunicazione. Il lavoro di formazione dei leaders e l’impegno dei laici sono stati fondamentali per l’evangelizzazione e la formazione della gente del posto.
Altri missionari hanno integrato nel tempo l’équipe di Sago: padre Victor Kota (dal gennaio 2000), padre Joseph Oguok (2001) e p. Killian Muli (settembre 2002). È stato quello un tempo di grande creatività e scoperta pastorale perché l’Africa Occidentale è molto diversa dall’Africa dell’Est nell’espressione della sua religiosità e nella sintesi che è stata fatta con le religioni tradizionali.
Sul bordo del mare
Nel 1999 monsignor Djabla ha chiesto ai missionari la loro disponibilità a gestire la parrocchia Notre Dame de la Mer di Grand-Béréby. Questa parrocchia era stata fondata dai missionari Sma (Società missioni africane) che l’avevano resa alla diocesi. Ma il vescovo non aveva preti diocesani da inviare. Si trattava di una parrocchia immensa con molte sfide per la missione.
Dopo un discernimento, e come servizio alla chiesa locale, l’Istituto ha accettato la richiesta del vescovo, mettendo come condizione che dopo un certo tempo la parrocchia sarebbe tornata nuovamente alla diocesi.
Quella di Grand-Béréby (che significa in Krou «l’imbarco di Bébé») era una missione paradisiaca. Era costruita in cima a una collina, mentre il villaggio era ai piedi della stessa. In fondo, il mare si apriva verso l’infinito. Quando si stava seduti sulla terrazza della missione, il cuore era pieno di pace e di speranza per la costruzione del Regno di Dio.
Sono stati i padri Pietro Villa e Willy Ipan con il fratello Rombaut Ngaba che hanno cominciato il lavoro in questa missione. Si sono spesi per arricchire la pastorale con un servizio di consolazione concreto, cosa che caratterizza i missionari della Consolata. Così, fratel Rombaut che è infermiere, ha realizzato un dispensario, che ha portato molta consolazione alle popolazioni di Grand-Béréby.
Malgrado la vastità della parrocchia e la difficoltà legata alle vie di comunicazione per arrivare a tutte le cappelle, i missionari sono riusciti a costruire insieme alla gente la chiesa di Adjaméné, dedicata al beato Giuseppe Allamano, che resta un punto di riferimento ancora oggi.
I missionari hanno anche costruito una scuola primaria nel villaggio di Ménéké. È così che poco alla volta ha preso forma la caratteristica fondamentale dei missionari della Consolata in questo paese: le opere di consolazione in zone isolate, sempre ascoltando i bisogni della popolazione. La parrocchia è stata resa alla diocesi nel 2006.
Apertura a Nord
Nel febbraio 2001, i missionari della Consolata in Côte d’Ivoire hanno tenuto la loro prima conferenza, nella quale hanno deciso di passare da Gruppo a Delegazione, un passaggio importante che esprime la stabilità della presenza nel paese. L’hanno messa sotto la protezione del beato
Giuseppe Allamano e hanno fatto questo passaggio in presenza del consigliere generale, padre Norberto Louro. Durante quella stessa conferenza, i missionari hanno deciso che era il momento di rispondere affermativamente a una lettera mandata loro dal nunzio in Côte d’Ivoire nel 1997. Essa chiedeva la presenza della Consolata in una nuova diocesi che era stata eretta il 19 dicembre 1994 nel Nord del paese. Ma in quel momento la Consolata era appena arrivata e non aveva del personale per fare quel passo. Ora però, dei nuovi missionari erano appena arrivati: i padri Michael Wmunyu e il sottoscritto Ramón Lázaro Esnaola.
I criteri che hanno motivato la scelta, al di là della richiesta del nunzio, sono stati: la ricerca di un dialogo interreligioso concreto e nella vita quotidiana (il Nord è a prevalenza musulmana); una realtà culturale più uniforme che permettesse l’apprendimento e l’utilizzo di una lingua e uno sforzo significativo d’inculturazione; un servizio alla chiesa locale, in quanto all’arrivo dei missionari nella diocesi, non c’era neppure un prete diocesano.
La prima sfida è stata quella dell’apprendimento della lingua, così i due missionari sono andati a Korhogo, nel Nord, per imparare il tchébaara presso i missionari d’Africa, che erano gli unici a celebrare nell’idioma locale. Non esisteva né un dizionario, né una grammatica. L’unico aiuto era un sillabario e molto entusiasmo e amore per la missione ad gentes. Solo il Nuovo Testamento e i Salmi erano tradotti.
Alla fine di maggio 2001, i due missionari sono arrivati a Dianra («leone» in tchébaara) per fondare la nuova missione, la parrocchia Saint Paul. Due mesi dopo si è unito loro padre Flavio Pante, che era in missione a Sago, per contribuire con la sua esperienza e saggezza missionaria in questo nuovo contesto.
I primi cristiani erano arrivati a Dianra nel 1980, non c’era ancora una seconda generazione di cristiani, quindi si trattava di una missione di prima evangelizzazione.
I missionari hanno cominciato un lavoro immenso di conoscenza della lingua, delle strade, dei villaggi, dei responsabili dei villaggi. Il territorio della missione era scarsamente popolato in confronto a quello di Bardot, Sago e Grand-Béréby, ma era più esteso. C’erano delle comunità a 75 km a Sud e a 95 km a Nord della missione. La prima strada asfaltata era a 100 km. Le popolazioni locali erano molto legate alle loro tradizioni, come ad esempio il «poro» (iniziazione tradizionale delle popolazioni senoufo che dura sette anni). Le sfide erano tutte nuove ma con un’intensa vita di fraternità e un forte lavoro di équipe, i nostri hanno saputo rispondere. Hanno subito realizzato una scuola di alfabetizzazione per i bisogni più urgenti, e hanno iniziato a tradurre i testi liturgici e catechetici in tchébaara per avvicinare la parola di Dio alla gente. Sono arrivati a celebrare l’eucarestia in questa lingua come anche tutti i canti liturgici.
Alla frontiera della Mecca
Un anno dopo l’apertura di Dianra, i missionari hanno aperto una nuova missione in quell’area, situata a 80 km Sud Est. Si trattava di Marandallah (in koro significa «alla frontiera della Mecca»). Questa missione era in territorio Koro, una delle etnie Mandé caratterizzate dal fatto di essere tutti musulmani. La popolazione cristiana che abitava in questo territorio, una minoranza, apparteneva a diverse etnie del gruppo Senoufo, quindi si poteva utilizzare la lingua tchébaara che i missionari conoscevano.
Gli inizi della parrocchia Saint Jean Baptiste di Marandallah non sono stati per nulla facili, perché una parte della popolazione locale vedeva con diffidenza l’installazione di una missione cattolica sul suo territorio. Pensavano che i missionari venissero per convertire i musulmani e sconvolgere l’equilibrio del villaggio.
È stato padre Flavio a cominciare questa missione insieme a padre Martin Serna. A un certo momento la popolazione si è resa conto che i missionari venivano per condividere la loro fede e migliorare la qualità di vita della popolazione attraverso la salute, l’ascolto, l’alfabetizzazione dei bambini.
In entrambe le missioni del Nord, il Vangelo era arrivato recentemente e la diocesi si stava formando, per cui le iniziative erano lasciate alla creatività e alle forze di ogni parrocchia. Anche le visite erano complicate, e occorreva almeno una giornata di viaggio per arrivare dalla sede dell’episcopato a Dianra o Marandallah, quando la pista era praticabile.
Oltre ad alfabetizzazione e salute, le opere di consolazione sono state mettere in piedi un programma di microcredito per le donne che ha molto aiutato a migliorare l’economia famigliare. Nato nel 2005, continua tutt’oggi.
Tutte queste iniziative hanno reso più naturale il dialogo interreligioso in questo contesto del Nord della Côte d’Ivoire. Questo dialogo è compreso nella chiesa a quattro livelli: il dialogo nella vita, il dialogo per la pace e la giustizia, il dialogo teologico e il dialogo spirituale. I missionari della Consolata hanno cominciato nel Nord con i primi due livelli e ci sono stati momenti in cui hanno messo in pratica il quarto livello.
La crisi politica
Un fatto ha condizionato la storia dei missionari della Consolata in Côte d’Ivoire: la guerra civile scoppiata il 19 settembre 2002, che ha diviso il paese in due durante otto lunghi anni (cfr. MC ottobre 2003 e MC agosto 2004). I ribelli hanno preso il controllo della metà Nord del paese, mentre l’esercito fedele al governo controllava la metà Sud. La missione delle Nazioni unite, l’Onuci, insieme al contingente francese Licorne, ha occupato la «zona di fiducia» che si interponeva tra i belligeranti, impedendo così gli scontri.
Il conflitto ha tagliato in due anche la presenza della Consolata nel paese. Sia nel Nord come nel Sud, i missionari hanno fatto la scelta di rimanere con la popolazione. Questa scelta ha marcato la loro presenza in quanto hanno vissuto le stesse privazioni della gente. Ha inoltre dato valore e autorevolezza ai missionari, non solo al Sud, ma anche al Nord, dove rappresentavano una minoranza. L’inserimento, che era stato uno stile voluto dalla Consolata all’inizio, è stato vissuto nuovamente, in particolare nelle due missioni del Nord. In quel momento non c’erano infermieri né medici, né rete telefonica o internet, nessuna banca era aperta nel Nord del paese e non c’erano che rari trasporti pubblici per spostarsi. È stato grazie ai missionari che sono rimasti al Sud, che quelli del Nord hanno potuto restare al servizio della popolazione.
I padri Michael Wamunyu e il sottoscritto sono rimasti isolati dall’esterno per quattro mesi a Dianra. È stato a metà febbraio del 2003 che il padre Zachariah King’aru, superiore della Delegazione in quel momento, ha accompagnato nel Nord i padri Pante, di ritorno dall’Italia, e Serna, che doveva inserirsi a Marandallah, e ha portato un telefono satellitare con il quale è stato possibile comunicare con l’estero per i restanti sette anni di crisi. Una volta alla settimana i quattro missionari rimasti al Nord chiamavano il superiore al Sud per dargli notizie.
Nel viaggio di ritorno padre King’aru è stato bloccato dai ribelli prima della zona di «fiducia» e arrestato per una notte. La sua auto è poi stata confiscata.
È importante notare che le due missioni della Consolata al Nord sono state le sole missioni cattoliche in quella parte del paese a non essere state saccheggiate dai ribelli in quegli anni. Quando, diversi anni dopo, i missionari hanno fatto delle ricerche presso la popolazione locale, hanno saputo che le autorità tradizionali li avevano protetti dicendo ai ribelli che «toccare i missionari sarebbe stato come toccare le loro famiglie». Nel momento del conflitto, i nostri si erano messi nelle mani della Provvidenza.
Il direttore del collegio pubblico di Dianra, dopo il conflitto, ha chiesto ai missionari di aiutarlo per la ripresa dei corsi. Così i padri hanno dato corsi di spagnolo, il che ha permesso loro di entrare in contatto con molte famiglie che non erano cristiane.
A Sud i missionari hanno vissuto momenti molto difficili, perché la popolazione accusava gli immigrati (come i burkinabè) di essere responsabili della ribellione, e dato che la maggior parte dei cristiani è del Burkina Faso, ci sono stati molti massacri nei villaggi della missione di Sago. I missionari, in seguito, hanno fatto un lavoro di riconciliazione che si è dimostrato molto complicato a causa delle ferite profonde rimaste nella popolazione.
Grand-Zattry
La missione, comunque, non si è fermata e la Consolata ha continuato il discernimento per definire la propria presenza nel paese. La missione di Bardot era stata chiusa nel 2003 e il vescovo chiedeva ai missionari la gestione di una nuova parrocchia. Si trattava di Saint Joseph Travailleur di Grand-Zattry, situata a circa 160 km a Nord di San Pedro. Era l’ultima parrocchia nella parte Nord della diocesi, con una grande estensione e con zone per le quali era necessaria la piroga per raggiungere tutte le comunità.
Il padre Michael Miano è andato a formare la comunità di Grand-Zattry con il padre Victor Kota. I due missionari hanno realizzato una pastorale di prossimità in un contesto in cui il gruppo etnico proprietario della terra, i Bété, era una minoranza nelle comunità cristiane che, anche qui, erano caratterizzate da una forte presenza dei Mossì del Burkina Faso. Anche qui la sfida di avere molte lingue sullo stesso territorio era presente. La formazione dei laici e la realizzazione di una pastorale coerente sono state le priorità.
Alla morte prematura del vescovo, monsignor Paulin Kouabenan (2008), al padre Victor Kota è stato chiesto di assicurare l’interim come vicario generale, fino all’arrivo del nuovo vescovo monsignor Jean-Jaques Koffi Oi Koffi.
Ritorno a San Pedro
Con l’arrivo di nuovi missionari nel 2010, nuove sfide si sono aperte. In particolare si è visto possibile il ritorno alla città di San Pedro, dove si voleva creare la sede della Delegazione e un Centro di animazione missionaria e vocazionale. Nel 2007 i missionari avevano comprato un terreno, quando padre Willy Ipan era superiore, ma non si era avuta la possibilità di costruire e di trovare il personale.
Quando la Direzione generale ha approvato il progetto, nel 2011 i missionari della Consolata hanno inaugurato la «Maison Joseph Allamano» di loro proprietà, sede della Delegazione, casa di accoglienza e Centro di animazione. Questa casa è situata al centro di un quartiere di San Pedro, Château, in continuità con lo spirito di inserimento che aveva caratterizzato l’apertura della Consolata in questo paese.
I padri Villa, Miano, Baiso, Boniface Sambu-Sambu e il sottoscritto hanno marcato l’identità di questa casa che è aperta alla realtà multi religiosa del quartiere. Inoltre hanno tessuto il dialogo interreligioso attraverso attività trasversali che toccano tutta la popolazione, come la scolarizzazione, la pace, la salute, la pulizia, il rispetto della natura.
Ramón Lázaro Esnaola
La Côte d’Ivoire in date: Cronologia essenziale
1960, 7 agosto – La Francia concede l’indipendenza al paese, ma mantiene un sistema di controllo neocoloniale, applicando il modello economico di produzione di materie prime per l’esportazione (caffè, cacao, cotone, ecc.) che ha l’effetto di impoverire la popolazione rurale. Vengono attratti 4,5 milioni di lavoratori stranieri per lavorare nelle piantagioni.
1960, 27 novembre – Félix Houphouët-Boigny, uomo legato alla Francia, viene eletto presidente. Verrà rieletto per sette mandanti consecutivi, rimanendo presidente fino alla morte, nel 1993.
1980, 10-12 maggio – Visita di papa Giovanni Paolo II, che tornerà nel paese nel 1985 e nel 1990 (quando consacra la basilica di Yamoussoukro).
1983, 21 marzo – Yamoussoukro diventa la capitale politica e amministrativa del paese.
1988, 8 maggio – Ritorno nel paese di Laurent Gbagbo, che è stato in esilio per sei anni dopo le manifestazioni studentesche del 1982.
1989, 5 maggio – Instaurazione ufficiale del multipartitismo, su stimolo della Francia. Fino a questo momento il partito unico Pdci ha favorito l’etnia baulé (di Boigny) ma lasciato autonomia ai capi locali, fatto regalie ed eliminato gli oppositori più ostici. Intanto dilaga la corruzione e il nepotismo nella classe politica. Sul mercato mondiale crollano i prezzi di caffè, cacao e cotone. Il debito estero è quadruplicato e il paese accetta le politiche di aggiustamento strutturale della Banca mondiale. La crisi economica costringe molte etnie del Nord (in maggioranza musulmani) a migrare al Sud. Nascono attriti con la popolazione locale.
1993, 7 dicembre – Muore Félix Houphouët-Boigny e assume la presidenza Henri Konan Bedié, anche lui baulé, presidente dell’Assemblea nazionale.
1994, 8 dicembre – Nuovo codice elettorale che prevede regole stringenti sull’ascendenza ivoriana dei candidati. È l’inizio dell’«ivoirité».
1995, 22 ottobre – Bedié vince le elezioni presidienziali, cavalcando il malcontento delle etnie del Sud. Grazie all’ivoirité, Bedié mette fuori gioco Alassane Ouattara, già primo ministro di Boigny, che ha un genitore burkinabè.
1999, 24 dicembre – Colpo di stato del generale Robert Gueï.
2000, 23 luglio – Adozione di una nuova Costituzione e un nuovo Codice elettorale.
2000, 22 ottobre – Elezioni presidenziali: vince Laurent Gbagbo, ma il generale Gueï si dichiara vincitore. Scoppiano disordini tra i sostenitori di Gbagbo e quelli di Alassane Ouattara, il cui partito Rdr, aveva boicottato lo scrutinio a causa dell’ivoirté. Inizia una stagione di discriminazioni e persecuzioni ai danni degli ivoriani del Nord e degli stranieri. Gbagbo organizza un forum per la riconciliaizone (dicembre 2001) ma non metterà mai in pratica le proposte dei delegati.
2002, 19 settembre – Scoppia una rivolta di militari fedeli a Gueï, che il governo vuole smobilitare. È il pretesto per il Movimento patriottico della Côte d’Ivoire (Mpci), parte dell’esercito che controlla il Nord del paese, per tentare un colpo di stato. Gueï viene ucciso, Ouattara si rifugia in ambasciata. Scatta la repressione per chiunque sia del Nord o di origini straniere. Molti immigrati lasciano il paese. Ad Ovest si formano altri due gruppi ribelli che si alleano con l’Mpci creando le Forces Nouvelles con a capo Guillaume Soro. Gbabgo, contrappone le Fanci e impiega mercenari sudafricani. La Francia mobilita i suoi militari con l’operazione Licorne, blocca l’avanzata dei ribelli da Nord e il paese rimane diviso in due.
2003, gennaio – La Francia tenta una mediazione e coinvolgendo Cedeao e Nazioni unite. Si firmano gli accordi di Marcussis, che però sono disattesi da Gbabgo. Gli accordi prevedono il dispiegamento di una forza militare dell’Onu, l’Onuci. La guerra civile continua tra governi di coalizione, impossibilitati a lavorare e massacri con tanto di fosse comuni. L’Onu parla di un milione di sfollati interni. Le elezioni del 2005 non si riescono a tenere, Gbagbo si mantiene al potere.
2007, 4 marzo – Firma degli accordi di Ouagadougou tra Gbagbo e Soro. Quest’ultimo diventa primo ministro. Nel luglio una cerimonia sancisce la fine ufficiale della guerra. Un anno dopo si inizia il disarmo dei ribelli e un censimento elettorale.
2010, novembre – Elezioni presidenziali che contrappongono Ouattara a Gbagbo. Secondo la Commissione elettorale e l’Onu è il primo a vincere, ma per il Consiglio costituzionale è Gbagbo il vincitore. Si apre una crisi post elettorale, con violenti scontri tra i sostenitori dei due politici, nei quarieri di Abidjan e in altre città, che porterà a circa 3mila morti. I massacri termineranno con la fine della battaglia di Abidjan, nel maggio 2011.
2011, marzo – L’Unione africana riconosce Ouattara presidente. Nell’aprile Laurent Gbagbo e la moglie Simone sono arrestati. Saranno processati dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità. Arrestato anche Charles Blé Goudé, il capo della milizia pro Gbagbo. Ouattara è rieletto nel 2015 per il secondo mandato.
2016, ottobre – Promulgata la nuova Costituzione. È la fine dell’ivoirité. Ma.Bel.
La Consolata oggi in Côte D’ivoire
Interculturalità e riconciliazione
La presenza della Consolata nel paese è oggi consolidata, con 4 comunità al Sud e 2 al Nord. Una casa di formazione e un percorso che sta portando ad avere missionari ivoriani nell’Istituto. Intanto le priorità per il futuro sono chiare e lo stile di missione è sempre la vicinanza alla gente e la semplicità di vita.
La nostra missione e presenza in Côte d’Ivoire oggi è costituita da sei comunità missionarie: quattro al Sud e due al Nord. Partendo dal Sud, dalla capitale economica Abidjan, abbiamo la nostra casa di formazione Bienheureuse Irene Stefani. L’impegno nell’ambito dell’accompagnamento vocazionale dei giovani è stato sancito dalla terza conferenza della Delegazione, nel 2012. Da allora, un numero crescente di giovani – che già da tempo bussavano alla porta del nostro carisma – è stato accolto nelle nostre comunità per un tempo di conoscenza, approfondimento e discernimento. Questo cammino ci ha progressivamente orientati dapprima a iniziare l’esperienza dell’anno propedeutico e, in un secondo momento, ad avviare la comunità del nostro seminario filosofico: comunità che ha effettivamente preceduto la casa che l’accoglie. Questa è stata inaugurata il 31 ottobre 2016, giorno della festa della beata Irene Stefani, di cui porta il nome. Attualmente, insieme ai padri formatori John Baptist Ominde Odunga (keniano) e Legowa André Nekpala (congolese), ci vivono tre giovani che frequentano l’anno propedeutico e quattro studenti di filosofia. Di questo percorso al servizio delle nuove vocazioni il frutto più maturo è Léon Gomé Dékry che attualmente, dopo l’anno di noviziato in Kenya, sta preparandosi a iniziare la teologia in Italia: Léon è il primo ivoriano missionario della Consolata.
Una casa aperta
Le altre tre comunità del Sud sono tutte situate nella diocesi di San Pedro, la prima in cui, come missionari della Consolata, abbiamo iniziato il nostro lavoro e la nostra evangelizzazione.
Una di queste comunità è situata in uno dei quartieri più popolari di San Pedro, il quartiere Château, che si congiunge e perde nel Bardot, la bidonville dove nel 1996 si è inserita la nostra prima comunità. Qui, a poche centinaia di metri dal Château (e cioè dall’acquedotto), abbiamo la sede della nostra Delegazione ed il Centro di animazione missionaria. I due missionari che attualmente qui condividono vita e testimonianza sono l’amministratore della Delegazione, padre Daniel Yoseph Baiso, etiope, e il responsabile dell’animazione missionaria vocazionale, padre Boniface Sambu-Sambu, originario della Rdc.
Sorgendo nel territorio della parrocchia della cattedrale, questa nostra presenza si inserisce in modo particolare nel tessuto pastorale della comunità locale, ma si pone anche al servizio delle altre parrocchie della grande città portuale di San Pedro. I nostri missionari offrono un contributo prezioso alla chiesa locale nell’ambito della pastorale delle comunità di base e della pastorale del mare, di cui sono i referenti diocesani. Ciononostante, il servizio più significativo che questa comunità offre al quartiere e alla chiesa di San Pedro si situa ad un altro livello, più proprio del nostro carisma ad gentes. Infatti, la nostra casa è un luogo aperto e accogliente, dove i giovani di ogni credo ed etnia (allogena o straniera) trovano la «loro» casa. I nostri locali sono aperti (malgrado i rischi di furti che ogni tanto si verificano) per chi volesse trovare spazi illuminati e raccolti per lo studio personale come anche per chi decidesse di iscriversi ai corsi di alfabetizzazione serale. Quest’attenzione a un’apertura costante e senza stretti vincoli ci ha permesso di essere accolti senza pregiudizi da parte delle varie componenti umane del quartiere e, anche attraverso iniziative mirate (proiezione di film e cartoni animati dopo cena, settimane di giochi per i bambini vissute e programmate con gli stessi giovani del quartiere, giornate a tema per la formazione dei giovani sulle tematiche più attuali e diverse, ecc.), sta crescendo il raggio d’influenza della nostra discreta presenza di servizio gratuito e consolazione.
Negli ultimi anni è anche sorto un gruppo di Amici della Consolata che si sta progressivamente aprendo al nostro carisma e al nostro stile di vivere il Vangelo di Cristo che è vita e consolazione per tutti. In questo senso, la comunità di San Pedro sta studiando la modalità di dar forma a una struttura capace di accogliere meglio e moltiplicare queste iniziative di animazione, formazione ed «evangelizzazione di prossimità».
Sago e Grand-Zattry
Le altre due presenze sono due parrocchie: una a Sago, nel cuore della foresta pluviale tropicale, tra i Godié, e l’altra a Grand-Zattry, in pieno paese Krou, tra i Bété (l’etnia dell’ex presidente Laurent Gbagbo).
Attualmente a Sago vivono tre padri: Michael Mwatha Miano, originario del Kenya, Celestino Marandu e Gregory Cyprian Mduda, entrambi tanzaniani. Questa missione, iniziata il 14 novembre 1997, si caratterizza per essere la prima presenza fuori da San Pedro, dopo quasi due anni dall’arrivo dei primi tre missionari della Consolata nel Bardot. La sua vastità impressiona: comprende infatti 41 cappelle suddivise in ben sei zone pastorali. Nonostante i numerosi cambiamenti e l’innegabile processo di miglioramento delle infrastrutture di quest’ultima decade, Sago resta ai margini delle principali vie di comunicazione e gli oltre 20 km di pista, spesso quasi impraticabile, la isolano ancor di più. I servizi di base (acqua, corrente, presidi sanitari, scuole di qualità) restano un miraggio per la maggior parte della sua popolazione, che vive prevalentemente di agricoltura (piantagioni di cacao, palma da olio e caucciù, oltre che di prodotti alimentari di consumo domestica) e di piccolo commercio.
In questo contesto, i missionari hanno accompagnato l’evangelizzazione con uno stile di vicinanza e di attenzione ai bisogni concreti della gente, promuovendo in particolare l’educazione dei più piccoli. In tal senso, dal 2005 è nata la scuola elementare «Consolata», che oggi è un’eccellenza educativa del distretto e della regione. Nel solo anno scolastico 2018-2019 la scuola ha avuto 261 studenti, di cui 123 bambine. Dei 50 che si sono presentati all’esame per passare alla scuola secondaria, nessuno è stato bocciato: tutti (26 ragazzi e 24 ragazze) hanno ottenuto il loro diploma di Cepe (Certificat d’études primaires élémentaires). Si pensi che il tasso nazionale di riuscita al Cepe nel 2019 è stato dell’84,48%. La nostra scuola elementare «Consolata», oltre a garantire un’istruzione di qualità per tutti, a partire dai più poveri (i missionari, attraverso una rete di solidarietà internazionale, riescono a trovare borse di studio per chi è economicamente più svantaggiato), è un autentico laboratorio di incontro e dialogo tra piccoli (e famiglie) di credo, tradizioni ed etnie differenti.
Il mosaico etnico di Grand-Zattry
Un mosaico di gruppi etnici costituisce anche il sottofondo socio culturale della missione di Grand-Zattry. Eretta nell’aprile del 2004, conta oggi 25 cappelle in un territorio di circa 1.750 km2 e 120mila abitanti. I musulmani rappresentano il 35% della popolazione, mentre i cristiani circa il 40%. Di questi ultimi, solo il 2% sono cattolici. Oltre il 20% della popolazione segue la religione tradizionale africana. Attualmente la missione è animata da una comunità di due padri: James Mwangi Gichane, keniano, e Fidelis Francis Massawe, tanzaniano. Fino al mese di agosto, vi operava anche il missionario italiano padre Silvio Gullino, rientrato in patria per salute dopo ben 17 anni vissuti nel paese, di cui i primi 14 a Sago e gli ultimi 3 proprio a Grand-Zattry.
Una delle sfide maggiori di questa nostra presenza è quella dell’inculturazione del Vangelo nella grande famiglia del popolo Krou (e dei suoi sottogruppi). La maggior parte dei cristiani proviene infatti da altre latitudini del paese o è addirittura di origine straniera (del Burkina Faso in particolare). La chiesa rischia di essere dunque una comunità estranea al contesto autoctono.
La convivenza tra locali, allogeni e stranieri – soprattutto a partire dagli anni Novanta e dalla disputa sull’ivoirité – è divenuta molto complessa. Le sue cause socio economiche sfidano in profondità la nostra testimonianza evangelica e ci provocano a una sempre maggiore immersione nell’intricato ed incandescente mondo interculturale che ci accoglie.
Negli ultimi anni, l’impegno di promozione umana ha visto la comunità crescere nella lettura della realtà educativa e sanitaria, impegnandosi in un sostegno puntuale e mirato ad alcune strutture pubbliche (scuole primarie e dispensari), migliorando in tal senso il servizio offerto alla popolazione sia attraverso la creazione di infrastrutture di appoggio come nell’impegno di mediazione per l’arrivo di fondi per la lotta alla malnutrizione.
Missione tra gli islamici
Nel Nord della Côte d’Ivoire siamo stati accolti nel 2001 nella diocesi di Odienné. Attualmente siamo presenti a Dianra e Marandallah.
Alla comunità di Marandallah – composta dai padri Alexander Ashivaka Likono, Zachariah King’aru entrambi keniani, e Wema Meta Duwanghe, tanzaniano – è affidata una parrocchia in cui i cattolici sono circa 700 e rappresentano poco più dell’1% della popolazione. Le piccole comunità cristiane sono circa 25, di cui soltanto 10 possono radunarsi in una chiesetta, e sono sparse in una superficie di 4.427 km2, estensione che corrisponde al territorio della nostra immensa missione. Nel Nord del paese la popolazione è prevalentemente musulmana: ad esempio a Marandallah, lo sono ben l’80% degli abitanti. I missionari, inseriti in un contesto in cui i cristiani sono degli allogeni senufò ospiti dei Korò (un sottogruppo dell’etnia malinké), si ritrovano spesso a mediare e accompagnare un clima di non facile convivenza interetnica e intercomunitaria. Ciononostante, le differenti fedi non sono mai state sorgenti di conflitto, ma piuttosto di fraternità cordiale, stima reciproca ed amicizia. Un segno eloquente di questo rispetto tra differenti fedi è il «Giardino dell’amicizia», realizzato dai missionari in un terreno donato loro dai notabili musulmani e che ospita uno spazio di preghiera con al centro Nostra Signora di Fatima, oltre che un percorso ludico e ricreativo nel verde della savana erbosa. Infine i padri amministrano il centro sanitario Nostra Signora della Consolata che, nato nel 2007, è il primo presidio sanitario della prefettura. Eccellenza nel distretto sanitario per la qualità dei vari servizi offerti, è anche il centro di riferimento per le trasfusioni di sangue, l’accompagnamento dei malati di Aids e la lotta alla malnutrizione.
Parola d’ordine: «interculturalità»
A Dianra la fraternità missionaria è fortemente segnata dall’interculturalità in quanto è composta da tre padri di tre nazionalità e tre continenti diversi: Ariel Osvaldo Tosoni, argentino, Raphael Njoroge Ndirangu, keniano, e il sottoscritto Matteo Pettinari, italiano. Questa diversità si fa comunione nel servizio alla missione nella realtà concreta delle comunità cristiane di Dianra e Dianra Village. Anche qui i cattolici sono una minoranza che si aggira intorno al 4% e sono disseminati in 50 villaggi (dove talvolta sono soli o in piccoli nuclei di meno di 5 persone) e sono sparsi su 3.009 km2. A Dianra Village i missionari amministrano un’opera di consolazione, il centro sanitario Giuseppe Allamano. I passi dell’ad gentes percorrono anche qui i sentieri del dialogo interreligioso, fatto di fraternità feriale e semplice con il mondo «altro» che ci circonda. Ogni progetto e iniziativa di consolazione (microcredito per donne, alfabetizzazione serale, impegno nel mondo della salute, sensibilizzazioni di vario tipo nei villaggi…) si colora di attenzione verso l’altro e la sua tradizione spirituale. In vari di questi ambiti, fratelli e sorelle musulmani non sono soltanto destinatari delle iniziative della missione, ma anche corresponsabili e partecipi della loro ideazione e realizzazione. In un quotidiano semplicemente condiviso e nel servizio alla vita, le barriere e gli steccati cadono con naturalezza e lasciano posto alla spontaneità della fiducia e della prossimità concreta.
Per un futuro di speranza
Da quanto condiviso, emerge che quattro sono le priorità e prospettive della nostra attuale presenza missionaria. L’ultima conferenza della Delegazione (2018) e la riflessione avviata per il venticinquesimo della nostra presenza, ci stanno permettendo di riscoprire in esse innanzitutto uno stile di presenza e di missione che ci contraddistingue come missionari della Consolata in Côte d’Ivoire. Questo stile – che raccoglie come eredità preziosa una memoria condivisa – ci proietta nel futuro ed è fatto di prossimità e vicinanza alla gente, in semplicità di vita e fraternità apostolica. Questa prossimità non è mai venuta meno nei tanti momenti di crisi che hanno costellato i primi 25 anni della nostra presenza in questo paese ed è stata capace di attraversare innumerevoli difficoltà, ostacoli e contraddizioni.
Scrutando l’orizzonte della missione, con questo stile ci sentiamo dunque di continuare a percorrere i quattro sentieri del nostro ad gentes in Côte d’Ivoire:
la prima evangelizzazione, e cioè l’essere presenti come una comunità che vive la diversità e pffre testimonianza evangelica in un contesto prevalentemente non cristiano;
la consolazione, che per noi è l’altro nome della promozione umana, attraverso progetti e opere concrete, nell’ambito educativo e sanitario in modo particolare;
il dialogo interreligioso, inteso soprattutto come fraternità interreligiosa intessuta intorno al servizio della vita;
infine, ma non ultima, l’animazione missionaria della chiesa locale: una chiesa giovane e ricca di potenzialità, che desideriamo servire ed aprire agli orizzonti sconfinati della missione di Cristo. Gli orizzonti, appunto, della missione.
Matteo Pettinari
La via della bellezza
Il perché della missione coincide con il desiderio infinito del Padre di rigenerare umanità, creazione e storia in Cristo e nel suo amore tenero e fedele. Il suo come varia attraverso epoche, contesti e coordinate di vario tipo (antropologiche, socio economiche, psico sociali, ecc.). Eppure, se «la bellezza è lo splendore della verità» e se «Dio è Amore» (1Gv 4, 16), la concretezza dei gesti della carità e lo stupore che genera la bellezza, saranno sempre e ovunque i sentieri attraverso i quali il Vangelo potrà fecondare cuori e culture. Forti di questa convinzione, nel 2012 abbiamo intrapreso un lungo cammino che ci ha condotti alla dedicazione della nuova chiesa San Giuseppe Mukasa di Dianra Village il 3 marzo 2019. Questo progetto è nato e si è sviluppato innanzitutto nel cuore della comunità di Dianra Village che, nascendo come nuova parrocchia e avendo un importante numero di fedeli, non aveva però ancora una chiesa come sede e centro della nuova comunità parrocchiale.
Questo desiderio è stato accolto dal vescovo diocesano e fatto proprio dai missionari. In realtà, i padri ne hanno approfittato per mettere tutta la comunità in «stato di cantiere», e hanno trasformato il cantiere stesso in laboratorio di catechesi, fede e lavoro condiviso. E così la liturgia e la catechesi si sono sposate con l’architettura, mentre la Parola si faceva di nuovo visibile attraverso la bellezza dei colori e delle forme. Ora lo stupore prende la mano di chi si avvicina ed entra nella chiesa, mentre la comunione colorata dei santi e della Gerusalemme celeste sembra scendere nel cuore della savana, trasfigurando materiali, forme e stili culturali tradizionali che sono a loro volta integrati nella storia della salvezza. Sottolineiamo inoltre che tutto ciò ha potuto realizzarsi grazie alla comunione di amicizia con tanti che ci hanno appoggiato spiritualmente, tecnicamente e finanziariamente. Tutta questa storia ci parla di un percorso bello, lungo e faticoso, fatto di slanci e piccoli passi, di Provvidenza e incontri inaspettati, di sorprese e gratuità… in una parola, del mistero di comunione missionaria che è la Chiesa, segno vivente dell’inizio del Regno nel cuore del mondo. Un segno di cui questa chiesa è un’ulteriore testimonianza fatta architettura e arte, capace di parlare della bellezza di Dio e della vita nuova in Cristo a chiunque la contempli.
Matteo Pettinari
La Cote d’Ivoire verso le elezioni presidenziali
Gli spettri del passato
In questo mese gli ivoriani saranno chiamati a eleggere il presidente della repubblica. In momenti storici recenti, le elezioni sono state foriere di scontri, uccisioni e di una guerra civile. Oggi si ripresentano i politici del passato. Sullo sfondo una riconciliazione mai avvenuta del tutto. Vediamo cosa può succedere.
Il 24 agosto scorso il presidente Alassane Dramane Ouattara ha depositato la sua candidatura per le elezioni presidenziali del 31 ottobre prossimo. Nulla di nuovo, sembrerebbe, se non fosse che Ado (come viene chiamato dai connazionali) si candida per la terza volta al posto di capo dello stato, quando la nuova Costituzione prevede un limite di due mandati.
In effetti Ouattara, presidente dal 2011, vincitore delle elezioni del novembre 2010, che avevano precipitato il paese in violenti disordini, è stato rieletto senza problemi per un secondo mandato nel 2015. Nel novembre dell’anno successivo è stata promulgata la nuova Costituzione, in quanto la vecchia aveva diversi articoli controversi, che erano stati strumentalizzati e avevano portato a una guerra civile durata quasi otto anni (2000-2008).
Parola di politico
Nonostante l’abitudine africana di mantenersi al potere, Ouattara, solo nel marzo scorso, aveva solennemente promesso di fronte ai parlamentari in seduta unificata, che non si sarebbe ricandidato alla sua successione, con l’obiettivo di passare il testimone alle «nuove generazioni». Allora cosa è successo? Il suo partito al potere, l’Rhdp (Raggruppamento dei houphouëtistes per la democrazia e la pace), aveva indicato come candidato il primo ministro Amadou Gon Coulibaly, che però è morto improvvisamente, in seguito a un infarto, lo scorso 8 luglio. A quel punto il partito ha chiesto ad Ado di tornare in pista, ma lui ha preferito attendere alcune settimane prima di dare l’ok.
«I partiti di opposizione sono contrari alla ricandidatura di Ouattara, e la vedono come una violazione della Costituzione», ci racconta il giornalista Innocent Beugré, raggiunto telefonicamente ad Abidjan. L’opposizione ha lanciato l’appello a manifestare in tutto il paese, e giovedì 13 agosto c’è stata una prima violenta manifestazione: «Ha avuto come effetto la distruzione di molti beni pubblici ed edifici. Un commissariato è stato distrutto, diversi autobus incendiati e si contano quattro morti e oltre un centinaio feriti.
I rischi di ulteriori disordini sono reali, perché l’opposizione non vuole mollare».
I partigiani di Ouattara non stanno a guardare e, scesi pure loro in piazza, hanno dato origine a veri scontri con gli oppositori di diverse città della Côte d’Ivoire.
Ma vediamo come è composta l’opposizione politica.
Dinosauro africano
Candidato del Pdci (Partito democratico della Côte d’Ivoire) ritroviamo l’ottantaseienne Henri Konan Bedié. Già presidente dell’Assemblea nazionale dal 1980 e primo presidente della Repubblica dal 1993 dopo la morte di Félix Houphouët-Boigny, il padre della patria. Fu poi destituito dal golpe di Robert Guëi alla vigilia di Natale del 1999. Ha sempre calcato la scena politica ivoriana.
Ci dice ancora Beugré: «Bedié si è candidato, il suo partito lo sostiene e la Costituzione all’articolo 55 lo autorizza a competere. Lui si sente pronto, inoltre non è solo, è alla testa del Pdci, che è un grande partito che ha molti quadri e candidati potenziali. Inoltre è sostenuto da molti ivoriani e sta facendo alleanze. Adesso è alleato con la fazione di Laurent Gbagbo. Il Pdci ha la sua parola da dire e Bedié candidato peserà nella competizione e sui risultati finali».
Il grande sconfitto del 2010
L’altro grande assente-presente è Laurent Gbagbo. Presidente dal 2000 al 2010, ha perso le elezioni del novembre 2010 contro Ouattara, ma non ha voluto farsi da parte, così ha scatenato sanguinosi disordini, finiti nel marzo del 2011 (anche grazie all’intervento dei caschi blu dell’Onuci e dell’operazione Licorne francese) con il suo arresto e quello della moglie Simone Gbagbo. Incarcerato all’Aia è stato processato per crimini contro l’umanità. Assolto, è oggi in libertà condizionata, in attesa di un secondo grado di giudizio e non può lasciare Bruxelles. Gbagbo, però vuole tornare in Côte d’Ivoire e correre per le presidenziali, e ha fatto richiesta di un passaporto, senza – ad oggi (mentre scriviamo) – ottenerlo. Gbagbo è stato pure processato e condannato a 20 anni di prigione dalla giustizia del suo paese per furto alla banca Bceao (Banca degli stati dell’Africa dell’Ovest). Il suo partito, l’Fpi (Fronte patriottico ivoriano) si è scisso all’indomani dei disordini post elettorali del 2011, in due fazioni: una la sua e l’altra, che gli si oppone, ha candidato Pascal Affi N’Guessam, già ministro, per le presidenziali di ottobre.
«I partigiani di Gbagbo, che sono ancora molto attivi sul terreno, aspettano che lui rientri nel paese, ed è chiaro che [qualcuno] gli impedisce di rientrare perché peserebbe sulla bilancia. Se rientrasse si moltiplicherebbero le forze di opposizione. Quindi per il potere in carica, Gbagbo non deve rientrare, al contrario l’opposizione vuole averlo nel paese», sostiene il giornalista.
Una fonte della società civile, legata a un’associazione che opera per la riconciliazione, ci dice: «La questione del ritorno di Gbagbo è spinosa, ma la sua presenza in Côte d’Ivoire contribuirebbe alla ricostruzione del tessuto sociale, alla ricostruzione nazionale. Molti partiti preferirebbero che tornasse, dopo aver fatto l’esperienza della prigione all’Aia. C’è il desiderio di raggruppare tutti i figli della Côte d’Ivoire, senza condannare uno o l’altro.
Ogni partito è per sé, ma i sostenitori della fazione di Gbagbo, se lui non torna, non potranno contribuire alla riconciliazione. Occorre che tutti i leader possano ritrovarsi e discutere insieme. Mentre dal punto di vista giuridico si può impedire il suo rientro».
L’ex ribelle
Un altro candidato famoso, attualmente in esilio, è Guillaume Soro. Già capo dei ribelli durante la guerra civile degli anni 2000, poi primo ministro grazie agli accordi di Ouagadougou (2007-2012) e presidente dell’Assemblea Nazionale (2012-2019) durante la prima presidenza Ouattara, è oggi in Francia, in quanto condannato a 20 anni nel suo paese per appropriazione di denaro pubblico (aprile 2020) durante un processo, giudicato da alcuni un processo «politico». Successivamente è stato inquisito per crimini di guerra per fatti durante la guerra civile e anche durante la crisi post elettorale del 2011.
Ci dice ancora Innocent Baugré: «Guillaume Soro è in esilio, è incriminato per attentato alla sicurezza dello stato, lo aspettano qui per processarlo. Ci sono dei deputati a lui vicini che sono stati arrestati, durante le manifestazioni la presidente delle sezione femminile del suo partito è stata arrestata con alcuni dei suoi membri. I suoi partigiani vogliono il suo ritorno e lui dice che tornerà, ma il potere è pronto ad accoglierlo? Può essere che aspetti il momento opportuno. Occorrerebbe che a livello politico togliessero l’accusa, soprattutto perché è candidato alle elezioni presidenziali».
Anche Soro ha i suoi sostenitori che non esitano a manifestare in piazza.
Completano la rosa dei candidati due dissidenti del Rhdp, Marcel Amon Tanoh e Albert Mabri Toikeusse, un’ex miss Cote d’Ivoire, Marie Carine Blandi, e Danièle Boni Claverie, giornalista e già ministra della donna e della comunicazione.
Il rischio di violenze
Il dibattito politico in queste settimane è monopolizzato sulla candidature di Ado. Secondo Innocent Beudré: «Sarebbe bastato che Ouattara rispettasse la Costituzione e anche la parola data, perché Ouattara ha detto che non si sarebbe candidato, e il presidente francese Emmanuel Marcon gli ha fatto i complimenti. E adesso si candida. La gente non capisce: perché la morte di Coulibaly può portare il presidente a violare la Costituzione? C’è poi il valore della parola data. Anche il ministro della giustizia, sotto di lui, aveva detto che non è candidabile. C’è l’onore. Questo gli ivoriani non lo accettano».
La nostra interlocutrice della società civile, che preferisce mantenere l’anonimato è dell’idea che: «Sembra che quando si cambia la Costituzione inizia una nuova Repubblica, questa è la III Repubblica in Côte d’Ivoire. I sostenitori di Ado dicono che si presenta come primo mandato della terza repubblica. L’opposizione dice che il contatore dei mandati non va a zero».
I costituzionalisti sono divisi, ma la cosa più grave è il reale rischio di deriva violenta delle manifestazioni, a causa degli scontri tra sostenitori delle due fazioni. Contrapposizioni che in Côte d’Ivoire sono spesso strumentalizzate dai politici e possono assumere una connotazione inter etnica o inter comunitaria.
Ricorda l’attivista: «La Côte d’Ivoire è stata resa fragile dalla varie crisi, a partire dal 1999, e una vera riconciliazione è ancora da fare. La divisione Nord Sud resta una realtà, così come la divisione tra i diversi partiti. L’associazione Arusia (Associazione per la ricerca dell’unità, la solidarietà e l’unità africana), di cui faccio parte, lavora per contribuire a raccogliere i diversi “pezzi” e scongiurare lo scoppio di una nuova situazione di violenza. Occorre ricordare che Ado ha iniziato diversi progetti di riconciliazione, che porteranno a dei risultati. Ogni ivoriano o organizzazione deve contribuire a saldare la struttura sociale».
I fantasmi del passato
Innocent Baugré ci ricorda la delicata situazione dei media ivoriani, già indicati, negli anni 2000, come veri «media dell’odio»: «I media in Côte d’Ivoire sono radicalizzati, ognuno secondo la sua linea editoriale, niente è cambiato. La Rti (Radiotelevisione nazionale, ndr) è controllata dal partito al potere. Ci sono altri canali Tv, più recenti, che hanno creato un dibattito con contraddittorio nei loro programmi e questo è un elemento nuovo.
A livello della stampa scritta invece è come in passato: ci sono giornali vicini al partito al potere, e altri vicini all’opposizione, e mostrano i muscoli. C’è una cristallizzazione dell’ambiente. Ci sono 2-3 giornali indipendenti che tengono però per l’opposizione. La stampa contribuisce ad accentuare le cose, a rendere il dibattito più duro. Non accusiamo i giornalisti, perché riportano quello che i politici dicono, ma ognuno le riporta secondo la sua parrocchia».
«Quello che fa paura è che si ritorna un po’ sul cammino del 2010. È lo stesso comportamento che ha portato agli avvenimenti di quell’epoca: la stampa, i politici, le dichiarazioni incendiarie, gli appelli a manifestare, la repressione. Oggi gli ivoriani hanno paura, noi tutti vogliamo evitare questo».
Il 31 agosto, il cardinale Jean-Pierre Kutwa, arcivescovo di Abidjan, ha lanciato un appello al rispetto della Costituzione, di fatto negando l’appoggio alla candidatura di Ouattara.
Marco Bello
Hanno firmato questo dossier
Stefano Camerlengo
Superiore generale dei missionari della Consolata.
Ramón Lázaro Esnaola
Spagnolo, missionario della Consolata in Côte d’Ivoire dal 2001, dal 2020 nella nuova missione in Messico.
Matteo Pettinari
Italiano, missionario della Consolata a Dianra dal 2011.
Ariel Tosoni
Argentino, missionario della Consolata a Dianra dal ‘07. Sono sue le foto del dossier.
Marco Bello
Giornalista redazione MC.
I missionari in Côte D’ivoire
San Pedro: Daniel Yoseph Baiso, Boniface Sambu-Smabu.
Abidjan: André Legowa Nekpala, John Baptist Ominde Odunga.
Attraverso le testimonianze dei nostri missionari in Africa e America Latina, ricostruiamo le reazioni a fine marzo dei paesi alla diffusione del contagio da coronavirus@, come sono state recepite le direttive dei vari governi e quali sono stati i primi provvedimenti presi nelle missioni.
I dati presentati in questo testo sono ovviamente quelli disponibili al momento delal chiusura del testo, il 24 marzo.
Era circa metà marzo quando i nostri missionari in Africa e America Latina hanno iniziato a condividere via Whatsapp i primi documenti dei governi e delle conferenze episcopali nazionali con le disposizioni per contenere il contagio da Sars-Cov-2, il nuovo coronavirus.
Ne citiamo uno a titolo di esempio: il comunicato del Consiglio nazionale di sicurezza (Cns) della Costa d’Avorio presieduto dal presidente della repubblica Alassane Ouattara, che il 16 marzo segnalava sei casi confermati, saliti a 74 al 24 marzo.
Costa d’Avorio
Il Cns disponeva il rispetto delle norme igieniche fra cui il lavaggio delle mani, il divieto di scambiarsi baci, abbracci e saluti che comportino un contatto delle mani, il divieto di consumare carne di animali selvatici. Proibiva inoltre i raduni di più di 50 persone e fissava ad almeno un metro la distanza interpersonale da tenere negli ipermercati, nei maquis (piccoli ed essenziali locali dove è possibile consumare cibo e bevande, tipici della Costa d’Avorio e di diversi altri paesi africani, ndr), nei ristoranti, nelle aziende; imponeva la chiusura delle scuole per un mese e delle discoteche, dei cinema e dei luoghi per gli spettacoli per 14 giorni, la sospensione degli eventi sportivi e culturali e il rafforzamento dei controlli sanitari alle frontiere marittime, terrestri e aeroportuali. Il comunicato introduceva anche il divieto di ingresso nel paese, per quindici giorni prorogabili, ai viaggiatori non ivoriani provenienti da paesi con più di cento contagi. La messa in quarantena per 14 giorni, nei centri controllati dallo stato, era prevista per i cittadini ivoriani e per gli stranieri con permesso di soggiorno permanente che rientravano nel paese, per tutti i casi sospetti e per coloro che erano venuti a contatto con delle persone infettate. Il comunicato annunciava poi l’apertura in 13 grandi centri del paese di siti complementari equipaggiati per la presa in carico dei casi di Covid-19, l’aumento della sicurezza sanitaria per gli agenti di salute e per tutto il personale dei servizi pubblici e la riattivazione dei comitati dipartimentali di lotta alle epidemie. Il 24 marzo, in una situazione in continua evoluzione, il presidente Ouattara con un discorso alla nazione introduceva un ulteriore irrigidimento delle misure che comprendeva il coprifuoco dalle 21 alle 5.
Altri paesi
Altri governi africani hanno proposto nei giorni a seguire provvedimenti molto simili. La Repubblica Democratica del Congo, attraverso le indicazioni fornite in un discorso alla nazione dal presidente Félix Tshisekedi il 18 marzo, imponeva misure come quelle della Costa d’Avorio, con varianti come il divieto di ogni raduno, riunione, celebrazione con più di venti persone in luoghi pubblici fuori dal domicilio familiare e la sospensione di tutti i voli provenienti dai paesi a rischio e dai paesi di transito, non solo di quelli provenienti dai paesi con oltre cento casi (escludendo però i voli e le navi cargo)@.
Il Mozambico, con una comunicazione del presidente della repubblica, Filipe Nyusi, aumentava il 20 marzo le limitazioni e divieti decisi la settimana precedente, allineandosi a quelli degli altri paesi già citati. Nel comunicato@, il presidente Nyusi informava anche che fino a quel momento erano stati sottoposti al test 35 casi sospetti, che erano poi risultati negativi, mentre 267 cittadini mozambicani e stranieri provenienti da paesi ad alto rischio si trovavano in quarantena domiciliare.
Anche il Kenya, che ha registrato il primo caso il 12 marzo@, ha chiuso le scuole quattro giorni dopo e il 22 marzo ha ulteriormente inasprito le direttive per contenere il contagio@: sospesi tutti i voli tranne i cargo dal 25 marzo, chiuse chiese e moschee, proibiti gli incontri delle chama (gruppi di microrisparmio e investimento), i compleanni e ogni altro assembramento, chiusi tutti i bar.
Quanto al servizio di trasporto in comune (i matatu), già dal 20 marzo le indicazioni erano quelle di ridurre il numero di passeggeri: i mezzi da 14 posti potevano portare al massimo otto passeggeri, non più di 15 passeggeri per matatu da 25. I bus da 30 posti dovevano infine limitarsi a usare il 60% della loro capienza@.
Queste restrizioni al numero di passeggeri hanno provocato un immediato effetto indesiderato: l’aumento dei prezzi delle corse. Per questo il ministero della Sanità nel comunicato del 23 marzo ha fatto un «appassionato appello» ai proprietari dei matatu affinché smettano di imporre ai pendolari questi aumenti@.
Secondo il Johns Hopkins Hospital, il 15 aprile 2020 l’Africa contava 53 nazioni contagiate, 16.356 casi confermati e 872 decessi.
America Latina
Quanto all’America Latina, il Venezuela è certamente fra i paesi che destavano più preoccupazioni dal momento che il rischio del contagio si inserisce in una situazione politico economica già molto compromessa. Il presidente Nicolas Maduro ha annunciato la messa in «quarantena totale» del paese a partire dal 18 marzo, quando i casi di Covid-19 accertati erano 33@ (saliti poi a 84 il 24 di marzo).
Da Dianra, Costa d’Avorio
Sulla situazione abbiamo sentito alcuni missionari. «L’analfabetismo è la malattia più mortale che esista: scrivilo, questo». Al telefono dalla Costa d’Avorio, padre Matteo Pettinari, responsabile del Centro di salute Joseph Allamano di Dianra (Csja), non ha dubbi su quale sia il principale avversario da battere nella partita del contenimento del contagio. Secondo il censimento del 2014, precisa il missionario, la regione del Béré, dove si trova Dianra, ha l’81% di analfabeti. Far passare messaggi sulle corrette pratiche igieniche e contrastare la marea di notizie false che circolano diventa così ancora più difficile.
«Nei villaggi più isolati», continua padre Matteo, «circolano informazioni come: “questo virus è un complotto degli europei per ucciderci, basta mangiare le foglie bollite di questa o quell’altra pianta, l’africano è forte e resiste ai microbi…”. Capisci che a volte dobbiamo essere molto duri, fare leva sulla nostra autorità di uomini di Dio e addirittura chiamare “emissario del demonio” chi diffonde simili informazioni, altrimenti rischiamo di rimanere inascoltati».
I problemi però non si limitano agli ostacoli alla diffusione di informazioni corrette. Si aggiungono anche la carenza di strutture sanitarie adeguate a gestire pazienti bisognosi di respirazione assistita – la terapia intensiva più vicina a Dianra si trova al Centre Hospitalier Universitarie (Chu) di Bouaké, a 250 chilometri – e un tessuto economico fragile. «Qui non ci sono ammortizzatori sociali, strumenti per iniettare liquidità nelle famiglie e nelle imprese: dire a una piccola imprenditrice “non uscire di casa, non andare più al mercato a vendere il bissap [bevanda a base di ibisco molto diffusa in Africa Occidentale, ndr]” significa metterla in condizione di non poter più garantire il sostentamento alla sua famiglia».
A marzo, il Centro di salute Joseph Allamano stava recependo le direttive del ministero della Sanità mettendo all’entrata e all’uscita di ogni reparto un dispositivo per lavarsi le mani. «Più complicato», constata padre Matteo, «sarà creare una zona dedicata per eventuali malati di Covid-19 che andrebbero isolati fuori dal complesso del Csja, in una struttura a parte».
Il personale del Centro aveva avviato la sensibilizzazione nei villaggi e presso i piccoli centri periferici della rete sanitaria già una settimana prima del primo caso riscontrato in Costa d’Avorio. Il dato positivo è che il Centro ha sempre potuto contare sulla piena collaborazione del direttore del dipartimento sanitario, molto dinamico e impegnato in prima persona a diffondere informazioni raggiungendo, in moto, i villaggi per sovrintendere o anche svolgere direttamente le attività di sensibilizzazione.
Dalla RD Congo
Padre Rinaldo Do, dalla parrocchia di Saint Hilaire a Kinshasa, riporta le difficoltà a rispettare le direttive del governo in un quartiere popoloso come quello dove lui vive. «Scuole e chiese sono chiuse e i ragazzi dovrebbero restare in casa. Ma questi giovani vivono in abitazioni dove ci sono a volte più di venti persone e non hanno computer, tv, libri a disposizione per fare i compiti o per passare il tempo. Per questo succede spesso di vederli fuori per strada, a giocare».
Dal Centre Hospitalier la Consolata nel quartiere di Bikiku, a Kinshasa, il responsabile, fratel Rombaut Ngaba Ndala, riferisce di
come sia in corso un intenso lavoro di sensibilizzazione per spiegare alle persone come comportarsi. «Ancora non si rendono conto», scrive il 25 marzo il missionario, «alcuni pensano basti prendere il Congo bololo, un’erba (la vernonia amygdalina) che di solito usano contro la malaria».
Radio Okapi, la radio a diffusione nazionale fondata nel 2002 dalle Nazioni unite e da una Ong svizzera, ha raccolto lo scorso 23 marzo alcune testimonianze da tutto il paese su come stava procedendo l’adeguamento alle istruzioni del governo.
Un ascoltatore da Bukavu, nella provincia orientale del Sud Kivu, riportava che le regole erano rispettate «al 70%» e segnalava l’arresto di un pastore di una delle cosiddette «chiese del risveglio» che aveva riunito i fedeli nonostante i divieti.
Un altro intervento da Kikwit, città del Congo centro occidentale, sottolineava il problema degli assembramenti – difficili da evitare – delle tante persone che dipendono dalle fontane e dai rubinetti pubblici per procurarsi l’acqua. L’ascoltatore lamentava, inoltre, che la recente esperienza dell’epidemia di ebola avrebbe dovuto educare la popolazione ma che questo era avvenuto solo in parte e invocava misure di legge più mirate per sanzionare chi non rispetta le indicazioni del governo.
Da Kisangani, città sul fiume Congo nel centro Nord del paese, un ascoltatore – con un’obiezione che si è peraltro rivelata dannosa in altri contesti colpiti dal virus – avanzava perplessità sull’estensione a tutto il paese di misure inizialmente prese per Kinshasa, dove erano stati individuati i primi casi, considerando che Kisangani non era ancora stata toccata dai contagi. Riferiva di prezzi al rialzo nei mercati e sosteneva che servisse più tempo per regolamentare gli aspetti economici prima di procedere a una chiusura più decisa delle attività, perché la gente rischia «di morire di fame, invece che di virus».
Il governatore del Nord Kivu, Carly Nzanzu, nel suo intervento alla trasmissione sottolineava l’importanza delle misure di sensibilizzazione comunitaria e sosteneva che era fondamentale «evitare l’ingresso della malattia». Portava poi l’attenzione su una particolare sfida che la RD Congo – come molti altri paesi africani – deve affrontare, quella dei trasporti in comune. Anche in Congo si è tentato di ridurre le presenze sui minibus, imponendo ad esempio che i mezzi da 16 posti portino al massimo dieci persone.
Un ultimo intervento, dalla produttiva Lubumbashi, nella provincia meridionale dell’Alto Katanga, sottolineava che «ci sono più misure che dispositivi», cioè che alle indicazioni sulla carta non sempre corrispondono i mezzi per realizzarle. A titolo di esempio, l’ascoltatore di Lubumbashi riportava il fatto che i casi positivi della città erano accolti in una struttura sanitaria dove però si trovavano già altri malati, non cioè in un una struttura dedicata così da assicurare l’isolamento@.
Da Ikonda, Tanzania
Padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, scrive che nonostante il numero di casi ancora basso – dodici al 25 marzo – c’è preoccupazione nel paese, dove il governo ha assunto misure molto simili a quelle degli altri esecutivi africani. «Qui in ospedale», precisa padre Marco, «abbiamo disposto all’ingresso luoghi per il lavaggio e disinfezione delle mani. Ai nostri lavoratori sono stati distribuiti flaconi di gel igienizzante e maschere. Abbiamo già sistemato un locale apposito per eventuali malati di Covid-19».
Da Tucupita, Venezuela
Padre Andrés Garcia Fernandez, che lavora a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, il 19 marzo invia aggiornamenti nei quali lamenta la scarsità di informazioni che arrivano nelle comunità più isolate, così che anche i comportamenti corretti da seguire per non contrarre il nuovo coronavirus non raggiungono tutta la popolazione. Vi è inoltre mancanza di controllo sull’applicazione effettiva delle misure preventive e i trafficanti della Guyana o di Trinidad che attraversavano i confini senza controllo (e ovviamente senza protezioni come mascherine o guanti) rischiano di contribuire ulteriormente a diffondere il virus, in un contesto nel quale i servizi sanitari sono già fortemente provati da lunghi mesi – ormai anni – di crisi politica ed emergenza umanitaria.
«A Nabasanuka», racconta padre Andrés, «passiamo le giornate piuttosto occupati a ricevere le persone che vengono a cercare farmaci, ami da pesca, cibo, quaderni, matite». Ma, conclude, «non abbiamo paracetamolo né niente che gli somigli in tutta la zona della nostra parrocchia».
Chiara Giovetti
Missionari della Consolata da 25 anni in Costa D’Avorio
Il logo del Giubileo è un Vangelo aperto.
Sempre e ovunque il punto di partenza e di arrivo della missione non può che essere il Vangelo – la vita e le parole, i gesti e le scelte di Gesù di Nazareth. La sua vita aperta e offerta è la ragione e il cuore amorevole di ogni annuncio vero, rinnovato e fecondo (cf. Evangelii Gaudium 11).
Dalle pagine stesse del Vangelo emergono visibilmente le parole ad gentes
che esprimono l’identità e la vocazione primaria della Chiesa (cf. Evangelii Nuntiandi 14) e della nostra famiglia religiosa missionaria (cf. Costituzioni IMC 5). Ci ricordano il significato carismatico del primo annuncio che abbiamo portato (cf. EG 164) e la particolare bussola vocazionale della nostra consacrazione per tutta la vita per la missione (cf. Cost. IMC 4).
Slogan.
Per rendere più dinamico questo anno di grazia, il logo è accompagnato da uno slogan. Sono parole piene di significato e di risonanza che provengono dal cuore appassionato di Paolo di Tarso: “Tutto per il Vangelo”. Si ispirano a 1 Cor 9,16-23, dove l’Apostolo delle genti afferma con fervore la centralità del suo impegno di evangelizzazione nella sua vita di discepolo-missionario di Gesù Cristo: “Sono diventato tutto per tutti”. Quanto zelo ci fanno vedere queste parole di fuoco…! Per noi Missionari della Consolata della Costa d’Avorio questo è sinonimo del nostro “ardente desiderio” di far conoscere Gesù (cf. Cost. IMC 18) e di lasciarci invadere e trasformare dal suo amore (cf. EG 178).
La Fiamma
Nel logo, al centro del Vangelo, c’è una grande fiamma, simbolo dello Spirito Santo, vero protagonista della missione della Chiesa (cf. Redemptoris Missio 21). “Ci vuole il fuoco per essere un apostolo”, ripeteva costantemente il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, ai missionari. Alludeva al fuoco dello Spirito che si traduce in segni e gesti di gratuità apostolica. È lo stesso fuoco dello Spirito che ci guida e ci accompagna nelle scelte fondamentali della vita e della missione con la sua presenza creativa (cf. EG 259).
Le Stelle
Questa fiamma è coronata da tre stelle che ci ricordano la nostra madre e fondatrice, la Madonna della Consolata (cf. Cost. IMC 2). Sono tre, come quelle della icona della Consolata, che saggiamente evocano la totale e perpetua verginità di Maria di Nazareth: prima, durante e dopo la nascita del nostro Salvatore (cf. Lc 1,34-37; Mt 1,18-25). La Vergine Maria è anche chiamata la stella dell’evangelizzazione e offre alla nostra spiritualità uno stile tipico e un “come” caratteristico (cf. LG 65) in cui sono sempre presenti tenerezza e affetto (cf. EG 288).
Il sole che sorge
Nella parte inferiore del logo, la presenza del sole che sorge (cf. Lc 1,78), mostra i nuovi giorni che ci attendono e verso i quali tutto quest’anno vuole muoverci e orientarci: la nostra primavera missionaria in Costa d’Avorio (cf. RM 86). Questi giorni saranno segnati dalla gratitudine per la nostra storia missionaria e per i confratelli che si sono succeduti fin dal primo giorno nel Bardot. Vediamo sorgere questo nuovo giorno su un orizzonte tanto straordinario quanto inaspettato, costruito sull’unità d’intenti. Inizia un nuovo giorno, un giorno ricevuto da te, Padre (cf. Inno delle Lodi, Liturgia delle Ore), che ci invita ad approfondire le sfide della missione di oggi con una fedeltà attiva e creativa dalla nostra luminosa storia evangelizzatrice.
I luoghi
Per valutare il cammino vissuto in questi primi 25 anni di consacrazione alla missione, abbiamo voluto presentare, in modo particolare, le diocesi ivoriane che ci hanno accolto e accettato. Da sinistra a destra, in ordine cronologico di arrivo nel paese, possiamo vedere una barca e un faro – mare e pesca – simboli della diocesi di San Pedro e punto di partenza della nostra consolante presenza. Segue una piccola casa e un granaio – famiglia e provvidenza – tradizionalmente riconosciuti nella cultura dei Senufo, seconda presenza consolatrice nella diocesi di Odienné. Infine, la cattedrale di Saint Paul si riferisce alla nostra terza presenza missionaria nell’arcidiocesi di Abidjan con la casa di formazione della Beata Irene Stefani – speranza e futuro – per tutto l’Istituto.
I colori
Infine, la tavolozza dei colori utilizzati (arancione, bianco, verde) si riferisce alla bandiera tricolore della Costa d’Avorio.
Protezione dell’ambiente: urgenza, non lusso
Presentazione di microprogetti MCO sull’ambiente di Chiara Giovetti |
Alcuni microprogetti del 2017 di Missioni Consolata Onlus hanno avuto come tema la protezione e la salvaguardia dell’ambiente. Ve ne raccontiamo due: uno nella Colombia che faticosamente cerca di liberarsi dal conflitto, e uno in Costa d’Avorio che, come molti paesi africani, ha dichiarato guerra ai sacchetti di plastica.
Ma la ricchezza che il porto genera per le casse nazionali non torna a Buenaventura sotto forma di servizi per i cittadini e la città è una delle più povere del paese. Nel 2014 Bbc Mundo l’ha descritta come la «nuova capitale colombiana dell’orrore». L’allora vescovo di Buenaventura, monsignor Hernán Epalza, ha raccontato all’emittente britannica: «È come se tutta la cattiveria della Colombia si fosse concentrata qui». L’articolo della Bbc descriveva una realtà in balia di gruppi armati paramilitari che si contendevano il controllo del narcotraffico e del contrabbando in un conflitto caratterizzato da episodi di violenza particolarmente efferata.
Nelle parole di Jaime Alves, ricercatore presso l’Universidad Ices de Cali e assistente di antropologia alla City University di New York, «in questo regime macabro la popolazione nera diventa materia prima non solo per il narcotraffico – che considera Buenaventura una rotta internazionale strategica e i giovani afro come manodopera usa-e-getta -, ma anche per la “guerra al sottosviluppo” del governo, per il quale la presenza nera in aree strategiche è un ostacolo da rimuovere»@. Nel maggio dell’anno scorso la società civile estenuata, stremata dal conflitto e dall’indifferenza che il governo mostrava nei confronti della situazione di Buenaventura, ha deciso di prendere posizione con il paro civico (sciopero civico)@.
Dopo ventuno giorni di proteste (e di blocco delle attività portuali, con i conseguenti danni economici), i leader del paro civico e il governo arrivarono a un accordo che prevedeva investimenti per realizzare opere prioritarie fra cui acquedotti, reti fognarie, unità di terapia intensiva della Ciudadela hospitalaria (cittadella ospedaliera).
A oggi, la situazione (circa l’ambiente) non si può dire significativamente migliorata. Come riferisce il presidente della Camera di commercio locale, Alexánder Micolta, al quotidiano El Tiempo, l’acqua è disponibile mediamente sette ore al giorno. La sicurezza «è migliorata, ma ci sono ancora bande criminali che continuano a far sparire le persone, anche se non si sente più parlare di casas de pique, le case dove le vittime del conflitto venivano letteralmente fatte a pezzi per farle sparire, e gli omicidi sono diminuiti»@.
È poi dello scorso febbraio la notizia dell’uccisione di Temístocles Machado Rentería, uno dei leader del paro civico, mentre gli altri leader ricevono continue minacce di morte@.
Il lavoro dei missionari per l’ambiente a Buenaventura
A Buenaventura i missionari della Consolata sono presenti dal 2016, in quella che nel 2017 è diventata la parrocchia di san Martín de Porres. Padre Lawrence Ssimbwa, ugandese, classe 1982, è il missionario responsabile delle attività. Riportando dati citati dal Cric – Consiglio Regionale Indigeno del Cauca -, padre Lawrence l’anno scorso scriveva: «La realtà di Buenaventura richiede un intervento immediato da parte dello stato. L’indice di disoccupazione è del 62% e il lavoro informale arriva al 90,3%, quello della povertà al 91% nelle zone rurali e al 64% in quelle urbane. (…) Di 407.539 abitanti, 162.512 sono vittime del conflitto armato».
Il corso di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente e le attività di pulizia del quartiere rientrano in una più ampia iniziativa di mobilitazione comunitaria che padre Lawrence sta portando avanti in parrocchia e che comprende anche, tra gli altri, corsi di formazione su diritti umani, identità culturale, arti e mestieri.
«Nei laboratori che abbiamo organizzato», scrive padre Lawrence, «abbiamo sensibilizzato circa 40 adulti, 60 bambini e una ventina di giovani, che hanno approfondito e discusso i problemi che si creano a causa dell’immondizia depositata nelle fognature e nei fiumi e dei roghi di pneumatici, fenomeni purtroppo frequenti nel quartiere».
Si sono poi realizzate quattro giornate di pulizia del quartiere e il risultato di questa attività è stato che alcuni membri della comunità si sono impegnati a organizzare mensilmente giornate di questo tipo (in favore dell’ambiente) per mantenere pulite le strade e le case in cui vivono.
Costa d’Avorio, la guerra contro la plastica
Dal 2013 in Costa d’Avorio (per proteggere l’ambiente, ndr) è vietato produrre, importare, commercializzare, detenere o utilizzare sacchetti di plastica che non siano biodegradabili. Il provvedimento, però, ha faticato e fatica parecchio a essere applicato. Una semplice visita al mercato di Abidjan, riportava Radio France International nel luglio 2017, mostrava chiaramente che la legge sulle buste di plastica era rimasta lettera morta, o quasi. «Sono i clienti che ci chiedono i sacchetti, vanno via come il pane!», spiegava una commerciante intervistata dall’emittente radiofonica francese. Riponendo la merce dentro buste biodegradabili, la signora commentava: «Sono i sacchetti di prima, salvo che sopra c’è scritto “biodegradabile”. Non c’è nulla per rimpiazzarli, eppure vogliono che smettiamo di usarli»@.
Nel marzo dell’anno scorso il governo è passato alle maniere forti, con il ministro della Salubrità, dell’Ambiente e dello Sviluppo sostenibile, signora Anne Désirée Ouloto, che ha accompagnato le forze dell’ordine nei controlli a sorpresa presso le aziende che ancora producono le buste incriminate. Durante le perquisizioni, riporta il sito abidjan.net, il ministro e il suo seguito hanno trovato due fabbriche clandestine di sacchetti di acqua (usati invece delle bottiglie), una con allacciamento abusivo alla rete idrica pubblica e l’altra dissimulata dall’insegna «Livia Couture» per far pensare a una sartoria@.
Quello dei sacchetti di plastica è solo uno dei problemi ambientali che la Costa d’Avorio deve affrontare. Il rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente del 2015, Côte d’Ivoire – Évaluation environnementale post-conflit, ha individuato alcuni ambiti ai quali occorre prestare particolare attenzione, e cioè le foreste, il cui livello di degradazione è definito «grave», la laguna di Ébrié, vicino alla capitale economica Abidjan, i rischi legati all’espansione urbana non pianificata, l’impatto ambientale dello sfruttamento minerario industriale e artigianale e il rischio di sversamento di idrocarburi sul litorale ivoriano@.
«Una delle attività che svolgiamo con i giovani e i bambini durante la semaine de la jeunesse (settimana dei giovani) qui a San Pedro», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, «è proprio quella della pulizia delle strade». Nel popoloso quartiere nel quale i missionari lavorano – abitato soprattutto da operai del porto, piccoli commercianti e contadini – le vie a lato della strada principale asfaltata sono sterrate e sabbiose e mancano delle canalette di drenaggio che permettono all’acqua piovana di defluire. E quando ci sono, i sacchetti, le bottiglie e altra immondizia, prevalentemente di plastica, non di rado finiscono per intasarle del tutto.
Proteggere l’ambiente a Dianrà
Il progetto di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente del 2017 però non si è svolto a San Pedro, bensì a Dianra, nel Nord del paese, dove la comunità Imc gestisce, fra l’altro, un centro di salute, un programma di alfabetizzazione degli adulti e un progetto di apicoltura. «Da qualche anno», scrivono i padri Raphael Ndirangu e Matteo Pettinari, «la nostra missione dispone di un terreno sul quale intendevamo creare uno spazio verde accogliente e ricco di vegetazione all’interno del villaggio. Fino ad oggi non abbiamo potuto concretizzare l’idea perché lo spazio non era protetto e ogni tentativo di piantare alberi è andato perduto a causa della libera circolazione di capre, buoi e anche persone. Queste ultime, non vedendo una valorizzazione effettiva del terreno, se ne sono a più riprese “appropriate” per le loro più diverse esigenze. Di fatto, a volte il nostro spazio è diventato anche una discarica a cielo aperto, invaso in particolar modo da rifiuti di plastica».
Con la prima fase del progetto «Proteggiamo il nostro spazio verde» è stato possibile ripulire, livellare e recintare il terreno. I passi successivi saranno quelli della piantumazione di alberi da frutto e piante ornamentali, della predisposizione di un campo da calcio, della installazione di panchine, altalene, scivoli e altri giochi.
«La nostra», aggiunge padre Matteo, «è una zona di frontiera fra il deserto che avanza e la foresta che scompare. Quest’anno ad aprile la gente si trovava in difficoltà già da un mese per mancanza di acqua: pozzi che erano stati sinora una riserva d’acqua abbastanza sicura, ora sono secchi, la stagione delle piogge si riduce e i raccolti ne risultano danneggiati». Ecco allora, conclude il missionario, che il Nord della Costa d’Avorio può essere una zona strategica per sensibilizzare e possibilmente reagire a questi cambiamenti. Un progetto come quello di Dianra, per quanto piccolo, può accompagnare la comunità nel prendere coscienza e nel cercare soluzioni.
Non si tratta del primo tentativo di creare uno spazio di questo tipo nelle missioni Imc in Costa d’Avorio: a fare da apripista è stato il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’Amicizia). Situato poco fuori dal villaggio di Marandallah – un paio d’ore di pista a Sud Est di Dianra – il giardino è stato a poco a poco creato grazie al lavoro di padre João Nascimento con la comunità. È diventato non solo un’occasione di sensibilizzazione alla protezione dell’ambiente ma anche uno spazio ricco di angoli quieti in mezzo al verde per la riflessione, la preghiera e il riposo. Molte manifestazioni comunitarie si sono svolte presso il Giardino dell’Amicizia, che si è rivelato un utile strumento per quel dialogo interreligioso che è elemento caratterizzante del lavoro dei missionari in questa zona del paese, dove il 72% della popolazione è musulmano, il 25% pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento.