Rimesse e rifugiati


Il 16 giugno è la Giornata mondiale delle rimesse familiari, mentre il 20 giugno è la Giornata mondiale del rifugiato. Due occasioni per farsi un’idea dell’ampiezza di questi fenomeni e per riflettere sulla vita delle persone che vivono lontano da casa e sul contributo che danno alle comunità di origine e di soggiorno.

Secondo le proiezioni diffuse lo scorso novembre dalla Banca Mondiale, le rimesse dei lavoratori migranti verso i paesi a medio e basso reddito avrebbero raggiunto nel 2021 i 589 miliardi di dollari, con un incremento del 7,3% rispetto al 2020, quando si erano attestate sui 549 miliardi. La ripresa del 2021, sottolinea la Banca, fa seguito alla tenuta osservata nei flussi del 2020, quando le rimesse si erano ridotte solo dell’1,7% rispetto all’anno prima, nonostante il pianeta si trovasse, a causa della pandemia da coronavirus, in una delle più profonde recessioni di sempre e le prime stime avessero indicato un possibile calo delle rimesse del 19,7%@.

Il fenomeno, si legge sul sito ufficiale della Giornata mondiale delle rimesse familiari, interessa un miliardo di persone, cioè circa una persona ogni otto, il 14% della popolazione mondiale: sono infatti 200 milioni i lavoratori migranti che inviano risorse e 800 milioni i loro familiari che le ricevono. Le famiglie beneficiarie usano tre quarti del denaro ricevuto per soddisfare bisogni primari: cibo, istruzione, cure mediche@.

Sempre secondo i dati presenti sul sito, il totale delle rimesse mondiali – considerando quindi tutti i paesi del mondo e non solo quelli a basso e medio reddito – sarebbe pari a 859 miliardi di dollari. La metà dei fondi inviati va alle aree rurali e per ottanta paesi queste risorse rappresenterebbero oltre il 3% del Pil.

Secondo le stime, che saranno poi corrette o confermate nel corso di quest’anno, i primi dieci paesi riceventi nel 2021 sono stati India (87 miliardi di dollari), Cina e Messico (53), Filippine (36), Egitto e Pakistan (33), Bangladesh (12), Vietnam e Nigeria (18) e Ucraina (16). Per alcuni paesi il peso delle rimesse sull’economia nazionale è decisivo: per Tonga, rappresenta il 44% del Pil, per il Libano il 35%, il 30% per il Kirghizistan.

Nel 2021, secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), l’aiuto pubblico allo sviluppo a livello globale è stato di 178,9 miliardi di dollari: un terzo delle rimesse verso i paesi a medio e basso reddito@.

Difficoltà di misurazione

Non è facile quantificare con precisione i volumi delle rimesse familiari. La difficoltà emerge già dal confronto fra il dato riportato dal sito della Giornata mondiale circa il totale delle rimesse planetarie, gli 859 miliardi di dollari citati sopra, e il totale dei flussi di rimesse indicati dalla Banca Mondiale, secondo la quale sarebbero pari a 751 miliardi di dollari.

Come osserva uno studio del Migration data portal, un portale sulla migrazione curato dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) insieme ad altri partner, fra cui l’Agenzia per la cooperazione tedesca, occorre innanzitutto chiarire che Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale usano, per determinare il volume delle rimesse, i dati statistici relativi alla bilancia dei pagamenti nazionale fornita dalle banche centrali dei vari paesi. In particolare, a comporre le rimesse contribuiscono due voci: da un lato, i compensi percepiti dai lavoratori dipendenti nel paese ospitante, a loro volta composti dai redditi dei lavoratori migranti temporanei e del personale di ambasciate, organizzazioni internazionali e società straniere; dall’altro, i trasferimenti personali da un paese all’altro, fatti da privati in favore di privati@.

La categoria «compensi dei dipendenti» può contribuire a «sovrastimare in modo significativo le rimesse dei migranti se un paese ha una grande presenza delle Nazioni Unite e/o di un’ambasciata e ospita fabbriche di società transnazionali che impiegano un gran numero di lavoratori. Questi dipendenti possono essere contati come “non residenti” o migranti nel paese e i loro stipendi essere registrati come rimesse».

Quanto ai trasferimenti personali, la categoria comprende le transazioni che vanno da un paese all’altro, a prescindere dal fatto che a inviare o ricevere denaro sia un migrante: per questo, l’invio di somme anche consistenti di denaro da parte di investitori privati o delle diaspore per effettuare investimenti, acquisti o altre transazioni finanziarie possono finire nel computo, anche se è difficile immaginare che queste operazioni siano rimesse familiari.

Se questi fattori portano a sovrastimare i volumi, ce ne sono altri che invece possono contribuire a sottostimarli: il Fondo monetario e la Banca Mondiale, spiega lo studio su Migration data portal, si concentrano sui fondi trasferiti attraverso i canali ufficiali, cioè le banche, mentre le piccole transazioni fatte tramite le agenzie come Western Union, le poste o i servizi via cellulare, come Sendwave legato a Mpesa per l’East Africa, non sempre sono inclusi, meno ancora lo sono i passaggi di fondi informali tramite parenti e amici. «Poiché questi trasferimenti non sistematicamente inclusi nella bilancia dei pagamenti possono avere volumi significativi, specialmente fra paesi del Sud del mondo, è possibile che i dati ufficiali sottostimino il fenomeno fino al 50%».

Nogales, Croci sul lato messicano del muro di confine con gli Usa in ricordo delle migliaia di morti nel disperato tentativo di passare il confine.

Costi alti per l’invio

Secondo quanto riportato da Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite, in media i migranti inviano a casa una cifra compresa fra 200 e 300 dollari ogni mese o bimestre. Questa cifra, chiarisce Ifad, rappresenta solo il 15% di ciò che guadagnano, mentre l’85% rimane nei paesi ospitanti. Tuttavia, la cifra inviata può rappresentare fino al 60% del reddito familiare@.

I costi dell’invio dei fondi sono piuttosto elevati: in media il 6,4% della somma inviata nel secondo trimestre del 2021, con picchi fino all’8% nell’Africa subsahariana. Va un po’ meglio se si utilizzano i canali digitali, che nel primo trimestre dell’anno scorso hanno permesso di abbassare i costi fino al 5,1%. In entrambi i casi, comunque, i costi rimangono piuttosto lontani dalla soglia del 3% entro il 2030 indicata dall’obiettivo di sviluppo sostenibile 10c.

Le limitazioni di movimento imposte con i lockdown hanno fatto aumentare le transazioni digitali, che hanno raggiunto i 12,7 miliardi di dollari crescendo del 65% rispetto all’anno precedente.

Ma il principale ostacolo all’uso degli strumenti digitali continua a essere il fatto che questi necessitano di un conto corrente per essere attivati: moltissimi migranti e i loro familiari continuano a non avere conti correnti nei loro paesi d’origine.

Ai costi elevati si aggiungono poi in alcuni casi i rischi legati al mal funzionamento degli intermediari: lo scorso aprile il New York Times riportava una denuncia da parte dell’ufficio per la protezione finanziaria dei consumatori e del procuratore generale dello stato di New York ai danni della società di trasferimento fondi MoneyGram, accusata di aver danneggiato i consumatori ritardando inutilmente le transazioni, non effettuando i rimborsi delle commissioni richieste quando gli invii non venivano completati in tempo e omettendo di indagare e correggere gli errori commessi nei trasferimenti@.

Deep Sea slum, Nairobi. Punto Mpesa per trasferimento di soldi via cellulare.

Rifugiati in aumento

Secondo i dati aggiornati allo scorso novembre dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), c’erano nel 2021 nel mondo 48 milioni di sfollati interni, 26,6 milioni di rifugiati e 4,4 milioni di richiedenti asilo, per un totale di 84 milioni di persone: più o meno l’equivalente della popolazione della Germania.

Circa il 42%, cioè 35 milioni, sono bambini sotto i 18 anni. Due su tre di questi provenivano da cinque paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar, mentre il 39% era ospitato in cinque paesi: Turchia (3,7 milioni), Colombia (1,7), Uganda (1,5), Pakistan (1,4) e Germania (1,2). Sono i paesi in via di sviluppo ad accogliere l’85% dei rifugiati e tre rifugiati su quattro sono ospitati nei paesi limitrofi a quelli di partenza.

Questi dati non potevano tenere conto della guerra e della relativa emergenza umanitaria e migratoria in Ucraina, che al numero dei profughi e richiedenti asilo ha aggiunto 5,3 milioni di persone fuggite nei paesi confinanti@ e 7,7 milioni di sfollati interni@ (dati del 19 aprile 2022, vedi sotto).

Un’altra grande crisi umanitaria del pianeta è quella dello Yemen, con 4,3 milioni di sfollati interni, dei quali il 79% sono donne e bambini, e oltre 23 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria. Nell’aggiornamento di aprile 2022, l’Alto commissariato riportava che per garantire assistenza a queste persone nell’anno in corso erano necessari 291,3 milioni di dollari, ma al 12 aprile solo 49,2 milioni erano stati messi a disposizione dai vari donatori dell’Unhcr@. Resta poi irrisolta anche la crisi siriana, con 6,7 milioni di sfollati interni e 6,6 milioni di rifugiati nel mondo, di cui 5,6 milioni accolti nei paesi confinanti con la Siria@.

Chiara Giovetti


Ucraina, rimesse e rifugiati

Secondo i dati disponibili sul sito dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, al 26 aprile erano 5.317.219 le persone che avevano lasciato l’Ucraina dallo scoppio della guerra, il 24 febbraio. Di questi, 2,9 milioni si erano spostati in Polonia, 793mila in Romania, 627mila in Russia, 507mila in Ungheria, 437mila in Moldavia, 360mila in Slovacchia e poco meno di 25mila in Bielorussia@.

Su una popolazione totale di 44 milioni di persone, a fine aprile 24 milioni avevano urgente bisogno di assistenza umanitaria e protezione. Secondo le proiezioni dell’Unhcr i rifugiati potrebbero arrivare a 8,3 milioni a dicembre 2022@.

A metà 2020 gli ucraini che vivevano al di fuori del paese erano 6.139.144, di cui 2.778.617 uomini e 3.360.527 donne, più o meno equamente divisi tra Europa e Federazione russa. L’Unione europea ne ospitava circa 833mila, di cui quasi 290mila in Germania, 272mila in Polonia e poco meno di 250mila in Italia@.

La Banca mondiale riporta i dati più recenti della banca nazionale ucraina, secondo i quali le rimesse dei lavoratori ucraini verso il paese avevano superato nel 2021 i 19 miliardi e rappresentavano il 12% del Pil, cioè tre volte tanto il valore dell’investimento diretto estero. La stima per il 2022 è che i trasferimenti aumentino dell’8%: è infatti probabile che la quota di rimesse dei lavoratori ucraini dalla Russia, già diminuita dal 27% al 5% negli ultimi sei anni, subisca un ulteriore, drastico calo a causa della guerra, ma venga più che compensata dalle rimesse provenienti dalla Polonia e dagli altri paesi che ospitano lavoratori ucraini@.

C.G.


Le giornate mondiali Onu, storia

La Giornata mondiale dei diritti umani è la prima delle giornate mondiali stabilite dalle Nazioni unite: si celebra il 10 dicembre e fu approvata dall’Assemblea generale Onu nel 1950, per commemorare la proclamazione, il 10 dicembre 1948, della Dichiarazione universale dei diritti umani. Tale Dichiarazione è a tutt’oggi il documento più tradotto nel mondo: oltre 500 lingue. Per capire il peso di questa giornata è forse utile ricordare che fu stabilita cinque anni dopo la fine di una guerra che aveva causato decine di milioni di morti e aveva visto, appunto, i diritti umani violati e negati con una sistematicità, un’ampiezza e una ferocia forse mai viste prima nella storia dell’umanità.

Queste giornate, precisa il Centro regionale di informazione delle Nazioni Unite, «sono un’occasione per informare le persone su questioni importanti, per mobilitare le forze politiche nell’incanalare le risorse per risolvere problemi globali e per celebrare e rafforzare i successi dell’umanità».

Le giornate mondiali vengono proclamate dall’Assemblea generale su proposta degli stati membri e, in alcuni casi, dalle agenzie specializzate dell’Onu che vogliono portare l’attenzione su un tema specifico di propria competenza: ad esempio, la giornata mondiale per la libertà di stampa (3 maggio) è stata introdotta dall’Unesco e in seguito adottata dall’Assemblea generale.

Di solito, per ogni giornata mondiale viene predisposto un sito, o almeno una pagina web, dai quali è possibile scaricare materiale informativo e di sensibilizzazione e anche trovare gli eventi organizzati nel proprio paese e nel mondo in occasione della ricorrenza.

Fra le giornate mondiali più note e celebrate vi sono la Giornata internazionale della donna, l’8 marzo, quella della Terra, il 22 aprile e la Giornata internazionale della pace il 21 settembre.

Vi sono, inoltre, giornate indette da altre organizzazioni: il 16 giugno, ad esempio, è la giornata del bambino africano, una ricorrenza osservata dall’Unione africana e dai suoi membri@.

 

 




Salute mentale, servono dati e risorse


Circa un miliardo di persone nel mondo soffre di disturbi di salute mentale o derivanti dall’uso di alcol e droghe. Eppure, solo una persona su quattro ha la possibilità di accedere a trattamenti adeguati. Il risultato è una perdita significativa di anni di vita in salute e un costo molto elevato per l’economia mondiale. MConlus affronta anche questo problema tramite le sue missioni in Costa d’Avorio, Messico e Kenya.

Secondo i dati elaborati Our world in data, il portale di divulgazione scientifica sviluppato dall’università di Oxford, nel 2019 erano 792 milioni le persone che convivevano con un disturbo di salute mentale. Il più comune era l’ansia, che toccava 284 milioni di persone, seguito dalla depressione per 264 milioni; 46 milioni di individui presentavano disturbi dello spettro bipolare, 20 milioni erano affetti da schizofrenia o altre psicosi e 16 milioni avevano disordini alimentari. A questi si aggiungevano poi 107 milioni di persone con disturbi derivanti dall’uso di alcol e 71 milioni dall’uso di droghe, per un totale di poco meno di un miliardo di persone@.

I dati, chiarisce il portale, vengono dall’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington, a Seattle (Usa), il cui studio Global burden of disease (Gbd) ha indagato gli effetti di 290 malattie e 67 fattori di rischio nel mondo. Il Gbd@ è uno dei principali punti di riferimento per gli studi sulla salute mentale, ampiamente citato e utilizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tuttavia, gli stessi ricercatori che lo hanno realizzato segnalano che su questo tema i dati sono spesso lacunosi e raccolti in modo disomogeneo, specialmente quando riguardano i paesi a medio e basso reddito. Di conseguenza, in particolar modo in quei paesi, l’ampiezza del fenomeno è probabilmente sottostimata.

La pandemia da Covid-19, calcola inoltre l’Ihme, ha indotto un aumento dei casi di ansia (+76,2 milioni) e depressione grave (+53,2 milioni), colpendo in modo particolare le donne e i più giovani@.

Malato mentale chiuso in gabbia nelle Filippine.

Anni di vita persi e risorse insufficienti

Le persone con problemi di salute mentale gravi, sottolinea l’Oms sulla sua pagina dedicata alla salute mentale, muoiono prematuramente – anche con vent’anni di anticipo – a causa di malattie prevenibili e la depressione è una delle principali cause di disabilità.

L’aspetto della disabilità e degli anni vissuti in meno, precisa Our world in data, è molto importante, perché permette di cogliere l’impatto che questi disturbi hanno sulla salute in modo più dettagliato di quanto non sia possibile fare limitandosi solo ai decessi. In particolare, permette di cogliere il cosiddetto «carico di malattia» (disease burden) misurato in anni di vita corretta per disabilità (Daly, o Disability-adjusted life year), cioè la somma del numero di anni persi a causa di malattia o disabilità più quelli persi per morte prematura.

Utilizzando questo indicatore, i disturbi legati alla salute mentale rappresentano il 5% del carico globale di malattia e sono responsabili del 14% degli anni vissuti con malattia o disabilità@.

I problemi di salute mentale non risparmiano gli adolescenti: uno su cinque soffre di questi disturbi e il suicidio è la seconda causa di morte fra le persone fra i 15 e i 29 anni. Anche nelle situazioni post-conflitto la proporzione di persone con un problema di salute mentale è di una ogni cinque. Il costo per l’economia mondiale dei due disturbi più diffusi, l’ansia e la depressione, è quantificato in circa mille miliardi di dollari l’anno@.

Nonostante questi dati, la spesa media per la salute mentale è di circa il 2% al livello globale e anche nell’aiuto pubblico allo sviluppo la quota destinata ad affrontare questo tema non va oltre l’1% dell’aiuto destinato al settore sanitario (che a sua volta è una frazione di quello totale). Tre quarti delle persone affette da uno di questi disturbi non ricevono alcun trattamento e, anzi, si trovano spesso a vivere in contesti in cui pregiudizio, violazioni dei diritti umani, stigmatizzazione e leggi del tutto inadeguate rendono ancora più difficile la loro situazione.

Incontro di formazione a Guadalajara, Messico

La salute mentale e lo stigma

Diversi reportage negli ultimi anni hanno descritto le condizioni in cui sono spesso costrette a vivere le persone affette da questi disturbi nei paesi a basso reddito@: la pratica di incatenare i malati e di confinarli in luoghi come i prayer camps, i campi di preghiera, è una violazione dei diritti umani e peggiora la loro condizione. Anche questa rivista ha raccontato nel 2018 uno degli sforzi di fornire un’assistenza adeguata alle persone con disagio mentale e diffondere la conoscenza del problema in alcuni paesi dell’Africa Occidentale (vedi MC 8-9/2018, Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon).

Priorità: salute mentale

Oggi, nel centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata hanno avviato un servizio di assistenza per le persone con disturbi di salute mentale che il responsabile, padre Matteo Pettinari, progetta di far diventare un giorno un vero e proprio centro diurno.

Uno dei vantaggi di un servizio come questo è poter distinguere fra disturbi di salute mentale, malattie neurologiche e patologie che non hanno nulla a che fare con le due condizioni precedenti. Operare questa distinzione è particolarmente importante nel caso di un disturbo cronico del cervello come l’epilessia@, la cui comprensione in paesi come quelli africani è tuttora inficiata da superstizioni e stigmatizzazione.

Padre Matteo riporta il caso di un giovane preso in carico dal centro di salute di Dianra: «Étienne ha l’epilessia, ma purtroppo qui non è stata subito riconosciuta come tale e, anzi, è stata interpretata come un problema di interferenza con il mondo degli spiriti e altre letture di questo genere, che affondano le proprie radici nella tradizione culturale e nella cosmovisione del popolo senoufo. Per questo la famiglia lo ha progressivamente ritirato dalla scuola e portato da diversi guaritori, che sono intervenuti sulla dieta togliendo la carne o i legumi, senza ovviamente ottenere miglioramenti. Il nostro centro di salute è riuscito a intercettare il suo bisogno di assistenza e inserirlo in un programma che prevede il trattamento farmacologico. Ora Étienne riesce a gestire il piccolo punto ristoro del centro sanitario e ad avere una vita comparabile con quella di persone non affette da questa malattia, ricavando anche un reddito che lo rende economicamente indipendente. Inoltre, adesso ha un contesto di relazioni che lo sostengono, liberandolo dall’isolamento al quale sono spesso condannate le persone nella sua situazione».

Il dispensario di Dianrà, in Costa D’Avorio

La salute mentale e il conflitto

Lo scorso 29 marzo padre Ramón Lázaro Esnaola condivideva via Telegram dal Messico una notizia apparsa in un articolo sul sito di una radio di Guadalajara: nei primi tre mesi del 2022, nello stato di Jalisco c’è stato un solo giorno senza omicidi, il 23 marzo. Le statistiche del governo federale, continuava l’articolo, rivelano che dal 1° gennaio al 27 marzo c’erano stati 364 omicidi dolosi, 4,23 al giorno in media@. In Italia, nello stesso periodo gli omicidi sono stati 67@.

Secondo un’indagine dell’Istituto nazionale di statistica del Messico (Inegi) effettuata su un campione di 27mila abitazioni, il 39,6% degli intervistati di 18 o più anni dichiara di aver sentito spari frequenti di arma da fuoco nei pressi della propria abitazione nell’ultimo trimestre del 2021@.

Servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

Alla tensione e violenza generalizzata si aggiunge poi la violenza domestica: sempre l’istituto nazionale di statistica riporta in uno studio del 2016 realizzato su oltre 142mila case che una donna su quattro di età superiore ai 15 anni aveva subito una forma di violenza – fisica, emotiva, sessuale – da parte del partner negli ultimi 12 mesi (il dato saliva al 43% considerando tutta la vita); oltre una su cinque riportava che le violenze avevano avuto luogo nell’ambiente di lavoro, il 17,4% in  ambito scolastico e il 10% in ambito familiare escludendo il compagno, quindi da parte di fratelli, sorelle, padri, madri, patrigni, matrigne e altri parenti@.

In un contesto come questo, gli interventi che i missionari della Consolata stanno mettendo in atto cercano di fornire alle persone alcuni strumenti che permettano loro di affrontare le situazioni di violenza e i lutti. In particolare, riporta padre Ramón nella relazione sul progetto finanziato dagli Amici di Missioni Consolata con la raccolta fondi del 2020@, nei laboratori proposti nel corso del progetto si è lavorato sull’identificare «situazioni che generano squilibri emotivi, modelli, convinzioni che hanno causato la perdita di autostima», incoraggiando la conoscenza di sé e lo sforzo di basare il proprio processo decisionale su motivazioni razionali e non impulsive, mentre i laboratori più specifici sulla perdita e sul lutto sono previsti entro la fine di quest’anno.

Quanto alla risposta delle autorità sanitarie pubbliche, riferisce sempre dal Messico padre Alex Conti, il Sistema nazionale per lo sviluppo integrale delle famiglie «è presente in ogni comune e fornisce assistenza psicologica a costi accettabili, anche se non pubblicizza molto il servizio. Un servizio di assistenza psicologica è presente anche in molte parrocchie».

Dal 2018 vi è poi una legge, la Nom 035, per la «prevenzione dei fattori di rischio psicosociale, ovvero quegli elementi in un ambiente di lavoro che possono rappresentare un rischio per la salute mentale delle persone, come orari lunghi, sovraccarico di lavoro, leadership negativa e mancanza di controllo sul lavoro, tra gli altri. Questo regolamento è obbligatorio per tutti i luoghi di lavoro», ma secondo il quotidiano El Economista solo un terzo delle imprese ha applicato la legge in tutti i suoi aspetti@.

«Gli psicologi professionisti privati forniscono assistenza a costi variabili che vanno dai 300 pesos (circa 13,54 euro) in periferia e dagli 800 ai 1.200 (36-54 euro) in città per le persone dei ceti più ricchi. Uno dei problemi è che gli assistiti spesso non hanno costanza e, nel caso di quelli meno abbienti, danno priorità ad altre spese».

Formazione di operatori per il nuovo servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

la cittadella psichiatrica a Nairobi

Lo scorso novembre il quotidiano Avvenire riportava la notizia della firma di un memorandum d’intesa fra il governo keniano del presidente Uhuru Kenyatta e Gksd, «una partecipata del Gruppo San Donato che gestisce in Italia 17 ospedali privati in convenzione col Servizio sanitario nazionale, tra cui eccellenze come il San Raffaele di Milano». L’intesa dovrebbe portare alla costruzione, su una superficie di 80 ettari, di un complesso per la salute mentale, il Mathari Mental Hub, in grado di ospitare fino 600 pazienti assistiti da 1.100 membri dello staff fra medici e tecnici. Si tratterebbe di un «polo d’eccellenza di salute mentale – pubblica e gratuita – non solo per il Kenya, ma per tutta l’Africa Centrale»@.

Anche solo dalla città di Nairobi non mancherebbero gli utenti: una ricerca sulle sex workers di Nairobi, disponibile sul sito della Cambridge University Press, ha riportato che su 1.039 persone, di età media pari a 33,7 anni, che hanno preso parte allo studio, circa una su quattro soffriva di depressione moderata/grave, una su dieci d’ansia moderata o grave, il 14% di disturbo da stress post traumatico e il 10,2% segnalava un comportamento suicidario recente: un tentativo di suicidio nel 2,6% dei casi e ideazione suicidaria nel 10%. Tra le donne con disturbi di salute mentale, circa due su tre hanno avuto anche un problema da abuso di alcol o droghe@.

Chiara Giovetti




Terzo a chi?

La riforma di un settore cruciale


Il terzo settore è entrato oggi in una nuova fase, quella dell’attuazione della riforma, per la quale si sta costruendo il «Registro unico nazionale», che permetterà, fra l’altro, ai cittadini di accedere alle informazioni sugli enti. Molti strumenti introdotti dalla riforma – come il bilancio sociale – fanno già parte del quotidiano delle organizzazioni coinvolte. Cerchiamo di orientarci fra gli acronimi e di capire che cosa manca ancora.

Lo scorso 21 febbraio si è conclusa la cosiddetta «fase 1» della creazione del «Registro unico nazionale del Terzo settore», o Runts, la piattaforma digitale che raccoglierà le sette categorie che ne fanno parte (vedi box a pag. 65).

La fase 1 è consistita, in sostanza, nella trasmigrazione dei dati delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale dai Registri regionali e delle province autonome al registro unico; dal 22 febbraio ed entro il 20 agosto di quest’anno, poi, gli uffici del Runts verificheranno i dati ricevuti e richiederanno, se necessario, le integrazioni agli interessati@.

Quanto alle Onlus, per l’iscrizione al registro, devono presentare domanda, ma, spiega il portale di divulgazione sulla normativa «Cantiere terzo settore», a oggi manca il provvedimento con cui l’Agenzia delle entrate comunica al registro i dati degli enti iscritti all’Anagrafe unica delle Onlus. Finché non ci sarà questo provvedimento, le Onlus non potranno fare domanda@.

«Tra alcuni mesi», si legge tuttavia sul sito del ministero del Lavoro a cui fa capo il Registro, «tutti i cittadini potranno consultare gli statuti, i bilanci, le informazioni previste dalla legge relativamente agli enti iscritti, che dovranno assicurarne periodicamente l’aggiornamento attraverso il sistema»@.

Dalla riforma ci si aspetta maggiore uniformità e trasparenza per un settore che, stando ai dati del censimento permanente Istat delle istituzioni no profit, conta quasi 363mila organizzazioni e poco meno di 862mila dipendenti@.

Quanto è grande il terzo settore

Quanti sono 862mila dipendenti e 363mila organizzazioni? Ovvero, quanto è davvero grande il settore? Per farsi un’idea – molto grezza – dei volumi, si può fare un confronto con i dati Istat sulle imprese italiane e i loro dipendenti suddivise per comparto economico, tenendo però in mente che, all’interno di ciascun comparto, sono incluse anche le cooperative sociali e le imprese sociali, che sono a loro volta enti del terzo settore e che quindi ci sono «pezzi» di terzo settore dentro a molte di queste categorie. Guardando solo alla dimensione complessiva dei comparti economici, si può dire che il numero di Ets è vicino a quello delle imprese attive nel settore manifatturiero, che con 372mila aziende occupa la quarta posizione dopo commercio, attività professionali, scientifiche e tecniche, e le costruzioni@.

Quanti e dove

Quanto ai volumi del lavoro, i dipendenti del Terzo settore sono un numero non lontano da quello dei dipendenti del settore delle costruzioni; considerando, inoltre, che il totale dei lavoratori dipendenti in Italia nel quarto trimestre del 2021 era di circa 17,9 milioni, cinque ogni cento lavorano nel Terzo settore@.

La scheda sui numeri proposta dal portale Cantiere terzo settore a partire dai dati Istat, riporta che l’85%, cioè 308mila, degli Ets sono associazioni e danno lavoro a un dipendente su venti nel settore. Inversa è la proporzione per le cooperative sociali, che sono solo 15mila (poco più di quattro su cento) ma impiegano oltre la metà dei lavoratori del Terzo settore, 456mila su 862mila, una media di 31 dipendenti a cooperativa. «Si contano poi quasi 8mila fondazioni con oltre 102mila addetti retribuiti», conclude il sito Cantiere terzo settore, e «le quasi 40mila altre forme giuridiche che danno lavoro a oltre 138mila persone».

Circa la metà delle Ets ha sede nel Nord Italia e impiega il 58% dei dipendenti del Terzo settore; il Nord Ovest, in particolare, ha 183 lavoratori del settore ogni diecimila abitanti, seguito dal Nordest con 178. Prendendo le singole regioni, è la provincia autonoma di Trento ad avere il rapporto più alto con 253 dipendenti di Ets ogni 10mila abitanti, mentre il Lazio, con i suoi 191, supera il Piemonte, il Veneto, l’Emilia Romagna e si colloca poco sotto la Lombardia@.

Ragioni e ambiti

Il motivo per cui il terzo settore si chiama così è definito dal Cantiere in modo molto chiaro: è un «sistema sociale ed economico che si affianca alle istituzioni pubbliche e al mercato e che interagisce con entrambi per l’interesse delle comunità». Ha elementi del primo settore, lo stato, così come del secondo, il mercato: «Come il mercato, è composto da enti privati, come le istituzioni pubbliche, svolge attività di interesse generale. Questi aspetti si rimescolano, dando vita ad un nuovo originale soggetto».

Agire senza scopo di lucro, chiarisce ancora il portale, non significa non avere profitti: significa essere obbligati a reinvestirli per finanziare le proprie attività invece di redistribuire gli utili fra i membri o i dipendenti. Per questo, la definizione no profit, spesso usata come sinonimo di terzo settore, in realtà non esaurisce gli Ets e, anzi, riguarda solo una parte delle organizzazioni del settore.

Guardando agli ambiti di attività in cui queste ultime operano, sono le attività sportive le più rappresentate (120mila enti), seguite da quelle culturali e artistiche (61mila), da quelle ricreative e di socializzazione (49mila). Al quarto posto l’assistenza sociale e la protezione civile (34mila), che però è l’ambito che impiega più persone, 324mila, mentre la Sanità è il secondo ambito per numero di dipendenti. La cooperazione e solidarietà internazionale conta 4.550 enti che occupano 3.900 persone.

Fra il 2011 e il 2019, gli enti sono passati da 301mila agli attuali 362mila, con un aumento intorno al 20%, mentre i dipendenti dieci anni fa erano 680mila e sono dunque aumentati del 27%.

Punti chiave

La riforma ha iniziato a prendere corpo nel 2014, ma l’approvazione della legge delega n. 196 è arrivata due anni dopo, il 6 giugno 2016 e, a partire dal 2017, hanno iniziato a essere approvati i decreti attuativi. L’intento dell’intervento legislativo è stato quello di procedere a un riordino della normativa come risposta alla richiesta «di regole precise e del superamento della frammentazione legislativa che ha caratterizzato per decenni le tante organizzazioni impegnate nel sociale».

Prima della riforma, infatti, organizzazioni diverse erano iscritte a registri territoriali diversi e facevano riferimento a norme specifiche: la legge quadro 266/1991 regolava il volontariato, la legge 383/2007 disciplinava le associazioni di promozione sociale, le Onlus erano soggette al decreto legislativo 460/1997 mentre per le imprese sociali la norma di riferimento era il decreto legislativo 155/2006. La riforma abroga del tutto o in parte queste norme, raggruppa in un solo testo – il Codice del terzo settore – gli enti interessati, e rende l’iscrizione al Registro unico obbligatoria per essere riconosciuti come Ets.

Apre, inoltre, a tutti gli enti iscritti al registro la possibilità di partecipare all’assegnazione del 5 per mille, introduce diversi obblighi «su democrazia interna, trasparenza, rapporti di lavoro, assicurazione dei volontari, destinazione di eventuali utili» e definisce le attività di interesse generale – determinanti per il riconoscimento come Ets – attraverso un elenco che comprende 26 aree@.

Punti critici

Ad oggi, a fronte di indubbi vantaggi di semplificazione, restano ancora diversi aspetti critici. Ne citiamo solo alcuni a esempio. Il primo riguarda gli aspetti fiscali: come scriveva lo scorso 19 febbraio su Vita.it il commercialista e consulente Marco D’Isanto, il Titolo X del Codice del terzo settore che comprende molte delle disposizioni fiscali «è sospeso perché la sua applicazione decorre dal periodo di imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea, richiesta che il governo non ha ancora formulato»@.

L’entrata in vigore del Titolo X, fra l’altro, comporterà l’abrogazione definitiva della legge sulle Onlus e l’applicazione, appunto, delle norme fiscali contenute nel Codice. Per ora, tuttavia, se una Onlus decidesse di cancellarsi dall’anagrafe unica delle Onlus e iscriversi al Runts, a Titolo X ancora sospeso, perderebbe le agevolazioni fiscali previste dal decreto legislativo 460/1997 senza poter ancora beneficiare di quelle introdotte dal Codice@.

Altra questione è quella della frammentazione legislativa, che non è del tutto superata: le imprese sociali, le cooperative sociali e le società di mutuo soccorso, «seguono leggi proprie, diverse fra loro e dal codice». La cooperazione allo sviluppo, inoltre, ha una legislazione parallela a quella del Codice imperniata sulla legge 125/2014 e un’autorità di vigilanza specifica, l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo (Aics)@.

Infine, a preoccupare sono anche le difficoltà legate agli aspetti burocratici: in un dibattito in streaming sul canale YouTube di Terzjus, portale specializzato negli aspetti giuridici del Terzo settore@, la responsabile del servizio per le politiche per l’integrazione e il terzo settore della regione Emilia Romagna, Monica Raciti, riportava che, durante la presentazione di un rapporto sull’impatto della pandemia sul terzo settore, alla domanda su quale fosse l’elemento che destava in loro più preoccupazione rispetto al futuro, le associazioni emiliano-romagnole, presenti all’evento, non hanno indicato le difficoltà economiche o la diminuzione dei volontari, ma proprio «la riforma del terzo settore e tutto quello che porta con sé». Ciò che mette in difficoltà le organizzazioni, specialmente quelle piccole e piccolissime, è soprattutto la mole di lavoro necessaria a far fronte agli adempimenti amministrativi e la complessità di alcune procedure.

Effetti su Mco

Mco è una Fondazione, una Onlus e un’organizzazione della società civile (Osc) presente nell’elenco dell’Aics delle organizzazioni di cooperazione allo sviluppo. Alla data di chiusura di questo articolo, dunque, la sua situazione è la stessa delle altre Onlus in attesa di poter fare domanda per l’iscrizione al Runts, che dipende dalla comunicazione fra Agenzia delle entrate e Runts e dallo «sblocco» del Titolo X del Codice che subentrerà al decreto legislativo 460/1997 nel regolare gli aspetti fiscali.

A livello operativo, per la nostra organizzazione, la principale novità introdotta dalla riforma è stata per ora quella della elaborazione e pubblicazione del Bilancio sociale, seguita da una riorganizzazione del sito che permette di accedere con più agilità ai documenti come, appunto, i bilanci, i rendiconti del 5 per mille e l’elenco dei fondi pubblici ricevuti.

Chiara Giovetti


Quali enti sono Ets, quali no

L’articolo 4 del Codice del terzo settore stabilisce che sono Enti del terzo settore [Ets]:

  • ❶ le organizzazioni di volontariato (Odv);
  • ❷ le associazioni di promozione sociale (Aps);
  • ❸ gli enti filantropici;
  • ❹ le imprese sociali, incluse le cooperative sociali;
  • ❺ le reti associative;
  • ❻ le società di mutuo soccorso (Soms);
  • ❼ le associazioni riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato, diversi dalle società, costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale di cui all’art. 5 del Codice, in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi. Tutti questi si trovano a volte indicati per brevità come «altri enti».

Per essere Ets, questi sette tipi di ente devono anche essere iscritti al Registro unico nazionale del Terzo settore [Runts].

Gli enti religiosi civilmente riconosciuti possono essere considerati Ets limitatamente allo svolgimento delle attività di interesse generale di cui all’art. 5 del Codice.

Non sono Ets le amministrazioni pubbliche, le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni di datori di lavoro, gli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati dagli enti appena elencati (con alcune eccezioni).

Rielaborazione delle definizioni presenti sul sito del ministero del Lavoro
 e delle Politiche sociali@  a cura di Mco


Farsi un’idea sulla riforma in pochi minuti

Il portale Cantiere Terzo settore mette a disposizione diverse schede sul settore, sulla riforma e i suoi aspetti chiave e aggiorna man mano le proprie pagine dando conto delle scadenze e dei progressi. Segnaliamo in particolare:

 

 




Nei panni degli altri: la moda insostenibile


L’industria dell’abbigliamento è ormai da anni al centro di un dibattito dai toni a volte anche aspri, sia per il suo impatto ambientale che per alcuni tragici incidenti sul lavoro, specialmente nel Sud del mondo. Diversi grandi marchi hanno iniziato a mostrare più sensibilità verso questi problemi, ma la mancanza di dati certi sul reale impatto economico e ambientale della moda non aiuta a formulare strategie adeguate, e il rischio di greenwashing è alto.

«Ci sono ovunque indizi evidenti che qualcosa non va, dai fiumi velenosi del Bangladesh e dell’Indonesia ai vecchi vestiti gettati sulle coste dell’Africa orientale alle microplastiche nella nostra acqua potabile. Ma finché disponiamo solo di informazioni spazzatura, otterremo solo azioni spazzatura da marchi e governi per risolvere il problema»@. Alden Wicker, giornalista statunitense fondatrice del blog Ecocult e collaboratrice di diverse testate come il New York Times, Vogue e Wired, riassume così il problema della mancanza di dati certi sull’impatto negativo del settore dell’abbigliamento sull’ambiente e sulle persone.

Sono circolati per anni dati falsi o mai verificati, eppure ripresi anche da fonti ufficiali come le Nazioni Unite o la Banca Mondiale. Che la moda inquini è fuori di dubbio, spiega Wicker, ma sapere quanto e come inquini fa la differenza quando si tratta di decidere come intervenire per limitare i danni.

I dati più riportati benché non sostenuti da prove, a detta della giornalista americana, sono quelli secondo cui la moda sarebbe la seconda industria più inquinante del pianeta, dopo quella del petrolio, e causerebbe il 10% delle emissioni, più del trasporto aereo e marittimo sommati.

Anche la pagina ufficiale dell’Alleanza delle Nazioni Unite per la moda sostenibile@ riporta dati che Wicker reputa tutti da verificare: l’industria dell’abbigliamento e dei prodotti tessili contribuirebbe alla produzione globale per 2.400 miliardi di dollari, impiegherebbe –  considerando tutta la catena del valore – 300 milioni di persone di cui molte donne, sarebbe responsabile del 2-8% delle emissioni di gas serra del pianeta e del 9% delle microplastiche disperse nell’oceano e consumerebbe 215mila miliardi di litri di acqua all’anno.

Kibera, Nairobi, vendita di vestiti usati

Dati meno clamorosi ma più attendibili

Un valore fra 2.250 e 2.500 miliardi di dollari quanto al giro d’affari sembra mettere d’accordo diverse fonti. Per agli altri dati, lo scorso gennaio Wicker ha cercato sul suo blog di fornire almeno un’analisi della credibilità delle diverse stime che collocano il contributo alle emissioni globali del comparto moda nell’intervallo fra il 2% e l’8% riportato dalle Nazioni Unite@. Con tutte le cautele del caso, la giornalista descrive il rapporto del 2017 Pulse of the fashion industry prodotto dai consulenti del Boston consulting group (Bcg)@ in collaborazione con il forum danese Global fashion agenda come la più approfondita analisi realizzata finora, nella quale la quota di emissioni generate da questo settore sono quantificate nel 4,8% per l’anno 2015.

Quanto all’acqua, lo stesso rapporto parla di 79 miliardi di metri cubi consumati, l’equivalente di 32 milioni di piscine olimpioniche, dato ripreso anche dal Servizio di ricerca del Parlamento europeo, che aggiunge un’ulteriore informazione@: per produrre una T-shirt occorrono 2.700 litri d’acqua potabile, quantità sufficiente a soddisfare il fabbisogno di una persona per due anni e mezzo. Settantanove miliardi di metri cubi è una quantità enorme, spiega Wicker, più di quella usata per produrre elettricità, ma è lo 0,87% dei 9.087 miliardi di metri cubi usati complessivamente ogni anno, non il 20% come alcune fonti riportano.

L’idea che la moda sarebbe la più inquinante industria dopo il petrolio, chiarisce inoltre Wicker, viene invece dall’improprio utilizzo di un’affermazione di una studiosa, Linda Greer, riferita peraltro all’inquinamento dell’acqua – e non dell’ambiente nel suo complesso – in una specifica provincia della Cina sulla quale stava effettuando degli studi. In quella zona, aveva rilevato Greer, la seconda industria che inquina di più l’acqua dopo l’industria chimica (e non quella petrolifera) era in effetti quella dell’abbigliamento. Questa sua affermazione circoscritta è stata poi generalizzata, ed è rimbalzata sui media senza mai essere controllata da chi la ripubblicava.

Nella Cop26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si è svolta lo scorso autunno a Glasgow, «nessuno ha menzionato la falsa statistica, ora screditata, ma un tempo molto diffusa, che “la moda è la seconda industria più inquinante del pianeta”. Tutti hanno finalmente concordato che è una delle peggiori, e questo è già abbastanza grave», scriveva@ a novembre 2021 la giornalista della sezione moda del New York Times, Vanessa Friedman.

I problemi reali

Sempre secondo il report Pulse of the fashion industry 2017, è da attribuire all’industria dell’abbigliamento la produzione di 92 milioni di tonellate di rifiuti solidi all’anno, pari al 4% del totale mondiale. Secondo le proiezioni del rapporto, le tonnellate di tessili che elimineremo saranno 148 milioni l’anno nel 2030: ogni secondo, stima la Ellen MacArthur foundation, un camion di spazzatura pieno di vestiti finisce in una discarica@.

Come spiegava Wicker su Newsweek nel 2016, le fibre sintetiche sono derivati dei combustibili fossili e hanno tempi di decadimento di centinaia, se non migliaia di anni@.

Quanto invece alle fibre naturali come cotone, lino e seta, o semi-sintetiche create da cellulosa di origine vegetale, come rayon, tencel e modal, una volta gettate in una discarica si degradano ma producendo metano. Non possono essere compostate perché, per diventare indumenti, vengono sbiancate, tinte, stampate, e le sostanze chimiche impiegate in questi processi possono poi passare dal tessuto alle falde acquifere o, in caso di incenerimento, trasformarsi in fumi tossici liberati nell’aria.

Nel gennaio 2022, Lucia Capuzzi raccontava su Avvenire della enorme discarica illegale nel deserto di Atacama, in Cile, e di come la vicina cittadina di Alto Hospicio venga ciclicamente investita dai fumi tossici degli abiti che vengono inceneriti per ridurne la quantità, ormai fuori controllo@.

Il fast fashion contribuisce molto a generare questi rifiuti perché funziona esattamente secondo la logica dell’usare e buttare rapidamente un indumento. Good On You, un sito che valuta i marchi della moda sulla base della loro eticità e sostenibilità e che ha una app per aiutare i consumatori a scegliere i marchi etici, definisce il fast fashion come «abbigliamento economico e alla moda che cattura idee osservando le passerelle delle sfilate o le celebrità e le trasforma a una velocità vertiginosa in capi da vendere nei negozi delle vie dello shopping per soddisfare la domanda dei consumatori». Questi ultimi vengono messi in condizione di acquistare i capi ancora all’apice della loro popolarità per poi scartarli dopo averli usati una manciata di volte@.

Kibera, Nairobi, inquinamento da vestiti buttati

Le condizioni dei lavoratori

Oltre a contribuire all’aumento dei rifiuti, il modello del fast fashion riceve pesanti critiche anche dalle organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori. L’incidente che, secondo diversi osservatori, segna su questo tema uno spartiacque nella consapevolezza da parte dell’opinione pubblica sulle condizioni di lavoro nel settore tessile è quello del Rana Plaza, una fabbrica nella periferia della capitale del Bangladesh, Dhaka, che crollò nell’aprile del 2013 uccidendo 1.132 persone e ferendone altre 2.600, diverse delle quali hanno subito amputazioni e riportato danni permanenti@.

Si è trattato di una tragedia annunciata, commentano Shams Rahman e Aswini Yadlapalli della Rmit University in un articolo del 2021 su The Conversation: «Il giorno prima erano state scoperte crepe strutturali nell’edificio. Le attività ai piani inferiori (negozi e banca) avevano chiuso immediatamente mentre le cinque fabbriche di abbigliamento ai piani superiori facevano continuare a lavorare i loro operai. La mattina del 24 aprile 2013 ci fu un’interruzione di corrente e i generatori diesel in cima all’edificio vennero accesi. Poi l’edificio crollò»@.

La fabbrica produceva vestiti per diverse catene internazionali fra cui, riporta la pagina della campagna Clean Clothes@, Mango, El Corte Inglés e Benetton. Alcune di queste catene, come Benetton, Auchan, Primark, hanno pagato compensazioni, ma non tutte hanno reso noto l’ammontare@.

A otto anni dal disastro, sottolineavano Rahman e Yadlapalli su The Conversation, qualcosa è migliorato, ma non abbastanza: nelle interviste realizzate dai due studiosi, il rivenditore australiano interpellato affermava di acquistare indumenti solo dai produttori che garantivano ai lavoratori condizioni conformi all’accordo sulla sicurezza antincendio degli edifici in Bangladesh, firmato un mese dopo il crollo del Rana Plaza. I produttori bengalesi hanno però rivelato che i controlli di conformità sono spesso «una farsa», dal momento che la limitazione delle ore di straordinario del lavoratore e la presenza di un’infermiera e di un assistente all’infanzia nella struttura duravano solo per il giorno dell’audit.

Jeans di moda, Italia, Torino

Gli sforzi che si fanno

Ci sono diverse fonti per orientare i propri acquisti monitorando gli sforzi che fanno le grandi aziende per rendersi più sostenibili. Una di queste è il già citato sito Good On You, che ha un sistema di valutazione delle aziende@ basato su oltre 500 indicatori relativi a 60 aspetti potenzialmente problematici che riguardano l’ambiente, le condizioni di lavoro e il trattamento degli animali. I punteggi vanno da 1 (evitiamo) a 5 (ottimo), passando per buono (4), è un inizio (3) e non abbastanza buono (2).

Vi è poi il rapporto annuale Fashion transparency index di Fashion revolution@, una piattaforma nata dopo il disastro del Rana Plaza e composta da accademici, addetti ai lavori del comparto moda, rappresentanti dei lavoratori e comuni cittadini. È finanziata per le attività principali dalla Laudes foundation, «lanciata nel 2020, […] per sfidare e ispirare l’industria a sfruttare il suo potere per il bene. Come parte dell’impresa familiare Brenninkmeijer, ci basiamo su sei generazioni di imprenditorialità e filantropia e siamo al fianco delle imprese Cofra e delle altre attività filantropiche private della famiglia»@.

Il rapporto analizza e classifica 250 marchi e rivenditori «in base alle informazioni che divulgano sulle loro politiche, sulle pratiche e impatti sociali e ambientali, nelle loro operazioni e nella catena di approvvigionamento». Il gruppo Cofra include il marchio di prodotti di abbigliamento C&A, che nel rapporto del 2021 rientrava nelle prime dieci aziende più virtuose, mentre Good On You attribuisce a C&A una valutazione di 3 (è un inizio).

Tuxla Gutierrez, Mexico, buxato steso ad asciugare

Un caso virtuoso

Vi sono infine alcune esperienze di rigenerazione avviate da aziende che hanno nella moda sostenibile uno dei loro obiettivi primari, come nel caso di Rifò, un laboratorio di Prato@. La rigenerazione, ha spiegato nel podcast Il mondo alla radio di Vatican News@ il fondatore di Rifò Niccolò Cipriani, è propria del distretto tessile di Prato, dove da cento anni arrivano scarti industriali soprattutto di lana e cachemire che vengono selezionati per colore e qualità, sfilacciati, riportati allo stato di fibra e poi cardati.

L’idea di Rifò, racconta Cipriani, è nata da una sua esperienza come cooperante in Vietnam, che è uno dei principali centri manifatturieri del pianeta nell’ambito tessile: lì si è reso conto che l’industria dell’abbigliamento ha un problema di sovrapproduzione, al quale si aggiunge un parallelo problema di sovraconsumo, per cui le persone comprano di più di quello di cui hanno bisogno e le aziende producono più di quanto le persone comprano.

Rifò utilizza il 92% di fibre rigenerate di cachemire, cotone, jeans e poliestere e offre un servizio di raccolta di vestiti usati in cambio dei quali l’utente riceve buoni per effettuare acquisti sul sito. Un aspetto importante, racconta Cipriani, è quello della valutazione dell’impatto ambientale dei processi di riciclo, che non sempre sono sostenibili. Nel caso della rigenerazione delle fibre usate da Rifò si tratta di un processo meccanico, che richiede poca acqua e nel quale spesso non avviene la ritintura delle fibre con tutto il relativo impiego di prodotti inquinanti necessari per la colorazione. Altro punto chiave è quello della prevendita: Rifò produce solo ciò che viene ordinato, preferendo offrire uno sconto prima di produrre in cambio del tempo di attesa richiesto ai clienti per poter realizzare il prodotto, piuttosto che produrre in eccesso e fare poi i saldi.

Chiara Giovetti




Dal partenariato alla fratellanza


Ivana Borsotto, già vicepresidente della Ong Progettomondo, è dal dicembre del 2020 la presidente della Focsiv, Federazione di organismi di ispirazione cristiana. Facciamo insieme a lei il punto sulla Federazione, sullo stato della cooperazione e sulle principali sfide di oggi.

Ivana, cominciamo spiegando che cosa è la Focsiv e che cosa la caratterizza oggi.

Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) è una federazione che raccoglie 86 organismi di ispirazione cristiana che operano nella realizzazione di programmi, progetti e azioni di solidarietà e cooperazione internazionale in 80 paesi del mondo. Nel 2022, a maggio, compirà 50 anni: è un traguardo importante e con il nuovo consiglio direttivo, in carica da un anno, abbiamo deciso di rendere questo anniversario non solo un’occasione per celebrare ma soprattutto per riflettere.

Da questa riflessione stanno emergendo diverse cose: in primo luogo, nelle due encicliche di papa Francesco Laudato si’ e Fratelli tutti troviamo conferma del fatto che la direzione del nostro lavoro si muove verso quell’orizzonte. Laudato si’ ce lo conferma con il suo promuovere un cambio di paradigma economico e sociale che abbandoni l’idea di dominio e sfruttamento sulla natura e si concentri sulla cura. Fratelli tutti ci rafforza nella convinzione che l’esistenza di più religioni è una grazia. Anche se il dialogo interreligioso a volte è faticoso, a volte perfino doloroso, è in esso che troviamo il vero senso della nostra vita e del nostro lavoro.

Come si riflettono nel lavoro sul campo queste indicazioni del papa?

Fratelli tutti, di fatto, ci dice che il partenariato non basta: è la fratellanza ciò a cui siamo chiamati. In estrema sintesi, quindi, potrei risponderti: dobbiamo cercare di trasformare i nostri progetti, che spesso si svolgono in paesi a maggioranza musulmana, in laboratori di dialogo che ci aiutino a fare questo passaggio dal partenariato alla fratellanza.

Una cosa è mettersi attorno a un tavolo con i partner nei paesi in cui si lavora e dire: c’è un bando, proviamo a ragionare insieme su come ideare un progetto, partiamo da una lettura condivisa dei problemi e lavoriamo perché ogni progetto si traduca in pratiche che gli amministratori locali possono usare per risolvere quei problemi. Questo è un livello, quello del partenariato e della politica locale, e noi già siamo impegnati nel costruirlo il meglio possibile.

Ma c’è un altro livello, più profondo: quello di entrare nell’ordine di idee che la realizzazione di quel progetto possa generare non solo un’équipe che lavora, ma anche una comunità che dialoga.

Per entrare in questo ordine di idee, ci guidano ancora una volta le parole che il papa ha pronunciato a Qaraqosh, durante il suo viaggio in Iraq, sottolineando come il dialogo interreligioso non può nascere «a freddo», da riflessioni teoriche fatte a tavolino. Al contrario, può sorgere solo se si fa uno sforzo fondamentale che riguarda la quotidianità: riconoscere il bisogno dell’altro come proprio. Facendo poi fronte comune davanti a quel bisogno, si possono creare le condizioni per il dialogo e la fratellanza. Ecco, allora, che i progetti possono essere lo strumento per creare quel livello di amicizia, di profondità e di autenticità di relazioni necessario per poi arrivare ad affrontare insieme anche aspetti delicati del dialogo che altrimenti sarebbe difficile toccare.

Una nuova presidente e nuovo consiglio: come pensate di rilanciare la Federazione? Vedi la tua come una presidenza di continuità o di rottura?

«Rottura» non mi piace. Ma «continuità» nemmeno. Credo che le priorità per la Focsiv siano valorizzare il lavoro dei nostri volontari, rafforzare la relazione tra soci e federazione interpretandola come uno scambio continuo, promuovere la partecipazione e incarnare l’idea di sussidiarietà.

Un altro punto è sicuramente la formazione, specialmente attraverso la nostra Scuola di politica internazionale cooperazione e sviluppo (SpiceS).

Dobbiamo poi sforzarci di passare da essere un insieme a diventare un sistema: il nostro è un mondo in cui ci sono molte reti che rischiano di essere autoreferenziali, chiuse nei loro perimetri. Dalla campagna di ascolto dei soci che il nuovo consiglio Focsiv ha condotto, è emerso che essi vorrebbero conoscersi e collaborare di più: la Federazione deve diventare una continua occasione di scambio, conoscenza e lavoro condiviso attraverso tavoli tematici, tavoli geografici sovraregionali, temi trasversali su questioni come il ricambio generazionale e programmi e progetti condivisi.

Più in generale, io credo che il nostro mondo sia capace di autoriforma, senza dover aspettare sollecitazioni esterne: ad esempio, ora abbiamo una grande sfida sulla trasparenza. Viviamo in un momento culturale in cui si concepisce la cooperazione come un lusso, un costo, mentre è proprio il contrario: è un investimento, ma soprattutto un modo di stare al mondo. Però dobbiamo anche tener presente che alcuni episodi infelici hanno spinto diverse persone a non fidarsi più: «Quello che dono arriverà a chi ne ha bisogno?», si e ci chiedono. Per questo bisogna essere sempre più trasparenti, anche al di là di quello che la legge ci richiede.

C’è poi il delicato tema della nostra comunicazione, che non sempre è efficace. Troppo spesso siamo chiamati a raccontare la drammaticità delle cose e penso che invece dovremmo raccontare con altrettanta intensità la speranza che vediamo. Anche perché il racconto di questa speranza rafforza anche chi ascolta.

Di tavoli, gruppi di lavoro, incontri vari, se ne sono fatti tanti, negli anni: che cosa ti fa pensare che quelli che state avviando ora in Focsiv possano portare risultati? E, più in generale, che cosa può dare maggiore efficacia al lavoro delle reti della cooperazione?

In questo momento, complice anche la pandemia, io avverto una forte consapevolezza del fatto che da soli non si va da nessuna parte. La cifra del nostro tempo è forse la fatica di vedersi nel futuro, che per la prima volta nella storia dell’umanità ci fa paura, mentre prima era il tempo in cui si proiettavano sogni e speranze. Ecco, forse il pensarsi insieme agli altri è l’unico antidoto alla paura.

Questo stare insieme richiede al tempo stesso coerenza – se stai in una rete che ti rappresenta devi cedere un minimo di autonomia – ma anche la capacità di andare oltre le reti: il Terzo settore ha bisogno di sentirsi una cosa sola, di non limitarsi a un approccio strumentale – «quanto mi serve quella Federazione e i servizi che mi offre?» – e di esprimere un potenziale politico che c’è ma che ora non sta ancora emergendo in tutta la sua forza.

Altro punto è quello dei tanti temi e fronti su cui si lavora: migrazione, diritti umani e multinazionali, giustizia climatica. Forse focalizzarsi su un tema, o almeno darsi delle priorità, aiuterebbe a essere più incisivi.

Te lo dico con una battuta: dobbiamo passare dal paradigma «tema – svolgimento», al paradigma «problema – soluzione». Approfondimenti e ricerche sono fondamentali e ne abbiamo sempre bisogno, ma dobbiamo essere ancora più concreti e puntuali nella nostra capacità di porre questioni alla politica, altrimenti rischiamo di far parte di quello che Greta Thunberg ha chiamato il blablà.

Parliamo di progetti: che cosa ne pensi della contrapposizione grandi progetti burocratizzati ma capaci di raggiungere tante persone e di avere effetti strutturali versus micro e medi progetti, come quelli portati avanti dalle Ong missionarie, più vicini – forse – alla gente, ma a volte più simili a un rimedio temporaneo e limitato?

Toglierei il versus. Bisogna accettare che le forme della cooperazione sono tante e che la loro efficacia non si misura solo dalla grandezza o dal numero di beneficiari coinvolti. In Focsiv ci sono sia associazioni di volontariato puro, senza dipendenti, che sostengono piccole opere di singoli missionari, sia Ong strutturate che lavorano su grandi progetti istituzionali, e questa, secondo me, è una grande ricchezza.

Certo, so che c’è un dibattito nel mondo della cooperazione in cui una parte sostiene che il troppo piccolo non ha senso, ma io convintamente dissento: spesso anche il piccolo dà risposte dove non ce ne sarebbero altre, io in questo già vedo un senso. Il denaro pubblico è sacro, e un’organizzazione deve dimostrare di avere la struttura e le competenze per gestirlo, ma non è la grandezza che fa la differenza. L’indicatore più importante è quello più volte citato da papa Francesco: dobbiamo incidere sulle cause. Anche un’azione che a noi sembra minuta a volte ha la capacità di entrare in un sistema e cambiarlo.

Ci descrivi in due parole la campagna 070, che mira a far pressione per portare allo 0,70% del Pil la quota di risorse per la cooperazione?

È una campagna sostenuta insieme da Aoi (Associazione Ong italiane), Cini (Coordinamento italiano Ngo internazionali), Link2007 (Organizzazione di coordinamento tra 14 Ong) e Focsiv, e vede quindi le rappresentanze unite nell’interloquire con il governo. L’obiettivo immediato, lo scorso autunno, era quello di far sentire la nostra voce nelle settimane della discussione sulla legge di bilancio.

Il secondo obbiettivo è quello di avanzare una proposta di legge che vincoli l’Italia al raggiungimento dell’obiettivo dello 0,70% del Pil per la cooperazione entro quattro, cinque anni: finché non c’è una legge, la cooperazione rischia di rimanere la Cenerentola nella destinazione di fondi pubblici. Ora siamo allo 0,22%; indicativamente, per arrivare almeno allo 0,40% servirebbero 2,3 o 2,4 miliardi di euro.

La campagna ha l’obiettivo di parlare alla politica ma anche alla gente: non si limiterà ad attività di lobbying e advocacy verso le istituzioni, ma cercherà di attivare le comunità locali, coinvolgendo organismi di cooperazione internazionale, i centri missionari, le Caritas, i gruppi di lavoro dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS) e del Terzo settore.

Questo significherà confrontarsi con quella comunicazione e quelle posizioni culturali e politiche che ci sono ostili, rispondere nelle piazze e nei dibattiti a chi ti dice «prima gli italiani».

Si è chiusa lo scorso 13 novembre la Cop26. Che giudizio dai sull’accordo di Glasgow?

C’è un po’ di delusione sui risultati, ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile trovare una convergenza su punti di vista e interessi così diversi.

Va preso atto del fatto che si sono finalmente chiamate le cose con il loro nome: ad esempio riconoscere in modo esplicito che le fonti fossili sono una delle cause principali del cambiamento climatico è un passo in avanti. Inoltre, la distensione climatica fra Usa e Cina è un elemento positivo, così come lo è tutto quello che apre il dialogo rispetto alla chiusura di prima.

Mi auguro che la citrica ai risultati non si traduca in un ulteriore indebolimento del sistema delle Nazioni Unite e che la società civile, e i giovani in particolare, continuino a fare pressioni paese per paese, perché al di là dell’accordo sono le azioni che ogni singolo paese intraprende a poter fare la differenza.

Ecco, i giovani. Tu sei nella cooperazione da oltre vent’anni con Progettomondo: come sono cambiati i giovani che vogliono lavorare in questo ambito? E come li accoglie, che cosa offre loro il mondo della cooperazione, oggi?

Il nostro settore esercita una forte attrattiva sui giovani. Credo che oggi più che mai ci sia bisogno di dare loro risposte personalizzate, senza mai generalizzare: ci sono giovani con un approccio incentrato sull’esperienza in sé, per cui ne fanno una e passano subito alla successiva; altri che hanno già in mente un loro percorso e sanno che il loro lavoro con noi non è che una tappa; altri ancora che si affidano a noi e che partono, si lasciano mettere in discussione e poi si “innamorano” dell’organizzazione e rimangono. Noi dobbiamo cercare di essere rispettosi di tutti questi approcci ed è una nostra responsabilità fornire loro un’esperienza strutturata e seguita.

C’è evidentemente una questione di ricambio generazionale e io credo che vada migliorato il dialogo intergenerazionale nelle nostre organizzazioni: se gli adulti sostengono di averle provate tutte per convincere i ragazzi a restare e i giovani oppongono che però mancano gli spazi per inserirsi davvero, specialmente in termini lavorativi concreti, è chiaro che qualcosa non sta funzionando. Dobbiamo, da un lato, accompagnare questi ragazzi a capire il valore dell’organizzazione e del volontariato e, dall’altro, essere disposti a farci mettere in discussione da loro.

Chiara Giovetti




2021, un anno di progetti, nonostante la pandemia

 


Dopo il 2020, anche il 2021 è stato un anno difficile a causa del persistere della pandemia di Covid-19, che ha colpito in modo particolare tutti quei paesi che non hanno né le infrastrutture né i mezzi per adeguate campagne vaccinali.



20 Natali di solidarietà

Missioni Consolata Onlus è il braccio operativo del Missionari  della Consolata in Italia per sostenere i progetti dei loro confratelli  nei tre continenti dove annunciano il Vangelo con opere e parole.

È grazie all’aiuto generoso di voi, amici e benefattori, persone normali, che conoscete la fatica del vivere e del guadagnarsi il pane quotidiano se in centovent’anni (di cui 20 con la nostra Onlus) siamo riusciti  a realizzare scuole, ospedali, dispensari, centri per bambini abbandonati e donne vittime di violenza; se abbiamo «vestito gli ignudi, dato da mangiare agli affamati, consolato i prigionieri, dato l’acqua agli assetati, accolto gli stranieri», difeso la vita e l’ambiente, formato leader e quanto altro la creatività dell’amore è stata capace di inventare; se abbiamo fatto nascere  comunità cristiane vivaci e gioiose, costruito cappelle e chiese.

Grazie – Thank you – Asante sana – Ace olen – Akiba – Sobodi  – Matondo – šukran – Merci – Gracias – Obrigado.

Le sfide davanti a noi sono ancora tante, aggravate dalla pandemia,  dal cambiamento climatico e dall’irresponsabile attitudine dei potenti che non hanno occhi né cuore per i più poveri e i più indifesi.
Con il vostro aiuto potremo continuare a essere testimoni e servitori della misericordia di Dio e della tenerezza della nostra Consolata.
In queste pagine vi presentiamo solo alcuni dei progetti in corso. Ogni anno Mco pubblica il suo bilancio sociale sul sito missioniconsolataonlus.it nel quale sono presentati tutti i progetti e i conti relativi al periodo.

Per dare il vostro contributo trovate le informazioni necessarie
cliccando qui.

Vedi 20 Natali di solidarietà sul sito della Onlus



I Missionari della Consolata, che vivono in molte di quelle nazioni, per rispondere alle tante situazioni di difficoltà che il Covid-19 ha determinato, hanno avviato diversi progetti in favore delle fasce più fragili della popolazione.

Quella del Messico è una realtà molto dura per le donne. Padre Ramón Lázaro Esnaola, che da circa due anni lavora a San Antonio Juanacaxtle, stato di Jalisco, ne racconta le difficoltà e i drammi nei resoconti che condivide con confratelli e amici: «In questi mesi ho incontrato persone in situazioni davvero difficili: un’adolescente abbandonata quando aveva due anni alla quale la pandemia ora ha portato via anche la madre adottiva; una giovane donna a cui i cartelli del narcotraffico hanno ucciso il marito e di cui ora non sa nemmeno dove sia il corpo; tante donne, ragazze, bambine che subiscono maltrattamenti e abusi da parte padri, patrigni, compagni occasionali delle madri, parenti. E tante che il marito abbandona per un’altra e che si trovano sole, in condizioni economiche precarie, a crescere figli senza un compagno che le aiuti».

La violenza sulle donne è uno degli aspetti della violenza che permea di sé tutta la società messicana, dove gli omicidi sono 36mila all’anno, 29 ogni 100mila abitanti@. Per avere un metro di paragone, secondo i dati Istat, l’Italia nel 2019 ha avuto 315 omicidi, pari a 0,53 ogni 100mila abitanti@. In un simile contesto, è chiaro che «la violenza in tutte le sue espressioni – sui minori, familiare, di genere, giovanile, istituzionale … – è il nostro pane quotidiano», continua padre Ramón. «Ci sono giorni in cui, di fronte a certe storie, ci si sente davvero sobrepasados, sopraffatti. Poi, però, ci ricordiamo del motivo per cui siamo qui: per stare vicini alle persone, consolare e seminare speranza, e ritroviamo la forza per costruire il Regno».

Per sostenere padre Ramón e i suoi confratelli in Messico nello sforzo di offrire un’alternativa alle donne vittime di traumi, lutti e violenza, gli Amici Missioni Consolata avevano dedicato la mostra di solidarietà e la connessa raccolta fondi dell’8 dicembre 2020 al progetto Promuovi la vita difendi la donna@. Il progetto che padre Ramón ha seguito e realizzato in collaborazione con Mati, un’associazione locale di psicologi, ha avuto un costo di circa 16.498 euro, ha interessato circa 500 famiglie ed è quasi concluso, ma le attività della Casa Hogar Florecitas Madre Naty e di Mati continueranno a raggiungere decine di donne in condizioni di vulnerabilità.

Casa Hogar Florecitas Madre Naty

Acqua e allevamento per la Tanzania

Alla fine del 2020, i missionari della Consolata in Tanzania, in uno dei villaggi dalla missione di Pawaga, nella municipalità di Itudundu, Iringa, hanno realizzato un piccolo impianto idrico che serve 108 famiglie, una scuola e un dispensario. Fondi donati da privati, pari a circa 7.800 euro, hanno permesso di acquistare una pompa alimentata da un impianto fotovoltaico per connettere una fonte d’acqua con quaranta punti di distribuzione nel villaggio, in modo da garantire a tutte le famiglie di potersi procurare l’acqua senza dover percorrere chilometri a piedi. Il contributo degli abitanti del villaggio è consistito in venti giornate di lavoro volontario per installare la pompa e i tubi, montare i pannelli solari e piantumare alberi nel mezzo ettaro di terra che circonda la fonte d’acqua. Ora le oltre 750 persone del villaggio possono contare su un punto di distribuzione di acqua a meno di un chilometro dalla propria abitazione, in più la scuola primaria e il dispensario hanno impianti idrici adeguati.

Un altro progetto è a Kimbiji, nella diocesi di Dar es Salaam, dove, grazie al sostegno di Caritas italiana, si è avviata una piccola attività di allevamento generatrice di reddito per alcuni giovani per i quali la pandemia ha reso ancora più complicato trovare lavoro. La Banca Mondiale riporta che nel 2020 circa mezzo milione di tanzaniani è sceso sotto la soglia di povertà a causa delle restrizioni e delle conseguenze della diffusione del virus@. A Kimbiji, ora, diciassette giovani sono direttamente coinvolti nell’avvio di un allevamento di suini. A beneficiare della formazione fornita nell’ambito del progetto sulle tecniche di allevamento suino saranno fino a sessantacinque persone.

Una banca del sangue a Dianra

Al centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa D’Avorio, è in corso un progetto, sostenuto da un donatore privato e seguito da padre Matteo Pettinari, che si concentra sulla formazione del personale, sul miglioramento dei servizi del dispensario, come il trasporto dei pazienti, e sul sostegno delle attività legate alla salute infantile. Ma la parte del progetto che aggiunge al centro di salute un servizio fondamentale è quella della banca del sangue e delle trasfusioni. Avviata lo scorso settembre – dopo che ad agosto era arrivato il frigo per la conservazione delle sacche di sangue ed era stata completata la necessaria formazione del personale del centro -, la banca del sangue ha un ruolo fondamentale nel contrastare patologie, come l’anemia infantile strettamente legata alla malaria che è endemica nella zona.

Prima di questo intervento, spiegava nel progetto padre Matteo, era necessario andare nei centri trasfusionali più vicini, dai 30 ai 200 km di distanza su strade spesso impraticabili. «Ora, dal 14 settembre, data della prima trasfusione, a oggi», scriveva padre Matteo il 27 ottobre, «abbiamo già utilizzato 50 sacche di sangue: di queste, tre per trasfusioni a donne nel reparto maternità, le altre 47 sono tutte andate a bambini fra 0 e 5 anni».

Trasfusioni nel centr osanitario di Dianra

Progetti ancora aperti

In Mongolia si è concluso l’intervento che mirava a dotare il centro per i bambini di Chingiltei, nella periferia della capitale Ulan Bator, di uno spazio giochi con campo sportivo. Il centro è attivo dal 2017 e offre attività creative, ludiche e sportive, oltre al doposcuola per una trentina di bambini. Ora è pronto per tornare in funzione – la pandemia ne aveva imposto la chiusura – e per farlo deve acquistare materiale scolastico, identificare i bambini in condizioni di maggiore vulnerabilità per offrire loro borse di studio, e stipendiare il personale docente. Connesso con il lavoro del centro c’è anche un programma di sostegno per le famiglie più in difficoltà, alle quali vengono forniti beni di prima necessità.

veduta di Chingiltei, alla periferia della capitale Ulan Bator, Mongolia

Un posto sicuro per studentesse

Inhangoma è una missione che dista circa 30 chilometri da Mutarara, una cittadina di 60mila abitanti nella provincia di Tete, Nord del Mozambico. Ha un centro educativo che comprende una scuola secondaria frequentata da 1.250 alunni fra la ottava e la dodicesima classe. Gli studentati maschile e femminile, dove alloggiano gli allievi provenienti da zone lontane, sono sotto la responsabilità del ministero della Pubblica istruzione, ma la struttura per le studentesse è in uno stato fatiscente. Così, la mancanza di un alloggio sicuro e di condizioni igieniche adeguate scoraggia le ragazze che spesso abbandonano la scuola, in un contesto dove sono pochi gli studenti che arrivano alla fine del ciclo secondario. Il Mozambico ha un tasso di completamento della scuola secondaria inferiore al 24%, venti punti in meno della media dell’Africa subsahariana@.

«Da un po’ di tempo», spiega monsignor Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata e vescovo di Tete, «la diocesi ha ricevuto la richiesta di farsi carico di questo studentato femminile, a cominciare dal rifacimento del tetto fino alla tinteggiatura dei muri, dalla sostituzione di porte e finestre danneggiate, all’approntamento di servizi igienici adeguati». Questo primo intervento, per il quale monsignor Antunes ha chiesto sostegno a Missioni Consolata Onlus (Mco), ha un costo pari a circa 7.300 euro e offrirà un’ospitalità dignitosa e sicura a 45 ragazze che potranno così continuare i propri studi senza paure.

La scuola di Cantagalo

Una biblioteca per la scuola in terra indigena

La scuola indigena Shiminiyosi si trova nella comunità di Cantagalo nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, stato di Roraima, Amazzonia brasiliana. È nata, come altre scuole indigene, in reazione all’imposizione da parte dello stato brasiliano di un sistema educativo che non tiene in considerazione le peculiarità storiche, linguistiche, ambientali e culturali dei popoli indigeni e tenta di omologarli alla cultura dominante.

Padre Joseph Mugerwa, che si occupa in particolare delle attività della comunità di Cantagalo, dove si trova la scuola, scrive:

«Nel dicembre 1988, le famiglie e le comunità di questa zona decisero, di propria iniziativa, di creare una scuola che fosse anche un luogo di valorizzazione della cultura indigena. Furono le famiglie degli studenti di allora e la comunità stesse, accompagnate dai missionari, che scelsero un luogo adatto e costruirono questa scuola, che oggi accoglie 120 alunni delle elementari. Su richiesta dei leader locali, la scuola è stata riconosciuta e approvata dal decreto del dipartimento dell’Istruzione dello stato di Roraima, ha un corpo docente di sedici insegnanti e il numero di studenti è in continua crescita».

Ma nonostante il riconoscimento ufficiale, la scuola non ha ricevuto alcun sostegno dallo stato per migliorare le proprie strutture. «Le piogge del 2019 hanno distrutto il tetto: con il progetto che presentiamo a Mco, dal costo di 9.749 euro, chiediamo assistenza per sistemare la struttura», precisa padre Joseph, «e per creare una biblioteca per gli studenti».

Lo stato dei bagni della scuola di Cantagalo

Oujda, al servizio dei migranti

Dal novembre 2020 i Missionari della Consolata sono attivi in Marocco, nella città di Oujda a 15 km dal confine con l’Algeria@.

Dal 26 settembre 2021 hanno la responsabilità piena della parrocchia di Saint Louis.

Qui sotto trovate i dettagli di questa nuova avventura missionaria che gli Amici Missioni Consolata vogliono sostenere con le loro iniziative di dicembre, in alternativa a quello che, prima del Covid-19, era la mostra dell’Immacolata.

Chiara Giovetti


 



Aiuto migranti Oujda | per dettagli clicca sul link qui sotto

Missione AMO, quattro ruote per servire

Padre Edwin di fronte alla chiesa di Saint Louis a Oujda

«Quattro ruote per… »

Gli Amici Missioni Consolata (Amc) si impegnano ad aiutare la «Missione Amo» provvedendo un mezzo essenziale per il servizio: un furgone multiuso, un Renault express intens, dal costo pari a 16.500 euro.

Il furgone verrà utilizzato per

  • recuperare i migranti che giungono nella zona malati, affamati ed esausti, e portarli al Centro di accoglienza della parrocchia, ai centri sanitari o al pronto soccorso per le cure necessarie;
  • trasportare e distribuire prodotti alimentari, per l’igiene o di protezione individuale, sia per il fabbisogno del Centro che per individui in necessità in varie parti della città;
  • accompagnare i migranti ai centri di formazione professionale e ogni altro bisogno prevedibile o imprevedibile.

***

È possibile sostenere questo progetto visitando il «Punto missioni Consolata» di fronte al Santuario della Consolata a Torino o inviando offerte per «AMC progetto 4 ruote per servire» utilizzando i dati trovati a questo link.

 

 




Le nuove energie dell’Africa


Prima volontario, poi esperto in micro impresa e console onorario. Dopo quattro decadi e mezzo di lavoro nell’Africa più povera, Paolo Giglio si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Spiega perché la cooperazione non funziona, e propone soluzioni.

«Sono accettabilmente vivo. L’anno prossimo avrò 70 anni, devo prepararmi». Esordisce così Paolo Giglio, piemontese di Cascinette d’Ivrea (To), che vive e lavora nel Sahel da 45 anni. Ci conosciamo oramai da alcuni decenni, dalla fine del secolo scorso. Volontario, cooperante, console onorario d’Italia in Niger, ma anche sperimentatore senza sosta di nuove tecniche su energie alternative e agricoltura, che devono però essere sempre adattate al contesto saheliano. Paolo è anche Cavaliere Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

La sua parlata chiara e schietta è intervallata da qualche battuta e, ogni tanto, dalla sua tipica «grassa» risata, quasi a volere sdrammatizzare temi che sono pesanti come macigni.

Paolo ha attraversato la storia della cooperazione allo sviluppo dai suoi inizi a oggi: «La cooperazione è sempre peggio – ci dice in collegamento da Niamey, Niger -. Oramai i progetti hanno solo amministratori, perché di tecnici non c’è più bisogno. Se una saldatura è fatta male, nessuno la va a guardare, ma se la fattura è sbagliata, allora sei fregato».

Così, l’anno scorso, ha voluto raccogliere alcuni suoi scritti – sì, Paolo sa anche scrivere – e, insieme all’amico Stefano Bechis, agronomo, docente all’Università di Torino, esperto di energia solare per l’agricoltura e compagno di mille progetti, ha pubblicato il volume «Nuove energie per l’Africa», uscito in italiano e francese, per l’Harmattan.

Chiediamo a Paolo il perché di questo libro. «Arrivai in Alto Volta (poi Burkina Faso, nda) il 22 marzo del 1973. Sono passati un po’ di anni e mi sono detto che certe idee bisogna dirle, proporle. Poi magari non verranno accettate, ma pazienza, occorre farlo».

Arrivato in Africa che non aveva ancora 21 anni, era uno dei primi obiettori di coscienza riconosciuti dalla legge italiana del 1972 e faceva il servizio civile sostitutivo di quello militare. Era con la Ong Lvia che in quegli anni muoveva i primi passi. «Poi la cosa mi è piaciuta e mi sono fermato. Altri che hanno svolto il servizio nel mio stesso periodo, non sono mai più tornati. All’inizio ho fatto tanti errori, ma ho anche imparato molto. Purtroppo, quello che vediamo noi adesso è che i giovani arrivano e dopo un anno pensano di avere risolto tutti i problemi».

Paolo ha visto passare, e spesso ha accolto, generazioni di volontari, cooperanti, esperti. Gli chiediamo cosa è cambiato nell’approccio al volontariato internazionale. «Negli anni ‘70 arrivavamo senza una formazione specifica – io, ad esempio, sono maestro – e allora cercavamo di imparare. Osservavamo il paese per capire. Adesso lo prendono come un mestiere qualsiasi. Ma se uno non ci crede almeno un po’, in questo campo i risultati non possono esserci».

Paolo non è benevolo con i finanziatori. «I tecnocrati europei, non lo fanno apposta a dire stupidaggini, ma ne sono convinti. Ci sono cose (nella cooperazione, nda) che vanno completamente al di fuori della realtà del paese. Negli obiettivi dei progetti, ad esempio, leggiamo sempre le stesse frasi, come il discorso di aiutare gli ultimi. Poi, nella realtà, con le procedure che ci sono attualmente, vengono aiutati gli intermediari, che sono già ricchi, e non i più poveri».

Paolo da molto tempo spinge sulla micro imprenditorialità locale, tema di cui è stato antesignano e al quale sono oggi arrivati tutti i principali finanziatori, come Unione europea e Cooperazione italiana. Ma anche qui, c’è qualche problema di approccio. «Come scegliamo le microimprese da appoggiare? Loro (i finanziatori, nda) vogliono che si faccia sulla base di un business plan. Ma qui in Niger l’84% della popolazione non sa né leggere né scrivere, come si fa? Si deve fare un’analisi di fattibilità e opportunità con le persone, andandole a trovare, nei quartieri, nei villaggi. E non, ad esempio, invitandoli in venti in una sala a seguire un seminario, come si fa spesso». Paolo ha una massima che lo guida sempre: «Siamo noi che dobbiamo adattarci alla situazione e non la situazione che deve adattarsi a noi».

Contadino pompa acqua nel sistema di irrigazione,comune di Gouna, Zinder, Niger

Adattarsi alla povertà

Nel suo libro, il console propone delle soluzioni. Intanto scrive che ha osservato un adattamento della gente alla povertà, perché non si può lottare eternamente contro una situazione, allora ci si adatta. «Quelli che possono uscire da questa situazione sono coloro che non hanno niente da perdere, quelli che sono già emarginati a causa della tradizione ancestrale, ovvero giovani e donne. Quello che io propongo è di “selezionare chi spicca”, non in base alla carta geografica o al reddito, come spesso fanno i progetti, ma identificando chi ha già iniziato, senza aiuti esterni, una certa attività. Queste persone potrebbero farcela, allora vale la pena aiutarli». L’appiattimento di una data popolazione sulla povertà e sugli aiuti forniti dall’esterno sono una costante nelle aree con economia di sopravvivenza.

«Un aspetto che è migliorato rispetto al passato, è che noi tendiamo a lavorare attraverso gli eletti locali (sindaci, ecc.). Questi, soprattutto in area rurale, hanno interesse che le cose funzionino, sia perché sono del posto, sia perché sperano di essere rieletti. Lavorare con i funzionari statali, invece, è più complicato, perché, che lavorino o no, lo stipendio lo portano a casa. Ma questo è così in tutti i posti del mondo».

«La Cooperazione internazionale è sempre più lontana dalla realtà», aggiunge ancora il veterano. «Ad esempio, dicono che ci sono troppi bambini in Niger e bisogna sensibilizzare. Ma se un contadino non ha dieci figli che, quando sarà vecchio, gli daranno di che vivere, come farà? Qui, su 22 milioni di abitanti, i pensionati sono settemila, e tutti della funzione pubblica».

Altra regola d’oro di Paolo Giglio: le tecnologie utilizzate nei progetti devono essere il più possibile riparabili localmente. Questo, oltre che a far funzionare le cose, fa girare l’economia locale.

E qui si torna agli artigiani, visti come microimprenditori del settore privato.

«Bisogna lavorare con gli artigiani, sedersi con loro, discutere di quello di cui hanno bisogno e cercare di aiutarli a quel livello».

«Ma i donatori hanno bisogno di quelli che sanno parlare bene, per farsi pubblicità e usarli in quei seminari e simposi che non servono a niente. Ci sono imprese che vincono premi, ad esempio sull’energia solare, ma non hanno mai posato un pannello solare».

Un esempio molto semplice: «Le donne che fanno da mangiare per strada a Niamey (capitale del Niger). Tutte insieme hanno un giro d’affari che supera quello della più grossa società del Niger. Ognuna di loro riesce a far credito a 10-12 funzionari i quali pagano solo a fine mese, quando ricevono lo stipendio. Loro dovranno andare a comprare la materia prima a credito, perché non hanno liquidità. Il loro beneficio è inoltre piccolissimo. Se si desse loro un micro credito, potrebbero raddoppiare il loro margine di guadagno, perché non pagherebbero il credito sulle materie prime. Queste donne non possono riempire dei documenti e non hanno il tempo di seguire dei seminari. Se non lavorano, non mangiano».

Una nuova borghesia

Paolo Giglio, nel suo libro, parla della necessità di una nuova borghesia per trainare lo sviluppo del paese. «In questi paesi ci sono i grossi commercianti, pieni di soldi, e i funzionari, ovvero gli impiegati pubblici. Non c’è nulla in mezzo che produca qualcosa. Si tratta di pura compravendita. Produrre qualcosa, anche fuori dal campo agricolo e zootecnico, è possibile. Anche se lo spazio si è ristretto, in quanto il mercato è invaso di prodotti cinesi, di cattiva qualità, ma di costo imbattibile. Bisogna appoggiare fabbri, falegnami, affinché non siano sempre i più poveri. Che possano comprarsi una casa, produrre manufatti concorrenziali e creare lavoro». Giglio parla di una classe media produttiva, oggi inesistente. Appoggiando la creazione di questa classe, si indurrebbe sviluppo economico nel paese.

Energia dell’Africa

Perché il libro di Giglio e di Bechis si intitola «Nuova energia per l’Africa»? Tolto il fatto che entrambi lavorano da molto tempo con la tecnologia solare, soprattutto per il pompaggio di acqua dai pozzi (l’acqua è il bene più importante nei paesi del Sahel), e che nel libro c’è un lungo capitolo che ne spiega l’impiego, le nuove energie per Paolo sono qualcosa di più profondo: «Intendo l’energia che la gente può mettere a disposizione per cambiare le cose. Sono quelli che bisogna appoggiare con i progetti di sviluppo. Faccio l’esempio di una ragazza che si è messa a produrre un certo tipo di borse e ha dato lavoro a sessanta donne rurali. Questo è un esempio virtuoso, di quelli da appoggiare».

Bisogna fare poi molta attenzione alle pressioni sociali che i nostri artigiani possono avere. Se ad esempio si viene a sapere che una micro impresa funziona bene, subito ha addosso frotte di famigliari che chiedono un aiuto, e l’impresa fallisce.

Un’altra problematica che affligge il Sahel da una decina di anni è la sicurezza. Come abbiamo già scritto in vari articoli, tutta l’area è territorio di diversi gruppi jihadisti internazionali, dai quali il Niger non è esente. Per chi segue progetti di sviluppo è diventato molto difficile andare sul campo, nei villaggi e nei luoghi nei quali le attività sono realizzate. «È un ulteriore blocco alla cooperazione di prossimità, soprattutto per i giovani che arrivano. È diventato quasi impossibile andare sul terreno. Ma se si facesse un po’ di prevenzione, con progetti in certe aree, come le periferie urbane, magari si riuscirebbe a salvare qualcosa. Voglio dire che se ai piccoli banditi dai una pompa solare, magari tornano a coltivare. Ovviamente non riusciamo a influire, invece, sul terrorismo».

Migrazione reciproca

Paolo fa una proposta molto operativa e provocatoria per incentivare luso della terra in questi paesi. Attirare giovani imprenditori agricoli europei a installarsi nei paesi del Sahel, in modo da assumere gente e insegnare loro certi mestieri. «È una proposta originale. Non si tratta di nuovi coloni, ma piuttosto di migrazione nelle due direzioni. Penso a microimprese europee che possono aiutare lo sviluppo di questi paesi. Sovente lo sviluppo non è fatto da soli autoctoni, che hanno più blocchi sociali, ma da un giusto mix di locali e stranieri con competenze. Ad esempio, a Niamey, lungo il Niger, sono i Burkinabè che hanno fatto gli orti per primi. Poi i nigerini hanno copiato». E conclude: «Se sono non sposati magari si sposano e restano, altrimenti, se se ne vanno, non possono certo portarsi via la terra».

Marco Bello

Giovani contadini dissodano la terra, sito di Gandou (Gouna), Niger


Come burocrazia e procedure uccidono l’aiuto allo sviluppo

La cooperazione che inganna

Parlando di Unione europea, le agevolazioni della Politica agricola comune (Pac), con 386 miliardi di euro in 7 anni (33% del budget dell’Unione europea), sono destinate per l’80% al 20% delle imprese agricole europee più importanti.

Eurostat indica che nel 2015 sui 22,3 milioni di micro imprese dell’economia europea (settore finanziario escluso) il 92,7% erano imprese con meno di 10 addetti, rappresentando quasi il 30% dei posti lavoro dell’Unione. E ricevevano pochissime agevolazioni.

Lo stesso capita con i progetti di aiuto ai paesi poveri. La stragrande maggioranza dei cosiddetti donatori istituzionali (ad esempio l’Unione europea, l’Agenzia italiana per l’aiuto allo sviluppo…) ha creato delle procedure talmente complicate che i destinatari «piccoli» non riescono ad adeguarsi. Sono quindi i grandi a vincere le commesse e a fare le realizzazioni come intermediari, a carpire gran parte della torta.

Molti affermano che, per esempio, nelle colture orticole ci sono troppi intermediari fra il coltivatore e il cliente. E si inizia a parlare di «distanza zero», situazione nella quale il produttore vende direttamente al consumatore.

Anche nei progetti di sviluppo bisognerebbe tornare alla distanza zero, o quasi, in modo che l’intermediazione fra il donatore e il beneficiario finale sia meno ingombrante possibile. Bisognerebbe poi favorire i progetti eseguiti attraverso strutture locali no profit presenti nella zona d’azione, le quali possono tessere dei legami duraturi nel tempo con i beneficiari finali.

Con la cooperazione stiamo veramente aiutando i poveri? Attualmente no. La maggior parte dei donatori ha intriso il proprio approccio di una burocrazia tale che lo scavatore di pozzi del villaggio non ha nessuna possibilità di ottenere la commessa per fare un pozzo nel suo villaggio, cosa che permetterebbe di dare lavoro e arricchire un pochino la comunità.

Si parla di trasparenza perché sono state introdotte gare di appalto anche per i piccoli contratti, come se gli appalti potessero evitare le «indelicatezze». Non le evitano per niente. Queste pesanti procedure proteggono dei tecnocrati incompetenti che sanno accumulare giustificativi, ma non saprebbero controllare se il pozzo è a modo, se una saldatura è ben fatta o se la manutenzione della tecnologia introdotta può essere fatta localmente. Questo «protegge» anche molti cooperanti, che non vogliono più lavorare sul terreno con delle esecuzioni in regia (tramite coordinamenti dei diversi attori, ndr) dove bisogna sudare sotto il sole per seguire il lavoro quotidianamente. Questi stessi cooperanti si adattano troppo facilmente alle regole burocratiche che permettono loro di restare confinati in uffici climatizzati.

Il Niger ha bisogno di una riforma agraria e non di parole e di carte. Il paese ha bisogno di orticoltura e di trasformazione / valorizzazione della produzione e non di burocrazia, procedure e quadri di concertazione.

L’Ufficio internazionale del lavoro (Ilo) indica che più del 90% dell’economia africana è informale. L’Istituto nazionale della statistica del Niger (Ins), valutava nel 2018 il Pil del Niger in 3.628 miliardi di franchi cfa (circa 5,5 miliardi di euro) di cui 3.429 miliardi (circa 5,2 miliardi di euro) prodotti dal settore informale, cioè il 94,5%.

Non dico certo che l’economia debba restare informale. Ma per spingere le micro imprese a formalizzarsi bisognerebbe incoraggiarle e non reprimerle. Escluderle non significa spingerle a mettersi in regola, è proprio il contrario. Soltanto affidando delle commesse al fabbricante di pozzi del villaggio gli si può chiedere in cambio di mettersi in regola. Non includere l’economia informale nei progetti di sviluppo significa anche partecipare alla distruzione degli equilibri sociali del villaggio, cioè di coloro che si vorrebbero aiutare.

Infine gli uffici che operano i controlli dei fondi stanziati fanno il loro lavoro con i paraocchi senza commuoversi minimamente se gli ultimi non sono stati presi in conto. Se così non fosse aggiungerebbero ai loro rapporti di analisi almeno delle critiche costruttive. Questi controllori esigono, nel rispetto delle procedure imposte, un numero di documenti cartacei talmente importante che i progetti di sviluppo ormai devono assumere più amministratori che tecnici. Il risultato finale è quello di avere molta documentazione in regola, ma meno pozzi e meno fondi per i beneficiari, mentre negli obiettivi del progetto di sviluppo c’era scritto «dare lavoro alle classi disagiate», «aiutare gli ultimi», «diminuire l’emigrazione».

Il sistema dunque è ingannatore e sembra instaurato per aiutare i ricchi.

Non stupitevi perciò quando gli abitanti dei villaggi, gli ultimi, quelli che non ce la fanno più, scappano verso l’Europa o sostengono silenziosamente dei movimenti estremisti.

Paolo Giglio




Di chi è la colpa?

testo di Antonio Benci |


Il Terzo mondo è una categoria nata negli anni ‘50 che indicava indipendenza e autodeterminazione. Diventata in seguito sinonimo di sottosviluppo e povertà, mentre nasceva nei paesi ricchi un movimento che avrebbe avuto una sua evoluzione.

Terzo mondo è quello che oggi si chiamerebbe un «brand fortunato», coniato nel 1952 da uno studioso francese, Alfred Sauvy, che contrappose al Primo mondo capitalista e al Secondo comunista un ampio gruppo di paesi che stavano uscendo dal giogo coloniale e che potevano auto rappresentarsi come qualcosa che vagamente assomigliasse al Terzo stato del 1789.

Si può solo immaginare il carico di attese che poteva suscitare l’accostamento tra questa eterogenea sommatoria di nazioni con coloro chi avevano dato il via alla Rivoluzione francese, che in mezzo a contraddizioni e anche orrori, aveva contribuito a spingere le istituzioni nell’età moderna. Grazie ai movimenti di liberazione e soprattutto all’immagine di questi presso l’opinione pubblica e l’intellighenzia europea, il Terzo mondo divenne un catalizzatore di speranze e inquietudini. Si evocava l’autodeterminazione dei popoli, si osservava lo sforzo di indipendenza di molti paesi africani e asiatici, e l’uscita dal cono d’ombra della povertà endemica di popoli colonizzati dai «civili» uomini bianchi.

Per una breve finestra temporale – grosso modo i primi anni ‘60 – il miracolo parve compiersi con una sequela di stati che si emanciparono dal giogo europeo. Un ruolo importante l’ebbero intellettuali e leader carismatici di quei paesi che si imposero al mondo con le loro ricette e suggestioni. Parliamo di Franz Fanon, Julius Nyerere, Aimé Césaire, Léopold Sédar Senghor, Camara.

Colombia, una paese dalle grandi disuguaglianze dove, si potrebbe dire, coesistono Primo e Terzo mondo. Foto Marco Bello

Sottosviluppo

Il meccanismo, tuttavia, si inceppò ben presto e spinse l’immaginario a identificare sempre più il Terzo mondo con sottosviluppo, arretratezza, fame. E subito iniziò a imporsi una domanda: a creare questo effetto era la soffocante logica dei blocchi (Usa e Urss) e il neocolonialismo, oppure l’assenza di élites autoctone di quei paesi e una classe dirigente nella migliore delle ipotesi corrotta? In altri termini il sottosviluppo era endogeno o esogeno?

Agli oltranzisti modernizzatori americani che demonizzavano le società tradizionali, arretrate per definizione, si contrapposero le teorie neomarxiste che individuavano nei diseguali rapporti di forza tra i paesi le cause del sottosviluppo, creando un rapporto di causa-effetto tra la povertà dei paesi del Sud e la ricchezza di quelli del Nord.

Era quest’ultima l’impostazione della «scuola della dipendenza» che nacque e si sviluppò per merito di studiosi latinoamericani raggruppati intorno alla figura dell’intellettuale argentino Raúl Prebisch. Da qui trasse origine quella lettura dell’economia mondiale incentrata sulla dicotomia centro-periferia che avrebbe fatto nascere il movimento terzomondista. Il Terzomondismo alla lettera (ci soccorre la Treccani in questo) significa: «Atteggiamento favorevole ai paesi del Terzo mondo, che può manifestarsi sotto forma di solidarietà politica, di sostegno economico, di forte interesse culturale ecc. Negli anni Sessanta e Settanta del 20° secolo, con il termine Terzomondismo si è indicato un orientamento politico che si è sviluppato soprattutto nell’ambito della nuova sinistra, di sostegno alle lotte di liberazione dal dominio coloniale o neocoloniale, ai movimenti rivoluzionari operanti nei paesi del Terzo mondo e ad alcuni stati come Cuba e la Cina».

Tre aspetti

A leggere questa definizione si direbbe che il termine terzomondismo sia relegato in uno scaffale polveroso della storia collettiva. Lotte anticoloniali? Movimenti rivoluzionari? Cosa c’entrano con lo spazio mentale odierno? Eppure ci sono almeno tre aspetti che portano il terzomondismo nella nostra vita contemporanea e sono tre sentiment molto rilevanti per l’uomo: le cause del sottosviluppo, la terapia e il senso di colpa.

Mozambico, in ambito rurale, l’accesso all’acqua pulita è ancora un diritto negato. Foto Marco Bello

Le cause

La lunga rincorsa della scuola della dipendenza portò fin da subito a sinistra. Per dirla con Adriano Sofri, all’idea di «contrapporre la solidarietà alla carità, dunque la dignità degli sfruttati al bisogno dei poveri» (A. Sofri, Chi è il mio prossimo, Sellerio, Palermo, 2007). Abbiamo visto come i problemi del sottosviluppo vennero letti nell’accezione terzomondista in chiave marxista come generati dallo sfruttamento capitalista a cui rimediare non con «l’aiuto», ma con la ricerca di una autentica rivoluzione di respiro internazionale.

Su queste considerazioni, negli anni si innestarono ulteriori e ancora più complesse impostazioni e interpretazioni, strettamente legate alla modernità. Con la vittoria del «blocco capitalista» vennero a crearsi le condizioni per rimettere all’ordine del giorno il Terzo mondo, soprattutto da parte di quei movimenti che videro nella vittoria capitalista un rafforzamento delle politiche liberiste e un impoverimento di quelle di welfare, in un’accezione nazionale come internazionale.

Essere terzomondisti significò pertanto combattere e contestare una sorta di pensiero unico filo occidentale, rimanendo nella trincea di una visione minoritaria che vedeva nell’egoismo dei paesi ricchi la causa principale se non unica del malessere di quelli poveri. Le battaglie contro il debito dei paesi in via di sviluppo, contro il conformismo culturale, contro la globalizzazione, in definitiva erano un guardare al Terzo mondo «pensando a noi stessi». Il terzomondismo negli anni ‘90 fu un vettore di un malessere diffuso che portava con sé un rifiuto radicale della stessa globalizzazione. Era il rifiuto di quell’etnocentrismo che, nelle parole di Samir Amin, costituiva «una dimensione fondamentale dell’ideologia del mondo moderno» (S. Amin, Le conseguenze dell’eurocentrismo in Terzo Mondo. Specchio e memoria dell’Occidente, a cura di F. Slegato ed E. Zarelli, Macro Edizioni, Forlì, 1993). E in effetti l’occidente non esitava a supportare e aiutare regimi antidemocratici al servizio di questa impostazione culturale centrata sul «noi», basti pensare al triste e repentino declino delle cosiddette «primavere arabe».

Borneo malese. Danza di un’etnia dell’isola. L’etnocentrismo occidentale sminuisce le altre culture. Foto Marco Bello

Le terapie

Se dalla diagnosi si passa alle terapie, si torna una volta di più a Sofri e alla dicotomia carità/solidarietà. Il Terzo mondo rimane povero perché l’aiuto è insufficiente oppure perché le società del Sud sono inefficienti? Di nuovo la domanda centrale è «di chi la colpa?». In questi decenni una risposta parziale; eppure, convincente è la carenza di giustizia e diritti. Questa carenza, infatti, allarga la distanza economica, sociale e culturale tra mondi diversi. Come mi disse Graziano Zoni, attivista di Emmaus e Mani Tese fino dagli anni ’60: «Il dare ha tollerato un sacco di ingiustizie e ne tollera ancora. Il dare degli aiuti non si pone il problema della giustizia» (A. Benci, Il prossimo lontano, Unicopli, Milano, 2016).

E quindi le stesse terapie pensate nell’alveo della cooperazione con programmi di sviluppo, accordi bilaterali, l’ingresso delle agenzie delle Nazioni Unite, il ruolo delle Ong, hanno mostrato e mostrano la corda. E questo perché un sentimento terzomondista ancora presente e diffuso all’interno delle opinioni pubbliche suscita diffidenza nei confronti dei programmi finanziati dai paesi ricchi per far «sviluppare» quelli poveri. Non è forse un’altra forma, sia pure sottile e raffinata, di etnocentrismo? La contraddizione rimane: senza giustizia e quindi diritti, non vi può essere uno spirito di cooperazione vera tra le genti, e i fenomeni migratori degli ultimi anni sembrerebbero ribadire questo concetto, come annotano gli studiosi che parlano di sviluppo diseguale come padre non solo di questo spostamento di massa epocale, ma anche dell’inserimento di un’intera generazione di africani e asiatici «nell’economia mondiale come fornitori di manodopera migrante e nello stesso tempo come base per industrie occidentali itineranti» (C. Meillasoux, Per chi nascono gli africani in Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, a cura di P. Basso e F. Perocco, Franco Angeli, Milano, 2003).

Burkina Faso – foto Marco Bello

La colpa

E veniamo ora all’ultimo aspetto: il senso di colpa.

Le responsabilità occidentali sulle condizioni attuali di buona parte del mondo sono solo storiche oppure ancora attuali, come il terzomondismo sostiene? Pascal Bruckner sostenne negli anni ‘80 che l’Occidente, pur avendo colpe storiche inoppugnabili, non doveva sentirsi «in colpa» per il ritardo di sviluppo del Terzo mondo, in gran parte espressione dell’incapacità delle «proprie» classi dirigenti. Per lui non era vero quindi che il mancato sviluppo del Sud, con annesse tensioni, guerre, instabilità, insicurezza, carenza di diritti e servizi fosse direttamente connesso ai voleri inconfessabili dei paesi del Nord, del loro tessuto industriale, della loro rete di interessi (P. Bruckner, Il singhiozzo dell’uomo bianco, Longanesi, Milano, 1984).

Il dibattito suscitato da Bruckner continua da quattro decenni ed è tutt’ora apertissimo con una visione terzomondista che vede tra i suoi epigoni spezzoni del mondo missionario, gruppi scomposti del movimento altermondialista, buona parte delle Ong che lavorano «a Sud», e ottengono per questo, senza porsi troppi problemi o domande, finanziamenti da parte di governi, agenzie ed enti del Nord; altro argomento su cui tornare.

Pensiamo, per rimanere all’oggi, ai numerosi commenti a caldo – in cui si distinse padre Giulio Albanese – seguenti l’assassinio dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, che inscrivono l’accaduto nell’instabilità dell’area determinata dalla presenza di bande armate manovrate da multinazionali e affaristi interessati alle materie prime del paese. Un’interpretazione bollata come terzomondista e quindi per definizione datata, polverosa, ideologica da parte dei salotti buoni dell’atlantismo e della diplomazia italiana e non. In questo senso per una fetta importante di opinione pubblica fa gioco mantenere in vita il termine terzomondista come sinonimo di antiquato.

Borneo – foto Marco Bello

Dove sta la verità?

In questo articolo si è tentata una difficile «sistemazione» del termine terzomondismo che è naturalmente un «mondo» troppo vasto per essere spiegato in poche righe. Tuttavia, alcuni punti appaiono chiari.

C’è ancora oggi, a decenni di distanza, una parte dell’immaginario occidentale che vede il terzomondismo come un incrocio tra senso di colpa e ansia di riforma del proprio stile di vita e convivenza. Il variegato fronte altermondialista in questo senso appare come debitore dell’esperienza del terzomondismo.

Finché continuerà a esistere lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il vilipendio della dignità degli ultimi e quella straripante diseguaglianza che, in questi sessant’anni, non solo non si è attenuata, ma anzi si è ampliata a dismisura, continueranno a esserci scuole di pensiero e interpretazioni che vedono questi mali come connessi all’arroganza del forte nei confronti del debole, eterno disvalore che ha avuto – e ha tuttora – lo stesso terzomondismo tra le sue interpretazioni.

Tuttavia, se sono indubbi i guasti determinati dall’accaparramento di risorse, materie prime, cervelli da parte di nazioni, aziende e comunità ricche a scapito di quelle povere, è altrettanto vero che il terzomondismo ha anche stimolato e rafforzato quella sorta di auto assoluzione per chi vive nel Terzo mondo che vede come il male venire sempre «da fuori».

È ancora lungo e tortuoso il viaggio del terzomondismo all’interno delle nostre società e delle loro, dei nostri stati d’animo e dei loro, delle nostre percezioni di loro e delle loro su di noi.

Antonio Benci




Clima, cibo, economia: dalla Cop26 al G20

testo di Chiara Giovetti |


La conferenza sul clima Cop26, il vertice Onu sui sistemi alimentari e il G20 si sono svolti o stanno per svolgersi in questo autunno 2021. Le decisioni e gli indirizzi che forse emergeranno da questi eventi potrebbero rivelarsi decisivi per il futuro del pianeta e del modo in cui affronteremo le crisi sanitarie, alimentari e ambientali che verranno.

Il 23 settembre si è tenuto a New York il vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, uno degli eventi previsti nell’ambito del cosiddetto Decennio di azione sulla nutrizione@ che è iniziato nel 2016 e si concluderà nel 2025. Lo scorso luglio a Roma, presso la Fao, agenzia Onu per il cibo e l’agricoltura, si è svolto il prevertice, ospitato dal governo italiano.

Il 30 e 31 ottobre sarà la volta del G20@, il forum internazionale che riunisce i 19 paesi del mondo più industrializzati (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti) più l’Unione europea, che si svolgerà a Roma.

Infine, dal 31 ottobre al 12 novembre avrà luogo a Glasgow, in Scozia, la 26° Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, o Cop26@. L’Italia organizza la Conferenza insieme al Regno Unito e ha ospitato a settembre gli eventi preparatori come il vertice pre-Cop@, l’ultimo incontro ministeriale prima dell’inizio dei lavori a Glasgow, con l’obiettivo di «fornire a un gruppo selezionato di paesi un ambiente informale per discutere e scambiare opinioni su alcuni aspetti politici chiave dei negoziati e offrire per questi ultimi una guida politica».

I tre eventi affrontano temi fra loro profondamente legati: clima, cibo, economia. Due degli incontri, la Cop26 e il G20, hanno anche il potenziale di definire accordi che determineranno davvero le successive azioni dei paesi partecipanti. Lo ha sottolineato lo scorso luglio il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, in occasione del prevertice sui sistemi alimentari alla Fao: «La presidenza italiana del G20 ha individuato le priorità per migliorare la sicurezza alimentare globale. Tra queste, l’impatto negativo dei cambiamenti climatici sarà al centro della Cop26 che l’Italia presiede con il Regno Unito. […] Alla Cop26, a Glasgow, vogliamo raggiungere un accordo ambizioso sul clima»@.

Disinfezione prima della messa a Tura Mission contro il Covid-19

Premesse: il fallimento della Cop25

L’ultima Conferenza sul clima, svolta a Madrid nel 2019, era stata un insuccesso. Marlowe Hood, corrispondente dell’agenzia Afp, ha individuato cinque possibili motivi del fallimento@: il primo era, a suo dire, la gestione amatoriale dei negoziati, dovuta alla non impeccabile leadership del paese organizzatore, il Cile, che non avrebbe svolto in modo efficace il ruolo di mediatore che è fondamentale in incontri diplomatici di questo tipo.

Il secondo motivo era la presenza ingombrante di lobbisti delle aziende che producono combustibili fossili (la volpe nel pollaio, rimarcava Marlowe), con le conseguenti interferenze in negoziazioni il cui scopo è in larga parte quello di ridurre la dipendenza del pianeta proprio da quei prodotti. Vi era stato poi il «corrosivo effetto-Trump», cioè il disimpegno – per non dire il boicottaggio – sulle questioni climatiche manifestato dagli Usa nel quadriennio della presidenza di Donald Trump. Infine, l’atteggiamento tiepido della Cina che, con il 29% di emissioni di CO2, «ha in mano il destino del pianeta»: alla Cop25 Pechino «ha puntato i piedi e, sostenuta dall’India, ha invocato il principio secondo cui i paesi ricchi devono assumere un ruolo guida nell’affrontare il cambiamento climatico, denunciando il loro fallimento nel mantenere le promesse fatte», vincolando poi al rispetto di queste ultime la propria disponibilità a prendere impegni. Secondo diversi esperti, infatti, la Cina adotterà delle misure significative solo se l’Unione europea confermerà il suo obiettivo di impatto zero entro metà secolo e si impegnerà a ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.

Infine, concludeva Hood, il fallimento della Cop25 è stato probabilmente il sintomo di una più ampia crisi della cooperazione e del multilateralismo legata all’ascesa di nazionalismi e populismi e alla tendenza dei governi a contrarre la spesa pubblica.

Che cosa dovrà decidere la Cop26

La conferenza di Glasgow dovrà, dunque, riprendere le fila di un dialogo interrotto nel 2019 e puntare a decisioni più ambiziose possibile. A cominciare dall’impegno per mantenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo, che a sua volta richiede il raggiungimento dell’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050 e maggior decisione e incisività nel promuovere le alternative ai combustibili fossili.

Se il rientro degli Usa nell’accordo di Parigi sul clima, deciso dal presidente Joe Biden, e le alluvioni dello scorso agosto in Germania e Belgio@ sono elementi che suggeriscono un’aumentata sensibilità dei governi all’urgenza di reagire al cambiamento climatico, permangono comunque forti resistenze. Durante l’incontro del G20 a Napoli dello scorso luglio, il presidente della Cop26, Alok Sharma, ha riferito alla Bbc@ che il tema del cambiamento climatico è stato in effetti affrontato dalle venti principali economie del mondo – responsabili dell’80% delle emissioni – e si è visto un generale consenso circa la necessità di eliminare il carbone dalla produzione di energia. Purtroppo, Cina e India, due attori di primaria importanza nell’eventuale processo di decarbonizzazione, si sono opposte con decisione.

Altro elemento che rappresenta un’incognita è il ruolo della pandemia sui negoziati della Cop26. Se, da un lato, molte persone nel mondo sembrano aver recepito la pandemia come un motivo di riflessione sulla sostenibilità della presenza umana sul pianeta, dall’altro, opinioni pubbliche le cui economie sono provate da lockdown e restrizioni potrebbero mostrarsi restie ad accettare i costi degli investimenti richiesti per un’efficace transizione verso fonti di energia e stili di vita più sostenibili.

I negoziatori dovranno tenere conto di tutti questi aspetti e anche delle proposte e richieste emerse dal 28 al 30 settembre dallo Youth Summit@ il vertice che ha riunito a Milano 400 giovani, di età compresa fra i 18 e i 29 anni, da 197 paesi – in modo da includere il punto di vista delle generazioni che saranno più esposte alle conseguenze del cambiamento climatico.

Il G20 e la cooperazione

Il G20, o Gruppo dei 20, e gli incontri fra i leader e i ministri dei paesi che lo compongono, ha le sue origini nella necessità di coordinare gli sforzi delle principali economie del mondo per reagire alle crisi finanziarie della fine dello scorso millennio, a cominciare da quella del 1999 che interessò diversi paesi asiatici – Thailandia, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia – e si estese poi a Brasile e Russia@.

In quell’anno e per i successivi nove, alle riunioni del G20 parteciparono i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi membri. Con la crisi finanziaria del 2008, su iniziativa del presidente Usa George W. Bush cominciarono i vertici del G20 che coinvolgevano i capi di Stato e di governo. Dal 2010 questi incontri hanno cadenza annuale con il paese ospitante che cambia ogni anno@.

Le decisioni prese ai summit non sono vincolanti da un punto di vista giuridico, ma il loro peso politico e di indirizzo può essere molto elevato. Fra i temi connessi alla cooperazione e allo sviluppo che il vertice di Roma dovrà affrontare, vi è la ristrutturazione del debito per i paesi a basso e medio reddito. Nelle economie fragili, l’espansione della spesa pubblica e il maggior indebitamento imposti dalla pandemia rischiano di risultare insostenibili e così, già a novembre dell’anno scorso, i paesi del G20 avevano deciso di congelare il debito. Un provvedimento temporaneo e di emergenza che il summit di Roma dovrebbe tentare di sostituire con un accordo più articolato di riduzione o rinegoziazione@.

Altro tema che dovrebbe ricevere attenzione da parte dei leader del G20 è quello dell’accesso al cibo, dal momento che le persone in condizione di grave insicurezza alimentare sono aumentate dai 690 milioni del 2019 agli 820 milioni attuali, in larga parte a causa della pandemia@.

Il vertice Onu sui sistemi alimentari

Proprio del cruciale tema del cibo si è occupato il vertice Onu sui sistemi alimentari che si è svolto a New York il 23 settembre scorso. Il suo obiettivo, si legge sul sito istituzionale, era di suscitare la consapevolezza che occorre «lavorare insieme per trasformare il modo in cui il mondo produce, consuma e concepisce il cibo»@.

Per sistemi alimentari si intende tutta la «costellazione di attività coinvolte nella produzione, lavorazione, trasporto e consumo di alimenti». Uno dei principali problemi che il vertice intendeva affrontare era quello dei sistemi alimentari fragili e a rischio di collasso, «come milioni di persone in tutto il mondo hanno sperimentato in prima persona durante la crisi del Covid-19».

L’obiettivo era quello di individuare soluzioni e stabilire principi di riferimento che possano guidare il cambiamento di questi sistemi nella direzione di una maggior sostenibilità e garantire a tutti l’accesso al cibo. Alla chiusura di questo articolo (fine agosto 2021, nda) non è possibile dare conto dei risultati del vertice; certamente però le critiche che hanno preceduto il suo svolgimento sono state numerose e aspre.

Il prevertice di luglio e le critiche

Queste critiche sono emerse già in occasione del prevertice che si è svolto alla Fao nel luglio scorso, attraverso prese di posizione come quelle della piattaforma Csm (Civil society and indigenous peoples’ mechanism)@ che riunisce organizzazioni della società civile attive nella lotta all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione: nonostante affermi di essere un «vertice del popolo» e un «vertice delle soluzioni», è l’accusa del Csm, questo summit favorisce piuttosto una maggiore concentrazione nelle mani delle multinazionali, promuove catene del valore globalizzate insostenibili e rafforza l’influenza dell’agroindustria sulle istituzioni pubbliche. E lo fa proponendo «false soluzioni, come i modelli falliti degli schemi volontari per la sostenibilità aziendale, soluzioni “naturali” che includono tecnologie rischiose come gli organismi geneticamente modificati e la biotecnologia e l’intensificazione sostenibile dell’agricoltura». Queste soluzioni, continua il Csm, non sono né sostenibili, né abbordabili per i produttori alimentari su piccola scala e non affrontano le ingiustizie strutturali come l’accaparramento di terre e risorse, l’abuso di potere da parte delle grandi aziende e la disuguaglianza economica.

Anche il Vaticano ha preso posizione nel dibattito. Nel suo intervento al prevertice, il cardinale Peter Kodwo Turkson, prefetto del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, ha ricordato che per individuare soluzioni davvero sostenibili è opportuno guardare ai popoli indigeni e alla loro capacità di adattare i metodi di coltivazione alle condizioni che via via si presentano, mentre occorre porre un freno all’opposto tentativo di spazzare via queste conoscenze: «L’utilizzo delle tecniche tradizionali si è dimostrato fondamentale per la vitalità e la resilienza delle colture e delle specie alimentari indigene, mentre l’introduzione di specie straniere, accompagnate da fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, “compromette gravemente questa vitalità, e l’agricoltura tradizionale locale in Africa lo dimostra”»@.

Chiara Giovetti




Cambierà il turismo dopo la pandemia?

testo di Chiara Giovetti | www.missioniconsolataonlus.it | foto del Campi ya Kanzi |


Il 2020 è stato l’anno più negativo di sempre per il turismo e, anche se ci sono segnali di ripresa, il 2021 non segnerà un ritorno ai volumi pre Covid. La contrazione del turismo ha avuto effetti nefasti per l’economia e per i lavoratori del settore, ma potrebbe anche offrire l’opportunità di correggere alcune storture.

Lo scorso 27 aprile, 250 guide dei parchi nazionali del Kenya hanno ricevuto a Nairobi@ il vaccino AstraZeneca: la stagione più propizia per visitare i parchi del paese e per vedere la spettacolare migrazione degli gnu e delle zebre@ al Maasai Mara si apre, infatti, fra maggio e giugno e le guide hanno voluto dare un segnale chiaro ai turisti, che mai come ora scelgono le proprie mete dando alla sicurezza sanitaria la più alta priorità.

Come tutti i paesi del mondo, il Kenya ha subito una pesante riduzione di arrivi internazionali nel 2020: secondo il Tourism research institute keniano, che ha confrontato i dati dei primi dieci mesi dell’anno scorso con lo stesso periodo dell’anno precedente, il calo è stato del 72%, con 470.971 ingressi nel 2020 contro 1.718.550 del 2019.

Alla riapertura dei voli, l’estate 2020, qualche segnale di ripresa dei flussi c’è stato, ma dei viaggiatori che entravano in Kenya solo uno su cinque arrivava per vacanza, contro i tre su cinque del 2019@.

Il settore turistico ha subito cercato di riadattarsi rivolgendosi di più al mercato interno, offrendo sconti ai visitatori keniani@; ma il comparto ha realizzato solo 37 miliardi di scellini contro i 147 miliardi attesi.

I settori connessi al turismo, poi, hanno a loro volta subito un duro contraccolpo: Rose Ayuma, responsabile del marketing di Kazuri Beads, un’azienda che produce collane, braccialetti e vasellame in ceramica, riferiva lo scorso ottobre ad Africanews una drastica riduzione nel proprio personale, composto di madri single in condizioni di vulnerabilità che ricevono oltre allo stipendio anche assistenza medica: «Di solito ci sono 235 donne che lavorano in azienda, ora ne abbiamo solo 35»@.

Foto del Campi ya Kanzi sulle Chulu Hills ai piedi del Kilimanjaro in Kenya (Maasai.com).

I dati dell’annus horribilis

Quello del Kenya è solo un esempio, piuttosto in linea con il dato globale, del calo di ingressi dovuto alla pandemia e delle strategie adottate per farvi fronte.

Secondo il numero di maggio del Barometro del turismo mondiale, bollettino pubblicato dall’Organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite (Unwto), gli arrivi internazionali erano diminuiti dell’83% anche nel periodo gennaio-marzo 2021 rispetto all’anno precedente. Nel complesso il 2020 aveva fatto registrare un «calo senza precedenti del 73%» diventando così «l’anno peggiore mai registrato per il turismo internazionale@».

In termini economici, l’anno scorso le entrate derivanti dal turismo sono crollate di 930 miliardi di dollari, circa dieci volte tanto la perdita generata dalla crisi finanziaria del 2009. I visitatori internazionali hanno infatti speso l’anno scorso circa 536 miliardi di dollari, quasi un terzo rispetto ai 1.466 miliardi di dollari del 2019.

Secondo un’indagine effettuata dal gruppo di esperti della Unwto la scorsa primavera, la fiducia del settore stava lentamente aumentando per il periodo maggio-agosto 2021 anche grazie ai ritmi sostenuti con cui si effettuavano le vaccinazioni in alcuni mercati chiave – principalmente i paesi occidentali – e alle soluzioni allo studio per riavviare il turismo in sicurezza attraverso strumenti come la Green card della Ue.

Ma le incognite segnalate dall’agenzia Onu rimanevano tante, a cominciare «dall’emergere di nuove varianti, dalle restrizioni di viaggio ancora in vigore e dall’irregolare distribuzione dei vaccini».

Se nella precedente indagine di gennaio gli esperti della Unwto erano divisi esattamente a metà fra chi prevedeva una ripresa nel 2021 e chi la collocava invece nel 2022, i dati di maggio avevano fatto propendere più esperti (il 60%) per la seconda ipotesi. Inoltre, la percentuale che prevedeva per il 2023 un ristabilirsi dei flussi turistici ai livelli pre pandemia era passata dal 43% di gennaio al 37% di maggio, mentre circa la metà proiettava questo ritorno al 2024 o dopo.

I posti di lavoro persi l’anno scorso a livello mondiale sono stati 61,6 milioni, riportava in aprile il forum dell’industria del turismo e dei viaggi World travel and Tourism council (Wttc), passando da 334 milioni a 272 milioni e il contributo del turismo al Pil mondiale si è praticamente dimezzato, passando dal 10,4 al 5,5%@.

Pandemia e viaggi

Proprio questo ritorno al prima della pandemia è oggi al centro del dibattito perché, fa notare la coalizione Future of tourism, c’è un «crescente consenso sul fatto che tornare al cosiddetto business as usual non è possibile»@. La coalizione, costituita nel giugno 2020 da sei Ong con la partecipazione consultiva del Global sustainable tourism council (Gstc) – a sua volta espressione della Unwto, della Rainforest alliance e del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, Unep – ha individuato 13 principi guida per riorganizzare il turismo@.

L’epidemia da coronavirus ha contribuito a sviluppare alcune sensibilità riguardo ai temi promossi dalla coalizione e dall’iniziativa «sorella» e più concentrata sui problemi legati al clima Tourism declares@, almeno a giudicare da alcuni studi usciti in questi mesi.

Secondo il Rapporto sulla sostenibilità del portale Booking@, che ha raccolto le opinioni di oltre 29mila viaggiatori in trenta paesi, il 61% degli intervistati sostiene che la pandemia li ha spinti a desiderare di viaggiare in modo più sostenibile, e tre su quattro di loro si dichiarano più inclini a scegliere un alloggio se questo mette in atto pratiche che ne aumentino la sostenibilità.

Il 27% degli intervistati vorrebbe vedersi offrire la possibilità di rinunciare alla pulizia giornaliera della stanza per ridurre il consumo di acqua (nel 2020 era il 22% a esprimere questa volontà) e preferirebbe usare stoviglie e posate riutilizzabili per tutti i pasti, inclusi quelli in camera (+4% rispetto all’anno prima). Quattro viaggiatori su cinque si dicono poi desiderosi di spostarsi in modo più sostenibile, ad esempio a piedi, in bicicletta o con il trasporto pubblico, invece che con il taxi o con auto a noleggio.

Fra i cambiamenti che Unwto registra nel comportamento dei turisti a causa della pandemia, i principali si confermano l’aumento del turismo interno, la scelta di destinazioni che permettano di restare immersi nella natura, la preferenza per il turismo rurale e per i viaggi in auto, una maggiore preoccupazione per la salute e la sicurezza, un’aumentata attenzione verso le politiche sulla cancellazione delle prenotazioni applicate da strutture ricettive e vettori di trasporto e, infine, una maggiore tendenza a prenotare all’ultimo minuto@.

Turismo sostenibile

A questa aumentata sensibilità, tuttavia, ancora non corrisponde una risposta dal lato dell’offerta, innanzitutto nella comunicazione: sempre secondo il rapporto di Booking, le strutture non comunicano agli ospiti gli sforzi fatti per essere più sostenibili perché pensano che quello che fanno non sia sufficiente per essere interessante da comunicare (33%), perché ritengono che agli ospiti non interessi (32%) o perché temono di risultare paternalistiche.

Ma, sostengono diversi studiosi, il problema a volte è a monte e riguarda la comprensione da parte degli operatori del turismo dell’idea stessa di sostenibilità. Secondo C.B. Ramkumar, membro del consiglio e direttore per l’Asia meridionale del Gstc, «oltre il 95% dell’industria del turismo non comprende appieno la sostenibilità. E chi la comprende, la guarda attraverso la lente dell’essere green e dell’ambiente»@.

Si tratta, invece, di un approccio molto più ampio, che riguarda non solo l’ambito ambientale, ma anche quello economico e quello socioculturale@.

«Secondo gli esperti, sostenibilità è molto più che riutilizzare gli asciugamani nella nostra camera d’albergo o pagare una compensazione per il carbonio emesso dal nostro volo, anche se questi sono buoni punti di partenza», scrive@ Paige McClanahan, giornalista freelance che si occupa di turismo e viaggi per il New York Times. «La sostenibilità riguarda anche i salari e le condizioni di lavoro delle persone che servono ai tavoli sulla nave da crociera in cui viaggiamo o che trascinano la nostra valigia su un sentiero; riguarda la pressione aggiuntiva che la nostra presenza esercita su una città già affollata, su un sito del patrimonio storico o su un’area naturale; ha a che fare con la scelta da parte dell’hotel in cui soggiorniamo di acquistare i prodotti da un’azienda agricola in fondo alla strada o da un fornitore dall’altra parte del mondo, o con la possibilità che i soldi che spendiamo vadano alla comunità che stiamo visitando oppure nel remoto conto di una multinazionale». La mancanza di comprensione, osserva Ramkumar, deriva anche dal fatto che la sostenibilità per ora non rientra fra le conformità da ottenere per legge, come quelle sanitarie o della sicurezza, perciò le aziende del settore turistico – spesso già alle prese con certificazioni obbligatorie laboriose da ottenere – non avvertono la necessità di approfondire e capire meglio. Anche perché si tratta di indicazioni e raccomandazioni fornite da un’entità come l’Onu e spesso percepite come lontane e vaghe.

Ci sono poi alcuni malintesi sulla sostenibilità, che «a volte è equiparata alla frugalità. Non deve essere così per forza. Le persone vedono il fatto di concedersi qualche lusso come una ricompensa per il grande impegno che mettono nel loro lavoro e nella loro vita. E questo va bene, purché non consumi risorse sproporzionate, purché non sia dispendioso, purché non privi gli altri delle risorse che spettano loro. Davvero servono quindici cuscini e guanciali in una stanza per due persone?».

La stessa definizione di lusso sta cambiando: «Lusso ora è poter fare una lunga passeggiata in un posto sicuro!», conclude Ramkumar. «Penso che saranno i consumatori o i viaggiatori a imporre un cambio di rotta, se saremo capaci di ascoltarli. Il loro comportamento darà forma al cambiamento di mentalità per le imprese turistiche e per gli altri attori coinvolti».

Piccoli segnali di cambiamento

«Dobbiamo ripensare e rimodellare il nostro modo di fare le cose per poter così sopravvivere fino a quando il turismo non riprenderà», ha detto alla Cnn@ il ministro del turismo keniano Najib Balala. Il Kenya, approfittando dell’inattività forzata dovuta alla pandemia, ha avviato uno sforzo di tutela della fauna che comincia con il censimento di ogni animale e forma di vita marina in tutti i 58 parchi nazionali del paese e che sarà fondamentale per comprendere e proteggere le oltre mille specie originarie del paese, alcune delle quali hanno subito un preoccupante calo della popolazione negli ultimi decenni.

Elaine Glusac, anche lei giornalista del New York Times, segnala poi quella che potrebbe essere una nuova frontiera, il turismo rigenerativo@: secondo Jonathon Day, professore della Purdue University citato da Glusac, il turismo sostenibile corrisponde all’asticella bassa del non fare danni al luogo che si visita, mentre il turismo rigenerativo ha l’obiettivo più ambizioso di migliorare quel posto per le generazioni future. Un esempio pratico: il piccolo resort Playa Viva, nello stato di Guerrero, Messico, che fa parte delle soluzioni proposte dall’agenzia viaggi Regenerative travel@ specializzata appunto in questo tipo di turismo e che è stato esaminato da Regenesis@, un’azienda statunitense che si occupa di sviluppo rigenerativo, anche in ambito turistico, dal 1995.

La vicina cittadina di Juluchuca, ha constatato Regenesis, è diventata di fatto la porta di accesso a Playa Viva; un sistema agricolo biologico ha beneficiato sia la proprietà sia i residenti locali e una commissione del 2% aggiunta a tutti i soggiorni al resort finanzia un fondo fiduciario che investe nello sviluppo della comunità.

«Invece che fare un resort calato dall’alto e che occupa la terra», commenta il capo di Regenesis, Bill Reed, i responsabili hanno detto: “Noi siamo il villaggio”. È un cambio di paradigma».

Chiara Giovetti