Turismo e Covid-19, un’estate in salita

testo di Chiara Giovetti | foto simboliche del Kenya da AfMC |


La pandemia ha colpito molto duramente il settore del turismo e dei viaggi, in tutto il mondo. Mentre molti si chiedono se e come sarà possibile una ripresa e come cambierà il nostro modo di viaggiare, qualcuno insiste sull’importanza di usare questo momento per ripensare il turismo e renderlo più sostenibile.

Lo scorso giugno l’Organizzazione mondiale del Turismo (Unwto) ha pubblicato i dati sul turismo internazionale relativi ai mesi da gennaio ad aprile del 2020: rispetto all’anno precedente, i viaggi internazionali sono stati 180 milioni in meno, pari a un calo del 44 per cento in termini percentuali nel primo quadrimestre dell’anno.

Il dato più negativo si è registrato in aprile: meno 97 per cento. La perdita complessiva rispetto al 2019 negli introiti derivanti dal turismo – voce che rientra nelle esportazioni per il paese che riceve i turisti – è stata di 195 miliardi di dollari, con la regione Asia Pacifico capofila delle zone del pianeta più duramente colpite dalla diminuzione degli arrivi – meno 51 per cento -, seguita dall’Europa con il 44 per cento degli arrivi in meno, dal Medio Oriente (-40 per cento), dalle Americhe (-36 per cento) e dall’Africa (-35 per cento).

Alcuni timidi segnali di ripresa hanno cominciato a emergere a giugno, sempre a detta della Unwto, con l’avviarsi dell’emisfero Nord verso l’apice della stagione estiva e in seguito alla rimozione in diversi paesi delle limitazioni agli spostamenti e alla ripresa di voli internazionali@.

Occorrerà ovviamente aspettare la fine dell’anno per tracciare un quadro più solido, ma appare già piuttosto chiaro che si è interrotta l’espansione del settore turistico che da qualche anno sembrava inarrestabile – solo a gennaio le stime davano probabile una crescita del 3-4 per cento anche per il 2020 – e che secondo quanto riportato dal forum britannico World travel and tourism council (Wttc) aveva generato nel 2019 esportazioni per 1.700 miliardi di dollari e contribuito al Pil mondiale per il 10,3 per cento, pari a quasi novemila miliardi@.

A Bagamoyo, Tanzania, sull’Oceano Indiano

La perdita di posti di lavoro

L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), agenzia delle Nazioni unite con sede a Ginevra, ha quantificato in 305 milioni i lavoratori di tutti i settori che potrebbero perdere il proprio impiego a causa della pandemia@.

Di questi, molti sono proprio nel settore turistico, dal quale nel 2019 dipendevano 330 milioni di posti di lavoro, uno ogni dieci a livello mondiale: per ogni lavoro creato direttamente, il turismo ne generava quasi uno e mezzo in modo indiretto o nell’indotto. I sotto settori dell’ospitalità e dei servizi di ristorazione da soli impiegavano 144 milioni di lavoratori a livello mondiale, di cui 44 milioni erano lavoratori in proprio.

A fornire una stima più precisa sul numero di posti di lavoro a rischio è ancora il Wttc, che ha identificato lo scorso giugno tre possibili scenari@ a seconda della durata dei divieti di spostamento:

  • nello scenario peggiore, che ipotizza restrizioni per i viaggi a corto, medio e lungo raggio prolungate rispettivamente fino a settembre, ottobre e novembre, gli impieghi persi nel settore del turismo e dei viaggi arriverebbero a 197,5 milioni, con una diminuzione del Pil mondiale di 5.543 miliardi e un calo del 73 per cento negli arrivi internazionali.
  • Lo scenario base, che anticipa di tre mesi la rimozione delle restrizioni, stima invece in 121 milioni i lavoratori che perderebbero il posto, con una riduzione del Pil mondiale pari a 3.435 miliardi di dollari, oltre la metà degli arrivi internazionali in meno e arrivi nazionali ridotti di un terzo.
  • Lo scenario migliore, ipotizzando spostamenti possibili con un ulteriore mese di anticipo rispetto allo scenario base, parla di una perdita negli impieghi pari a 98 milioni, con 2.686 miliardi di dollari di Pil mondiale in meno, arrivi internazionali diminuiti del 41 per cento e arrivi nazionali ridotti di un quarto.

La maggior parte delle aziende turistiche, si legge ancora nel rapporto dell’Oil, sono micro, piccole e medie imprese con meno di cinquanta dipendenti; un terzo della forza lavoro totale è attivo in aziende che hanno fra i 2 e i 9 dipendenti, e tre aziende su cinque, attive nell’ospitalità o nei servizi di ristorazione, sono microimprese o addirittura singoli lavoratori in proprio.

Pur avendo un ruolo fondamentale nel creare impiego, in particolare nei paesi a medio e basso reddito, le piccole imprese hanno spesso difficoltà ad accedere al credito, hanno scarse risorse per far fronte a eventuali perdite e faticano a beneficiare di eventuali incentivi se questi non sono mirati a esse e congegnati per raggiungerle.

Il traghetto a Likoni, Mombasa, Kenya

La situazione nei Paesi meno sviluppati

All’inizio di luglio, i 47 paesi meno sviluppati secondo la classificazione delle Nazioni unite, contavano circa 280mila casi di Covid-19. Il paese più colpito era il Bangladesh, con oltre 155mila contagi e quasi 2mila decessi, mentre il Laos chiudeva la lista con 19 casi e nessuna vittima@.

Come riporta l’Enhanced integrated framework (Eif), programma di sviluppo globale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per i paesi meno sviluppati, il turismo rappresenta il 7 per cento delle esportazioni di questi stati.

Il ruolo del settore turistico è stato decisivo in passato per permettere a Capo Verde, Maldive e Samoa di migliorare le proprie condizioni al punto da uscire dal gruppo dei paesi meno sviluppati e unirsi a quelli con un grado di sviluppo più elevato.

L’Eif analizza la situazione zona per zona, e segnala per quanto riguarda il Pacifico che a complicare le cose si è aggiunto anche il ciclone Harold. Un paese come Vuanatu, in cui il turismo rappresenta un terzo del Pil, rischia di vedere la propria economia contrarsi del 13,5 per cento.

Quanto all’Africa, dove si trovano 33 dei 47 paesi presi in esame, il settore turistico e dei viaggi potrebbe perdere almeno 50 miliardi di dollari e almeno due milioni di posti di lavoro. La diminuzione dei viaggi aerei, inoltre, ha avuto un impatto anche sull’esportazione di prodotti, come i fiori recisi, che dipendono dallo spazio destinato al trasporto merci sui voli passeggeri.

Il Gambia, continua Eif, aveva perso di recente molti turisti a causa del fallimento del gruppo britannico Thomas Cook, mentre la Sierra Leone e l’Uganda stavano ancora affrontando le conseguenze dell’ebola. L’arrivo della pandemia in questi paesi già in difficoltà ha aggravato le cose.

Nel caso del Ruanda, dove il turismo – specialmente le attività legate al trekking e all’osservazione dei gorilla – rappresenta il 30 per cento dei ricavi delle esportazioni, il governo ha dovuto includere la chiusura dei parchi nazionali@ fra le misure adottate lo scorso marzo per limitare la diffusione del virus. I parchi hanno riaperto solo a metà giugno.

Vedutadel Monte Kenya

Prima adattarsi e poi ripartire

Aziende e operatori del settore turistico hanno dovuto immediatamente tentare di adattarsi alla nuova situazione e spesso lo hanno fatto riorientando su altri servizi le proprie competenze e attrezzature.

In Gambia, ad esempio, l’ente nazionale per il turismo ha collaborato con i gruppi di giovani che lavoravano come guide turistiche convertendoli in guide anti Covid e incaricandoli di percorrere i quartieri delle loro città per sensibilizzare i loro connazionali sui comportamenti da tenere per limitare la diffusione del contagio@.

A New York un’agenzia turistica gestita da un cittadino di origine cinese, Zhan Di, impegnata nel facilitare i viaggi dalla Cina agli Usa, ha utilizzato la propria piccola flotta di minibus turistici per il trasporto e la consegna dei prodotti venduti da Amazon@.

A Roma, Roberta d’Onofrio, che gestisce case vacanze attraverso la piattaforma Airbnb, ha proposto gli alloggi a persone in lavoro agile che avevano bisogno di un posto diverso sia dall’ufficio che dalla propria abitazione per lavorare durante i mesi delle restrizioni@.

Queste sono alcune delle strategie che hanno aiutato gli operatori del settore turistico a tenersi a galla, ma ora si pone la necessità di immaginare nuove configurazioni del modo di viaggiare e di alloggiare anche alla luce dei problemi causati dal turismo di massa che la pandemia ha messo in pausa ma che erano comunque lontani dall’essere risolti.

Competizione per fuoristrada nei dintorni di Nairobi, Kenya

Solo danneggiati o anche danneggiatori?

Lo scorso maggio, riporta il giornalista Christopher de Bellaigue sul Guardian, la Unwto ha avvertito che la crisi legata al coronavirus rischia di danneggiare il settore al punto che i progressi verso una maggior sostenibilità dei flussi turistici potrebbero non solo arrestarsi ma fare passi indietro. Dall’inizio della pandemia, ricorda il giornalista inglese, le compagnie aeree e quelle che vendono crociere hanno fatto una massiccia attività di lobbying chiedendo ai propri governi di concedere loro sgravi fiscali e di sacrificare le misure di tutela dell’ambiente a vantaggio di una più rapida e massiccia ripresa della mobilità@.

I danni del turismo di massa o comunque non sostenibile erano noti: «Dal carburante e particolati vomitati dalle moto d’acqua ai pesticidi che inzuppano i campi da golf, le innocenti evasioni dei vacanzieri somigliano all’ennesima botta inferta a questo povero vecchio pianeta. Ci sono poi il cibo abbandonato in frigo e gli agenti chimici usati per lavare le lenzuola dopo ogni singola nottata passata da un ospite in uno nei 7 milioni di alloggi Airbnb e il carburante cancerogeno bruciato dalle navi da crociera».

E, ancora, le emissioni di anidride carbonica, che – secondo uno studio del Nature climate change, la sezione della rivista Nature dedicata al cambiamento climatico -, sono aumentate fino a rappresentare circa l’8 per cento dell’impronta di carbonio a livello mondiale. Il grosso è dovuto ai viaggi aerei.

La crescita del settore turistico prima della pandemia stava rapidamente controbilanciando e superando gli effetti degli sforzi di decarbonizzare le proprie tecnologie.

Molti osservatori e operatori stanno constatando che la pandemia ci ha costretti a immaginare un turismo più sostenibile anche perché più locale.

Veduta del Monte Kilimanjaro dal Kenya

Paesi come il Kenya, il cui turismo è legato ai parchi naturali e agli animali selvatici dipendono in maniera quasi esclusiva da ricchi visitatori occidentali. Tali paesi hanno toccato con mano come l’interruzione dei viaggi metta a repentaglio non solo i posti di lavoro nel settore ma anche le aree protette e la loro fauna, che dagli introiti provenienti dal turismo dipendono per essere difesi dagli attacchi dei cacciatori di frodo e anche dal rischio che le riserve siano convertite in terreni agricoli.

In aprile, il ministro keniano del turismo Najib Balala invocava un cambio di paradigma che favorisca il turismo interno al Kenya e panafricano: «Non possiamo più permetterci di aspettare che arrivino i turisti internazionali. Se cominciamo ora, in cinque anni riusciremo a diventare resilienti rispetto a qualunque shock, compresi i disincentivi agli spostamenti imposti dai paesi occidentali».

Qualcuno, conclude de Bellaigue sul Guardian, ha già iniziato: il consiglio comunale di Barcellona, ad esempio, si è riappropriato di alcune parti della città prima abbandonate al turismo selvaggio, mentre il governatore di East Nusa Tenggara (Isole della Sonda), in Indonesia, aveva almeno tentato di limitare i flussi turistici alzando i prezzi per l’accesso al parco naturale dove vivono i draghi di Komodo, decimati dalla presenza massiccia di turisti che disturbava l’accoppiamento dei rettili, dalla caccia di frodo che privava gli animali della loro fonte di cibo e dal disboscamento che aveva distrutto il loro habitat.

La pressione delle compagnie che organizzano immersioni subacquee, degli hotel e dei ristoranti dell’area aveva spinto il governo a scavalcare la decisione del governatore e ripristinare l’accesso di massa al parco naturale. Ora la pandemia, in seguito alla quale entrare nell’area protetta è vietato a tutti tranne che alle comunità di pescatori che vivono nella zona, ha paradossalmente rimesso la palla al centro.

Chiara Giovetti

Il Fort Jesus a Mombasa, Kenya




Sicurezza e cooperazione, facciamo chiarezza

testo di Chiara Giovetti |


A ogni rapimento di personale delle organizzazioni non profit sul campo riemergono una serie di pregiudizi o semplicemente di luoghi comuni legati alla scarsa informazione su un mestiere, quello del cooperante, che in Italia fatica a essere considerato un lavoro vero.

«Alla fine, con i militanti eravamo diventati amici@». Non sono parole di Silvia Romano, la ragazza milanese rapita in Kenya nel novembre del 2018 e liberata nel maggio del 2020 dopo essere stata per 18 mesi prigioniera dei terroristi somali di Al Shabaab, ma quelle – riportate dall’agenzia Adnkronos – di Cosma Russo, dipendente Agip rapito dai ribelli del Movimento per l’emancipazione del delta del Niger (Mend) in Nigeria nel dicembre 2006 insieme ai colleghi Francesco Arena e Roberto Dieghi.

Cosma Russo e Francesco Arena, rapiti in Nigeria

«Torneresti laggiù?»

Quel sequestro si concluse con la liberazione degli ostaggi: il Mend decise di lasciar andare Dieghi nel gennaio del 2007 a causa delle sue condizioni di salute non buone, mentre Arena e Russo furono liberati due mesi dopo, in marzo. Il quotidiano La Repubblica riportando le parole della moglie di Arena ipotizzò che fosse stato pagato un riscatto, ma Eni, il gruppo di cui Agip fa parte, ha sempre smentito con forza.

In una intervista a un giornale on line, Girodivite, Francesco Arena si era detto pronto a ripartire non appena l’azienda gli avesse comunicato la sua nuova destinazione, aggiungendo di non essere interessato a lavorare al petrolchimico di Gela, la sua città d’origine, dove si sarebbe sentito più recluso che nella giungla@.

Il sequestro e la sua conclusione furono seguiti dai media italiani: Stefano Liberti del Manifesto riuscì anche ad andare a intervistare Arena e Russo durante la prigionia e al momento della liberazione erano presenti le telecamere delle Iene e il giornalista Massimo Alberizzi@. Ma la vicenda, una volta terminata con il rilascio, non ebbe lunghi strascichi di polemiche, di discussioni nei talk show e di particolari approfondimenti sui giornali. Nessun commentatore all’epoca accusò i rapiti di essere in combutta con i rapitori per aver detto di questi ultimi che erano stati gentili, né mise in discussione il fatto che un tecnico di un’azienda petrolifera potesse tornare a fare il proprio lavoro in aree pericolose.

Tre anni prima, Simona Pari e Simona Torretta, cooperanti della Ong Un Ponte Per…, rapite a Baghdad da un gruppo di uomini armati che si definivano «Seguaci di Al-Zahawiri», e rilasciate dopo tre settimane, erano state duramente criticate per l’abito tradizionale iracheno che indossavano al loro rientro in Italia, dopo la liberazione, e per aver dichiarato che speravano di poter tornare in Iraq a lavorare@. Il quotidiano Libero le definì «vispe terese», diversi commentatori le accusarono di essere delle ingrate@ e nacque un dibattito – abbastanza scomposto e basato su notizie false – sugli stipendi dei cooperanti@.

Simona Pari e Simona Torretta, rapite in Iraq

Triste copione

A ogni sequestro di operatori della cooperazione si ripete in modo abbastanza simile questo stesso copione: i rapiti vengono accusati di leggerezza, di irresponsabilità o addirittura di connivenza. Se, poi, un sequestrato, una volta libero, dichiara di voler ripartire, questa sua volontà viene vista come un capriccio o addirittura come una provocazione. La stessa intenzione di tornare a fare il proprio lavoro anche in aree a rischio, se è manifestata da un ingegnere dell’Agip, viene invece a malapena commentata.

L’impressione è che molta parte dell’opinione pubblica italiana non veda la cooperazione come una professione, ma come un’attività che c’entra più con il fare del bene a tempo perso. Il fatto che nei dibattiti, sui social come in Tv, questa visione venga contrastata opponendole quella agli antipodi – la retorica della meglio gioventù, dell’Italia migliore, dell’eroismo, del sacrificio, eccetera – non solo complica un dialogo già difficile. ma impedisce alla cooperazione di acquisire il semplice, legittimo. status di lavoro a tutti gli effetti. Non un avventuroso passatempo, né un immolarsi alla causa degli ultimi: un lavoro.

Greta Ramelli (C) e Vanessa Marzullo, rapite in Siria / ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Cooperanti

I cooperanti sono le persone che lavorano per le organizzazioni che fanno cooperazione internazionale per lo sviluppo. Questa cooperazione è un ambito ben preciso, regolamentato da leggi dello stato – la più rilevante delle quali è la legge 125 del 2014 – e presente anche nel nome del ministero che contribuisce a regolarla e gestirla, il Maeci, cioè il ministero per gli Affari esteri e la Cooperazione internazionale. L’altro ente che la regola è l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, Aics, che fra le altre cose tiene l’elenco di quelle che agenzia e ministero riconoscono come organizzazioni in possesso dei requisiti per svolgere attività di cooperazione e per gestire fondi pubblici. Prima della legge 125 si chiamavano Ong, organizzazioni non governative, oggi ci si riferisce a loro con l’acronimo Osc, organizzazioni della società civile, anche se di fatto l’espressione Ong è tuttora di uso comune.

È bene ribadirlo: Africa Milele, l’organizzazione con cui Silvia Romano ha lavorato a Chakama, in Kenya, così come Horryati, l’associazione con cui collaboravano Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite e poi rilasciate in Siria nel 2015, non sono Ong (o Osc) e non hanno un riconoscimento ufficiale da parte del Maeci. Nessuna delle tre ragazze all’epoca del rapimento era, quindi, una cooperante. Un Ponte per…, l’organizzazione di Simona Pari e Simona Torretta, invece è una Ong, così come lo è il Cisp, per cui lavorava nel Sahara occidentale Rossella Urru, rapita insieme a due colleghi nell’ottobre del 2011 e liberata nel luglio del 2012. Care International, l’organizzazione cui apparteneva Clementina Cantoni – sequestrata e poi liberata a Kabul nel 2005 – è una Ong internazionale (per la precisione una famiglia di Ong nazionali fra loro confederate) ma non ha una «filiale» italiana.

Tutto questo significa che le organizzazioni al di fuori dalla lista dell’Aics siano amatoriali e poco serie? No, o almeno non per forza. Ma chiamare cooperante chiunque si trovi in paesi a medio o basso reddito a svolgere attività nell’ambito sociale crea solo ulteriore confusione.

Rossella Urru rapita nel Sahara occidentale.

E volontari

I volontari sono un’altra categoria ancora: possono essere persone che operano in progetti di cooperazione nell’ambito del servizio civile internazionale – e in questo caso percepiscono un assegno di 439 euro mensili più un’indennità giornaliera che va dai 13 a i 15 euro a seconda dell’area geografica in cui si svolge il servizio@ – o persone non in servizio civile ma comunque impiegate dalle Osc nell’ambito di un progetto di cooperazione insieme ai cooperanti. Un decreto interministeriale del 2015 fissa la retribuzione mensile per i cooperanti a 1.519,67 euro, e per i volontari in 849,40 euro@.

Per tutto questo personale, la sicurezza sul campo e gli obblighi assicurativi sono stabiliti chiaramente per legge e per contratto.

La parola «volontario» si usa comunemente anche per definire tutti quelli che passano un periodo sul campo – a volte a proprie spese, altre godendo di vitto, alloggio e un minimo di rimborso – per svolgere delle attività che possono o no avere la forma di progetto o semplicemente per conoscere il paese ospitante. È il caso dei campi di lavoro offerti da congregazioni religiose o da associazioni di vario tipo e dimensioni, che di solito prevedono itinerari e attività chiaramente definiti, condizioni di sicurezza adeguate e una copertura assicurativa@.

Argentina 2018 foto del gruuppo dei volontari polacchi con padre Juan Araya / © Imc Polonia

Regole chiare per la sicurezza

Vi è, inoltre, un mondo di piccole associazioni che operano in modo meno rigoroso, come ha sottolineato su vita.it la deputata Lia Quartapelle, intervenendo nel dibattito sulla sicurezza di cooperanti e volontari@: «Purtroppo però nei Pvs operano non solo Ong con una professionalità consolidata, ma anche tante associazioni, anche molto casalinghe, come sembra essere l’associazione Africa Milele con cui era partita Silvia, che stanno in piedi con la logica del volontarismo e della buona volontà».

Quartapelle, poi, allarga il ragionamento oltre il contesto delle Ong: «Giulio [Regeni] era legato a una università straniera; Greta [Ramelli] e Vanessa [Marzullo] sono partite con un biglietto low-cost e una borsa piena di medicine comprate con soldi raccolti attraverso una colletta. [Luca] Tacchetto era in vacanza, appoggiato alla famiglia della sua fidanzata. Gabriele Del Grande era entrato in Turchia per fare il giornalista con un visto turistico, in quella che è la dura gavetta dei freelance-attivisti». «I soggetti che inviano persone in contesti di rischio», dice la deputata, «devono essere legalmente responsabili per la loro sicurezza»: le Ong sono responsabili del personale che inviano in quanto datori di lavoro, mentre le università, le associazioni e i giornali «non lo sono. Ma devono diventarlo».

«Vanno a cercare se stessi»

Non c’è, nel nostro paese, la cultura del gap year, dell’anno sabbatico, molto diffusa invece nel mondo anglosassone, per cui non solo è normale ma è anche visto generalmente di buon occhio che un ragazzo, appena finito il college o l’università, si prenda un anno per viaggiare, provare diversi lavori, fare volontariato e, in definitiva, farsi un’idea più concreta e realistica di quello che vuole sia il passo successivo nella sua vita.

Forse è anche per la mancanza di questa consuetudine che in Italia sono in molti a liquidare le partenze dei giovani verso paesi del sud del mondo come un non meglio definito, astratto e idealistico viaggio alla ricerca di se stessi. Può esserci del vero in questa lettura, ma non è la sola possibile: un periodo all’estero fa anche curriculum. Che intenda perseguire una carriera nella cooperazione o voglia far valere l’esperienza all’estero in altri ambiti lavorativi, chi include nel proprio profilo un’esperienza di volontariato in Africa, Asia, America Latina, lo fa anche per dimostrare che è in grado di usare una lingua straniera, che è incline a confrontarsi con culture e condizioni diverse da quelle di provenienza e, probabilmente, che è indipendente, capace di informarsi e organizzarsi. Questi sono requisiti che anche nel mercato del lavoro italiano pare comincino ad acquisire più interesse di un tempo@.

Etiopia 2017 Roksana, volontaria polacca, insegna matematica a scuola / © Imc Polonia

«Si può fare del bene anche nel proprio quartiere»

Chi identifica la cooperazione con l’idea di fare del bene non perde occasione, ad ogni rapimento o incidente che coinvolge personale sul campo, per commentare che il bene si può fare anche in Italia.

Ancora una volta, c’è del vero ma non è questo il punto. In un mondo nel quale le persone vanno in vacanza sulle coste italiane ma anche a Zanzibar e in cui le aziende commerciano con altre regioni del proprio paese ma anche con il Vietnam, anche i professionisti del settore sociale possono lavorare nelle periferie abbandonate delle città italiane quanto nelle aree remote dei paesi a basso reddito.

Un cooperante, in definitiva, è un professionista che decide di mettere le proprie competenze in un settore al servizio (stipendiato, certo) di un progetto di cooperazione in un paese che non è il suo, magari dopo aver lavorato nello stesso settore in patria e tornando a farlo alla fine del periodo passato all’estero.

Oggi ci sono anche decine di master universitari che contribuiscono a formare figure professionali con le competenze specifiche del cooperante, ma quello nella cooperazione era un lavoro anche prima dell’avvento di questi master e prima dell’introduzione stessa della parola «cooperante».

L’ambito sanitario ne è un esempio molto chiaro – sono decine, probabilmente centinaia, i medici attivi negli ospedali italiani che si sono impegnati e si impegnano tuttora in progetti di cooperazione sul campo – ma non è il solo. Ingegneri, amministratori, interpreti, giornalisti, contabili sono solo alcuni dei profili professionali che non di rado passano più volte nel corso della carriera da un impiego in un’azienda privata o nel settore pubblico a un lavoro nella cooperazione.

Chiara Giovetti

Bambino dell’Ufariji a Nairobi, Kenya, con Liliana Valle / foto di Liliana Valle




Cooperazione e Covid-19, un primo punto sulla situazione

testo di Chiara Giovetti |


Il 5×1000, gli effetti sulle donazioni, le richieste del terzo settore al governo, le attività delle Ong in Italia e all’estero nel contrastare il Covid-19: una prima ricostruzione a tre mesi dall’inizio delle restrizioni.

Il 4 aprile 2020 l’Agenzia delle entrate ha pubblicato gli elenchi della destinazione del 5×1000 relativo all’anno fiscale 2018@. Gli 8.029 comuni e i quasi 57mila enti (volontariato, ricerca sanitaria e scientifica, associazioni sportive dilettantistiche, beni culturali e paesaggistici ed enti gestori delle aree protette) che partecipano alla ripartizione si divideranno un totale di 495 milioni di euro, secondo le scelte di 14.227.193 contribuenti che hanno optato per un’organizzazione o un ente precisi indicandone il codice fiscale, più altre 2.250.352 persone che hanno dato la preferenza soltanto alla categoria.

Circa tre scelte su quattro sono andate a enti del volontariato che sono in totale oltre 46 mila. Di questi, oltre 1.500 non hanno avuto nemmeno una firma e circa 2.500 riceveranno meno di cento euro: dal minimo di 1,47 euro del Consorzio sviluppo ambiente società cooperativa sociale di Roma, ai 99,94 euro dell’associazione il Sentiero onlus di Trento.

Al primo posto si conferma l’Airc, Associazione italiana per la ricerca sul cancro, alla quale le firme di quasi un milione e settecentomila contribuenti hanno portato 47 milioni di euro, che arrivano a 65 milioni totali per effetto della ripartizione proporzionale. Segue Emergency, con oltre 314mila firme e più di 11 milioni, in totale. Fino alla settima posizione, i beneficiari sono gli stessi dell’anno precedente, mentre all’ottavo e nono posto ci sono la Lega del Filo d’Oro e l’ospedale pediatrico Meyer di Firenze – che nel 2017 erano rispettivamente al nono e all’undicesimo posto -, mentre Unicef scende di due caselle collocandosi al decimo posto.

Al di là della posizione, se guardiamo gli importi raccolti dai primi dieci beneficiari, notiamo che le Ong Emergency, Medici Senza Frontiere e il Comitato italiano per l’Unicef, perdono complessivamente oltre 87mila preferenze e 3 milioni 250mila euro rispetto all’anno precedente.

Le difficoltà prima del Covid-19

Info-cooperazione, il blog di riferimento per chi opera nella cooperazione allo sviluppo, ha estratto dalla lista complessiva dell’Agenzia delle entrate i dati relativi a sessanta Ong@ per valutare meglio com’è andata per il settore, anche in prospettiva pluriennale. Il risultato dell’analisi è che le organizzazioni non governative prese in esame hanno ottenuto nel complesso circa 35 milioni di euro, ma solo 12 su sessanta hanno registrato un aumento rispetto all’anno precedente. La variazione fra il 2017 e il 2018 è negativa, con 88mila persone che hanno tolto la preferenza a queste Ong. Info-cooperazione propone una lettura abbastanza netta delle cause: «Inutile dire», si legge nell’articolo, «che uno dei fattori determinanti di questa flessione è la campagna mediatica e politica diffamatoria che le Ong stanno subendo da ormai tre anni. Il 2018 rappresenta sicuramente l’anno in cui lo scontro sulla questione migranti e salvataggi in mare ha toccato il suo apice».

Gli effetti della riduzione del sostegno popolare alle Ong avvenuta nel 2018 sono arrivati in un momento in cui la cooperazione allo sviluppo aveva già registrato un calo nei fondi messi a disposizione dalla legge di stabilità dell’anno precedente. Secondo una rielaborazione dei dati dell’Ocse realizzata dal network di Ong Cini e pubblicata dalla rivista Vita.it@, gli stanziamenti sono aumentati fra il 2015 e il 2017 ma la progressione si è fermata nel 2018. Secondo il Cini, nel 2019 l’aiuto si è svuotato ancora se si guarda alla composizione degli stanziamenti dell’Aiuto pubblico allo sviluppo italiano: dei circa 4,97 miliardi destinati nel 2019, oltre metà andavano al cosiddetto canale multilaterale, cioè servivano a onorare gli impegni presi dall’Italia con l’Unione Europea o con organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e le sue agenzie per finanziarne programmi e interventi. Un terzo delle risorse andavano poi a quella parte di cooperazione bilaterale rappresentata dall’aiuto ai rifugiati in Italia e solo un 12% restava a disposizione di interventi di cooperazione allo sviluppo o di assistenza tecnica nei paesi partner.

L’arrivo del coronavirus e il Terzo Settore

Lo scorso 17 aprile l’Istituto italiano della Donazione ha diffuso i risultati di un primo monitoraggio dell’impatto della pandemia sulle donazioni di oltre 130 organizzazioni non profit nel primo trimestre 2020@. L’81% degli intervistati ha detto di ritenere che l’attuale emergenza abbia avuto un impatto sulle donazioni, mentre secondo il 9,5% non c’è stato nessun impatto e un altro 9,5% ha risposto di non saperlo ancora.

Fra chi ritiene che la raccolta fondi abbia subito modifiche a causa dell’emergenza, l’87,3% dice di aver ricevuto meno donazioni e il 12,7% di avere viceversa raccolto di più.

Guardando ai singoli settori, le organizzazioni che fanno cooperazione – circa il 15% del campione, cioè una ventina – hanno risposto di aver registrato un calo di donazioni nel 100% dei casi; le organizzazioni che si occupano di salute, sanità e ricerca hanno registrato una diminuzione dei fondi in nove casi su dieci, mentre una ogni dieci ha visto aumentare la raccolta. I dati sono simili per gli enti che lavorano nell’ambito dell’emarginazione, dell’assistenza e della cultura (91,90% di calo e 8,10% di aumento) mentre le fondazioni di comunità – cioè quegli enti non profit che nascono per rispondere a bisogni specifici di una comunità locale – sono decisamente in controtendenza: l’83,3% ha visto un incremento a fronte di un 16,7% che ha visto restringersi le proprie entrate per donazioni.

Sul totale del campione, a segnalare un calo del 100% è un po’ più di una su dieci organizzazioni interpellate, mentre un po’ meno di una su dieci riferisce una diminuzione dell’80%.

La conferenza stampa di presentazione del monitoraggio ha visto anche la diffusione di uno studio realizzato fra il 20 e il 24 marzo su un campione di 1.003 intervistati dall’istituto specializzato in sondaggi d’opinione Bva-Doxa, secondo il quale «il 24% della popolazione Italiana dichiara di avere fatto una donazione dall’avvio dell’emergenza coronavirus mirata all’ambito sanitario e ospedaliero».

Le richieste del Terzo Settore

Nel corso della stessa conferenza stampa Claudia Fiaschi, portavoce del Forum nazionale del Terzo settore, ha sottolineato come gli enti del terzo settore italiano abbiano dato prova, in questa emergenza, di una grande capacità di riadattarsi e di riorientare risorse e volontari sulle attività di contrasto alla epidemia e ai suoi effetti.

Tuttavia, ha continuato Fiaschi, il Terzo settore ha fatto tutto questo non senza difficoltà: «Chiaramente il Terzo settore è preoccupato. Arriveremo alla fine dell’emergenza con i serbatoi vuoti, perché quasi tutti gli enti lavoreranno senza flussi di donazioni. Avremo forse molti volontari, ma non è detto che avremo quelle organizzazioni che li organizzavano e ne rendevano così efficace ed efficiente l’impatto». Per questo la richiesta al governo è di prevedere anche per il Terzo settore tutto, non solo quello in forma di impresa sociale ma anche quello non commerciale, delle misure di sostegno al credito e alla liquidità.

L’anticipo dell’erogazione del 5×1000 è un’altra delle richieste avanzate dal Terzo settore nelle settimane successive alla diffusione del coronavirus Sars-Cov-2 e della malattia Covid-19. Diverse organizzazioni hanno infatti chiesto al governo di sborsare entro giugno non solo i fondi del 5×1000 relativi all’anno fiscale 2018 ma anche quelli del 2019, per un totale di circa un miliardo di euro già previsto nel bilancio dello stato.

Nell’iter finora seguito, infatti, il 5×1000 arriva nelle casse degli enti e organizzazioni beneficiarie due anni dopo rispetto a quando il contribuente ha fatto la propria scelta nella dichiarazione dei redditi (quindi nel 2020 arrivano i soldi del 2018). L’Agenzia delle entrate pubblica le liste dei beneficiari – quanto va a chi – di solito fra marzo e aprile e la liquidazione dei contributi arriva entro fine estate; ora le organizzazioni beneficiarie hanno chiesto e ottenuto di anticipare i tempi non solo per l’esborso dei fondi di quest’anno, ma anche dell’anno prossimo e per l’approvazione del decreto che riordini la disciplina del 5×1000 e ne snellisca appunto tempi e modalità di erogazione.

Che cosa stanno facendo le Ong

Diverse Ong di ambito sanitario si sono attivate per dare il proprio contributo alla lotta alla pandemia non solo nei paesi nei quali lavorano ma anche in Italia: solo per citarne alcune, Medici con l’Africa Cuamm che ha donato un respiratore e altra attrezzatura medica all’ospedale Covid di Schiavonia, in provincia di Padova@; Medici senza frontiere ha, fra le altre cose, contribuito alla messa in sicurezza di diverse Rsa delle Marche e messo a disposizione degli ospedali del lodigiano i propri team di medici per attività di formazione, telemedicina e prevenzione@ Emergency contribuisce con l’ospedale da campo a Bergamo e il progetto Domiciliarità all’interno di Milano Aiuta, rete di servizi – ad esempio il trasporto di beni di prima necessità per anziani o persone in quarantena – che il comune di Milano ha messo in piedi per affrontare l’emergenza.

Altre Ong sono invece impegnate in programmi di formazione, assistenza psicologica, facilitazione dello studio a distanza e altre attività nell’ambito sociale: l’Associazione delle Ong italiane (Aoi) ha raccolto sul proprio sito tutte le iniziative portate avanti in Italia e nel mondo dai propri soci@.

Anche nel mondo delle organizzazioni della cooperazione allo sviluppo c’è preoccupazione per la riduzione delle risorse: le reti di rappresentanza delle Ong (Aoi, Cini e Link 2007) hanno avanzato una serie di proposte@  dirette all’Agenzia italiana per la Cooperazione per garantire lo svolgimento dei progetti già in corso, come l’incremento fino al 30% dei contributi alle iniziative già approvate, e per sostenere le organizzazioni, ad esempio non richiedendo la quota di cofinanziamento dei progetti.

Le Ong stanno comunque tentando di usare questo momento per una riflessione sul proprio ruolo, come testimonia il dibattito in videoconferenza del 22 aprile 2020@ fra Monica Di Sisto dell’associazione Fairwatch, Massimo Pallottino, capo del desk Asia Oceania di Caritas Italiana e portavoce della Coalizione Italiana contro la Povertà – Gcap, e Francesco Petrelli di Oxfam Italia e portavoce di Concord Italia, piattaforma italiana della rete di Ong in Europa per lo sviluppo e l’emergenza.

Massimo Pallottino ha evidenziato, in particolare, la necessità di resistere alla tentazione di comportarsi come se si trattasse di un’emergenza come le altre, solo un po’ più grave: «Siamo in un vero e proprio tornante della storia», ha detto Pallottino, invitando poi a concentrarsi su quattro sfide in particolare, derivanti dagli effetti della crisi su diseguaglianze e povertà, sull’ambiente, sulla democrazia e sul rischio di un possibile rafforzamento dei sovranismi.

Francesco Petrelli ha segnalato che nei prossimi due, tre mesi ci si aspettano perdite in redditi da lavoro pari a 3.400 miliardi di dollari a livello globale e che mezzo miliardo di persone (l’8% della popolazione mondiale) rischia di venire spinta sotto la soglia di povertà@. Dei due miliardi di persone che lavorano nell’economia informale, solo una su cinque ha accesso a qualche forma di sussidio. «C’è bisogno nuovamente di una vera stagione di efficaci politiche pubbliche» e di riconoscimento del ruolo dellostato, ai cui servizi – come il sistema sanitario pubblico – ci siamo rivolti in un momento di emergenza come questo.

Monica Di Sisto rilevava poi come «in tutti i paesi d’Europa si ascoltino, in consessi pubblici e trasparenti, i responsabili e rappresentanti della società civile  per discutere sul che fare, mentre in Italia questo non succede».

Chiara Giovetti




Qual buon «Venti»

testo di Chiara Giovetti |


Nel 2020 arrivano a scadenza o vengono lanciate diverse iniziative internazionali che riguardano lo sviluppo, l’ambiente, il clima. È anche l’anno internazionale delle piante e di un importante compleanno dell’Onu.

Nel 2020 le Nazioni unite compiranno tre quarti di secolo. L’Onu nacque infatti ufficialmente 75 anni fa, il 24 ottobre 1945, con l’entrata in vigore della «Carta delle Nazioni unite», il suo trattato fondativo.

Per celebrare la ricorrenza, ha annunciato il segretario generale António Guterres, l’Onu lancerà un dibattito che si chiamerà Un75@ e sarà «la più ampia e approfondita conversazione globale mai realizzata sulla costruzione del futuro che vogliamo». Tutti possono partecipare, si legge sul sito, in modo formale o informale, online o no.

Nel contempo saranno condotti sondaggi di opinione e analisi dei mezzi di comunicazione a livello globale, così da ottenere dati statisticamente significativi per diffonderli e portarli all’attenzione dei leader mondiali.

Fra le questioni più urgenti che il dibattito affronterà vi sono le nuove tecnologie con tutte le loro opportunità e i pericoli, il modo in cui si sono evoluti i conflitti e come affrontarli, l’aumento delle diseguaglianze e la necessità di chiudere la forbice, i cambiamenti demografici – con un pianeta che si prepara a passare dagli attuali 7,7 miliardi di abitanti ai 9,7 del 2050 – e il cambiamento climatico.

Le scadenze

Il programma che contiene in 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (in inglese Sustainable development goals, o Sdg) ha come orizzonte temporale il 2030@.

Per capirci: sarà nel 2030 che il mondo potrà fare una valutazione sul raggiungimento degli obiettivi come si fece nel 2015 per gli Mdg (Millennium development goals, obiettivi del millennio). Tuttavia, ventuno sotto obiettivi, su 169, hanno come scadenza il 2020 (vedi i due box). Di questi, dodici riguardano la biodiversità e sappiamo già che non saranno raggiunti.

Secondo un rapporto del Wwf@, questi dodici obiettivi sono cruciali per il complessivo successo degli Sdg perché riguardano il mantenimento e il ripristino di risorse naturali da cui l’umanità dipende per sopravvivere. Ogni anno, si legge nel rapporto, gli ecosistemi forniscono all’economia globale un valore pari a 125 mila miliardi – una volta e mezzo il Pil del pianeta – sotto forma di acqua potabile, cibo, aria, assorbimento del calore, suoli produttivi, foreste e oceani che assorbono anidride carbonica. Proteggere l’ambiente e ristabilire le risorse naturali, quindi è – letteralmente – una questione vitale. Il cambiamento climatico è poi un altro tema centrale del nostro tempo e promette di prendere quest’anno ancora più spazio. È vero che il mondo si è dato tempo fino al 2030 per realizzare un taglio del 45% delle emissioni di anidride carbonica, necessario per contenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo in questo secolo. Ma, fa presente Mission 2020, il gruppo di pressione guidato dalla ex segretaria esecutiva della «Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici», Christiana Figueres, se nel 2020 si riuscisse davvero a bloccare il picco delle emissioni (e cominciare quindi a ridurle) questo renderebbe il meno costosa possibile la transizione verso un’economia libera dai combustibili fossili entro il 2050@.

Sempre a proposito dell’impegno per affrontare il cambiamento climatico, alla fine di quest’anno si svolgerà a Glasgow la ventiseiesima conferenza delle parti firmatarie della «Convenzione quadro», o Cop26, che sarà probabilmente la più importante dopo quella del 2015, durante la quale 195 paesi firmarono l’«accordo di Parigi» con il suo piano di azione per mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C. Dal momento che gli impegni presi a Parigi si sono rivelati insufficienti per ottenere il risultato, scrivono gli studiosi dell’Hoffman centre, centro di ricerca della prestigiosa Chatam house, la Cop26 sarà il primo momento di revisione e l’occasione per assumersi nuovi e più ambiziosi impegni@.

L’Unione europea e Horizon 2020

Si conclude con quest’anno anche il programma Horizon 2020, il più ampio programma mai lanciato dall’Unione europea nel settore della ricerca e dell’innovazione. Realizzato negli anni dal 2014 al 2020, ha messo a disposizione circa 80 miliardi di euro «con lo scopo di assicurare che l’Europa produca scienza di livello mondiale, rimuova le barriere all’innovazione e renda più facile la collaborazione fra settore pubblico e privato nel fare innovazione».

Horizon 2020 ha avuto anche una componente legata alla cooperazione internazionale che si è rivolta a paesi in via di sviluppo. Ad esempio, l’Ue ha finanziato partner appartenenti all’Unione africana con quasi 124 milioni di euro (meno dello 0,02% del totale) e i paesi più attivi sono stati Sudafrica, Kenya, Marocco, Tunisia ed Egitto.

Un esempio concreto delle iniziative finanziate è its4land@, un programma che cerca di utilizzare la più recente tecnologia – ad esempio i droni – per la mappatura e la demarcazione delle terre, così da creare le basi per una più oggettiva definizione dei diritti fondiari (la proprietà delle terre), l’incertezza dei quali è così spesso alla base di conflitti in Africa e non solo@.

Horizon 2020 ha anche sostenuto con 6 milioni di euro gli studi clinici sul vaccino contro l’ebola. Il programma di test è guidato dal ministero della Sanità e dall’Istituto nazionale di ricerca biomedicale della Repubblica democratica del Congo e vede la collaborazione di partner internazionali fra cui la London School of Hygiene and Tropical Medicine e Médecins Sans Frontières@.

L’anno delle piante

Il 2020 è inoltre l’«Anno internazionale per la salute delle piante»@, una celebrazione che a detta delle Nazioni unite, rappresenta un’occasione unica «per accrescere la consapevolezza globale su come proteggere la salute delle piante possa aiutare a metter fine alla fame, ridurre la povertà, proteggere l’ambiente e promuovere lo sviluppo economico».

La Fao stima che gli organismi nocivi e le malattie delle piante provochino ogni anno la perdita di circa il 40% delle colture sul pianeta, lasciando milioni di persone prive di cibo e danneggiando l’agricoltura, che rimane la fonte principale di sussistenza delle comunità rurali. Il danno complessivo è stimato in 220 miliardi di dollari in perdite commerciali di prodotti agricoli. Le iniziative dell’anno internazionale si concentreranno perciò principalmente su come evitare che le malattie e i parassiti si diffondano.

Le piante producono l’80% del cibo che mangiamo e il 98% dell’ossigeno che respiriamo, si legge sul sito nella lista dei dati essenziali sulla salute delle piante. Sempre la Fao stima che la produzione agricola debba aumentare del 60% entro il 2050 per nutrire una popolazione mondiale che sarà più numerosa e generalmente più ricca.

Ma a minacciare le piante ci sono il cambiamento climatico e l’innalzamento delle temperature, che riducono la disponibilità di acqua e cambiano le relazioni fra parassiti, piante e patogeni facendo apparire organismi nocivi dove non si erano mai visti prima.

Vi sono anche insetti che risultano benefici per la salute delle piante, perché determinano l’impollinazione, tengono sotto controllo i parassiti, mantengono in salute i suoli e riciclano sostanze nutritive@. Ma l’80% della biomassa degli insetti è sparita negli ultimi 25-30 anni@. con una diminuzione del 2,5% all’anno

 

Il 2020 virtuoso della Liberia e del Gabon

A non sparire ma, al contrario, a crescere rigogliosi dovrebbero essere invece gli alberi della Liberia, che potrebbe diventare nel 2020 il primo paese africano ad essersi liberato del problema della deforestazione. In cambio di 150 milioni di dollari in aiuti allo sviluppo messi a disposizione dalla Norvegia, la Liberia ha infatti accettato nel 2014 di smettere di tagliare gli alberi e di mettere il 30% delle proprie foreste sotto vincolo ambientale. Alla fine del 2020 sarà possibile dire se l’obiettivo è stato effettivamente raggiunto@.

Nel frattempo, la Norvegia ha offerto il proprio aiuto anche al Gabon@. Si tratta sempre di 150 milioni di dollari destinati attraverso un programma delle Nazioni unite che si chiama Redd+ (Reducing emissions from deforestation and forest degradation) e che promuove iniziative in grado di ridurre le emissioni derivanti dalla deforestazione e dal degrado delle foreste.

Chiara Giovetti


SDG generali in scadenza

3.6 Entro il 2020, dimezzare il numero globale di morti e feriti a seguito di incidenti stradali.

4.B Espandere considerevolmente entro il 2020 a livello globale il numero di borse di studio disponibili per i paesi in via di sviluppo, specialmente nei paesi meno sviluppati, nei piccoli stati insulari e negli stati africani, per garantire l’accesso all’istruzione superiore – compresa la formazione professionale, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i programmi tecnici, ingegneristici e scientifici – sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo.

8.6 Ridurre entro il 2020 la quota di giovani disoccupati e al di fuori di ogni ciclo di studio o formazione.

8.B Sviluppare e rendere operativa entro il 2020 una strategia globale per l’occupazione giovanile e implementare il Patto globale per l’occupazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

9.c  Aumentare in modo significativo l’accesso alle tecnologie di informazione e comunicazione e impegnarsi per fornire ai paesi meno sviluppati un accesso a Internet universale ed economico entro il 2020.

11.B Entro il 2020, aumentare considerevolmente il numero di città e insediamenti umani che adottano e attuano politiche integrate e piani tesi all’inclusione, all’efficienza delle risorse, alla mitigazione e all’adattamento ai cambiamenti climatici, alla resistenza ai disastri, e che promuovono e attuano una gestione olistica del rischio di disastri su tutti i livelli, in linea con il Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di disastri 2015-2030.

17.11 Incrementare considerevolmente le esportazioni dei paesi emergenti e, entro il 2020, raddoppiare la quota delle loro esportazioni globali.

17.18 Entro il 2020, rafforzare il sostegno allo sviluppo dei paesi emergenti, dei paesi meno avanzati e dei Piccoli stati insulari in via di sviluppo (SIDS). Incrementare la disponibilità di dati di alta qualità, immediati e affidabili andando oltre il profitto, il genere, l’età, la razza, l’etnia, lo stato migratorio, la disabilità, la posizione geografica e altre caratteristiche rilevanti nel contesto nazionale.

 


SDG ambientali in scadenza

2.5 Entro il 2020, mantenere la diversità genetica delle sementi, delle piante coltivate, degli animali da allevamento e domestici e delle specie selvatiche affini […].

6.6 Entro il 2020 proteggere e ripristinare gli ecosisstemi legati all’acqua, comprese montagne, foreste, paludi, fiumi, falde acquifere e laghi.

12.4 Entro il 2020, raggiungere la gestione eco-compatibile di sostanze chimiche e di tutti i rifiuti durante il loro intero ciclo di vita […].

13.A Rendere effettivo l’impegno […] che prevede la mobilizzazione – entro il 2020 – di 100 miliardi di dollari all’anno, […] e rendere pienamente operativo il prima possibile il Fondo verde per il clima […].

14.2  Entro il 2020, gestire in modo sostenibile e proteggere l’ecosistema marino e costiero […].

14.4 Entro il 2020, regolare in modo efficace la pesca e porre termine alla pesca eccessiva, illegale, non dichiarata e non regolamentata e ai metodi di pesca distruttivi […].

14.5 Entro il 2020, preservare almeno il 10% delle aree costiere e marine […].

14.6 Entro il 2020, vietare quelle forme di sussidi alla pesca che contribuiscono a un eccesso di capacità e alla pesca eccessiva, eliminare i sussidi che contribuiscono alla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata e astenersi dal reintrodurre tali sussidi […].

15.1 Entro il 2020, garantire la conservazione, il ripristino e l’utilizzo sostenibile degli ecosistemi di acqua dolce terrestri e dell’entroterra nonché dei loro servizi, in modo particolare delle foreste, delle paludi, delle montagne e delle zone aride […].

15.2 Entro il 2020, promuovere una gestione sostenibile di tutti i tipi di foreste, arrestare la deforestazione, ripristinare le foreste degradate e aumentare ovunque, in modo significativo, la riforestazione e il rimboschimento.

15.5 Intraprendere azioni efficaci ed immediate per ridurre il degrado degli ambienti naturali, arrestare la distruzione della biodiversità e, entro il 2020, proteggere le specie a rischio di estinzione.

15.8 Entro il 2020, introdurre misure per prevenire l’introduzione di specie diverse e invasive nonché ridurre in maniera sostanziale il loro impatto sugli ecosistemi terrestri e acquatici e controllare o debellare le secie prioritarie.

15.9 Entro il 2020, integrare i principi di ecosistema e biodiversità nei progetti nazionali e locali, nei processi di sviluppo e nelle strategie e nei resoconti per la riduzione della povertà.




Casa comune, problemi comuni

Testo di Chiara Giovetti | foto di padre Andrés Fernández da Bayenga RD Congo


Nel mondo i popoli indigeni contano circa 370 milioni di persone: il 5% della popolazione mondiale ma il 15% dei poveri del pianeta. Quanto ai migranti, sono circa 300 milioni e uno su dieci è un rifugiato o richiedente asilo.

L’equazione è piuttosto semplice: i popoli indigeni proteggono con la loro stessa presenza l’ambiente naturale in cui vivono, a cominciare dalla foresta. Se i popoli indigeni scompaiono, anche le foreste scompaiono e i disastri ambientali aumentano. Su tutto il pianeta. Anche nel cortile di casa nostra. Quindi, a ben guardare, casa nostra è tutto il mondo.

Questo breve ragionamento è probabilmente la risposta più lineare alla domanda: «Perché mai dovrebbe interessarmi l’Amazzonia?», quesito che ha fatto da sottofondo a tutto il Sinodo dei vescovi per la regione Panamazzonica, celebrato lo scorso ottobre a Roma. Non è difficile trovare esempi di questo ruolo di custodi che i popoli indigeni hanno nei confronti dell’ambiente nel quale vivono: la nostra rivista ne ha illustrati diversi in un dossier dell’agosto 2017 che riportava analisi di Survival International. Da quelle analisi emergeva chiaramente che i popoli indigeni – non solo quelli dell’Amazzonia, ma anche quelli del resto delle Americhe, dell’Africa e dell’Asia – «sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni» e che la loro presenza incrementa la biodiversità, controlla gli incendi e il bracconaggio, ferma la deforestazione e lo sfruttamento eccessivo. Il loro sostentamento, viceversa, deriva da attività come la caccia svolte in modo del tutto non dannoso per l’ambiente@.

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Un’emergenza silenziosa

Difficile è piuttosto far capire l’urgenza di proteggere questi gruppi umani e i biomi in cui vivono. Perché l’ipotesi che i popoli indigeni scompaiano appare lontana a chi, specialmente da questo lato del mondo, non è addentro alle questioni ambientali o a quelle della solidarietà internazionale.

Eppure il rapporto 2018 del Consiglio indigenista missionario (Cimi)@, ente legato alla Conferenza episcopale brasiliana, racconta una storia che ha tutti i caratteri dell’urgenza. Presentato dal Cimi l’11 ottobre presso la casa generalizia dei missionari della Consolata a Roma, il documento sottolinea che nel 2018 in Brasile i casi di invasioni a scopo di accaparramento delle terre indigene, esplorazione illegale delle risorse naturali e danni vari al patrimonio sono stati 109: 13 in più dell’anno precedente. Ancora più preoccupante è il fatto che i dati preliminari del 2019 – cioè quelli relativi ai primi nove mesi – riportano 160 casi, testimoniando per il triennio una tendenza al rialzo.

Il rapporto raccoglie e racconta con grande precisione i singoli episodi. Vediamone uno, relativo al popolo indigeno dei Waimiri Atroari di Roraima, a titolo esemplificativo: «La deforestazione nella terra indigena ha raggiunto i 1.372 ettari. In un’area che ospita diverse specie di fauna e flora ancora sconosciute, sono stati sequestrati 7.387 tronchi, volume sufficiente per caricare un migliaio di camion […]. Dopo 37 giorni dal sequestro, il Fronte di protezione etno-ambientale dei Waimiri Atroari della Funai (ente pubblico che si occupa della protezione degli indigeni) ha riferito che i tronchi venivano rubati dentro la sede della polizia federale. È stata aperta un’inchiesta per indagare sul caso».

Il rapporto segnala anche diverse situazioni che contraddicono l’affermazione di grandi agricoltori e politici «complici» secondo la quale c’è «troppa terra per troppi pochi indigeni». Al contrario, si legge nel rapporto, nello stato del Mato Grosso do Sul, per fare solo un esempio, «ciò che è troppo è il numero di aree degradate», cioè aree le cui caratteristiche sono state modificate oltre il limite del naturale recupero del suolo.

Nel 2019, prosegue il rapporto, il numero di pascoli degradati raggiunge i 14 milioni di ettari (pari alla superficie di tutte le regioni del Nord Italia più la Toscana) su un totale di 28 milioni esistenti. Nel frattempo, migliaia di indigeni vivono in una situazione di isolamento e, nella riserva indigena di Dourados, circa 13mila indigeni abitano su meno di 3.500 ettari: per numero di abitanti la riserva si colloca più in alto nella lista rispetto a 32 città dello stato. A detta di diversi esperti, questa situazione è la causa principale degli alti tassi di suicidio tra gli indigeni Guaraní e Kaiowá. Secondo il distretto sanitario indigeno locale, negli ultimi 13 anni circa 611 indigeni di questa popolazione si sono suicidati: 1 ogni 7,7 giorni.

Alfabetizzazione di bambini pigmei

Non solo Amazzonia

Ma non è solo l’area amazzonica a destare preoccupazione. Nella Rift Valley del Kenya è in atto l’ennesimo braccio di ferro per l’occupazione di intere aree della Mau Forest. Non si tratta di una foresta qualsiasi: è un complesso di 400 mila ettari che custodisce la più grande delle cinque maggiori riserve idriche del Kenya, per questo ribattezzate water towers (serbatoi d’acqua). È la fonte di 12 corsi d’acqua che sfociano in tre laghi, fra cui il Lago Vittoria, e si calcola che circa 10 milioni di persone dipendano da questo complesso idrogeologico. Human Rights Watch segnalava lo scorso settembre@ che nel 2018 il governo del Kenya nel tentativo, anche lodevole, di preservare la Mau Forest ha effettuato sfratti forzati, violenti e senza compensazione di chiunque avesse occupato il territorio della foresta. Inclusi gli Ogiek, popolo indigeno locale che ha nella foresta il proprio territorio ancestrale, nel quale ha sempre vissuto sostenendosi grazie alla caccia e all’apicoltura. I tentavi di rimuovere gli Ogiek dalla foresta si sono succeduti sin dall’epoca coloniale, precisa Survival International@, con il pretesto che la loro presenza degrada la foresta. In realtà succede esattamente il contrario: «Quando gli Ogiek vengono rimossi, la loro foresta non viene protetta ma piuttosto sfruttata dal disboscamento e dalle piantagioni di tè, alcune di proprietà di funzionari governativi».

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Via da casa, per non morire

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

A volte, anche la decisione di restare nella propria terra è un suicidio. È il caso degli indigeni Warao che, insieme ad altri connazionali venezuelani, hanno abbandonato le loro case e stanno emigrando in massa verso Colombia, Perù, Brasile e altri paesi latino americani. Secondo la Bbc@, che cita dati dell’Organizzazione internazionale per migrazioni (Iom) e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) lo scorso giugno le persone che avevano lasciato il Venezuela avevano raggiunto i 4 milioni, facendo di quella venezuelana la seconda crisi a livello mondiale dopo la Siria, che ha visto quasi 6 milioni di sfollati@.

Secondo l’Acnur, ad oggi sono quasi 71 milioni le persone sul pianeta che sono state costrette a lasciare il luogo dove vivevano a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o violazioni dei diritti umani. Di questi, quasi 26 milioni sono rifugiati, 41 milioni sono sfollati interni e 3 milioni e mezzo sono richiedenti asilo, cioè sono in attesa di una decisione sulla loro richiesta di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato o un’altra forma di protezione internazionale. Nel 2018 ci sono stati 37mila di questi spostamenti forzati ogni giorno, uno ogni 2 secondi.

In 4 casi su 5 i rifugiati vivono in paesi confinanti; a ospitare più rifugiati è stata per il quinto anno consecutivo la Turchia, con 3,7 milioni di persone accolte. Seguono il Pakistan (1,4 milioni), l’Uganda (1,2 milioni), il Sudan e la Germania (entrambi 1,1 milioni di rifugiati ospitati).

Chiara Giovetti

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei


Il nostro lavoro per le terre ancestrali e i popoli che le abitano

IN RD CONGO

Scuola di alfabetizzazione per bambini pigmei

Da decenni lavoriamo con i pigmei bambuti, tradizionali custodi della foresta pluviale dell’Ituri, nel Nord Est paese.

Minacciati da Mobutu Sese Seko, che già negli anni Ottanta li forzò a lasciare la foresta e a sedentarizzarsi, emarginati dalla maggioranza bantu che li considera esseri subumani, oggi vedono la loro foresta e se stessi minacciati anche dalle attività estrattive condotte da grandi imprese e da minatori artigianali.

Il nostro lavoro con loro consiste nel proteggerne la cultura e lo stile di vita e, al tempo stesso, di sostenere il loro tentativo di relazionarsi con gli altri popoli, ad esempio attraverso l’istruzione, e di garantire loro l’assistenza sanitaria essenziale.

(vedi Marco Bello, Sempre nomadi, ma fino a quando, MC 10/2019 e anche Chiara Giovetti, Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile, MC 6/2017)

NELL’AMAZZONIA

Visita al rifugio dei Warao in Pacaraima (Roraima – Brasile

Il nostro impegno per i popoli indigeni e la salvaguardia delle terre ancestrali giunge anche all’Amazzonia, sia quella brasiliana che quella colombiana ed ecuadoregna.

Nell’Amazzonia del Brasile sosteniamo la lotta per i diritti del popolo yanomami insediati nella foresta attorno al rio Catrimani e quelli dei popoli (Macuxi, Wapichana, Taurepang e altri) della terra indigena Raposa Serra do Sol nello stato di Roraima.

In Colombia siamo attivi nel Caquetá, dove, con i gruppi di giovani delle nostre parrocchie e delle scuole secondarie, sosteniamo le iniziative locali di formazione alla cura dell’ambiente sia nei quartieri dei centri abitati della zona che nelle zone del fiume vicine a questi centri, e progetti alternativi alla produzione della coca.

Aiutaci a coprire i costi per l’iscrizione di un bambino pigmeo alla scuola primaria nella foresta del Congo o a realizzare corsi di formazione e iniziative di salvaguardia dell’ambiente in Amazzonia.


Il nostro lavoro accanto ai migranti e ai warao

Dal maggio 2018 un’équipe itinerante dei missionari della Consolata è attiva a Boa Vista (Brasile)  nell’accoglienza dei rifugiati venezuelani, in particolare del popolo warao.

Boa Vista sta affrontando un’emergenza senza precedenti: quella di assistere migliaia di migranti e richiedenti asilo venezuelani, 40mila secondo le fonti ufficiali e oltre il doppio secondo conteggi informali. Per ora sono disponibili solo 13 centri di accoglienza che ospitano 6.500 persone, mentre tutti gli altri vivono in 16 occupazioni se non addirittura per strada.

Gli sforzi dei missionari della Consolata si concentrano sulle persone più vulnerabili che vivono nello spazio di Ka Ubanoko, un complesso sportivo abbandonato occupato la scorsa estate. Lì vivono circa 650 venezuelani, la maggior parte Warao, alcuni indigeni E’ñepa e oltre un centinaio di persone che non hanno avuto la possibilità di essere assistiti da un centro di accoglienza e vivevano all’ombra degli anacardi nel quartiere di Pintolândia.

Fra questi rifugiati i bambini sono circa 250 e i missionari cercano di fornire loro cibo e un minimo di istruzione, visto che nella loro condizione frequentare la scuola è impossibile.

Aiutaci a coprire i costi per l’istruzione dei bambini venezuelani rifugiati.


Natale di solidarietà 2019

UNA CASA PER TUTTTI

Per aiutare tramite MC
vai al sito della Onlus

oppure vai alla nostra pagina «aiutaci-donazioni»




Tutti «a casa loro», ma quale casa?


Circa un miliardo di persone sul pianeta vive in una baraccopoli, 100 milioni sono senzatetto e altrettanti sono i bambini e ragazzi di strada. Dal 2008 a oggi una media di 24 milioni di persone all’anno ha perso la propria casa per inondazioni, tempeste, terremoti o siccità.

«Come ci si sente / ad essere senza una casa / un completo sconosciuto / proprio come un vagabondo (o, alla lettera, una pietra che rotola)». Così Bob Dylan cantava nel 1965, raccontando nei versi della sua celeberrima@ Like a Rolling Stone, la triste storia di una giovane donna nata ricca e finita poi a vivere per strada, dopo essersi lasciata illudere, sfruttare e infine abbandonare da un mondo luccicante ma spietato.

L’ultima volta in cui si tentò di quantificare le persone sul pianeta che non avevano una casa era il 2005@: le Nazioni Unite stimarono che i senzatetto veri e propri fossero circa cento milioni, mentre un miliardo di persone mancavano di un alloggio adeguato. Studi più recenti fotograferebbero una situazione nettamente peggiorata: le persone senza una casa degna di questo nome sono stimate oggi in 1,6 miliardi.

Altre indagini si concentrano sui luoghi simbolo dell’emergenza abitativa, le baraccopoli: secondo il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, Un Habitat, nel 2014 erano oltre 880 milioni di esseri umani a vivere in una baraccopoli.

È difficile contare in maniera oggettiva queste persone: ad esempio, ricorda l’Onu in un documento con principi e raccomandazioni per i censimenti@, «la definizione di senzatetto può variare da paese a paese, si tratta essenzialmente di una definizione culturale basata su concetti come alloggio adeguato, standard abitativo minimo della comunità o certezza del diritto fondiario».

Per farsi un’idea più immediata è forse più utile citare alcuni esempi: secondo il sito Homeless World Cup Foundation, in Nigeria ci sono 24,4 milioni di senzatetto; nella sola città di Manila, capitale delle Filippine, se ne contano circa tre milioni. La Germania ha fra i 335mila e i 420mila senzatetto, che salgono a 860 mila se si includono i rifugiati, la Francia ne conta 141mila e l’Italia 50.724@.

I bambini e ragazzi di strada sono un’ulteriore declinazione del fenomeno. Nel 2003 Unicef riportava stime secondo cui erano 100 milioni le ragazze e i ragazzi che non avevano raggiunto l’età adulta, privi di protezione o guida da parte di responsabili adulti e per i quali «la strada (nel senso più ampio della parola, comprese le abitazioni o i terreni abbandonati, ecc.) è diventata dimora abituale e/o fonte di sostentamento» (definizione ufficiale Unicef)@.

Come si finisce in strada o in una baraccopoli?

I motivi per cui ci si trova senza casa o in un contesto abitativo degradato sono diversi. Le Nazioni Unite citano fra questi la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, speculazioni su case e terreni a fini di investimento, privatizzazione dei servizi pubblici, ad esempio il trasporto, conflitti etnici e armati e una rapida quanto mal programmata urbanizzazione. Questi elementi poi si sovrappongono e incrociano con altri, come la perdita del lavoro, l’abuso di alcol, l’uso di droga, le malattie mentali.

A complicare notevolmente le cose vi sono poi le prospettive per il trentennio che abbiamo davanti: secondo le proiezioni Onu, nel 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, contro il 55% odierno pari a 4,2 miliardi di persone. Questo significa che «il graduale spostamento della popolazione umana dalle aree rurali a quelle urbane, combinato con la crescita complessiva della popolazione mondiale potrebbe aggiungere altri 2,5 miliardi di persone alle aree urbane entro il 2050, con circa il 90% di questo aumento concentrato in Asia e Africa»@.

Uno dei falsi miti sugli slum (inglese per baraccopoli) è l’idea che non sia possibile prevedere quanto cresceranno, spiegava al The Guardian@ nel 2016 William Cobbett, della rete globale per lo sviluppo sostenibile delle città, Cities Alliance, e la cosa è affrontata in modo inadeguato specialmente in Africa. «Si pensa che le popolazioni degli slum stiano crescendo principalmente a causa della migrazione urbana. Non è così. In tutto il continente, il grosso dell’aumento di abitanti delle baraccopoli deriva dalla crescita naturale della popolazione». Le proiezioni Onu sul secolo 1950-2050, continua Cobbett, dicono che la popolazione dell’Uganda in un secolo aumenterà di venti volte, la Tanzania di 18 e la Nigeria di 10,5.

Un secondo mito è quello che gli abitanti di una baraccopoli, se potessero, sceglierebbero sempre di vivere in un alloggio «vero». In questo caso la risposta è ni: dipende da quanto bene le autorità competenti pianificano la ricollocazione delle persone. Anche nelle situazioni di degrado più grave spesso si formano delle reti sociali che forniscono servizi informali di solidarietà come il guardarsi a vicenda casa e bambini mentre si è al lavoro. Ricollocare le persone significa strappare queste reti e rendere più difficile la vita sia di chi viene spostato sia di chi resta. Un caso citato dal The  Guardian è quello della baraccopoli di Kibera, a Nairobi: molti abitanti dello slum, inizialmente entusiasti dell’opportunità di trasferirsi in un complesso di appartamenti chiamato The Promised Land, hanno finito per lasciare le nuove sistemazioni perché vi erano disservizi idrici, mentre altri hanno fiutato l’affare decidendo di dare le loro nuove case – in cambio di un affitto molto più alto rispetto a quello agevolato richiesto a loro – ai keniani della classe media. Anche chi era rimasto a Promised Land continuava comunque a fare la spesa nella baraccopoli, perché lì il cibo costava meno.

Perdere la casa per gli eventi naturali

C’è un ulteriore modo per rimanere senza casa: che un ciclone se la porti via. È successo quest’anno in Mozambico, quando il ciclone Idai – seguito dal ciclone Kenneth – ha rovesciato in poche ore la pioggia che di solito cade in mesi. Il ciclone e le successive inondazioni hanno ucciso più di 600 persone e ne hanno ferite circa 1.600. Un milione e 800mila sono state variamente toccate dai danni, pari a 773 milioni di dollari, provocati da Idai a edifici, infrastrutture e coltivazioni@.

Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre@, che monitora le popolazioni sfollate, dal 2008 a oggi una media annuale di 24 milioni di persone ha perso la casa a causa di un evento naturale estremo improvviso, a fronte dei sette milioni e mezzo di sfollati all’anno a causa dei conflitti. Anche quest’anno le cose non sembrano andare molto meglio: nella prima metà del 2019 gli sfollati a livello mondiale sono stati 10,8 milioni, di cui 7 milioni dovuti a catastrofi naturali.

Lo scorso giugno Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, ha avvertito che gli effetti del cambiamento climatico potrebbero creare altri 120 milioni di poveri, vanificando gli ultimi 50 anni di sforzi per ridurre la povertà. «Rischiamo uno scenario da apartheid climatico» ha dichiarato Alston, «in cui i ricchi pagano per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti mentre il resto del mondo è abbandonato alla sofferenza»@.

Il problema del cambiamento climatico si interseca con quello dell’urbanizzazione: il disastro di Freetown, in Sierra Leone, del 2017, in cui 1.141 persone morirono a causa degli allagamenti e smottamenti legati alle forti piogge, ha mostrato che cosa succede quando un evento meteorologico estremo colpisce un agglomerato urbano costruito deforestando ed edificando in maniera informale@.

Chiara Giovetti
[continua a dicembre]


Il nostro impegno con i ragazzi di strada

  • Familia ya ufariji (Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di strada fondata nel 1996 dai missionari della Consolata a Nairobi, Kenya. Ospita fino a ottanta bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Familia ha anche alcune attività agricole che aiutano la struttura a produrre parte del proprio cibo e permettono ai ragazzi ospitati di imparare e praticare l’orticoltura.

  • La Faraja House (Casa della Consolazione) apre nel 1993 a Mgongo (Iringa, Tanzania) per iniziativa dei missionari della Consolata con l’obiettivo di assistere e reinserire i ragazzi di strada. La struttura, in grado di accogliere fino a 100 persone, sorge accanto a una scuola tecnica – nella quale i ragazzi ricevono formazione professionale – e a un dispensario che fornisce loro le cure fondamentali.

Aiutaci a coprire i costi per dare una casa a un bambino di strada perché possa mangiare, studiare e ricevere le cure necessarie alla sua età.


Il nostro lavoro accanto a chi ha perso la casa per un evento naturale estremo

Lo scorso marzo il ciclone Idai si è abbattuto sul Mozambico. Le inondazioni che ne sono seguite hanno colpito anche diverse zone in cui sono presenti i missionari della Consolata, fra cui Cuamba e Tete. In quest’ultima località Missioni Consolata Onlus, grazie alla generosità di diversi donatori, ha contribuito alla ricostruzione di 12 case.

  • Sarà possibile sostenere questo progetto anche visitando la mostra di solidarietà che gli Amici Missioni Consolata organizzano ogni anno in occasione della festa dell’Immacolata.
    La mostra sarà aperta dal 4 all’8 dicembre nei locali della parrocchia Maria Regina delle Missioni, a Torino, in via Cialdini 20, vicino al Provveditorato.

  • Si può anche sostenere il progetto con donazioni attraverso Missioni Consolata Onlus.

Aiutaci a ricostruire le case distrutte da eventi climatici estremi.




Cooperazione e missione, gemelle diverse

testo di Chiara Giovetti


Nel mese missionario proponiamo una riflessione sulle differenze fra cooperazione e missione, ma anche sullo stimolo reciproco che hanno rappresentato l’una per l’altra nel corso degli ultimi cinquant’anni. Tentiamo di fare il punto sulla situazione attuale.

Tanta parte del mio lavoro come responsabile dell’Ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus è lavoro di traduzione. Non solo e non tanto da una lingua a un’altra, ma soprattutto da un linguaggio a un altro. Si tratta cioè di tradurre nel linguaggio della cooperazione allo sviluppo concetti missionari e, in quanto missionari, profondamente e autenticamente cristiani.

Con una battuta che suscita sorrisi nei missionari più spiritosi e alzate di sopracciglia in quelli più austeri, mi trovo spesso a dire che il mio incarico più delicato è tradurre in «sviluppese» concetti espressi in «pretesco», cercando di far emergere nel modo più chiaro possibile che i nostri missionari fanno cooperazione già da molto prima della fondazione della Onlus (2001) o del riconoscimento come Ong (2007). Solo che, mentre alcuni la fanno conoscendo il «ciclo di progetto» e il suo linguaggio, altri la fanno chiamando le cose con un altro nome.

Così, progetti che arrivano sulla mia scrivania con un titolo come «Promozione della donna», vengono reindirizzati ai donatori con il titolo «Empowerment femminile». «Pace, perdono e riconciliazione» diventa «Gestione e risoluzione del conflitto», «aiuto alle mamme incinte e ai loro bambini», si riformula in «miglioramento della salute materna e infantile».

Le attività sono le stesse, ma le parole rimandano a valori non completamente sovrapponibili.

Fra il linguaggio dello sviluppo e quello della missione c’è, sì, un’ampia intersezione di concetti simili, se non identici benché detti con parole diverse, ma anche un confine di intraducibilità che non può – e nemmeno deve – essere forzato.

 

Cooperazione: una parola, due significati

Nella maggioranza dei casi, all’orecchio di un missionario cattolico la parola «cooperazione» arriva come l’abbreviazione dell’espressione «cooperazione missionaria fra le Chiese».

Per un operatore della cooperazione fuori dal mondo ecclesiale, viceversa, la stessa parola sottintende l’espressione «cooperazione allo sviluppo» o «cooperazione internazionale».

Il fatto che per un religioso la cooperazione sia prima di tutto missionaria, significa che la vede come un modo per realizzare la missione della Chiesa, che – si legge nel decreto Ad Gentes del Concilio Vaticano II del 1965@ -, a sua volta, è la crescita «nella storia della missione del Cristo, inviato appunto a portare la buona novella ai poveri».

L’annuncio della buona novella è l’evangelizzazione, e la cooperazione missionaria ne è uno degli strumenti, non il fine.

Già nel 1990, in una Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo I laici nella missione ad gentes e nella cooperazione fra i popoli@, emergeva una preoccupazione: «Spesso», recita la nota, «l’attenzione è assorbita dalle esigenze tecniche dei progetti a scapito dell’ispirazione cristiana che deve essere sostenuta in modo costante». Detto in modo più rozzo ma immediato, la Cei raccomanda ai laici cristiani che vanno in missione di ricordare sempre che scavare un pozzo non è il fine ultimo del loro mandato. Il pozzo è solo lo strumento. Sono stati mandati a scavare un pozzo perché la povertà dei fratelli privi di acqua grida vendetta al cospetto di Dio, e contraddice il messaggio di salvezza e liberazione che suo Figlio ha portato agli uomini a costo della sua stessa vita, un messaggio di cui è nostro dovere di cristiani farci portatori, anche – ma non solo – attraverso le opere concrete.

La stessa nota sottolinea, richiamando l’enciclica Sollicitudo Rei Socialis del 1987, che «gli insuccessi degli ultimi decenni negli sforzi di accrescere il benessere dei popoli mostrano che lo sviluppo non si può basare su una semplice accumulazione di beni e di servizi». Lo sviluppo autentico, per la Chiesa, è lo sviluppo integrale, «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Populorum progressio), anche della sua sfera spirituale e morale.

Se per i cristiani la cooperazione è uno degli strumenti per continuare la missione del Cristo che parte da Dio e si irradia nella relazione fra le Chiese locali; per il mondo non ecclesiale è, invece, una relazione che parte dalle comunità umane definite a partire dalla loro organizzazione statale, e che ha come obiettivo lo sviluppo, pur con tutte le declinazioni e riformulazioni che il concetto ha attraversato nell’ultimo cinquantennio.

Non potrebbe essere più chiara la direzione divergente delle spinte che muovono queste due idee di cooperazione.

Dalla teoria alla pratica: la cooperazione come punto di incontro

Queste due visioni della cooperazione sono posizioni irriducibili l’una all’altra, dal punto di vista filosofico. Ma questa irriducibilità non ha impedito che si sia trovato un punto di mediazione nel campo del fare, del trovare soluzioni a problemi condivisi.

Per realizzare il raccordo, è stato fondamentale l’incontro fra religiosi innovatori, a volte addirittura rivoluzionari, da un lato, e volontari laici, dall’altro. La parola «laico» in questo caso significa il contrario di quello che potrebbe sembrare a un lettore esterno al mondo ecclesiale: non rimanda al laicismo ma al laicato, il complesso dei fedeli che non appartiene al clero.

Un esercizio interessante per dare la misura di questo incontro è prendere la lista delle Ong riconosciute dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e scavare un po’ nella sezione Chi siamo dei rispettivi siti. Il risultato è abbastanza illuminante: su 217 organizzazioni, una su tre circa ha per fondatore, ispiratore o dirigente, un religioso, e quasi una su cinque è vicina al mondo missionario. Alcune Ong sono nate per sostenere il lavoro di uno specifico missionario, di un Istituto o di una Congregazione, altre sono emanazione di un Centro missionario diocesano, altre sono talmente missionarie di ispirazione che inseriscono la parola anche nel nome.

Gli anni Sessanta e Settanta sono stati una grande incubatrice per queste realtà: erano gli anni della decolonizzazione, delle crisi in Biafra e in Congo, delle campagne di Raoul Follereau; la Chiesa affrontava il cambiamento epocale del Concilio Vaticano II e assisteva al sorgere, in America Latina, della teologia della liberazione.

In Italia erano anni drammatici, di scontri politici e sociali, di forti ineguaglianze, evidenti in particolare nelle grandi città.

Solo per citare alcune di queste realtà nelle quali missione e cooperazione allo sviluppo hanno iniziato ad andare a braccetto, ricordiamo che nel 1961 è nata la Cisv@ «al servizio dei poveri nella Torino allora meta degli immigrati dal Sud Italia». Nel 1973, raccontava qualche anno fa Stefania Garini del Cisv alla nostra rivista, la stessa organizzazione ha inviato i primi volontari in Burundi anche su stimolo dell’allora arcivescovo di Torino, monsignor Michele Pellegrino, «che auspicava una missione animata anche da laici, ritenuti in grado di creare maggior vicinanza con la gente»@. Nel 1964 è nata Mani Tese, nel 1966 la Lvia, che l’anno dopo ha inviato la prima volontaria in Kenya ospite dei missionari della Consolata.

La Focsiv, che federa gli organismi italiani di ispirazione cristiana (Ong e non), è nata nel 1972 e ad oggi raggruppa 86 organismi.

Negli anni Ottanta e fino a tutti gli anni Novanta l’incontro fra missione e cooperazione allo sviluppo era ormai una realtà consolidata e strutturata grazie all’impegno di tanti missionari e al coinvolgimento dei volontari laici cristiani: l’invio di questi ultimi in missione era regolare, i riconoscimenti dello status di Ong da parte del ministero degli Esteri sono cominciati ad arrivare, la disponibilità di fondi – sia pubblici che privati – ha dato un’ulteriore spinta, e le campagne di sensibilizzazione in Italia sono state numerose e molto partecipate.

Anche la nostra rivista, che parla di cooperazione e di sviluppo sin dagli anni Settanta, ha inserito per gran parte del decennio 1980 – 1989 l’argomento fra i temi fissi trattati nelle rubriche. La lettura degli articoli sulla cooperazione di quegli anni è un tuffo più nel futuro che nel passato, tanto raffinata era già l’analisi delle cause delle diseguaglianze e tanto forte era il richiamo, oggi molto di moda, al cambiamento negli stili di vita.

La nota della Cei su laici, missione e cooperazione citata sopra è arrivata nel 1990 proprio per mettere ordine in questa relazione tanto vivace e animata da rischiare di diventare caotica. La Cei infatti, oltre al richiamo a non perdere di vista l’ispirazione cristiana, insisteva sull’importanza di migliorare la preparazione sia spirituale che professionale dei volontari ed esortava a evitare permanenze troppo brevi e mal programmate. La cooperazione missionaria non è una parentesi, un periodo circoscritto nella vita dei cristiani: è una scelta di vita che continua anche al rientro dalle missioni.

Cooperazione e missione oggi

L’ultimo ventennio ha visto un’impennata nella professionalizzazione della cooperazione. È nata la figura del cooperante, sono sorti corsi di studi a livello universitario, la gestione del ciclo di progetto si è fatta più complessa, l’obbligo di trasparenza nella gestione dei fondi è oggi, giustamente, un imperativo.

Quanto questo processo sia legato, in positivo, a un bisogno di affrontare in modo rigoroso una crescente complessità del mondo o, in negativo, agli obiettivi non raggiunti – e agli errori – di cinquant’anni di cooperazione internazionale, è un dibattito aperto.

Il dato di fatto è che le organizzazioni di origine missionaria, come tutte le altre, si sono attrezzate e dotate di personale formato e contribuiscono a quella parte della missione che, per brevità, si può definire sociale.

I fondi dei donatori pubblici non costruiscono chiese né comprano Bibbie per i catechisti (ci sono donatori cattolici per questo); ma certamente possono essere un sostegno fondamentale per scavare un pozzo e dare acqua pulita a un dispensario, formare infermieri, dare assistenza a migranti in fuga da un paese sull’orlo del disastro che arrivano stremati e disperati nel paese confinante.

Da questo punto di vista, il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo continua a godere di ottima salute una volta che ci si accorda su uno spazio comune in cui una può essere funzionale alla realizzazione degli obiettivi dell’altra senza snaturarla. Si può dire, per semplificare, che la missione continua a «ospitare» la cooperazione allo sviluppo nella parte sociale della cooperazione missionaria e che la cooperazione allo sviluppo ricambia «ospitando» i missionari in tutti i suoi settori, a patto che oltre al collarino ecclesiastico indossino lo stetoscopio del medico, il casco antinfortunistico dell’ingegnere, il grembiule del maestro di scuola.

Senza avere una struttura professionalizzata che lo affianchi per gli aspetti tecnici, per il singolo missionario diventa impossibile realizzare interventi complessi come quelli previsti da un progetto di cooperazione allo sviluppo istituzionale. Il progetto, senza un aiuto adeguato, rischia di essere percepito dal missionario come un male necessario, uno strumento di cui non si può fare a meno ma che porta via tempo al resto. E per un missionario, il resto, spesso, è il grosso: «Ecco, Chiara», mi ha detto una volta il padre responsabile di una impresa sociale del settore alimentare gestita dalla Consolata in un paese africano, «con il progetto che ci aiuterai a scrivere potremo finalmente aumentare la produzione; per il resto, con i proventi delle vendite già manteniamo la biblioteca, facciamo i corsi di alfabetizzazione per i nostri lavoratori, contribuiamo all’allevamento di polli delle loro mogli. Poi, a tempo perso, diciamo messa, facciamo le confessioni, prepariamo i catecumeni… Ogni tanto riusciamo anche a stare in silenzio, pregare un po’ e dormire».

In questi anni di lavoro nell’ufficio progetti mi sono trovata spesso a scherzare con i missionari con cui lavoro sul fatto che è una lotta impari cercare di far appassionare a un quadro logico e a un cronogramma qualcuno (il missionario) che ha per logica il Verbo e per orizzonte temporale la vita eterna.

Al di là delle battute, però, probabilmente il punto è proprio questo: il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo è stato ed è proficuo proprio perché sono due attività non completamente sovrapponibili: negli anni, oltre a non capirsi mai del tutto e, a volte, a criticarsi, si sono anche ascoltate e ciascuna ha fatto a se stessa delle domande che non si sarebbe mai fatta se l’altra non l’avesse stimolata. E non smette di sorprendermi quanto le domande che i missionari della Consolata si fanno da oltre un secolo, ispirandosi al loro fondatore, Giuseppe Allamano, – «stiamo capendo i segni dei tempi? Stiamo davvero facendo uomini e non beneficiari, assistiti, bisognosi?» – somiglino alle domande che si fa il mondo dello sviluppo.

Chiara Giovetti




Di cicloni in Mozambico

e nuovi dirigenti AICS in Italia


Testo di Chiara Giovetti


Mozambico, alluvioni e cicloni

Prima le inondazioni, poi i cicloni. Il Mozambico colpito dalla violenza della natura cerca di rimettersi in piedi.

Forti piogge hanno colpito il Mozambico centro settentrionale a partire dal 6 marzo scorso. Le regioni più interessate sono state Zambezia, Tete e la regione centrale. I primi bilanci parlavano di sette morti, oltre 32mila persone coinvolte dagli allagamenti e 4.242 sfollati.

Il 10 marzo l’Istituto nazionale di meteorologia del Mozambico ha diramato un’allerta in cui segnalava che la depressione in corso sarebbe diventata una tempesta tropicale, denominata Idai.

Oltre alle zone già colpite sono stati inondati anche parte del Niassa e 83mila ettari di terreni coltivati. Un totale di quasi 55mila piccoli coltivatori danneggiati.

Il ciclone Idai

Il ciclone Idai si è abbattuto sul paese nella notte fra il 14 e il 15 marzo, in particolare sulla città di Beira, provincia di Sofala, nel Mozambico centrale.

Le Nazioni Unite hanno immediatamente lanciato un appello per raccogliere 40,8 milioni di dollari necessari a soccorrere 400mila persone che, secondo le proiezioni sul percorso del ciclone, si stimava sarebbero state colpite.

Dopo una serie di aggiornamenti e verifiche, il 3 aprile scorso il numero ufficiale delle vittime è stato quantificato in 598, più oltre 1.600 feriti. Vi erano 131mila persone ospitate in ricoveri temporanei.

Le case completamente distrutte sono risultate essere oltre 85mila, 97mila erano parzialmente distrutte e quasi 16mila allagate.

Gli ettari di coltivazioni distrutti sono stati più di 715mila.

Idai ha poi continuato la sua corsa verso lo Zimbabwe dove, a fine marzo, si contavano 181 vittime, 175 feriti, circa 330 dispersi e un totale di 270mila persone colpite dagli allagamenti.

La città di Beira

Beira è la quarta città più grande del Mozambico con 500mila abitanti. Capitale della provincia di Sofala, al centro del paese, è affacciata sull’Oceano Indiano. Il suo porto è uno snodo cruciale sia per il Mozambico che per alcuni paesi vicini che non hanno sbocco al mare: Malawi, Zimbabwe e Zambia. Parte della città si trova sotto il livello del mare, «su una costa che secondo gli esperti è una delle zone del mondo più vulnerabili all’innalzamento delle acque dovuto al cambiamento climatico»@.

Mentre il porto ha ripreso le attività poco dopo il ciclone@, l’area circostante deve fare i conti con una devastazione senza precedenti: il 90% della città è infatti stato danneggiato o distrutto@.

La zona di Beira è il granaio del paese con un ruolo cruciale nei periodi di carestia. L’80% della popolazione mozambicana – e la regione intorno a Beira non fa eccezione – basa la propria sussistenza sull’agricoltura; nel 99% dei casi si tratta di piccoli coltivatori@.

Tete e Cuamba

Padre Sandro Faedi, Imc, ha testimoniato il 3 aprile per la rubrica online di Missioni Consolata, «Fuori Carta», la situazione di Tete, capoluogo della provincia omonima, confinante con la provincia di Sofala: «Centinaia di famiglie, si dice 860, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno salvato a malapena la vita. Casa, oggetti, utensili, tutto alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina».

Oltre a occuparsi di Tete, dove lo stato sta cercando di intervenire, padre Sandro segue anche la situazione nelle più sguarnite Mpenha e Nkondezi, dove le famiglie colpite sono rispettivamente 673 e 12. A Nkondezi, grazie alla generosità di alcuni donatori privati, padre Sandro sta aiutando le famiglie a ricostruire le loro case.

Padre Willhard Kiowi da Cuamba (Niassa) segnala invece che circa ottanta famiglie sono ospiti a Nossa Senhora Aparecida, una delle chiese legate alla parrocchia di San Miguel Arcanjo dove lavorano i missionari della Consolata. Qui i missionari hanno intensificato l’assistenza alimentare, di solito rivolta ai bambini malnutriti del centro nutrizionale, fornendo anche alle famiglie riso, farina di mais, zucchero, sale e olio per cucinare, oltre che materiale per l’igiene personale, coperte e stuoie. Secondo la rivista Africa e Affari, «il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha concesso un sostegno finanziario di emergenza al Mozambico per un importo di 118,2 milioni di dollari, in seguito alle gravi conseguenze, anche economiche, provocate dal passaggio del ciclone Idai su alcune zone del paese»@.

Era inoltre prevista per fine maggio una conferenza dei donatori internazionali organizzata dal governo di Maputo per discutere e coordinare la ricostruzione.

Il ciclone Kenneth

Mentre lavoravamo a questo articolo, un altro ciclone, denominato Kenneth, si è abbattuto il 25 aprile sul Nord del Mozambico (tra Pemba e Mocimboa e sulle isole Comore) e ha raso al suolo interi villaggi e provocato decine di vittime. Nei giorni precedenti, nel paese erano state evacuate 30mila persone. Secondo l’Unicef@, dopo l’ultimo disastro, 368mila bambini sono bisognosi di sostegno umanitario.

È rarissimo che due cicloni di tale intensità colpiscano il Mozambico nella stessa stagione, essi riportano la nostra attenzione ai cambiamenti climatici che interessano l’Africa. Il Mozambico, con i suoi 2.400 chilometri di costa sull’Oceano Indiano, è in prima linea nella lotta al cambiamento climatico.

Chiara Giovetti


Aics – Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo

Nuovo direttore, vecchi problemi?

L’Aics ha un nuovo direttore, il candidato della Farnesina Luca Maestripieri. Un diplomatico invece di un tecnico a capo di un’agenzia che dovrebbe essere indipendente dalla politica. Il punto sulle polemiche.

Dal 6 aprile scorso Luca Maestripieri è il nuovo direttore dell’Aics, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.
Nato a Viareggio 58 anni fa, laureato in giurisprudenza, ha una carriera diplomatica che lo ha portato a Lubiana, Lisbona, New York e Parigi. Prima della nomina a direttore dell’Aics, Maestripieri ricopriva la carica di direttore centrale per gli affari generali e amministrativi presso la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs) del ministero degli Affari esteri e della cooperazione (Maeci).

Contestualmente alla nomina di Maestripieri, un’altra figura di rilievo dell’Agenzia, il direttore del Dipartimento per le relazioni istituzionali e internazionali Emilio Ciarlo@, ha rassegnato le proprie dimissioni. La sua reazione alla nomina del nuovo direttore è stata la pubblicazione, il 5 aprile, sul suo profilo Facebook, di un’immagine del processo alle streghe di Derneburg (1555) sovrastata dalla scritta «Controriforma»@.

Due giorni dopo, in una lunga nota tecnica intitolata «Evitiamo titoli», Ciarlo ha più chiaramente argomentato la sua posizione@: «Volevamo che la cooperazione fosse una politica. Il contributo dell’Italia a un’idea di globalizzazione dei diritti e dei rapporti internazionali, un modo per essere “creatori” di sviluppo, non pianificatori, non benefattori, non semplicemente caritatevoli. Per questo doveva essere complementare e non succube della politica estera. Parte integrante non ancillare. Per questo è stata istituita un’Agenzia, autonoma, specializzata […]. A fare una sintesi con le istanze politiche, le preoccupazioni diplomatiche, le considerazioni commerciali ci avrebbe pensato l’altra gamba, quella del ministero, in una dialettica trasparente che sarebbe stata mediata e risolta, a favore dell’una o dell’altra posizione, dal viceministro […]. Questo era l’equilibrio. Questo il disegno, originale, considerato ora dall’Ocse e dai nostri partner europei un’architettura innovativa e promettente. Questo equilibrio ora salta».

A rendere più esplicito il punto ci ha pensato Carlo Ciavoni su la Repubblica, che ha ricostruito la vicenda in un articolo dal titolo Cooperazione italiana: con la nomina di Luca Maestripieri alla direzione dell’Aics vince la diplomazia@.

«La bisbetica maggioranza di governo», scrive Ciavoni, «con tutti i problemi che ha, ha pensato bene di non rischiare e di non superare quel confine sottilissimo che divide la Cooperazione dalla Diplomazia».

Il dibattito sulla «vittoria della diplomazia»

Che cosa significa «vince la diplomazia» e qual è il problema se questo succede?

A contendersi con Luca Maestripieri il ruolo di direttore erano stati, nella fase iniziale, 56 candidati, ridotti poi a una terna di nomi finalisti che comprendeva, oltre al diplomatico poi nominato, anche Emilio Ciarlo e Flavio Lovisolo, il direttore dell’Agenzia a Tunisi. La vittoria della diplomazia dunque consiste in questo: che fra i tre candidati, dei quali due erano tecnici di alto profilo già attivi nell’Agenzia e il terzo un diplomatico del ministero degli Affari esteri, è stato scelto quest’ultimo. Il problema che molti vedono sorgere di conseguenza a questa scelta è che l’Agenzia perda di autonomia e diventi «ancella» del ministero. Di conseguenza, il timore è che la cooperazione diventi non più parte integrante e qualificante della politica estera, come l’ha definita la legge 125 del 2014, ma un’appendice striminzita in balia degli umori e delle decisioni prese alla Farnesina, che a loro volta dipendono da equilibri politici più attenti agli interessi economici e alla pancia dell’opinione pubblica che alla solidarietà internazionale.

Interni contro esterni

Accanto a questo dibattito (chiamiamolo per brevità diplomatici versus tecnici) se ne è poi sviluppato uno parallelo, quello degli interni versus esterni, cioè dei candidati appartenenti all’Agenzia o al Maeci, da un lato, e dei candidati provenienti da altri settori – a cominciare dalla società civile – dall’altro.

La prima fase della selezione ha visto uno dei concorrenti «esterni», l’ex presidente della Ong Vis, organizzazione di ispirazione salesiana, poi sindaco di Gaeta e portavoce del network di Ong Cini, Antonio Raimondi, ricorrere al Tar «contro la totale mancanza di trasparenza e contro le palesi ingiustizie da parte della commissione esaminatrice nel proporre la “lista ristretta” al ministro degli Esteri»@.

Non meno polemico è stato Edoardo Missoni, medico specializzato in medicina tropicale e segretario generale dell’Organizzazione mondiale del Movimento Scout dal 2004 al 2007, che sul blog info-cooperazione così ha commentato@ l’incarico al diplomatico toscano: «Era il candidato della Farnesina. Hanno avuto bisogno di tredici mesi per decidere quello che avevano già deciso». Dato il suo precedente ruolo alla «Dgcs che controlla l’Aics», rincara Missoni, a sua volta candidato alla direzione dell’Agenzia nel 2015, «difficile pensare che non abbia avuto voce in capitolo nell’organizzare il concorso al posto per il quale si era candidato. Conflitto d’interessi? L’Avvocatura dello stato deve aver chiuso un occhio (forse entrambi)». Secondo Missoni, il nuovo direttore ha un’esperienza nella cooperazione allo sviluppo «limitata alla burocrazia […], ma la gestione di una Agenzia di cooperazione allo sviluppo avrebbe richiesto altre competenze (anche di un po’ di “gavetta” nei Pvs). E poi, di quale autonomia (di pensiero e azione) sarà capace nei confronti della “casa madre”?».

Più incline a smorzare i toni è stato Nino Sergi, fondatore di Intersos, organizzazione specializzata nell’intervento umanitario d’emergenza, e policy advisor della rete di Ong Link2007, che definisce fuorviante il titolo dell’articolo di Ciavoni su la Repubblica. Il punto non è, a detta di Sergi, se abbia o meno vinto la diplomazia, ma se la scelta di Maestripieri sia quella giusta per contribuire a far funzionare la cooperazione italiana, a migliorarne la qualità e a renderla più efficace. «Oggi la decisione è stata presa e lo sforzo va tutto indirizzato a sostenere il nuovo direttore nel non facile suo compito. È ciò che ho fatto», conclude il fondatore di Intersos, «quando è stata nominata Laura Frigenti (precedente direttrice dell’Aics, ndr), anche se avrei preferito un’altra scelta».

Infine, arriva da Silvia Stilli, portavoce dell’Associazione Ong Italiane (Aoi), un invito all’esame di coscienza: «Credo che tutta questa vicenda in ogni caso meriti una riflessione su come sia percepita la cooperazione internazionale fuori dai nostri contesti di vita ad essa dedicata». Nel suo commento, Stilli sembra voler suggerire che è mancata una nutrita e credibile rappresentanza di candidati non squisitamente ministeriali: «Chi si è candidato all’uscita dell’avviso pubblico dei vari attori? Chi vuole mettersi in gioco in questo percorso? […[ Mi riferisco senza peli sulla lingua al “mio (?) mondo”. Antonio Raimondi escluso. […] Non sono ottimista e non mi va di dare sempre la colpa ai governi». Come dire: se i candidati qualificati e motivati esterni al recinto della diplomazia non si fanno avanti, è ancor più facile che poi «vinca la Farnesina».

Intanto la cooperazione frena

Il 10 aprile è uscito il rapporto annuale dell’Ocse@ sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps), che introduce un nuovo metodo per misurarlo@. Sarà pienamente utilizzato solo dal 2019 ma già per il 2018 l’Ocse pubblica i dati preliminari ottenuti utilizzando la nuova misurazione, che si basa non più sul cosiddetto cash flow, cioè il complessivo valore dei prestiti fatti ai paesi, ma sul grant equivalent, cioè la componente di dono contenuta in questi prestiti. Il principio, insomma, è che chi fa un dono (grant) «aiuta di più» rispetto a chi concede un prestito, ed è necessario misurare l’aiuto in modo da evidenziare più chiaramente questa parte di regalo.

Utilizzando il nuovo metodo, nel 2018, i 30 paesi donatori membri del Development Assistance Committee (Dac, in italiano Comitato di assistenza allo sviluppo) hanno fornito aiuti per un totale di 153 miliardi di dollari, con gli Stati Uniti primo donatore (34,3 miliardi) seguiti da Germania (25), Regno Unito (19,4,), Giappone (14,2) e Francia (12,2 miliardi).

Se si guarda la percentuale dell’aiuto rispetto al Pil, a superare la soglia dello 0,7% sono stati solo la Svezia (1,04%), il Lussemburgo (0,98%), la Norvegia (0,94%), la Danimarca (0,72%) e il Regno Unito (0,7%).

Utilizzando invece il metodo del cash flow, il totale dell’Aps per i paesi Dac è stato di 149,3 miliardi di dollari, con una contrazione del 2,7% rispetto all’anno precedente causata principalmente dalla diminuzione dei costi per l’assistenza ai rifugiati nei paesi donatori. L’Italia è passata dai 5,86 miliardi di dollari del 2017 agli attuali 4,9: una diminuzione del 21,3%. La riduzione dei costi per i rifugiati è responsabile di questo calo solo per meno della metà: al netto di questa voce, infatti, l’aiuto italiano è comunque diminuito di oltre 12 punti percentuali e si attesta sullo 0,24% del Pil a fronte di uno sforzo medio dei paesi Dac pari allo 0,38%@.

Chiara Giovetti

 




Comunicare la cooperazione nel tempo delle fake news


In vista della 53ª giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebrerà il prossimo 2 giugno, affrontiamo il rapporto fra comunicazione e cooperazione, ragionando sulle fake news che riguardano sviluppo, migrazioni e cambiamento climatico e sul perché è più difficile smontarle.

Testo di Chiara Giovetti

«Ti è mai capitato di sentire il bisogno irresistibile di inoltrare agli amici o di condividere sui social network una notizia che ti è piaciuta o ti ha fatto indignare soltanto perché ne hai letto il titolo? Capita a tutti: è un effetto naturale del pregiudizio di conferma (o bias di conferma), cioè la tendenza comune a credere che sia vero quello che vogliamo che sia vero (anche quando non è vero)».

Così Paolo Attivissimo, giornalista e studioso della disinformazione nei media, apre Come diventare detective antibufala@, una guida commissionata dal Miur e dalla Camera dei Deputati.

Le fake news sono agili, immediate, semplici. Spesso sono perfino rassicuranti, anche quando diffondono un’informazione allarmante, perché confermano una nostra opinione e ci fanno sentire scaltri, persone capaci di scoprire la verità anche oltre ciò che «loro non dicono».

Le fake news on devi cercarle, ti trovano loro: ti aspettano sui social, ti inseguono su whatsapp, ti raggiungono passando di bocca in bocca, si mimetizzano fra le altre notizie.

Il debunking e il fact-checking – traducibili come demistificazione e verifica dei fatti – sono invece più lenti, articolati e impegnativi per chi li legge o ascolta. Per verificare le informazioni che ti raggiungono, inoltre, devi volerlo, non puoi essere di fretta e devi essere disposto a farti venire un dubbio, che per definizione non è rassicurante.

Le cose si complicano parecchio quando le fake news si applicano a un ambito poco conosciuto, complicato e eticamente delicato, come è il caso della cooperazione allo sviluppo e dei temi ad essa collegati, dalle migrazioni al cambiamento climatico, dalla povertà e ai diritti umani. Un esempio è la presa di posizione del 4 febbraio 2018 dell’allora eurodeputato Matteo Salvini, che durante un’intervista a Non è l’Arena di Massimo Giletti citava la relazione di una deputata svedese nella quale si introduceva la figura dell’immigrato climatico: «Adesso», commentava sarcastico Salvini, «dovremo ospitare anche gli immigrati climatici: cioè se uno ha freddo, se uno ha caldo… […] A Milano c’è la nebbia, a me non piace la nebbia, e allora mi sposto perché sono un immigrato climatico»@.

Sulla stessa falsariga ci sono state, successivamente, altre interviste televisive di diversi esponenti politici sul franco Cfa (vedi Cooperando su MC di marzo) e sulla Dichiarazione di New York per i migranti e i rifugiati, nota anche come Global Compact. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha definito quest’ultimo accordo internazionale «una vera e propria fregatura» perché «garantisce qualunque tipo di immigrazione: non solo chi scappa dalla guerra, dalla violenza e dalla tortura, ma anche chi scappa dalla povertà, chi scappa dal caldo e chi si muove semplicemente perché gli va».

Sarebbe bastato opporre a Salvini che un migrante climatico non scappa dal caldo o dalla nebbia, ma da fenomeni estremi che rendono invivibile il luogo in cui abita; sul Global Compact sarebbe stato sufficiente controbattere a Giorgia Meloni – come ha fatto Nino Sergi sul giornale online La Voce di New York@ – che «non si tratta di un patto vincolante né intacca la sovranità degli stati. Ma la sua adozione, anche da parte dell’Italia, potrebbe mettere le basi per potere iniziare un cammino, difficile ma possibile, verso un governo ordinato, regolare, sicuro della migrazione».

Tuttavia, in nessuno dei casi citati gli intervistatori sono stati in grado di contestare nel merito le affermazioni dei leader politici proprio perché si tratta di temi scarsamente o per nulla frequentati nei talk show e nei tg del nostro paese. E le informazioni errate contenute in quelle affermazioni, se non vengono immediatamente arginate finiscono per dilagare, amplificate dai social network. Dimenticando, tra l’altro, che ci sono diversi italiani «migranti climatici», secondo la definizione salvianiana, in altri paesi, come a Malindi in Kenya o in Portogallo.

© Daniele Biella

Perché cooperazione e temi limitrofi sono tanto indigesti?

Il problema principale nel correggere un’informazione imprecisa sulla cooperazione, sulla migrazione e sugli ambiti a esse vicini è che non basta opporre un’argomentazione corretta, bisogna anche spiegare un sacco di cose. Non si parla di pensioni, di partite Iva o di reddito di cittadinanza, argomenti con cui la stragrande maggioranza delle persone viene a contatto direttamente o attraverso le esperienze di amici e parenti. Si parla viceversa di un tema che, per quanto negli ultimi anni ampiamente trattato e fortemente sentito@, rimane percepito come lontano dal quotidiano e dai bisogni immediati dei cittadini italiani.

A sua volta, chi si trova a comunicare la cooperazione e il suo funzionamento deve avvalersi di strumenti che tengano conto della delicatezza dell’argomento. Deve, cioè, evitare sia quella che in un acceso dibattito di qualche anno fa venne definita la pornografia del dolore, sia la troppa leggerezza@.

A questo proposito il Saih, Fondo degli studenti e accademici norvegesi per l’assistenza internazionale, ha monitorato fino al 2017 gli spot promozionali delle organizzazioni attive nello sviluppo, istituendo premi – ironicamente chiamati golden radiator o rusty radiator, il radiatore d’oro o arrugginito – per i migliori e i peggiori messaggi pubblicitari. Nell’ultima edizione, il vincitore del radiatore arrugginito è stato lo spot del Disasters Emergency Committee, organizzazione che riunisce 14 agenzie britanniche per l’aiuto umanitario. Il video promozionale, che aveva l’obiettivo di raccogliere fondi per la crisi in Yemen@, è stato giudicato «didascalico e stereotipato, lesivo della dignità di coloro che soffrono, uno spot che ci riporta agli anni ottanta e che sottintende: noi siamo i buoni, voi gli egoisti». Viceversa, il radiatore d’oro è andato allo spot di War Child Holland@, organizzazione attiva nella protezione e assistenza ai bambini in zone di conflitto. Il video ritrae un bambino in un campo profughi mentre gioca e svolge le sue attività quotidiane insieme a un Batman grosso e rassicurante ma anche divertente e un po’ buffo che lo accompagna e lo protegge, con il sottofondo musicale di You’re my best friend dei Queen. Solo nelle ultime inquadrature cessa la musica e il Batman si rivela essere il papà del bambino, un supereroe del giorno per giorno che porta in braccio il figlio allontanandosi dalle macerie fumanti di una città in guerra. Il video si conclude con una frase che recita: per alcuni bambini la fantasia è l’unico modo per scappare dalla realtà.

Comunicare la cooperazione significa muoversi all’interno di questi confini, per delineare meglio i quali la rete nazionale di Ong irlandesi ha elaborato nel 2015 un Codice di condotta@ in cui si raccomanda di evitare gli stereotipi, di dar precedenza alla testimonianza delle persone direttamente interessate e ottenerne comunque sempre il consenso prima di usarne immagini e parole, favorire una comunicazione in cui le immagini e situazioni non illustrino solo l’immediato – un bisogno, un problema – ma anche il più ampio contesto in cui si colloca, così da permettere al pubblico una miglior comprensione delle realtà e delle complessità dello sviluppo.

© AfMC / Beppe Svanera – Marialabaja, Colombia / È l’olio di palma che fa male o il modo di coltivarlo?

Le fake news sulle Ong

Una efficace sintesi delle principali notizie false che circolano sulle Ong era stata fornita lo scorso marzo da Paolo Dieci, il compianto presidente della Ong Cisp (Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) e della rete Link2007 scomparso nell’incidente aereo del 10 marzo, quando il Boeing diretto a Nairobi su cui volava insieme ad altri 156 passeggeri è caduto poco dopo il decollo da Addis Abeba. La rete Link2007 ha dedicato a Paolo Dieci un documento dal titolo Ong e trasparenza. Realtà e normativa in essere, che si chiude con il testo di una mail inviata dal presidente ai colleghi la sera prima dell’incidente. Nel messaggio, individuava cinque falsi miti secondo i quali le Ong «fanno ciò che vogliono; nessuno le controlla; fanno politica di parte; sottraggono risorse alla collettività; favoriscono la migrazione irregolare».

Paolo Dieci smentiva questi luoghi comuni precisando i seguenti punti:
«a) non esiste un singolo progetto realizzato che non sia stato approvato da soggetti rappresentativi dei paesi, inclusa l’Italia;
b) in media un’Ong della nostra dimensione riceve 30-40 audit annuali oltre a 2 livelli di verifica del bilancio;
c) le Ong non si schierano per “partiti” ma per “cause” e ho fatto l’esempio del Global Compact sulla Migrazione;
d) le Ong di Link 2007 portano molte più risorse al sistema Italia di quante ne ricevano, impattando anche sul piano occupazionale e formando giovani;
e) le Ong, concretamente, sono spesso sole a prevenire la migrazione a rischio, ma sempre avendo come riferimento i diritti umani»@.

© Paolo Moiola / moschea in Pakistan / È la religione che fa diventare violenti o i violenti che usano la religione per giustificarsi?

Il messaggio del Papa sulla comunicazione

Siamo membra gli uni degli altri (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana: questo il titolo del messaggio di papa Francesco per la 53a giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebrerà il prossimo due giugno@.

Pubblicato il 24 gennaio – giorno in cui si ricorda San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti – il messaggio parte dall’invito del pontefice a riflettere sul nostro essere «in relazione» e a riscoprire «il desiderio dell’uomo che non vuole rimanere nella propria solitudine».

La rete in sé è uno strumento neutro: può essere un veicolo di incontro con l’altro ma anche di autoisolamento, «come una ragnatela capace di intrappolare», di cui sono vittima specialmente i ragazzi, più esposti all’illusione che la rete da sola possa soddisfare le loro esigenze relazionali.

«È chiaro», prosegue il messaggio, «che non basta moltiplicare le connessioni perché aumenti anche la comprensione reciproca», che può crescere solo nella comunione, la quale si nutre della verità mentre al contrario la menzogna divide e «smembra».

Il riferimento all’essere membra gli uni degli altri rimanda poi anche a un secondo aspetto, quello dell’importanza dell’incontro in carne e ossa. Se la rete è funzionale a questo incontro, lo facilita e lo arricchisce, allora è una risorsa.

«Questa è la rete che vogliamo», conclude il papa, «una rete non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere».

Il tema della precedente giornata mondiale delle comunicazioni era illustrato da una frase del Vangelo di Giovanni: la verità vi renderà liberi. Se è così, allora la post verità – in cui l’emotività sostituisce i fatti oggettivi nella formazione delle opinioni delle persone – prelude alla post libertà. E non ha l’aria di essere uno scenario da augurarsi.

Chiara Giovetti




Aiutarli a casa loro:

dalle parole ai fatti

Testo di Chiara Giovetti |


Negli ultimi anni si susseguono le dichiarazioni di intenti dei governi sull’impegno per lo sviluppo. Spesso si tratta di declinazioni più o meno esplicite dell’idea «aiutiamoli a casa loro» e si concentrano principalmente sull’Africa. Ma, ancora una volta, gli slogan allontanano, non avvicinano, i cittadini dalla comprensione dei fatti.

Diciamolo subito: ci vorranno anni, decenni probabilmente. Anche volendo prendere sul serio lo slogan «Aiutiamoli a casa loro», anche cominciando subito e anche mettendoci il doppio delle risorse che ci mettiamo ora, ci vorranno anni prima che il livello di sviluppo nei paesi di provenienza dei migranti sia tale da ridurre i flussi migratori.

Qualunque politico che affermi: stiamo lavorando per creare lavoro e opportunità in Africa, dovrebbe aggiungere almeno tre cose: la prima è che ci vorrà tempo prima che l’aiuto mondiale allo sviluppo sia in grado di incidere in modo decisivo sulle economie dei paesi a cui è diretto. La seconda è che, comunque, questo aiuto può essere efficace a patto che si riducano le spinte in senso contrario e che gli sia consentito di orientare in senso redistributivo l’aumento di ricchezza che i paesi a basso reddito tenteranno di raggiungere con le proprie forze. La terza, di cui solo da pochi anni si è cominciato a parlare, ma che ha il potenziale di minare alle fondamenta le tesi degli anti immigrazionisti, è che potrebbe andare peggio prima di andare meglio. Diversi studi, infatti, mettono in discussione l’equazione «più sviluppo uguale meno migrazione» e suggeriscono, al contrario, che il miglioramento delle condizioni di un paese potrebbe spingere i suoi cittadini a emigrare di più, non di meno.

Secondo il sondaggio dell’Eurobarometro pubblicato lo scorso settembre, gli italiani nel 2017 erano più convinti rispetto all’anno precedente che affrontare il problema della povertà nei paesi in via di sviluppo dovrebbe essere una priorità sia per l’Unione europea che per il governo italiano. Rispetto alla rilevazione del 2016, inoltre, gli intervistati favorevoli a che l’Ue e i suoi stati membri spendessero di più per aiutare i paesi poveri erano aumentati del 10%@.

La crescente sensibilità verso questo tema è con tutta probabilità legata al fenomeno migratorio e all’urgenza di trovare soluzioni per gestirlo: l’arrivo di migliaia di esseri umani sulle coste europee ci ha spinti a chiederci quali siano i motivi che portano i migranti ad affrontare un viaggio così drammatico e i rischi mortali ad esso connessi. A fronte di questa maggior sensibilità verso lo sviluppo, lasciare intendere – con affermazioni pressappochiste – che la cooperazione sia lo strumento per una soluzione raggiungibile nello spazio di una legislatura rischia di peggiorare, e di molto, le cose. Perché crea aspettative che, semplicemente, non possono che essere disattese e getta le basi per un pericoloso passaggio successivo: se la cooperazione non serve, non facciamola più.

A che punto siamo

Il mondo dello sviluppo non solo è lontano dall’essere una bancarella di bacchette magiche capaci di risolvere velocemente i problemi se solo ci si decidesse a usarle; è anche un mondo inquieto e percorso in profondità da dubbi e contraddizioni. Sono passati dieci anni da quando il libro Dead Aid (in italiano: La carità che uccide), scritto dall’economista zambiana Dambisa Moyo, ha ferocemente criticato il sistema degli aiuti. «Negli ultimi cinquant’anni», scriveva Moyo nell’introduzione, «più di mille miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo sono stati trasferiti dai paesi ricchi verso l’Africa. Questa assistenza ha migliorato la vita degli africani? No. In realtà, in tutto il globo, i beneficiari di questo aiuto stanno peggio. Molto peggio». E solo quattro anni fa la comunità internazionale si sedeva (simbolicamente) intorno a un tavolo per constatare che gli Obiettivi di sviluppo del Millennio, trionfalmente lanciati nel 2000, non erano stati completamente raggiunti@.

Oggi, mentre gli Obiettivi di sviluppo del Millennio hanno lasciato il posto agli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2015-2030, gli addetti ai lavori nelle agenzie internazionali, nei governi e nelle Ong stanno ancora ponendosi molte domande non solo sugli interventi sui quali concentrarsi ma anche su come misurare i risultati.

Euractiv, rete di media europei che segue l’attualità e il dibattito sui temi rivelanti per l’Ue, ne ha parlato con Sarah Holzapfel, economista e ricercatrice specializzata sull’agricoltura all’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo (Die). Non basta, sottolinea Holzapfel, citare come risultati il numero di chilometri di strade costruiti o l’acqua fornita con i progetti idrici. «Le vite dei gruppi beneficiari sono cambiate? Il loro reddito è cresciuto? La sicurezza alimentare è aumentata?». Queste sono le domande da porsi per capire qual è l’impatto della cooperazione. E, in mancanza di criteri comuni e di sforzi coordinati fra tutti i donatori, compiere queste misurazioni è a oggi estremamente complicato@.

Non bisogna inoltre dimenticare che parte delle difficoltà a misurare non solo i risultati ma anche i problemi da affrontare deriva dalla molto variabile disponibilità di dati statistici e dalla loro non sempre immediata comparabilità. È un’informazione che fatica a farsi strada fino alle pagine degli esteri dei quotidiani nazionali e, meno ancora, dei Tg della sera, eppure è fondamentale.

Haishan Fu, direttrice della sezione della Banca Mondiale che si occupa dei dati dell’economia dello sviluppo, ammoniva lo scorso febbraio che «ci sono ancora molti spazi vuoti sulla mappa dei dati a livello globale», e che «fino a pochi anni fa, 77 paesi ancora non disponevano dei dati adeguati a misurare la povertà. Quel che è peggio è che spesso i dati sono più scarsi proprio nelle zone dove sarebbero disperatamente necessari»@.

D’altro canto, da paesi che, come vedremo fra poco, non riescono a finanziare sanità e istruzione non ci si può aspettare che investano fondi per potenziare i propri istituti nazionali di statistica.

Questo significa che la cooperazione è uno strumento eccessivamente fragile ed è meglio non contarci troppo? No, il contrario. Significa che va fatta a meglio. Con più risorse e anche più coordinamento.

L’Overseas Development Institute (Odi), centro di ricerca con sede a Londra, sottolineava lo scorso autunno che ci sono ancora 800 milioni di persone in povertà estrema, ma il grosso dell’aiuto va ai paesi a medio reddito, non ai più poveri, perché in questi ultimi è più rischioso investire. Anche quando si tratta di aiuti@.

In un rapporto del settembre 2018@ l’Odi individua 48 paesi nei quali l’aumento (stimato) del gettito fiscale nei prossimi anni non arriverà comunque a coprire del tutto i costi per finanziare i tre settori chiave: istruzione, sanità e protezione sociale. Fra questi 48, il rapporto ne isola poi 29 in forte difficoltà economica (severely financially challenged, in inglese): tutti africani tranne Afghanistan, Corea del Nord e Haiti. Si tratta di paesi che non riescono a coprire nemmeno la metà dei costi per far funzionare i tre settori. Se almeno 33 dei 40 miliardi di dollari in aiuti che ora vanno a paesi già in grado di far fronte da soli ai quei costi venissero invece spostati su quei 29 Paesi più deboli, la spesa di questi ultimi per sanità, istruzione e protezione sociale sarebbe coperta.

Inoltre, se tutti i paesi donatori destinassero come da accordi internazionali lo 0,7% del loro Pil alla cooperazione, 184 miliardi di dollari all’anno in più sarebbero disponibili. Ipotizzando che anche solo metà di questi fossero utilizzati dai 48 paesi di cui sopra, tutti potrebbero far fronte al 94% dei costi per i tre ambiti cruciali.

È ovvio che un aiuto efficace richiede coordinamento, assunzione (e mantenimento) di impegni a livello internazionale e, lo ripetiamo, tempo per produrre e consolidare gli effetti.

Le spinte in senso contrario

Non è colpa solo di quell’arpia della Francia o dei malvagi cinesi. Le spinte in senso contrario allo sviluppo e alla riduzione della povertà sono forti e arrivano da molte direzioni. Honest accounts@, un rapporto prodotto nel 2017 da un gruppo di Ong britanniche e africane, rileva che nel 2015, a fronte di circa 162 miliardi di dollari ricevuti in prestiti, rimesse dei migranti e aiuto allo sviluppo, l’Africa subsahariana ha visto uscire dal continente risorse per 203 miliardi. Il saldo, per gli stati a Sud del Sahara, è negativo di circa 40 miliardi.

Come sono usciti questi soldi? Attraverso fatturazione irregolare e altri illeciti finanziari, rimpatrio dei profitti delle grandi aziende (realizzati sul continente africano ma poi riportati nei paesi dove le multinazionali hanno sede o nei paradisi fiscali), rimborso degli interessi sul debito e contrabbando di legno, prodotti ittici e piante o animali selvatici. A questo si aggiungono i fondi che una manciata di milionari africani mettono al sicuro nei paradisi fiscali. Secondo Gabriel Zucman, studioso della London School of Economics, nel 2014 gli africani ricchi detenevano 500 miliardi di dollari in conti offshore. Questi denari non tassati provocano una perdita fiscale per il continente di circa 15 miliardi.

Altra nota dolente è quella della svendita delle risorse naturali: sono numerosi e documentati i casi di funzionari pubblici o membri dei governi africani che, in cambio di tangenti, hanno ceduto a imprese straniere i diritti sullo sfruttamento delle risorse minerarie a prezzi stracciati.

Un esempio per tutti: il rapporto cita uno studio pubblicato nel 2013 dalla Ong britannica Global Witness e dall’Africa Progress Panel, un gruppo di studiosi e leader africani all’epoca presieduto dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan. Lo studio si concentrava su cinque grandi concessioni per estrazione mineraria in Repubblica Democratica del Congo e riportava che lo stato congolese aveva accettato di cedere i diritti di estrazione alle compagnie acquirenti – tutte società offshore con sede nelle Isole Vergini Britanniche – per un miliardo e 360 milioni in meno rispetto al valore di mercato, praticando alle aziende «sconti» fino al 95%. I diritti sono poi stati acquistati da due grandi multinazionali, la Enrc (Eurasian Natural Resources Corporation, fondata in Kazakistan e quotata in borsa a Londra) e l’anglo-svizzera Glencore, mentre le società offshore sono risultate legate a Dan Gertler, uomo d’affari israeliano membro di una delle famiglie più influenti nel mercato dei diamanti. Il miliardo e 360 milioni di mancato introito per le casse dello stato congolese, conclude il rapporto, equivale al doppio di quanto il Congo ha speso nel 2012 per istruzione e sanità.

Più sviluppo meno migrazione?

Sulla rivista dei gesuiti Aggiornamenti Sociali, il sociologo delle migrazioni Maurizio Ambrosini segnala che secondo diverse ricerche sul rapporto fra aiuto e migrazione «in una prima non breve fase lo sviluppo incrementa le partenze: più gente accede alle risorse per muoversi, accresce l’istruzione, si apre a nuovi orizzonti e aspirazioni. Solo in seguito, dopo diversi anni, l’emigrazione cala»@.

È la cosiddetta «gobba della migrazione» o migration hump: studi storici e comparati, si legge in un documento dell’Istituto Tedesco per le Politiche dello Sviluppo, hanno mostrato che quando la crescita economica e l’innalzamento del livello dei redditi sono tali che un paese non è più definibile a basso reddito, l’emigrazione inizialmente aumenta. Solo quando il paese diventa a medio reddito è ragionevole aspettarsi una diminuzione del fenomeno@.

Per riassumere: chi ci dice che il problema della migrazione degli africani si risolve aiutandoli a casa loro, in sostanza, ci sta dicendo che bisogna almeno raddoppiare i fondi italiani per lo sviluppo, mettersi d’accordo con una trentina di altri paesi donatori perché il denaro sia usato al meglio, convincere la parte corrotta delle élites africane e la parte corruttrice delle grandi aziende internazionali – italiane comprese – a piantarla e, fatto questo, metterci comodi e pazientare ancora qualche anno perché lo sviluppo nei paesi africani sia sufficiente a far diminuire l’emigrazione invece che incrementarla. «Sapevatelo», diceva un famoso comico.

Chiara Giovetti