Benessere fatto in casa

testi di Armando Bottazzo e Samuele Nucci |


Una crisi di sistema come quella del coronavirus richiede soluzioni di sistema. Il modello della cooperativa di comunità può aiutare: un’economia civile radicata nel territorio, nei suoi bisogni e opportunità, un nuovo welfare, nuove forme di impresa al servizio di piccole realtà, ma anche di quartieri di grandi città.

Sulla vetrina dello storico forno di San Leo c’era un cartello che diceva «chiuso per ferie». Nel piccolo paese di cento anime in Valmarecchia, provincia di Rimini, tutti sapevano, però, che Vittorio Giorgini, fornaio da sessant’anni, non aveva chiuso «per ferie», ma «per cessazione».

Nell’ottobre del 2018 è venuto così a mancare un servizio importante per le famiglie del borgo, ma soprattutto un luogo affettivo e simbolico per l’identità dell’intera comunità leontina.

È stato questo nuovo strappo, in un tessuto sociale già in grande difficoltà per lo spopolamento, che ha spinto una trentina di cittadini tra i 24 e gli 80 anni a iniziare un percorso che ha portato alla nascita, il primo agosto del 2019, di Fer-Menti Leontine, una delle ultime nate tra le cooperative di comunità. Oggi in Italia, secondo un rapporto Euricse del maggio scorso, sono 109 le imprese nate dal basso per rispondere ai bisogni dei cittadini.

Wikimedia Commons / Tony Pecoraro

Il toscano di San Leo

© Fer-Menti Leontine

«Nel 1939 a San Leo c’erano due forni a legna del comune», ha raccontato Vittorio Giorgini a Stefano Rossini, giornalista del settimanale cattolico locale «Il ponte», nel settembre scorso. «Uno lo prese mio padre. Nel ’40 fu richiamato in guerra e poi rimase prigioniero fino al 1942. In quegli anni furono le mie due zie a lavorare. Appena tornato riprese il lavoro, e nel ’51 ha fatto il primo forno a carbone e legna. Ricordo la fatica del forno a legna. Era un lavoro tremendo. […]. Il forno attuale lo abbiamo fatto nel ’59. È stato il lavoro della mia vita. […] Fare il pane è un lavoro molto impegnativo. Se lavori con la fretta le cose vengono male!».

La storia del toscano di San Leo sta tutta in queste parole. Una storia che rischiava di terminare, ma che oggi è ancora aperta: il cartello «chiuso per ferie» è stato simbolicamente riscritto dagli abitanti di San Leo con le parole «torno subito».

Dopo un anno di vita, l’impatto della cooperativa sul territorio è positivo, non solo per il buon pane, ma soprattutto per il senso di comunità che ha contribuito a far crescere. Si pensi ad esempio all’aiuto offerto ai leontini durante l’emergenza coronavirus, attivando, tra le altre cose, un servizio di «spesa e farmaci a domicilio», assicurando capillare attenzione a tutti.

Il percorso

© Fer-Menti Leontine

Il percorso per la costituzione della cooperativa di comunità a San Leo inizia quando, nell’autunno del 2018, Confcooperative Ravenna-Rimini, insieme all’associazione Figli del Mondo e all’acceleratore di start up Primo Miglio, organizzano una serie di incontri informativi sulle coop di comunità in diversi comuni della Valmarecchia, tra cui San Leo.

Il forno storico del paese ha appena chiuso. Durante i cinque incontri organizzati in paese, anche grazie all’amministrazione comunale, i leontini, aiutati da Giovanni Teneggi di Confcooperative, comprendono le potenzialità della proposta e iniziano a mettere sul piatto sogni e progetti a favore dell’intera popolazione della zona.

Durante gli incontri emergono le numerose criticità del tessuto sociale ed economico locale.

I fili conduttori sono due: da un lato lo spopolamento che porta alla chiusura delle poche e piccole attività commerciali presenti, dall’altro gli effetti negativi dei flussi turistici che hanno una fisionomia ciclica molto marcata.

Il centro storico di San Leo, infatti, grazie alla millenaria fortezza che lo sovrasta e che costituisce il quinto monumento più visitato di tutta la regione Emilia-Romagna con oltre 71mila visitatori all’anno, subisce un turismo «mordi e fuggi», con flussi elevati alternati a periodi di bassa stagione con presenze minime che scompaiono quasi completamente nel periodo invernale.

Voci di speranze

Alla prima riunione organizzata per parlare del futuro del forno, e quindi del paese, per rispetto al fornaio, tutti ne parlano sottovoce: una domanda di troppo sarebbe imbarazzante. Però gli occhi sono desiderosi e le mani pronte a rimpastare speranze.

«Abito qui, sono curiosa di capire cos’è la cooperazione di comunità», ci dice una cittadina.

Un giovane aggiunge: «Produco grani antichi e farro, vado piano perché sono da solo».

Di fronte al timido approccio dei leontini, noi pensiamo che spesso si ha timore a dire cosa si spera davvero per il futuro, soprattutto se l’attesa nasce dall’intimo e chiede agli altri una condivisione. E che, in fondo, quello che i sogni chiedono, è semplicemente di credere in loro e di farne un cammino comune.

Una giovane mamma racconta che per amore della sua famiglia ha lasciato il lavoro in città, e vorrebbe dare una mano a San Leo, perché lì sono le sue radici, lì batte il suo cuore.

C’è un pensionato che è tornato a San Leo e dedica il suo tempo a curare i luoghi di tutti, per curare se stesso, e sa che se rimane da solo, né lui, né il paese potranno resistere a lungo.

C’è un giovane professionista che vorrebbe tornare da Milano alla sua terra nativa, e la mamma di una famiglia giovane che non se ne vuole andare, e si adatta a fare la pendolare, perché una casa e un sogno rimangano accesi la sera.

Quella luce, quell’odore di camino acceso, nelle sue parole, parlano del desiderio di una casa comune per tutti.

© Briganti di Cerreto / Erika Farinai

Economia affettiva

In occasione della nascita di Fer-menti Leontine, Andrea Zanzini, dell’associazione Figli del Mondo, racconta a «il Ponte»: «Una delle ferite più dolorose della comunità è stata la chiusura del forno […]. Una volta compreso il legame affettivo con questa attività abbiamo proposto ai cittadini di costituire la cooperativa di comunità partendo proprio dal [suo] recupero».

Fin dall’inizio, nel progetto, è coinvolta la proprietà del vecchio forno che decide di mettere a disposizione la propria esperienza, cioè quel valore aggiunto che è il «segreto» del pane di San Leo, oltre agli storici locali della bottega in affitto.

La cooperativa, dalla sua costituzione, inizia un percorso di scoperta, condivisione, formazione e costante lavoro.

Le persone che partecipano agli incontri, sono una trentina in tutto. Alcune di loro saranno coinvolte attivamente nella gestione del forno, altre daranno il loro supporto alla progettazione di nuovi servizi per il paese: attività agricole, la cura degli spazi del borgo, il supporto all’amministrazione per il mantenimento di servizi essenziali. Al centro, la promozione di un turismo sempre più orientato al rispetto del territorio e del suo tessuto sociale, capace di far riconoscere San Leo come un gioiello da vivere nel rispetto delle tradizioni e della cultura.

Soluzioni di sistema

Una crisi come quella del coronavirus o, più in piccolo, come quella di San Leo e di altri borghi simili, sono crisi di sistema che richiedono soluzioni di sistema, non iniziative prese a compartimenti stagni. C’è bisogno di connettere tutti i bisogni e le opportunità del territorio. Occorre rivalutare i luoghi nei quali viviamo, e dare valore alla prossimità.

Le persone che appartengono alle comunità, possono promuovere imprese che mettano al centro i bisogni di ogni cittadino. Imprese che superino la distinzione tra profit, non profit, pubblico. Il modello della cooperativa di comunità può aiutare: un’economia civile radicata nel territorio e quindi conoscitrice profonda di bisogni e opportunità, un nuovo welfare, nuove forme di imprese multifunzionali che possono adattarsi anche a quartieri di grandi città.

© Briganti di Cerreto / Erika Farinai

Fenomeno in crescita

In Italia, dieci milioni di persone vivono in 5.683 comuni con meno di 5mila abitanti. Centri abitati spesso di dimensioni ridotte, in territori difficili da raggiungere, disagiati e con scarsi collegamenti e infrastrutture.

In questo contesto, il fenomeno della cooperazione di comunità è in crescita e si sta diffondendo in tutta Italia con più di cento esperienze, in risposta a sfide e difficoltà dei territori interni e montani, e la crisi da Covid-19 ci ha fatto capire che il modello sarebbe adatto anche ai centri urbani più grossi.

Le coop di comunità nascono per valorizzare aree impoverite o vulnerabili, per ripristinare e salvaguardare beni comuni o funzioni pubbliche, per cogliere opportunità economiche nascoste, o avviare processi di innovazione in senso comunitario.

Sono protagoniste della rinascita dei servizi più disparati: dal turismo al welfare, alla cultura, alla produzione agricola, e così via.

Il venir meno di un servizio o di un’attività economica in un paese, dunque, fa aguzzare l’ingegno e sperimentare nuove forme di collaborazione. «Le cooperative di comunità sono costituite da imprese e abitanti di un territorio, in genere con dei problemi di impoverimento sociale ed economico, che intendono collettivamente intraprendere attività o servizi che né il mercato né lo stato riescono a garantire, al fine di migliorare la vivibilità di quella realtà», spiega Giovanni Teneggi, animatore delle maggiori cooperative di comunità in Italia. «Sono cooperative nelle quali i soci, riunendosi, non attivano solo iniziative finalizzate alla mutualità interna, ma rispondono anche a interessi più generali della collettività».

E l’Italia non è l’unico paese che sperimenta queste forme di collaborazione dal basso. Secondo lo «Studio di fattibilità per lo sviluppo delle cooperative di comunità», pubblicato nel 2016 dal Mise (ministero dello Sviluppo economico), «a livello internazionale, in altri paesi europei esistono da anni alcuni modelli di impresa “comunitaria” che presentano specificità e caratteristiche che possono essere paragonate alle cooperative di comunità italiane […]. Tra queste le esperienze più significative si trovano nel Regno Unito, in Francia e in Germania».

Quindi cosa sono?

Le cooperative di comunità sono vite, sogni, culture, conversazioni, voglia di fare, genuinità, semplicità, volti, competenze, e tutto questo tradotto in economie possibili. Costituire una coop di comunità significa: «Fare qualcosa / per la comunità / con la partecipazione della comunità / attraverso un’impresa».

Fare qualcosa, cioè riaprire un bar o un hotel abbandonato, organizzare percorsi turistici, pulire i boschi, cucinare quel piatto che la tradizione del territorio conosce e riconosce, riprendere in mano alcune vocazioni specifiche che ogni territorio ha e che erano andate perdute, o scoprirne di nuove.

Per la comunità: quali sono le vocazioni del territorio? Quali sono i sogni che abitano dietro le porte e le finestre dei cittadini? Quali sono le competenze degli anziani che potrebbero essere portate alla luce e diffuse? Quali sono i bisogni dei cittadini? Cosa sta venendo a mancare?

Con la partecipazione della comunità, ossia di Carlo, il contadino burbero che al momento del bisogno ti viene a prendere con il suo trattore; di Giovanni che ha un’azienda di pellame ed esporta in giro per il mondo; di Maria, professionista che vive a Milano e che desidera tornare nel suo paese nativo per mettere in pratica lì ciò che ha imparato; ma anche di Chiara, mamma da qualche mese che ha perso il lavoro a causa della crisi; di Paola che con il suo negozio di alimentari vorrebbe fare qualcosa di più ma non sa come.

Attraverso un’impresa: la parola «impresa» per Treccani «indica per lo più azioni, individuali o collettive, di una certa importanza e difficoltà». Si usa in espressioni come «impresa ardua», «impresa eroica», «l’impresa di Cesare». L’impresa è anche un soggetto economico che lavora e dà lavoro, e che, a tutti gli effetti, ha di fronte un cammino arduo con i suoi rischi.

Welfare dal basso

Lo spirito di queste organizzazioni, che agiscono come «risvegliatrici di sentimenti», è quello d’incentivare l’innato istinto di ognuno di offrire il proprio contributo per permettere a tutti di crescere in una società migliore, creando sinergie tra le persone.

In giro per l’Italia, da Nord a Sud, sono nati piccoli presidi sanitari che garantiscono ad anziani e malati prelievi e assistenza medica di base, senza dover percorrere chilometri; servizi scolastici integrativi che potenziano l’offerta formativa a favore di una maggiore libertà oraria per i genitori; attività di compagnia per anziani soli, di pulizia e mantenimento degli spazi pubblici e di quelli del vicinato, di manutenzione della proprietà di chi, ad esempio per cause di salute, non riesce a farla; filiere turistiche in sinergia con l’enogastronomia locale e la riscoperta e tutela territoriale; presidi aggregativi per lo sviluppo delle abilità pratiche e culturali dei cittadini.

Il beneficio di queste iniziative si misura in termini di ripopolamento e di nuovi posti di lavoro.

Tutto questo rientra in una più vasta idea di welfare home made-self made (benessere fatto in casa) che nasce direttamente dai cittadini.

Alcuni esempi

La prima cooperativa di comunità fondata in Italia – e nel mondo – è quella di Succiso (Reggio Emilia), piccolo borgo di 65 abitanti dove, nel 1991, dopo la chiusura dell’ultimo bar e dell’ultima bottega, alcuni giovani della Pro Loco hanno costituito la Cooperativa Valle dei cavalieri. In 28 anni, la cooperativa ha creato nove posti di lavoro, e fattura 700mila euro, creando un ecosistema che favorisce a cascata gli altri indotti locali.

Secondo lo «Studio di fattibilità» del Mise, già citato, «la cooperativa, nel corso degli anni ha promosso l’attività del suo agriturismo e ristorante sperimentando anche nuove offerte turistiche in collaborazione con il Parco Nazionale del quale è centro visita. La cooperativa è cresciuta sviluppando un’azienda agricola che ha consentito la produzione di pecorino Dop. Ha poi ampliato i suoi ambiti acquistando un pulmino per il trasporto alunni, il rifornimento dei medicinali per gli anziani, e realizzando un importante investimento per […] un impianto fotovoltaico».

Altra esperienza è quella della Cooperativa Pracchia che, nel pistoiese, lavora in diversi settori: dalla gestione dei servizi per gli anziani alle attività di cura del patrimonio naturale e urbanistico (gestione di giardini, parcheggi, rive dei corsi d’acqua, bagni pubblici), al ripristino e alla cura dei castagneti abbandonati per il rilancio dell’economia e della filiera delle tipicità locali.

© coopbiccari.it

Biccari e Cerreto

In Puglia, a Biccari, nell’entroterra foggiano, la Cooperativa Biccari ha valorizzato gli immobili comunali poco usati e ha costruito un progetto turistico di alta qualità nel rispetto della natura. Tra le proposte turistiche più originali della cooperativa pugliese, c’è una «mini casa pop up», cioè una stanza temporanea a forma di bolla trasparente, immersa nella natura del Lago Pescara di Biccari, nella quale poter «dormire sotto le stelle». Nello stesso contesto c’è anche una stanza in tessuto sospesa tra gli alberi, chiamata «Atomo».

All’interno del progetto turistico, la cooperativa organizza uno «scambio culturale» offrendo a giovani tra i 18 e i 35 anni di essere ospitati gratuitamente in cambio di tre ore di volontariato giornaliere: una proposta che crea un turismo consapevole a beneficio del territorio.

Infine, possiamo citare, come ultimo esempio, la Cooperativa dei Briganti di Cerreto, a Cerreto Alpi, frazione del comune di Ventasso, in provincia di Reggio Emilia, nell’appennino tosco emiliano. Anch’esso un borgo a rischio estinzione dove ora, con la presenza della cooperativa, tutto viene gestito in comunità: dall’ostello al castagneto, dal pecorino al ristorante, perché un’attività da sola non può reggere, ci vuole un legame tra tutte le iniziative. Questo legame fa da supporto all’esperienza del turista: dormire in un vecchio mulino ristrutturato ascoltando alla sera le storie degli anziani del paese, pescare la trota o avventurarsi nei boschi insieme agli abitanti del borgo, visitare l’essiccatoio delle castagne, assaggiare la cucina locale a base di prodotti del luogo, dalla ricotta al pecorino, dai dolci di castagne al cinghiale.

© coopbiccari it

Ripartenza cooperativa

Tutte queste esperienze hanno in comune la resistenza delle persone e dei territori, e possono essere di esempio per altre realtà. Grazie a esse possiamo capire bene che la risorsa più importante dei centri «emarginati» è proprio la comunità che li abita, e che lo strumento migliore è la cooperazione.

La crisi del coronavirus ci invita a guardare i paesi, ma anche i quartieri delle nostre città, con occhi nuovi, pone l’attenzione sul ruolo fondamentale dei servizi di prossimità.

La ripartenza è un bene comune, e come tale va trattata.

Uno sguardo trasversale, cooperativo, che connetta tutti gli attori, che sia sistemico e inclusivo, aiuta a trovare la strada.

Non si può quindi prescindere, nella ripartenza, dal prezioso sapere sociale che parte dal basso, dai cittadini.

Le esperienze delle cooperative di comunità mostrano un modello di welfare di comunità che è possibile riadattare in luoghi differenti con differenti esigenze e capacità. Come dice Aldo Bonomi: «Se non vogliamo che il virus produca più solitudine, occorre che oltre al vaccino si valorizzino anticorpi sociali capaci di produrre inclusione sociale».

Armando Bottazzo e Samuele Nucci


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