Trent’anni di missione


Un’esperienza di un mese nel paese saheliano è stata  per lui una «folgorazione». Da allora non ha più smesso di viaggiarci e ne ha fatto il suo Paese di adozione. Fino ad andarci a vivere. La sua è, in tutti i sensi, una famiglia missionaria. Paolo ci racconta la sua storia.

«Io sono tornato molto fiducioso da questo viaggio in Burkina Faso, con tanta voglia di ripartire e fare investimenti nel Paese». Chi parla è Paolo Turini, classe 1969, di Montevarchi (Arezzo). È tornato da qualche settimana dal paese saheliano. Ma la sua non è una butade, è una constatazione suffragata da una lunga esperienza.

Il primo viaggio come esperienza di missione lo ha fatto nel 1994, proprio in Burkina Faso. È successo quasi per caso. Poi si è creata una profonda relazione con quei luoghi.

Lì ha conosciuto Caterina Piu, pure lei volontaria, e da quel momento il rapporto con i burkinabè è stato prima di coppia e poi di famiglia.

Ma andiamo con ordine.

1994. L’inizio di tutto

«Don Gabriele Marchesi era il mio parroco, ma anche il responsabile dell’ufficio missionario diocesano di Fiesole – ci racconta Paolo -. Il 2 novembre del 1994, dopo la messa dei morti gli chiesi: “Come posso fare una esperienza missionaria?”. Lui mi parlò dei corsi di preparazione dei giovani che poi ad agosto avrebbero fatto un’esperienza di missione. Ma mi disse anche: “Però ho un biglietto per un muratore, per andare a posare delle piastrelle in un dispensario in Burkina Faso. Chi doveva andare si è infortunato, e devo trovare qualcuno per il 10 dicembre”».

Il giovane pensò subito al suo capo scout che faceva quel mestiere. «Corsi da lui, ma mi disse che aveva molto lavoro e non poteva partire. Gli chiesi se mi avrebbe insegnato a posare le piastrelle se fossi andato tutti i sabati e le domeniche a lavorare con lui. Si mise a ridere, ma annuì». Paolo fece subito la proposta a don Gabriele, non c’era un minuto da perdere. E il sacerdote: «Guarda che poi là sei da solo, devi essere bravo!». Ma gli diede fiducia, e Paolo, in alcuni fine settimana, imparò a fare il lavoro.

«Una settimana prima della partenza facemmo una riunione con altri due ragazzi che sarebbero pure partiti e con don Carlo Donati, sacerdote fidei donum, che seguiva questa missione. Fui presentato come muratore esperto!».

Arrivati a Ouagadougou, la capitale, il giorno dopo si trasferirono nella città di Koupela. Il lavoro da fare era in un villaggio, Kanougou. «Eravamo su un fuoristrada su una pista di terra e don Carlo mi disse: “Guarda: a questo sasso svolti a destra e a quell’albero a sinistra. Impara perché da domani ci vieni da solo”. E così è stato. Per venti giorni da solo, prima a portare tutti i materiali e poi a posare piastrelle. Con i bambini che venivano a prendere i ritagli per fare i presepi. Altri dieci giorni sono andato in motorino, perché l’auto non era più disponibile». Paolo conclude: «Come prima esperienza in Africa è stata folgorante».

Quell’esperienza, Paolo l’aveva cercata intensamente, ma non sa neppure lui perché. Inoltre, aveva dovuto rinunciare allo stipendio in Italia, perché aveva già fatto le ferie. Il datore di lavoro lo aveva aiutato, tenendogli il posto.

Oltre a un primo assaggio di Africa, Paolo conobbe così il gruppo missionario di don Carlo con il quale iniziò a fare volontariato. Ogni anno tornava in Burkina a svolgere compiti diversi. Nei restanti mesi, in Italia, era attivissimo: usava il suo tempo libero per le diverse attività di promozione della missione sul territorio.

1977. Un’infermiera

«Nel 1997 ero in Burkina per il mese di missione che facevo tutti gli anni. Mi dissero di andare all’aeroporto a prendere tre volontari. Scesero dall’aereo una signora, una ragazza e un ragazzo. La giovane aveva l’orecchino al naso e i tacchi alti. Ho subito pensato: ma chi l’ha mandata in Burkina? Poi iniziai a interessarmi, mi piaceva l’attenzione che dava ai malati. Così ho approfondito la conoscenza».

Caterina è un’infermiera di Nuoro, ed era andata a fare un’esperienza da una suora sarda in missione a Koupela.

«L’anno successivo siamo riusciti a fare insieme due mesi in Burkina, accumulando ferie e altri permessi. Due anni dopo ci siamo sposati».

Fu in quel periodo che Paolo e Caterina maturarono l’idea di passare più tempo nel Paese. «Quando abbiamo deciso di partire per un tempo più lungo, è stato perché, dopo tanti anni di permanenze di un mese, avevamo capito che, se ci si voleva immedesimare nella cultura e aiutare meglio, occorreva vivere sul posto. Una volta compreso questo, abbiamo cercato in tutti i modi di realizzare il nostro sogno, mettendo a disposizione i nostri talenti».

1999. Il primo anno

Il primo passo è stato ottenere per entrambi un’aspettativa di un anno dal lavoro. Paolo nel 1999 lavorava per le ferrovie come manutentore (aveva passato il concorso pubblico), mentre Caterina faceva l’infermiera.

«Io ho sempre creduto nella formazione tecnica dei giovani – continua Paolo -, affinché abbiano le competenze per realizzare essi stessi il cambiamento. Ero in linea con il metodo dei Fratelli della Sacra famiglia, e c’era il modello di Goundi (villaggio nel centro ovest del Paese) di fratel Silvestro Pia: formare i giovani e dare loro gli strumenti per iniziare l’attività».

Quell’anno di aspettativa lo passarono proprio con fratel Silvestro, con l’intento di costruire una permanenza più stabile.

«Cercammo diverse possibilità: congregazioni religiose, Ong. Nessuno si interessò al nostro progetto. A un certo punto ci eravamo accordati con il gruppo missionario di don Carlo: saremmo rimasti nel Paese a seguire i suoi progetti. Il gruppo aveva aperto tre centri per bambini malnutriti e creato diversi orti moderni. Era quasi tutto pronto, ma una telefonata che ci raggiunse proprio in Burkina durante l’anno di aspettativa ci gelò: “Mi dispiace, non possiamo permettercelo economicamente”.

Don Gabriele conosceva tutta la questione. Ci disse: “Se mi garantite di rimanere cinque anni, trovo una formula”. E trovò quella dei missionari laici, che all’epoca era molto complicata. La diocesi di Fiesole ci avrebbe dato un rimborso per pagarci i contributi, circa 500 euro a testa al mese. Avremmo pagato solo i miei, perché gli altri ci sarebbero serviti per vivere. Non possiamo smettere di ringrazialo perché ci permise di partire».

2001. E missione sia

Paolo e Caterina partirono nel marzo del 2001. Iniziarono dando un aiuto ai padri Camilliani, alla periferia di Ouagadougou, in un centro dove accoglievano malati di Aids. Si occupavamo di completare la formazione degli infermieri neo diplomati e di altre attività. «Non era esattamente il nostro sogno, ma ci permise di partire. Prendemmo un impegno di un anno, poi ci saremmo spostati».

Arrivò la soffiata che una sezione dei Lions (organizzazione filantropica, ndr) voleva finanziare progetti di formazione professionale nel Sud del mondo. Paolo, preso a modello il centro di formazione professionale di Goundi, scrisse un documento da presentare all’associazione. La cifra necessaria era di 75mila euro: «Volevamo realizzarlo nella diocesi di Koupela, perché c’era l’accordo con la diocesi di Fiesole. Parlando con il vescovo, questi ci suggerì proprio Kanougou, perché c’era una struttura, il dispensario delle suore dove anni prima avevo messo le piastrelle, che aveva alcune stanze libere. Inoltre c’era il pozzo per l’acqua».

Le cose non andarono bene: «Anche questa volta arrivò una telefonata che ci lasciò di stucco: i Lions stavano ristrutturandosi e non avrebbero finanziato alcun progetto».

Ma la coppia missionaria era tenace. Lavorando dai Camilliani avevano conosciuto un medico italiano, che si impegnò a trovare loro un primo finanziamento. «Abbiamo deciso di cominciare con una cifra molto più bassa, poi via via si sono aggiunti altri contributi: dal centro missionario di Montevarchi, dallo stesso gruppo di don Carlo e da tanti altri ancora. Lavorando un po’ alla volta, siamo riusciti a realizzare tutto, tranne la sala polivalente, che avevamo capito non essere necessaria. Ci abbiamo messo più tempo, ma abbiamo avuto una spesa totale di 65mila euro».

Riflessioni

I due missionari laici si resero conto che vivere sul posto la missione ha un valore aggiunto molto importante: «L’idea di missione che si ha facendo viaggi periodici nel paese per brevi periodi non sempre è adattata al contesto. Per questo io e Caterina abbiamo deciso di stare a vivere in Burkina. Gli anni passavano, il Paese cambiava, cresceva, ma in Italia era rimasta l’idea dell’Africa dei container. Vivendo lontani si rischia di avere un approccio di aiuto di vecchio stile». Certo, lasciare tutto e partire è molto più complicato che mettere a disposizione le proprie ferie ogni anno: «Abbiamo dovuto entrambi licenziarci dal lavoro. Devo dire che le nostre famiglie ci hanno sempre supportati. A Caterina hanno detto: “Basta che tu sia felice”. E mia mamma ha chiosato: “Tanto tu alle ferrovie non sei mai andato volentieri”».

Ripensando al periodo di residenza in Burkina, Paolo ricorda che non era sempre tutto facile, anzi: «Qualche batosta c’è stata. Alcuni problemi che ti fanno dire: ma chi me lo ha fatto fare. Ma poi ci sono le motivazioni di fondo che ti aiutano ad andare avanti».

Nel frattempo arrivarono i primi due figli, Samuele e Francesco, e la famiglia missionaria si era allargata.

2006. Il ritorno

Il 12 agosto del 2006 arrivò una di quelle telefonate che impongono decisioni importanti. «Il provveditorato agli studi mi informava che ero passato di ruolo. Avevo dato il concorso per la scuola molti anni prima. In 48 ore avrei dovuto decidere se prendere il posto o lasciare. Partire o restare in Burkina.

Quella notte non riuscivo a dormire. Mi giravo e mi dicevo: ma chi ce lo fa fare di tornare in Italia? Stiamo qui. Poi mi rigiravo: abbiamo già due figli e quando cresceranno cosa si farà? Don Gabriele era andato in missione in Brasile. Non si sapeva se la diocesi ci avrebbe rinnovato il contratto. Le incognite erano tante. Apro gli occhi e vedo una lucina rossa nel buio della stanza. Penso al tabernacolo. Sento che mi dice: torna in Italia poi semmai ritorni in Burkina.

Al mattino mi sveglio e dico a Caterina: si è deciso, si riparte. Poi mi accorgo che la lucina era lo zampirone contro le zanzare. Ma oramai si era deciso».

In Italia Paolo e Caterina diventarono l’anima del centro missionario Bakonghe, che si costituì come associazione. Furono, inoltre, nominati entrambi responsabili del Centro missionario diocesano di Fiesole, primi laici a svolgere questo servizio. Paolo continuava a seguire il progetto di Kanougou e, una volta all’anno, andava in Burkina.

Ma ci confessa: «Non sempre siamo contenti della scelta di tornare in Italia. Adesso Samuele ha 20 annie sta già lavorando. Francesco e all’ultimo anno delle superiori, e Petra, nata dopo il rientro, al terzo. Vediamo quando saranno autonomi se tornare in Burkina».

2024. Nuove idee

Nel gennaio di quest’anno Paolo è tornato dall’ultimo viaggio missionario con una nuova idea. «Voglio realizzare una fabbrica di motozappe. Se funziona, può migliorare la vita dei contadini burkinabè, e anche darci un piccolo introito che ci permetta di tornare a vivere in Burkina per seguire le attività del centro di formazione a Kanougou».

Paolo ci dice che l’attuale governo vuole favorire l’agricoltura e quindi cercherà di contattare il ministero. «Prevedo una parte per l’assemblaggio delle motozappe e una parte per la vendita. Il prezzo deve essere accessibile a una famiglia del posto. Servono circa 50mila euro, ma non tutti insieme, si può iniziare con una prima parte e poi andare avanti. Ma in tre anni la fabbrica deve essere produttiva. Devo iniziare a cercare i finanziamenti».

Nel frattempo Paolo sta contattando aziende italiane produttrici di motozappe per proporre eventuali collaborazioni, sia tecniche che finanziarie. Intanto con Caterina continua l’attività missionaria con il centro Bakonghe e con la diocesi.

«Lascerei il Cmd anche ad altri, ma purtroppo in Italia adesso c’è poco interesse per la missione», si lamenta. E fa un commento su come è stato vissuto il loro rientro dalla missione: «Quando siamo venuti via dal Burkina, temevo che i burkinabè ci accusassero di essere dei traditori. Cosa che non è mai accaduta. Piuttosto, ci hanno sempre detto: “Voi potrete aiutarci anche dall’Italia”. Invece qui da noi c’è gente che ci ha detto: ma cosa siete tornati a fare, abbiamo bisogno di voi in Burkina. Voglio dire che abbiamo avuto più difficoltà da parte degli italiani che dagli africani».

Dopo trent’anni di missione in Burkina Faso, seppure con modalità diverse, Paolo è più motivato che mai. Neanche la difficile situazione sociopolitica del Paese lo scoraggia. E con lui, la sua famiglia missionaria.

Marco Bello

 




Il ruolo della Cina e i primi passi di Biden

testo di Chiara Giovetti |


Il disinteresse della scorsa amministrazione Usa per la cooperazione ha contribuito all’espansione dell’influenza cinese, specialmente nelle organizzazioni internazionali. L’aiuto allo sviluppo, ma soprattutto gli investimenti cinesi, infatti, sono in forte crescita già da un ventennio. Il nuovo presidente Usa, Joe Biden, dovrà trovare una mediazione fra la fermezza verso Pechino e il riparare e ricostruire quanto cambiato o demolito da Trump.

Quattro delle principali quindici agenzie delle Nazioni Unite hanno un cittadino cinese come direttore o segretario generale: al primo mandato sono Fang Liu, che guiderà l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (Icao) fino al prossimo luglio, e Qu Dongyu che sarà fino al 2023 il direttore generale dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). Si concluderà invece alla fine di quest’anno il secondo mandato di Li Yong all’Agenzia per lo sviluppo industriale (Unido), mentre Houlin Zhao, riconfermato nel 2018 alla testa dell’Unione internazionale per le telecomunicazioni (Itu), occuperà la posizione fino alla fine del 2022.

Una maggior presenza di una potenza come la Cina nelle istituzioni internazionali è del tutto fisiologica; ma per farsi un’idea del peso che Pechino sta acquisendo basta pensare che le altre potenze mondiali come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e la Francia hanno loro cittadini alla guida di una sola agenzia ciascuno@.

Honk Hong /AfMC

Centri d’influenza

Le agenzie Onu non sono molto note ai non addetti ai lavori, ma il loro operato riguarda ambiti con i quali milioni di persone vengono a contatto quotidianamente e non solo nei paesi in via di sviluppo. L’Unione internazionale per le telecomunicazioni, ad esempio, ha fra i suoi incarichi quello di elaborare le norme tecniche per il funzionamento delle reti dell’informazione e della comunicazione senza le quali, si legge sul sito dell’organizzazione, «non sarebbe possibile fare una telefonata o navigare in Internet. Per l’accesso a Internet, la compressione vocale e video, le reti domestiche e molti altri aspetti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, centinaia di standard Itu consentono ai sistemi di funzionare, a livello locale e globale»@.

Un esempio delle diatribe che possono sorgere intorno ai temi di cui si occupa l’Itu si è avuto assistendo allo scontro fra l’amministrazione guidata da Donald Trump e la Cina a proposito delle tecnologie di telefonia mobile e cellulare di quinta generazione, o 5G, e del ruolo che l’azienda cinese Huawei ha nella produzione della componentistica e nella costruzione dell’infrastruttura necessaria a far funzionare queste tecnologie. I timori avanzati dal governo statunitense, spiegavano in un articolo del 2019 Alberto Belladonna e Alessandro Gili del centro di ricerca Ispi, riguardavano principalmente la possibilità che i dispositivi Huawei vengano usati per attività di «sorveglianza o spionaggio sulle reti digitali americane» e il fatto che «utenti, aziende e istituzioni sempre più interconnesse saranno più vulnerabili a interruzioni di servizio, furti di dati sensibili e attacchi cyber in grado di mettere a repentaglio l’economia e la sicurezza di un intero paese». A questo, sottolineavano gli autori, va aggiunta la competizione relativa alla definizione delle norme di riferimento: «l’International telecommunication union adotterà infatti come standard quello di una specifica azienda, che dovrà essere successivamente seguito come riferimento dai restanti produttori»@.

A prendere posizione a favore di Huawei è stato proprio il direttore dell’Itu, Houlin Zhao: quelle statunitensi sono preoccupazioni generate dalla politica e dagli interessi commerciali, ha detto il funzionario cinese, non dalla presenza di prove concrete.

Il pasticcio alla Fao

Anche la Fao, precisa un’analisi di Colum Lynch e Robbie Gramer apparsa nel 2019 sulla rivista Foreign Policy, ha un ruolo importante che riguarda tutti i paesi del mondo, non solo quelli a basso e medio reddito. L’agenzia, infatti, contribuisce a definire la regolamentazione internazionale per la sicurezza degli animali e la salubrità del cibo, e svolge un ruolo chiave nell’elaborazione di risposte alla fame globale, ai cambiamenti climatici causati dalla produzione alimentare e alle esigenze delle agroindustrie@.

L’elezione a direttore della Fao di Qu Dongyu è stato un altro evento indicativo dell’intenzione della Cina di ottenere più posizioni di potere nelle agenzie Onu, e avrà conseguenze anche sulla nomina del prossimo direttore del World food programme (Wfp, Programma alimentare mondiale), l’agenzia che si occupa di assistenza alimentare e che dal 1982 è guidata da un cittadino statunitense. Sarà il direttore della Fao, insieme al Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, a scegliere nel 2022 il prossimo direttore del Wfp e ad «approvare tutte le nomine del personale di alto livello presso l’agenzia, complicando i futuri sforzi degli Stati Uniti per mantenere il loro ruolo dominante».

L’elezione di Qu – figlio di un coltivatore di riso e biologo con alle spalle anche una solida carriera in scienze agrarie e ambientali – è la conseguenza di tre fattori, il primo dei quali è la campagna elettorale molto decisa che la Cina ha fatto per il proprio candidato. Foreign Policy riporta un articolo della Cnn secondo il quale nel febbraio del 2019, pochi mesi prima dell’elezione del direttore generale, un alto funzionario cinese si è recato in Camerun per annunciare la cancellazione di 78 milioni di dollari dal debito del paese africano con Pechino. Un mese dopo il candidato camerunese alla direzione della Fao si è ritirato, facendo sospettare a molti osservatori un legame fra i due eventi.

Il secondo fattore è la confusa e maldestra gestione della vicenda all’interno dell’amministrazione Trump, dove si è consumato uno scontro fra i funzionari più vicini all’ex presidente – cristallizzati sull’appoggio a un candidato debole come l’ex ministro dell’agricoltura georgiano Davit Kirvalidze – e i funzionari più aperti a considerare altri profili da sostenere. Il terzo fattore è stato la mancanza di collaborazione, se non l’aperta ostilità, fra gli Usa di Trump e i paesi europei, compatti invece nel sostegno alla candidata francese, l’agronoma Catherine Geslain-Lanéelle.

«La leadership cinese non è intrinsecamente cattiva», ha spiegato a Foreign policy kristine Lee, del centro studi Center for a new American security, «in una certa misura, gli Stati Uniti dovrebbero essere contenti che Pechino stia cercando di assumersi maggiori responsabilità nelle organizzazioni internazionali. Il problema è che sta abusando di questa responsabilità. I funzionari cinesi riferiscono a Pechino e prima di tutto servono gli interessi ristretti del Partito comunista cinese, invece di promuovere veramente il multilateralismo e rafforzare la trasparenza e la responsabilità alle Nazioni Unite».

Piazza Tienanmen a Pechino /AfMC

L’aiuto cinese e la nuova agenzia

Secondo le stime dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel 2018 la cooperazione allo sviluppo internazionale della Cina ha raggiunto 4,4 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 4,8 miliardi del 2017. Un miliardo e quattrocento milioni sono andati alla cooperazione multilaterale, cioè alle banche di sviluppo regionale, specialmente la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Aiib), e alle agenzie delle Nazioni Unite@.

Il dato Ocse è inferiore a quello fornito dall’Agenzia per la cooperazione giapponese, secondo la quale l’aiuto (stimato) della Cina è aumentato da 5,1 miliardi di dollari nel 2015 a 5,9 sia nel 2018 che nel 2019. L’aiuto sarebbe costituito da donazioni bilaterali e prestiti senza interessi per circa la metà, mentre un quinto andrebbe in prestiti agevolati del governo cinese ai paesi beneficiari e il restante 30% in contributi alle organizzazioni internazionali@.

Il dato più alto è quello calcolato dal sito Aiddata, che considera però anche gli impegni dichiarati (commitments) e non soltanto i fondi effettivamente sborsati; secondo Aiddata l’aiuto cinese è aumentato da un miliardo e 300 milioni del 2000 ai 6,9 miliardi del 2014, con una punta di quasi 14 miliardi nel 2009. Nel quindicennio, quindi, la Cina avrebbe fornito aiuti allo sviluppo per 81 miliardi. Nello stesso periodo, il dato per gli Usa – principale donatore mondiale – è di 366 miliardi di dollari@. La China Africa research initiative (Cari) della Johns Hopkins University presenta invece cifre più basse, che vanno dai poco più di 600 milioni del 2003 ai 3 miliardi del 2019@.

Il motivo delle discrepanze tra i dati delle diverse ricerche è che la Cina non riporta i propri dati a nessun ente internazionale e tutte le stime si basano dunque su complesse ricostruzioni che raccolgono e incrociano i dati pubblicati da ministeri, ambasciate, aziende, banche e altri enti cinesi con quelli messi a disposizione dalle agenzie Onu e da altre organizzazioni alle quali la Cina contribuisce. Tutte le stime dell’aiuto cinese, comunque, puntano nella direzione di una crescita decisa.

Inoltre, la Cina ha creato nell’aprile 2018 l’Agenzia cinese di cooperazione internazionale per lo sviluppo (Cidca). Secondo diverse analisi, fra cui quelle del centro di ricerca Brookings@ e del Centro per lo sviluppo globale@, l’agenzia è nata con lo scopo di riorganizzare e dare maggiore coerenza alla cooperazione allo sviluppo cinese. Fino al 2018 era l’ufficio per l’aiuto estero del ministero del Commercio a fare da coordinatore, ma i progetti e gli interventi veri e propri venivano affidati a numerosi ministeri e istituzioni finanziarie cinesi, generando così una dispersione delle responsabilità sulla gestione dei fondi e notevoli difficoltà di coordinamento.

Se, da un lato, Cidca ha effettivamente un ruolo centrale nella definizione della strategia e nella formulazione dei progetti, oltre che nel monitoraggio di lungo termine alla fine degli interventi; la gestione dei fondi e le fasi centrali della progettazione rimangono al ministero del Commercio. Per il momento, quindi, l’agenzia appare come la faccia della cooperazione cinese da mostrare ai partner internazionali più che l’ente che effettivamente organizza e gestisce i fondi dell’aiuto.

Per farsi un’idea del ruolo di Cidca basta pensare che i fondi su cui ha contato nel 2019 sono stati, secondo Brookings, l’equivalente di 18 milioni di dollari, a fronte dei 2,63 miliardi ancora gestiti dal ministero del Commercio per aiuto allo sviluppo. Nello stesso anno Usaid, l’agenzia per la cooperazione degli Stati Uniti, ha amministrato 20 miliardi di dollari dei circa 35 destinati all’aiuto allo sviluppo nel bilancio americano.

Il grosso dei flussi finanziari della Cina a sostegno dello sviluppo è sempre stato e continua a essere costituito non dal cosiddetto aiuto pubblico allo sviluppo (Aps, o Oda nell’acronimo inglese), ma da quelli che, nella classificazione dell’Ocse, si chiamano altri apporti del settore pubblico (Oof, Other financial flows). Sono transazioni che comprendono una percentuale di dono – cioè di fondi che non devono essere restituiti al donatore – inferiore a quella che l’Ocse richiede per classificarli come aiuto@ e operazioni finanziarie bilaterali che hanno principalmente uno scopo di facilitazione delle esportazioni. Secondo Aiddata, questi flussi cinesi sono stati pari a 216,3 miliardi di dollari complessivi fra il 2000 e il 2014, mentre quelli degli Usa sono stati di 28,1 miliardi.

Casa Bianca. /AfMC

L’amministrazione Biden

I primi atti del nuovo presidente americano Joe Biden per quanto riguarda la cooperazione internazionale sono stati di decisa rottura rispetto alla precedente amministrazione. Biden ha ordinato il rientro degli Usa nel trattato di Parigi sul clima e ha annullato il ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità@.

Tuttavia, secondo Devex, piattaforma online che si occupa di sviluppo@, alcune iniziative lanciate dall’amministrazione Trump hanno buone probabilità di rimanere in piedi, a cominciare dalla riforma di Usaid e dalla Development finance corporation (Dfc), l’ente che usa fondi pubblici per sostenere gli investimenti privati americani in paesi a basso e medio reddito. La Dfc, spiega Daniel Kilmann del Center for a new American security@ disporrà di più risorse, rispetto agli enti che l’hanno preceduta, per «stimolare la partecipazione del settore privato nei progetti all’estero» e va utilizzata in modo efficace se si vuole competere con la Cina e la sua iniziativa nota come Nuova via della seta. Ma, puntualizza Devex, i sostenitori della cooperazione ritengono anche fondamentale assicurarsi che siano le esigenze dello sviluppo e non gli interessi economici e di politica estera a guidare la strategia della Dfc.

Chiara Giovetti




La cooperazione Usa dopo 4 anni di Trump


La cooperazione statunitense è uscita non troppo ammaccata dai quattro anni di governo di Donald Trump, nonostante egli abbia più volte tentato di ridurre i fondi per l’aiuto allo sviluppo o di deviarli verso i paesi amici. Ma il disinteresse del presidente uscente per il multilateralismo si è tradotto nel ritiro degli Stati Uniti da diversi accordi, trattati e agenzie Onu, aprendo numerosi spazi proprio alla potenza mondiale che Trump ha più duramente contrastato: la Cina.

Secondo i dati preliminari diffusi dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nella primavera di quest’anno, gli Stati Uniti si sono confermati anche nel 2019 il massimo donatore mondiale di aiuto pubblico allo sviluppo, con 34,6 miliardi di dollari@.

Per sapere se l’aiuto statunitense si è mantenuto a questo livello anche nel 2020 occorrerà attendere i dati Ocse che arriveranno in primavera. Nel frattempo, però, ci si può comunque fare un’idea guardando a quanto ammontava l’aiuto all’estero (foreign aid) nel bilancio statunitense del 2020 e, per il 2021, che cosa prevedono le leggi di stanziamento di Camera e Senato.

Occorre tenere conto che l’aiuto pubblico allo sviluppo di cui parla l’Ocse è quello verso i paesi a basso e medio reddito, mentre il foreign aid statunitense comprende anche gli aiuti per i paesi ad alto reddito, come Israele, il Canada o gli stati europei@, e l’assistenza militare, cioè le operazioni di peacekeeping e le sovvenzioni che gli Usa forniscono ai paesi amici e alleati per permettere loro di procurarsi equipaggiamento americano e addestramento.

Bisogna ricordare inoltre che il processo di approvazione del bilancio negli Usa comincia con una proposta del presidente, presentata di solito il primo lunedì di febbraio, e prosegue con la discussione e modifica di quella proposta da parte di Camera dei rappresentanti e Senato, che decidono le varie assegnazioni di fondi dopo una serie di udienze con i responsabili delle varie agenzie federali che li gestiranno.

Le due Camere unificano poi le proposte che ciascuna di esse ha ottenuto modificando quella del presidente e votano il documento finale, che diventa la legge di bilancio definitiva, da firmare entro il 30 settembre di ogni anno, perché l’anno fiscale negli Stati Uniti va dal 1° ottobre al 30 settembre successivo@.

2011 Getty Images

Tagli evitati dal Congresso

Per il 2020 Trump ha proposto tagli all’aiuto intorno al 21%@ e per il 2021 del 24%@. Per il 2018, ne avevamo parlato in un precedente articolo@, la riduzione richiesta dal presidente era stata intorno al 28% e di due punti più alta per il 2019. Il Congresso, con scelte sostenute sia dai democratici che dai repubblicani, ha sempre ridimensionato parecchio le proposte del presidente e ha mantenuto stabile il volume dei finanziamenti@ sia per il Dipartimento di Stato che per l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, Usaid, le due entità che gestiscono il grosso della cooperazione internazionale Usa@.

Un esempio piuttosto chiaro di questo scarso successo dell’amministrazione uscente nell’ottenere i tagli che desiderava è dato proprio dai fondi gestiti dall’Agenzia. Nel 2017 una delle ipotesi al vaglio del governo era quella di fondere Dipartimento di Stato e Usaid, tagliando anche un terzo dei fondi al primo e il 40% alla seconda. Il piano di fusione però è stato rapidamente abbandonato e le risorse di Usaid hanno continuato a crescere in modo piuttosto costante dai 17,54 miliardi di dollari del 2014 (quando era presidente Barack Obama) ai 20,67 miliardi del 2019@.

REUTERS/Carlos Garcia Rawlins

Che cosa è cambiato nella cooperazione USA

Se Usaid non si è vista tagliare i fondi, ha però subito una riorganizzazione, che era peraltro auspicata da più parti e che è stata bene accolta da molti analisti statunitensi. Di questa ristrutturazione fa parte, ad esempio, la scelta di unificare l’Ufficio per l’assistenza nei disastri all’estero con l’Ufficio Food for Peace, creando un nuovo Ufficio per l’assistenza umanitaria guidato da un funzionario di livello più alto@.

Un altro elemento della riorganizzazione riguarda il metodo di valutazione dei risultati, che si concentra ora di più sull’impatto, cioè sui reali cambiamenti che l’aiuto ha prodotto, e meno sulla performance, cioè sul verificare che le attività previste nei programmi di Usaid siano state svolte e completate come previsto@.

Al di là di Usaid, un altro cambiamento significativo riguarda le priorità che il governo di Donald Trump ha impresso, o tentato di imprimere, all’aiuto allo sviluppo. L’amministrazione, si legge nella scheda sugli Usa di donortracker@, sito di approfondimento sui temi dello sviluppo, vincola fortemente l’assistenza allo sviluppo alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti e alla crescita dell’economia.

Le priorità dell’amministrazione Trump sono state lo sviluppo economico, in particolare delle donne, e la finanza per lo sviluppo, cioè l’uso di risorse pubbliche per stimolare investimenti del settore privato in paesi a basso e medio reddito, dove il contesto politico e commerciale presenta troppi rischi per attrarre spontaneamente capitali privati. Per rafforzare la finanza per lo sviluppo, l’amministrazione Trump ha creato un ente ad hoc, la Development Finance Corporation, altra scelta accolta positivamente dagli esperti del settore.

Viceversa, i finanziamenti per la salute globale sono stati oggetto di tagli significativi nelle proposte di bilancio del presidente.

Donne Maasai aiutate da Usaid per un programma di alfabetizzazione

Visione vaga e conflittuale

Secondo un’analisi di Michael Igoe@ pubblicata sul sito Devex, è abbastanza raro che un presidente americano metta la cooperazione fra le massime priorità.

Trump, però, non si è limitato a ritenere poco rilevante lo sviluppo: se ne è completamente disinteressato, a meno che un particolare tema non fosse caro a qualcuno della sua cerchia ristretta. È il caso dell’Iniziativa per lo Sviluppo globale e la prosperità per le donne, voluta dalla figlia del presidente, Ivanka: un programma che diversi analisti hanno voluto interpretare come una specie di promozione del «marchio Ivanka», con la sua attenzione verso l’imprenditoria femminile e l’emancipazione delle donne, ma che ha anche ottenuto giudizi positivi fra i sostenitori della cooperazione.

Del resto, suggerisce l’articolo su Devex, un po’ di personalismo è fisiologico e prescinde dal colore dell’amministrazione: Raj Shah, direttore di Usaid durante l’amministrazione Obama, aveva un passato nella Bill and Melinda Gates Foundation come esperto di agricoltura e, da direttore dell’agenzia, ha promosso proprio iniziative di sviluppo agricolo come Feed the Future@.

A parte le iniziative caldeggiate dai suoi più stretti collaboratori, osserva il funzionario di area repubblicana Andrew Natsios, che aveva diretto Usaid durante la presidenza di George W. Bush, se Trump ha usato l’aiuto lo ha usato come strumento diplomatico punitivo: ad esempio, il presidente ha deciso di tagliare gli aiuti all’America Centrale perché riteneva che i governi della regione non stessero facendo abbastanza per fermare la migrazione, o ha ridotto i fondi per la Cisgiordania e Gaza per forzarle a partecipare ai negoziati di pace.

La filosofia di Trump sullo sviluppo «è caratterizzata dalla mancanza di una filosofia che vada oltre la competizione e la disgregazione», ha detto a Michael Igoe un ex funzionario dell’amministrazione Trump che ha chiesto di restare anonimo. «Non credo che il presidente entri nei dettagli della governance. […] Forse sa vagamente cosa sia Usaid, ma non credo che ne sappia molto, né credo che gli importi granché, francamente. Non fa parte della sua agenda politica».

Secondo Natsios, questa percezione approssimativa dell’aiuto e dello sviluppo è a sua volta la conseguenza di una visione della politica internazionale che si concentra solo sullo scontro fra superpotenze – con la Cina come principale avversario – e che non vede quanto sia centrale il mondo in via di sviluppo nell’equilibrio di potenza. «Credo che specialmente in Africa questo sia un grosso fallimento», aggiunge Natsios.

Il ritiro da trattati e agenzie Onu

Il disinteresse per lo sviluppo che Donald Trump ha mostrato si estende anche al multilateralismo, verso il quale il presidente ha mostrato aperta ostilità fino al punto di ritirare gli Stati Uniti da diversi trattati o organizzazioni internazionali.

Lo scorso luglio l’amministrazione aveva notificato alle Nazioni unite e al Congresso statunitense l’avvio della procedura di uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): l’uscita diventerebbe effettiva nel luglio di quest’anno (2021), ma il presidente eletto Joe Biden ha immediatamente dichiarato di volerla revocare il primo giorno del suo mandato@.

Il presidente uscente ha motivato la scelta di abbandonare l’Oms accusando quest’ultima di avere grosse responsabilità nella diffusione su tutto il pianeta della pandemia da coronavirus e di essere troppo dipendente dalla Cina@.

Oltre che dall’Oms, Trump ha deciso nel 2017 di uscire dall’accordo di Parigi sul clima – il ritiro è diventato effettivo il 4 novembre scorso, il giorno successivo alle elezioni vinte da Joe Biden – e dal trattato Inf (Intermediate-range nuclear forces treaty) con la Russia per la messa al bando dei missili nucleari a medio raggio, accusando Mosca di averlo violato.

Gli Usa hanno poi lasciato l’organizzazione delle Nazioni unite per l’istruzione, la scienza e la cultura (Unesco): non pagavano le quote di finanziamento dal 2011, quando era in corso il primo mandato di Obama, perché l’Unesco aveva accettato la Palestina fra i propri stati membri ed esiste una legge negli Stati Uniti che proibisce di finanziare organizzazioni che ammettano gruppi «privi degli attributi internazionalmente riconosciuti di uno stato»@.

L’ultimo ritiro in ordine di tempo è stato quello, dello scorso novembre, dal Trattato sui cieli aperti (Open Skies), che cercava di aumentare la trasparenza e la fiducia fra i 34 paesi membri permettendo a ciascuno di essi di raccogliere informazioni sulle installazioni e le attività militari degli altri, effettuando sorvoli con aerei senza armi dotati di telecamere e altri sensori. Anche in questo caso, il presidente ha giustificato l’abbandono del Trattato con le violazioni da parte della Russia, che ha rifiutato agli altri stati membri il permesso di sorvolo su alcune aree come quelle di Kaliningrad e Mosca e sul confine con le regioni georgiane dell’Ossezia e dell’Abkhazia@.

L’abbandono di tutti questi accordi e istituzioni ha lasciato ampi spazi proprio all’avversario che gli Usa di Donald Trump più si sono sforzati di contrastare, cioè la Cina, che ha collocato suoi uomini@ alla testa di quattro delle principali 15 agenzie Onu. Hanno infatti un direttore generale cinese l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), quella per lo sviluppo industriale (Unido), quella per l’aviazione civile (Icao) e l’Unione internazionale per le Telecomunicazioni (Itu).

Chiara Giovetti
[fine prima puntata]