Un secolo di Consolazione con l’Allamano:

100 anni di Tanzania

Indice

Introduzione

21 aprile 1919, ore 21

Affascina di più il
sole o la luna? Meglio il sole che illumina il giorno o la luna che rischiara
la notte? L’Africa di ieri gradisce soprattutto l’astro del giorno e assai meno
il pianeta della notte. All’alba si esce per zappare il campo, condurre pecore
e capre al pascolo, raggiungere il mercato. Al tramonto ci si rifugia in casa
attorno al fuoco, compresi i mariti un po’ brilli di ritorno dall’osteria.

Non fa eccezione il Tanzania, anche
perché la tenebra è il tempo dei ladri, del leopardo e della iena, nonché degli
stregoni con i loro traffici loschi.

E, tuttavia, i primi missionari
della Consolata misero piede in Tanganyika/Tanzania proprio di notte, alle ore
21 del 21 aprile 1919. Però, il giorno successivo, eccoli nel sole glorioso,
pronti a «rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte e
dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Luca 1, 78-79).

Da Dar Es Salaam, «porto della
pace», iniziò l’avventura missionaria dei nuovi arrivati: i padri Giovanni Ciravegna, Giacomo Cavallo, Gaudenzio Panelatti
e Domenico Vignoli. Missionari
italiani, ma provenienti dal Kenya.

Perché dal Kenya? Perché dal Kenya ci «fu un atto di
carità che noi missionari della Consolata abbiamo compiuto», scrisse monsignor
Filippo Perlo, vicario apostolico in quel paese, sul numero di agosto del 1922
di «La Consolata».

Perlo aveva ricevuto un appello da
parte di Thomas Spreiter, vicario apostolico in Tanganyika, di rimpiazzare con
i missionari della Consolata i Missionari Benedettini tedeschi, costretti ad
abbandonare la colonia del Tanganyika dopo la sconfitta della Germania nella
Prima guerra mondiale.

Perlo spiegò quell’«atto di carità»
precisando: «Pare una contraddizione che siano dei poveri a fare la carità,
mentre questo sarebbe un naturale affare dei ricchi. Dobbiamo arrabattarci per
far fronte alle esigenze presenti senza riuscirci. Ciò nonostante troviamo del
personale per “imprestare” ad altri»1.

Imprestare? Il termine non centrava
in pieno il valore del gesto dei missionari, perché la loro «carità» non sarà ad tempus, bensì totale. E dura tuttora a 100 anni di distanza.

F. B.

Inizia l’Avventura:
I quattro, dell’Ave Maria

I protagonisti di questa storia sono i missionari della Consolata: padri,
fratelli e suore, con i fedeli, i catechisti, i religiosi, i sacerdoti e i
vescovi del Tanzania. Una storia che inizia 100 anni fa, quasi per caso. Come
tutte le belle storie. E poi prende corpo e si consolida. Fino ad arrivare a
oggi, tempo nel quale i missionari tanzaniani partono per i cinque continenti.

Arrivati da
pochi giorni a Dar Es Salaam, la capitale, il 4 maggio 1919 i quattro
missionari partirono alla volta della cittadina di Iringa: il primo tratto in
treno fino a Kilosa e poi in carovana con 60 portatori, soprattutto pedibus calcantibus fra sassi e
acquitrini. «Partiamo a cuor contento – scrisse padre Ciravegna -, risoluti con
l’aiuto di Dio di assecondare con tutte le nostre forze la divina grazia
nell’opera di resurrezione morale delle missioni, prive da tempo dei loro
pastori»2.

Giunsero a Iringa il 19 maggio, dove si fermarono alcuni
giorni. Ogni sera, all’ora dell’Ave Maria, lodavano la Consolata. Poi si
stabilirono nelle missioni di Tosamaganga e Madibira, «ereditate» dai
missionari Benedettini. Missioni distanti da Iringa, rispettivamente, 20 e 150
chilometri.

Tosamaganga sorge su un territorio collinoso e roccioso,
popolato dai Wahehe, gruppo etnico che vanta l’eroe nazionale del Tanzania, il
sultano Mkwawa.

Costui per due anni aveva eluso la caccia dei tedeschi
decisi di conquistare il Tanganyika. Nel 1898, probabilmente tradito da uno dei
suoi, il sultano si era suicidato per non essere preda dei nemici invasori. I
tedeschi gli avevano mozzato la testa e l’avevano portata come trofeo in
Germania. Decenni dopo, il nipote Adam Sapi Mkwawa, presidente del parlamento
del Tanzania, sarebbe andato a riprendere il teschio del nonno.

Adam, musulmano e padre di 10 figli avuti da una sola
moglie, è ricordato oggi come amico dei missionari della Consolata, come anche
il padre Sapi Mkwawa.

Madibira è terra dei Wasangu, Wabena e Wahehe, tre gruppi
etnici che vivono in armonia e si esprimono in un buon swahili. Intelligenti,
estroversi, coltivatori di mais, riso e arachidi, i madibiresi non disdegnano
di cacciare il bufalo e l’elefante. I loro nemici sono la zanzara e la mosca
tzetze, che stermina pecore e vacche.

I quattro missionari (due a Tosamaganga e due a Madibira)
si misero subito all’opera, ossia «al grande bucato per ripulire le missioni»,
per dirla con l’arguto padre Ciravegna3.

In termini più prosaici e concreti: i missionari
ripararono dispensari medici, aule scolastiche, abitazioni e chiese; chiamarono
a raccolta catechisti, cristiani e catecumeni; riaprirono i registri dei
battesimi e dei matrimoni. Il tutto fra dubbi e difficoltà.

«Però, a poco a poco, numerosi cristiani sperduti
ritornarono al Pastore. La campanella della missione riprese a suonare nel
giorno del Signore, e, di nuovo, la preghiera saliva al Padre che è nei cieli»4.

Onore a monsignor Cagliero

Il risultato di tanta evangelizzazione fu la creazione,
nel 1922, della Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsignor Francesco
Cagliero, pure lui proveniente dal Kenya, ma non più «imprestato».

Nel 1923 il personale missionario si arricchì di nuovi padri,
alcuni fratelli coadiutori e diverse suore. Uomini e donne, zelanti e
gagliardi, che consentirono la riapertura delle missioni di Bihawana e
Padangani fra i Wagogo, e non solo.

Però attenti alla salute! Al riguardo, le raccomandazioni
di monsignor Cagliero sono pertinenti e fraterne. Per esempio: obbligo di usare
la zanzariera, perché «siamo tutti più o meno malarici»; coltivare l’orto per
procurarsi frutta e verdura; «il cibo sia conveniente, abbondante e pulito». E
poi: «Mi dicono che all’Iringa vi sono i migliori scrittori dell’Istituto.
Perciò mano alla penna. Scriviamo articoli, relazioni, lettere per farci
conoscere e avere sussidi»5.

Nel 1939, dopo 20 anni di missione, la situazione era la
seguente: cattolici 14.211, catecumeni 1.519, studenti della scuola elementare
5.151, studenti della Central
School 107, scuole magistrali per ragazze
28, allievi delle scuole professionali 21.

Degna di nota è la Secondary School di Tosamaganga (tutt’oggi in esercizio). Padre Francesco Sciolla vi dediò 40 anni, portandola alle soglie di università.

Ma «l’evento più avvenimento» risale al 1932: la
fondazione dell’Istituto delle suore missionarie di Santa Teresa di Gesù
Bambino, religiose tanzaniane, dette «Teresine». Secondo la cultura africana,
una donna non è tale se non diventa madre di figli. Ebbene era ipotizzabile,
nel 1932, che alcune donne rinunciassero volontariamente alla maternità per
essere «suore»? Non lo era, a meno che non ci fosse «lo zampino dello Spirito
Santo».

Onore al coraggio evangelico di monsignor Cagliero,
fondatore delle Teresine, oggi circa 400, operanti anche in Italia.

Però che peccato che questo missionario pioniere se ne sia andato così fretta. Aveva 60 anni quando trovò la morte, il 22 ottobre 1935, in un incidente d’auto. Prima di partire per il safari (viaggio, ndr), monsignor Cagliero disse: «Quando sarò di ritorno, vivo o morto, suonate le campane»6.
E le suonarono. A morto.

In residenza coatta

Le campane suonarono ancora il 1 aprile 1936, ma questa
volta a festa: la Prefettura apostolica di Iringa, quel giorno, ebbe un nuovo
pastore. Si chiama Attilio Beltramino, di 35 anni. E, manco a farlo apposta,
anch’egli veniva dal Kenya, come i «quattro dell’Ave Maria» e il compianto
monsignor Cagliero.

Ora, però, non si parli più di «prestito», bensì di
«investimento». Investire nell’annunciare «la consolazione del Signore»
attraverso nuovi missionari e missionarie. Lo si fece aprendo le parrocchie di
Kaning’ombe nel 1937, di Ilula, Pawaga e Mtandika nel 1939. Nomi ostici per il
lettore italiano, che dicono e non dicono. Ma per il missionario significano
lacrime e sangue.

E, come se questo non bastasse, ecco la stramaledetta
Seconda guerra mondiale. L’Italia si ritrova contro la Gran Bretagna.

Il 16 giugno 1940 in Tanganyika scattò il rastrellamento. «Tutti i nemici stranieri italiani» della Prefettura apostolica di Iringa (missionari e missionarie) dovettero subito ritrovarsi a Tosamaganga.
La deportazione era quasi certa.

Sennonché intervenne monsignor Edgar Maranta, missionario
cappuccino, vicario apostolico di Dar Es Salaam e amico della Consolata.
Parlava la lingua di Dante, ma non era italiano, bensì svizzero.

Circa «i nemici italiani» dichiarò: «Sui missionari della
Consolata garantisco io. Signori di sua maestà la Regina, vi do la mia parola
d’onore: i missionari staranno ai vostri patti, ma voi non allontanateli dalle
loro sedi»7. E così fu.

L’intesa raggiunta venne formalizzata sulla «parola
d’onore» del vicario svizzero. Ma era da sottoscrivere da ciascun missionario
italiano ogni sei mesi. Altre clausole dell’accordo erano: proibito
allontanarsi dalla missione oltre un miglio; vietati gli spostamenti di
personale; censura di ogni lettera spedita e ricevuta; nessun discorso politico
con la gente locale.

Le limitazioni non erano una bazzecola. Meglio, comunque,
«la residenza coatta» che la deportazione in qualche landa di sua maestà la
Regina, come avvenne per i missionari della Consolata del Kenya, confinati in
Sudafrica.

Coraggio e strategia

A peste, fame et bello: tutti i missionari conoscevano queste parole latine. Le avevano pure
cantate in chiesa. Soprattutto avevano sperimentato sulla loro pelle le
conseguenze della peste, della fame e della guerra. E non potevano che
concludere: libera nos Domine.

Tuttavia non si scoraggiarono, nonostante i momentanei
fallimenti.

La missione esige costante coraggio e sempre nuove
strategie di crescita umana e religiosa. Non fa eccezione il Tanganyika dei
missionari della Consolata, i quali nella conferenza di Tosamaganga del 22-26
aprile 1937 stabilirono:

1. Azione pastorale. Far crescere le comunità con iniziative appropriate, quali: formazione
dei catechisti, spina dorsale della evangelizzazione; durante la Settimana
Santa esercizi spirituali anche per i fedeli; avviare l’Azione cattolica.

2. Scuola. È un
obiettivo da cui non si può deflettere. Fare sì che le scuole di missione siano
riconosciute dall’Amministrazione britannica, anche per ottenere un sussidio
per lo stipendio dei maestri.

3. Attenzione alla cultura, incominciando dallo studio degli idiomi locali, oltre
che dello swahili. Raccogliere informazioni sugli usi e costumi del paese, sul
fenomeno della poligamia e della circoncisione8. Dare vita ad una «biblioteca di famiglia», archiviando
documenti e schedando riviste e libri.

4. Africanizzazione. Termine sconosciuto nel 1937. Il progetto è far crescere la chiesa
locale con preti e suore autoctoni. Si prospetta la fondazione di «fratelli
religiosi» tanzaniani. Ma pare un’utopia.

5. Promozione umana. Oltre a Tosamaganga «cittadella di Dio», anche altrove operano
strutture di promozione umana, ma con scarsa incidenza. Occorre qualificare i
dispensari medici, aprire scuole di economia domestica e centri di formazione
umana e religiosa.

6. Ecumenismo. Il Concilio
ecumenico Vaticano II è ancora nell’iperuranio. I cattolici e i protestanti si
contendono il campo con corse sfrenate. Chi primo arriva, comanda. Urge un
rapporto di amicizia e buon vicinato.

7. Amministrazione. Un
missionario aprì un conto personale in banca senza permesso. «Dovetti
rimproverare questi sotterfugi di amministrazione», intervenne monsignor
Beltramino9. Quindi: trasparenza economica.

Grazie ai campi di… tabacco

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e
tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» (Matteo 6, 33). Ma è pure sacrosanto
il detto: aiutati che il ciel ti aiuta.

I missionari vivevano nella povertà, la quale non sempre
è «perfetta letizia». Però non si piangevano addosso. Per disporre di qualche
soldo in più, qualcuno prospettò la coltivazione di tabacco.

La prima prova del 1941 fu una delusione. La seconda
dell’anno successivo destò speranze. Però il terreno disponibile era scarso e
da disboscare. E poi: guai a cercare un terreno migliore altrove, «sconfinando
oltre il miglio», imposto dagli inglesi durante la guerra maledetta!

Sbocciò la pace, e la musica cambiò. L’evangelico «tutto
il resto in aggiunta» prese consistenza proprio grazie al tabacco.

Fuori metafora: il 13 gennaio 1948 Lord Chesham,
anglicano, ma amico dei missionari della Consolata, abbracciò la fede
cattolica. Chesham era un anziano e ricco inglese che donò ai missionari due
vasti appezzamenti di terra a Makalala e a Ulete.

Si riprese a coltivare tabacco con successo. I campi di
tabacco non sono «sani», perché il fumo uccide: questo col senno di poi.
Tuttavia, grazie ai proventi del tabacco (come pure a quelli del mais, riso,
arachidi, piretro, ecc.), i missionari poterono finalmente costruire scuole a
norma, ambulatori efficienti e chiese capaci, senza più stendere il cappello
per elemosinare quattrini. Il modello era, ed è, il missionario Paolo di Tarso,
il quale affermava: «Alle necessità mie e di quanti erano con me hanno
provveduto queste mie mani. In tutti i modi ho dimostrato che, lavorando, si
devono soccorrere i poveri» (Atti degli Apostoli 20, 34-35). L’apostolo Paolo
era un tessitore di tende e stuoie.

«Suo padre è musulmano»

Nel frattempo la Prefettura apostolica di Iringa divenne
«Vicariato apostolico». In termini più accessibili: ora Attilio Beltramino non
è solo «monsignore», ma anche «vescovo».

L’insediamento del nuovo presule avvenne il 27 maggio 1948. Il suo motto era: In Deo meo transgrediar murum (Salmi 17, 30), cioè: «Con il mio Dio scavalcherò il muro».

Un motto che sa di battaglia in ogni angolo del mondo,
Italia compresa. Un motto contro le schedature dei rom, le chiusure dei porti
ai migranti, i reticolati tra paese e paese. Abbasso «i muri della vergogna»,
come quello tra Messico e Stati Uniti voluto da Donald Trump.

Con «sua eccellenza» monsignor Beltramino, la chiesa
locale di Iringa crebbe, specie in qualità.

Un «salto di qualità» lo si ebbe, nel 1945, con
l’ordinazione al sacerdozio del primo tanzaniano, padre Titus Fumbe.

Un altro salto di qualità (o «traguardo vittorioso», come
scrisse padre Alessandro Di Martino) fu la nascita nel 1949 dell’Istituto
religioso dei Fratelli africani. Come per la fondazione delle «Suore Teresine»,
valeva l’espressione evangelica «farsi eunuco a motivo del regno dei cieli»,
con l’aggiunta (non di poco conto): «Chi può capire capisca» (Matteo 19, 12).
Perché si trattava di un pugno nella pancia della cultura africana.

Ma il salto forse «più qualitativo» non era ancora
avvenuto. Nel seminario di Tosamaganga studia un certo Mario Abdallah Mgulunde.
Sì, Abdallah, figlio di un musulmano. E come non guardarlo con sospetto.

Però Mario Abdallah superò tutti gli esami. Nel 1963 è sacerdos in aeternum. Poi partì
per Roma per laurearsi in Diritto canonico.

«Cari superiori, scusate! Questo non è troppo? Che farà
poi questo nero di genitore islamico?». Chi vivrà vedrà.

Missionari della Consolata al Capitolo generale del 1999 in Kenya con Julius Nyerere

Tre passi indietro

A questo punto, la storia dei 100 anni dei missionari
della Consolata in Tanganyika-Tanzania ha compiuto un balzo in avanti
eccessivo. Quindi si torni indietro, per ricordare tre eventi significativi.

• Indipendenza del paese

La magica ora dell’indipendenza del Tanganyika scoccò a
mezzanotte tra l’8 e il 9 dicembre 1961. Si ammainò la bandiera dell’Impero
Britannico, mentre le stelle si compiacevano di quella inedita del Tanganyika
indipendente. Il nuovo stendardo armonizzava il nero del volto dei cittadini
con l’azzurro dell’Oceano Indiano, il verde della foresta con il giallo
dell’oro delle miniere.

Fu una indipendenza pacifica. Il che non è poco, se si
pensa alla indipendenza «insanguinata» di tanti altri paesi africani.

I missionari della Consolata, in tutte le loro sedi,
salutarono l’evento anche con il fragore beneaugurante dei mortaretti.

• Concilio Ecumenico Vaticano II

Per
la Chiesa cattolica fu l’evento più innovativo del XX secolo. Si svolse a Roma
dal 1962 al 1965 con tutti i vescovi del mondo. 
Papa Giovanni XXIII (oggi santo), nel discorso di apertura del Concilio,
11 ottobre 1962, dettò le nuove regole del «gioco» dichiarando: «La Chiesa si è
sempre opposta agli errori. Ora tuttavia preferisce usare la medicina della
misericordia piuttosto che quella della severità. Essa ritiene di venire
incontro ai bisogni di oggi, mostrando la validità della sua dottrina,
piuttosto che rinnovando condanne». Da quel momento i pastori luterani e i
parroci cattolici non si sarebbero contesi più la piazza con corse sfrenate,
onde arrivare primi. Questo fu un grande traguardo del Concilio.

Consultado vecchi documenti d’archivio risalenti ai tempi dei Benedettini.

• Da un vescovo all’altro

Al Concilio Vaticano II partecipò anche il vescovo
Attilio Beltramino. Aveva già le valigie pronte per l’ultima assise, il cui
inizio era previsto per il 28 ottobre 1965. Ma il 3 ottobre morì. Aveva 64
anni. Lo sconcerto fu inimmaginabile.

Fedele al suo motto «con il mio Dio scavalcherò il muro»,
il vescovo Attilio si era donato alla Chiesa di Iringa anima e corpo per 30
anni. Missionario instancabile, religioso fedele, vescovo paterno quanto
risoluto.

Dopo una pausa di assestamento, ecco un mhehe (etnia Hehe, ndr) di
Tosamaganga a indossare la mitria. Ed è proprio lui, Mario Abdallah Mgulunde,
il primo vescovo africano di Iringa, consacrato il 15 febbraio 1970. Una
«eccellenza» giovane per una Chiesa ormai adulta.

Alla consacrazione episcopale di Mgulunde partecipò pure
il giornalista Beppe Del Colle, il quale mi confidò: «Quando il vescovo si
prostrò per terra per le Litanie dei Santi, notai che le sue scarpe erano
bucate…». Data l’emozione, il neo vescovo aveva sbagliato scarpe. Ma le calze
erano rigorosamente rosse.

Il cerchio si allarga

Già nel 1968 la diocesi di Iringa era troppo estesa, e
venne smembrata. Nacque la diocesi di Njombe. Sette missionari passarono armi e
bagagli alla nuova diocesi. Erano tutti sereni, eccetto quando dovevano
affrontare un viaggio.

«La notte precedente un safari non chiudo occhio, perché vivo in
anticipo l’incubo di quelle strade a strapiombo, che nella stagione delle piogge
sembrano lastricate di sapone. Tu non guidi l’auto, ma è l’auto che guida te
dove assolutamente non vuoi», mi confidò una volta padre Luis Arrieta Zubia,
spagnolo.

Ecco un’altra bella novità. A partire dagli anni ‘70, ai
missionari italiani si aggiunsero gli spagnoli e i portoghesi, i colombiani e i
brasiliani. Idem per le missionarie delle Consolata.

Inoltre trovarono spazio i missionari Fidei donum provenienti
da Agrigento, Bologna e Spalato in Croazia10. E, fra le
suore, anche le Religiose Camaldolesi.

Il cerchio missionario si allargò pure geograficamente.
Così nel 1973 sorsero le missioni di Ubungo e Kigamboni nella diocesi di Dar Es
Salaam. Kigamboni era a maggioranza islamica.

Nel 1986 e negli anni successivi i missionari si
insediarono a Heka e Sanza (diocesi di Singida), poi a Manda (diocesi di
Dodoma). Siamo nella Rift Valley dei Wagogo, una regione flagellata da una
siccità endemica. Gente più povera e meno istruita dei Wahehe di Iringa o dei
Wabena di Njombe.

«Manda è una missione di frontiera, di prima
evangelizzazione, come erano quelle di 60 anni fa – mi raccontò nel 2017 suor
Maria Loreta -. I cristiani sono pochi e per di più divisi in sètte. Molti,
inoltre, sono i seguaci delle religioni tradizionali, in balia della
stregoneria. Non poche ragazze a 14 anni sono già incinte. I divorzi sono
all’ordine del giorno. Ma non ci perdiamo d’animo»11.

Padre Antonio Zanette

Da Manda a Sanza

Tempo fa a Manda fui ospite di padre Toni Zanette, da 51
anni in Tanzania. Con lui visitai alcuni villaggi e, tra un luogo e l’altro,
raccolsi le sue riflessioni. «Ho girato questa zona in lungo e in largo,
dicendo a tutti: la religione di Gesù Cristo non è un imbroglio, ma rivela la
politica di Dio per costruire una società giusta e approdare allo sviluppo
vero».

«E la gente ti ha creduto?», domandai. «Non lo so –
rispose -. Fra i Wagogo il cristianesimo è ancora un fattore nuovo, ma
l’interesse sta crescendo».

A pranzo padre Toni mi offrì i funghi. E citò il detto
africano: «Oggi piove, ma i funghi non li trovi domani». Per dire che a Manda
bisogna saper attendere.

Nel pomeriggio andai con lui nella cappella di un
villaggio per alcuni battesimi. Ad un tratto avvertii un mormorio: stava
entrando una capra al guinzaglio di un musulmano. Silenzio assoluto. Il nuovo
arrivato ne approfittò per dire: «Padre Toni, sono qui per ringraziarti. Tu ci
hai portato l’acqua scavando 10 pozzi in questa terra desertica. Accetta il
dono di questa capra».

Applauso di tutti, mentre la capra acconsentiva al
passaggio di proprietà con un garrulo belato.

Il primo keniano

«Oggi lavoro a Sanza, a 50 chilometri da Manda –
esordisce padre Isaac Mbuba -. Mi si permetta di notare: i primi missionari
della Consolata in Tanzania erano bianchi e venivano dal Kenya, mentre io sono
il primo missionario della Consolata nero, proveniente pure dal Kenya».

Seguì la risata mia e sua. Eravamo in cucina,
sorseggiando il tè.

Padre Isaac oggi ha 65 anni ed è in Tanzania da 34. Agli
inizi avvertì un’aria di sospetto nei suoi confronti, perché proveniva dal
Kenya capitalista di Jomo Kenyatta, mentre in Tanzania vigeva il socialismo di
Julius Nyerere. Ma non ci badò.

Lavorò in varie parrocchie. A Kigamboni incontrò un vento
di perplessità, «perché ero il primo parroco nero, mentre tutti i precedenti
erano bianchi». Inoltre c’era tensione fra i musulmani in maggioranza e i
cristiani in minoranza. «Però la Consolata mi ha dato saggezza per non
schierarmi contro nessuno».

La conversazione toccò l’argomento scottante dei soldi.
«Noi africani dobbiamo impegnarci maggiormente con iniziative concrete, per
essere economicamente autosufficienti», rileva il missionario.

Faccio notare: «Oggi l’evangelizzazione non è più in mano
ai missionari europei, bensì a quelli africani. Padre Isaac, dopo 34 anni di
Tanzania, quali sono le tue raccomandazioni ai confratelli africani?».

«Le raccomandazioni sono tre:

• la prima, maggiore attenzione ai catechisti, che sono i
primi evangelizzatori del paese; senza catechisti la chiesa è morta;

• la seconda, maggiore collaborazione con i laici; i
laici fanno crescere la chiesa, non solo i padri; spesso noi preti siamo
separati dalla gente, i laici no;

• la terza, che non è una raccomandazione, bensì una
dichiarazione: ringrazio il Signore per essere missionario e missionario della
Consolata».

Padre Giovanni Giorda

Epilogo

A Iringa ho completato il dossier sul Centenario dei
missionari della Consolata in Tanzania. Poco fa ho sostato davanti al monumento
dell’Indipendenza della nazione, con la sua fiaccola.

Anche i missionari della Consolata, in preparazione al loro Centenario, hanno accesa una fiaccola, che è passata in pellegrinaggio in tutti i loro centri di evangelizzazione.
Ennesima luce per illuminare e consolare.

Francesco Bernardi

La date più importanti

  • 21 aprile 1919 – I primi missionari della Consolata approdano in Tanganyika. Si stabiliscono a Tosamaganga e Madibira.
  • 1922 – Nasce la Prefettura apostolica di Iringa, retta da monsgnor Francesco Cagliero.
  • 1932 – Fondazione dell’Istituto delle Suore Missionarie di S. Teresa di Gesù Bambino, dette «Teresine».
  • 22 ottobre 1935 – Monsignor Cagliero muore in un incidente stradale. Ha 60 anni. Gli succede monsignor Attilio Beltramino.
  • 22-26 aprile 1937 – Conferenza programmatica di Tosamaganga su: pastorale, scuola, attenzione alla cultura e altro.
  • 16 giugno 1940 – I missionari sono costretti alla «residenza coatta» durante la Seconda guerra mondiale.
  • 1948 – Si coltiva tabacco. Con i proventi si costruiscono scuole, dispensari e chiese.
  • 27 maggio 1948 – Monsignor Attilio Beltramino è nominato vescovo di Iringa, il primo.
  • 1949 – Fondazione dell’Istituto religioso dei Fratelli Africani da parte di mons. Beltramino.
  • 9 dicembre 1961 – Indipendenza del Tanganyika.
  • 26 aprile 1964 – Il Tanganyika diventa Tanzania con l’unione di Zanzibar.
  • 28 ottobre 1965 – Il vescovo Beltramino muore di infarto. Ha 64 anni.
  • A partire dal 1968 – Ai missionari italiani si aggiungono quegli spagnoli, portoghesi, kenyani, congolesi, colombiani, ecc.
  • 15 febbraio 1970 – Padre Mario Abdallah Mgulunde è consacrato vescovo di Iringa. È il primo tanzaniano.
  • A partire dal 1973 – I missionari operano anche a Dar Es Salaam, Singida, Morogoro, Dodoma, oltre che a Njombe (1968).
  • 1997 – Centenario della diocesi di Iringa. Il cuore delle celebrazioni sono Tosamaganga e Madibira, missioni della Consolata.
  • 2011 – Padre Salutaris Massawe è eletto superiore dei missionari della Consolata in Tanzania. È il primo tanzaniano.

I missionari della
Consolata in Tanzania sono 54, di cui 17 tanzaniani, 15 italiani e gli altri di
varie nazionalità. Complessivamente i missionari della Consolata tanzaniani nel
mondo sono 66.

F.B.

Il primo missionario del Tanzania

Per decenni i missionari della Consolata in Tanzania sono stati tutti
italiani. Ma, a partire dal 1970, si sono aggiunti missionari di altre
nazionalità. E chi è stato il primo tanzaniano?

Mi chiamo Evaristo Chengula. Sono
nato a Mdabulo, diocesi di Iringa. Non ho specificato la data di nascita,
perché non la so. Comunque, secondo il registro dei battesimi, sono nato l’1
gennaio 1941.

In
famiglia eravamo in sette, fra fratelli e sorelle, oggi rimasti in quattro. Una
sorella è suor Albertina, delle suore Teresine fondate da monsignor Francesco
Cagliero, al quale è dedicata anche una scuola secondaria a Tosamaganga.

Con
i genitori vissi poco tempo, perché già all’età di quattro anni entrai nell’utawani
della missione di Mdabulo.

L’utawani
era un sistema di educazione dei ragazzi e delle ragazze, ideato e promosso dai
missionari della Consolata. Scopo primario: frequentare la scuola elementare. I
ragazzi non potevano farlo abitando in famiglia, lontani dai centri scolastici.
Io ero il più piccolo dell’utawani di Mdabulo.

Oltre
che nell’istruzione scolastica, venivamo formati nella fede cattolica vivendo
insieme nella missione, che ci garantiva gratis vitto, alloggio e divisa
scolastica. Dopo la scuola, lavoravamo nei campi, essendo il lavoro parte
integrante del sistema educativo dell’utawani. Ogni nove mesi ritornavamo in
famiglia per le vacanze.

Nell’utawani di Mdabulo si contavano circa 200 ragazzi e 300 ragazze. Tutti felici12. Noi
ex ragazzi dell’utawani degli anni 1950-1960, se ci capita di incontrarci,
ricordiamo con gioia e riconoscenza quel tempo, e ognuno dice all’altro
scherzando: «Amico, non ti sei ancora stancato di pregare?».

Veramente
la preghiera era tanta, sotto la direzione di padre Paolo Gianinetto,
responsabile dell’utawani e parroco di Mdabulo.

Poiché
rimasi orfano in tenera età, la missione fu la mia casa.

Sei solo un ragazzo!

Avevo
11 anni quando dissi a padre Gianinetto: «Baba (babbo), io voglio diventare
sacerdote».

«Figlio
mio, tu sei solo un bambino!». «Anche tu lo eri quando hai rivelato il
proposito di farti prete», risposi senza paura.

Da
quel giorno padre Gianinetto è stato per me un vero papà.

Dopo
la quarta elementare, il missionario mi accompagnò a Tosamaganga. Qui incontrai
il rettore del seminario, padre Vincenzo Ramello, il quale mi squadrò da capo a
piedi e, indicando qualcosa con la mano, esclamò: «Vedi quei libri di filosofia
e teologia? Piccolo come sei, sarai capace di imparare tutte le cose scritte in
quei volumi?».

«Come
le hai imparate tu, le imparerò anch’io», risposi senza scompormi.

Poi,
notando sopra la scrivania del padre un calice per la Messa, dissi a me stesso:
«Anch’io un giorno alzerò un calice come questo».

Però
non volevo diventare «solo prete», bensì «prete e missionario della Consolata»,
perché ero attratto dalla loro vita, padri, fratelli e suore. Programmavano e
lavoravano insieme, mangiavano, giocavano e ridevano insieme. Le «discussioni»
non mancavano, ed erano pure aspre. Ma si ritrovava l’accordo e la pace.

Ero
già avanti negli studi del seminario, allorché rivelai al vescovo Attilio
Beltramino la mia vocazione missionaria. «Prima diventa prete diocesano, poi si
vedrà!», rispose secco.

Missionario in Congo

Nel
1970 venni ordinato sacerdote e quasi subito diventai missionario della
Consolata, il primo del Tanzania.

Per
sei anni mi occupai dei giovani di Iringa in parrocchia e nella Secondary
School. Poi fui mandato a Roma a studiare Spiritualità. Ritornato in Tanzania,
fui professore e «padre spirituale» nel seminario teologico maggiore di
Peramiho. Dovevo starci un anno, ma la permanenza si protrasse a cinque anni.

Partii
per il Congo (Rdc) negli anni ‘80, nella diocesi si Wamba, dove si parla
swahili. Un swahili assai diverso da quello del Tanzania. Conclusione: non ci capivamo.

Si
parla pure francese. Ma il mio francese rassomigliava a un vecchio camion in
salita, che arranca, sbuffa e sembra implorare: «Vieni a darmi una spinta! O,
meglio, spegni il motore».

Quando
padre Giuseppe Inverardi13,
superiore generale, venne in visita al Congo, manifestai il mio disagio. Al che
lui rispose: «Come missionario, non sei in Congo per parlare le lingue, ma per
testimoniare il Vangelo con la tua vita». Un messaggio che mi porto nel cuore
tutt’oggi.

In
Congo dovevo restare tre anni, ma ne trascorsi dieci. Le difficoltà erano
ingenti, politicamente e socialmente. Tuttavia la vita comunitaria era la stessa
che mi attirò, tempo addietro, a entrare nell’Istituto della Consolata.

Ora vescovo

Ritornato
in Tanzania, nel 1997 fui consacrato vescovo di Mbeya. Ma non ho mai scordato
di «essere della Consolata». Raggiunti i 75 anni di età, nel 2016 presentai le
canoniche dimissioni. Ma sono ancora in attività.

Ho
scritto questa testimonianza per il Centenario dei missionari della Consolata
in Tanzania.

In
conclusione, sottolineo l’«eredità» lasciataci dal fondatore, il beato Giuseppe
Allamano, che diceva: «Ricordate che l’Istituto non è un collegio, neppure un
seminario, ma una famiglia. Siete tutti fratelli; dovete vivere assieme,
prepararvi assieme per poi lavorare assieme per tutta la vita»14.

I
giovani, se avvertiranno questo spirito di famiglia, busseranno sempre alla
nostra porta per stare con noi missionari.

Se
entri in una congregazione che non è famiglia, ne uscirai prestissimo. I voti
di povertà, castità e obbedienza si tramuteranno in un giogo opprimente, in un
carico insopportabile.

Al
contrario, in un Istituto-famiglia, il giogo è veramente dolce e il carico
leggero (cfr. Matteo 11, 30). E la gioia regnerà sovrana in quella casa.

Mons. Evaristo Chengula,
missionario della Consolata, vescovo di Mbeya (Tanzania)

Nota: mons. Evaristo Chengula è andato alla Casa
del Padre lo scorso 21 novembre 2018. Lo apprendiamo, non senza emozione,
mentre stiamo lavorando a questo dossier.

I fratelli missionari:
Più in alto dei preti

I «fratelli coadiutori» sono stati fondamentali in questi primi 100 anni di
vita dei missionari della Consolata in Tanzania. Grazie alla loro fraternità e
al loro essere missionari al servizio degli altri, hanno dato un contributo che
ha reso possibile questa fantastica e solida avventura. Vediamo alcune storie.

I missionari della Consolata, al
maschile, sono «sacerdoti» e «fratelli coadiutori». Nell’immaginario collettivo
il coadiutore è spesso considerato una figura di serie B. Però il fondatore,
beato Giuseppe Allamano, si indignava quando sentiva dire: «Oh, sei solo un
coadiutore!»15.

I
fratelli sono protagonisti della missione come i padri, e anche di più. Certo,
non dicono Messa, non confessano. Ma sono fratelli! Attraverso la loro
fraternità, servono Dio e il prossimo con generosità, umiltà e competenza.

L’Allamano
ebbe il coraggio di dire: «Anche se solo coadiutore missionario, in Paradiso
sarà sopra gli altri sacerdoti»16.

Michele e Felice

I
primi fratelli missionari della Consolata giunsero in Tanganyika nel dicembre del
1922. Si chiamavano Michele Mauro e Felice Crespi.

Ero
a Madibira, il 22 Agosto 1973, allorché padre Rambaldo Olivo, parroco della
missione, mi comunicò la morte di fratel Michele Mauro.

Padre
Rambaldo era baldo di nome e di fatto. Sbrigativo come un faccendiere, roccioso
come le montagne del suo Friuli, insofferente come un rivoluzionario… ma quel
pomeriggio Rambaldo, allorché mi disse «fratel Michele è mancato», scoppiò in
un pianto dirotto.

Fratel
Michele Mauro trascorse in missione 51 anni, segando e piallando assi,
inchiodando, incollando e intarsiando scaffali, vetrine, armadi e comò di ogni
foggia. Nonché migliaia e migliaia di sgabelli, sedie, tavole e tavolini.

Fu
il falegname di tutte le parrocchie della diocesi di Iringa. Falegname come
Giuseppe, quello di Nazaret.

A
Madibira scorre un fiumiciattolo. La popolazione vi si tuffa anche per lavarsi.
Lo stesso fanno i missionari, ma pompando l’acqua in casa attraverso un motore
a diesel.

Una
notte una forte pioggia fece tracimare il torrente, che sommerse e arrestò la
pompa. E noi, missionari, ci trovammo in mutande a fare il bagno nel
fiumiciattolo, mentre i bambini nascosti fra gli arbusti ridevano divertiti nel
vedere quei bianchi in costume semiadamitico.

Dopo
15 giorni di attesa, arrivò fratel Felice Crespi. Smontò la pompa, pulì il
motore, e noi ritornammo a fare la doccia in casa.

Fratel
Felice è della provincia di Milano. Da ragazzo venne a Torino, conobbe i
missionari della Consolata e si unì a loro come fratello coadiutore. A Torino
imparò il piemontese e dimenticò il lombardo.

Ascoltarlo
di sera, alla luce tremolante della lampada a petrolio, era affascinante, a
dispetto dell’incessante ronda delle pestifere zanzare.

«Dalle
carovane con i portatori siamo alle carovane con carri tirati da diverse paia
di buoi – raccontava -. C’era di tutto su quei carri: vino da messa, chiodi,
pentole, attrezzi di falegnameria, meccanica, sartoria ecc. La carovana
procedeva di notte, perché il calore del giorno fiaccava i buoi. In testa e in
coda ardeva una lanterna, per tener lontano il leopardo. Io recitavo il
rosario, dato che non avevo avuto tempo durante il giorno…».

Negli
anni 1965-1970 arrivarono i gruppi elettrogeni: si accendevano solo per saldare
e per mangiare un boccone alla sera in compagnia, prima di andare a letto.
Fratel Felice ne curava la manutenzione, avvalendosi di manuali in inglese,
lingua che non sapeva. Ma, leggi e rileggi, l’inglese gli divenne meno ostico.

Conciava
pure pelli per confezionare scarpe e scarponi. Un giorno uno spruzzo d’acido
finì nei suoi occhi, e quasi lo accecò. Ma continuò a montare e smontare
motori, aiutato dai suoi operai. Con le sue mani esperte, divenute dure come
l’acciaio, riusciva a controllare ingranaggi e bulloni.

Al
termine di quei racconti serali, mentre la luce della lampada si affievoliva,
fratel Felice era solito chiedere: «Domani mattina la Messa è sempre alle
6,30?».

E tanti altri…

Ricordo
anche Angelo Invitti, il mago del tornio. Poiché i pezzi meccanici di ricambio
erano spesso irreperibili in Tanzania, Angelo li fabbricava lui stesso
lavorando con precisione al tornio.

Lavorava
e insegnava meccanica. Al termine del lavoro e della scuola, c’era ancora
un’ora di religione per ricordare che Dio è misericordia.

Fratelli
missionari come Modesto Zeni, con un nasone da proboscide. Ma che «fiuto
finissimo» nella sua vita! Costruì la cattedrale di Kihesa (Iringa), un po’
chiesa, un po’ pagoda e un po’ moschea, per dire che la casa di Dio è di tutti.

Eresse,
nella rotonda principale di Iringa, il monumento all’indipendenza della nazione
con la fiaccola che arde. Ed era pure il designatore degli arbitri nelle
partite di calcio della città. Tanto era accetto a tutti.

Fratelli
missionari come Gianfranco Bonaudo, imponente, extra large dalla testa ai
piedi. Soprattutto costruttore. Ristrutturò e ampliò il Consolata Hospital di
Ikonda (Njombe), sperduto fra le montagne dell’Ukinga. Un’eccellenza sanitaria
in Tanzania con 400 posti letto. Gli ammalati vi accorrono da ogni angolo del
paese, persino da Zanzibar.

Terminati
i lavori, fratel Gianfranco commentò: «Sono felice di aver messo in piedi un
ospedale dove i bambini e i poveri non pagano».

Fratelli
missionari della Consolata a decine e decine. Di loro il Beato Giuseppe
Allamano soleva dire: «Voi siete i miei beniamini».

Francesco Bernardi

Quattro esperienze di missione:
Oggi e domani strada facendo

Nel paradiso terrestre, le suore aprono la «Stella del mattino». Un
ospedale per i dimenticati, che è diventato un’eccellenza nella Sanità.
Professori e studenti, preti e catechisti, utilizzano il centro missionario di
Bunju, il «volto nuovo della missione». Una rivista per dire la verità: Andate.
Aiuta a capire chi è il tuo prossimo. Oggi e domani, strada facendo «annunciate
che il regno dei cieli è vicino» (Matteo 10, 7). Annunciarlo a chi? Ai giovani
a rischio, per esempio.

Una scuola per bocciati

Così le missionarie della Consolata nel 1999 aprirono il
Centro di formazione Stella del mattino.

Sorge in una vallata da eden. Questo paradiso terrestre
si estende fino al villaggio di Ilamba, diocesi di Iringa. Paradiso solo
terrestre, perché i ragazzi non hanno futuro. Frequentano la scuola, ma sono
stati bocciati.

Parecchi hanno cercato lavoro a Dar Es Salaam. Ma sono
finiti tra coetanei dediti al furto, allo spaccio di droga, e le ragazze alla
prostituzione. Sono tornati al villaggio per morire di Aids.

«Apriamo una Secondary
School per i bocciati», si dissero allora
suor Cecilia, keniana, suor Artura, brasiliana, d’accordo con tutte le altre
consorelle. Ieri era un sogno fumoso, oggi una realtà palpabile. E i bocciati
di ieri, oggi emergano fra i migliori.

Studiano e lavorano per una vita diversa, iniziando dalla
«polenta quotidiana»: coltivano campi e orti, allevano capre e maiali, spaccano
legna. Oltre 200 ragazzi e ragazze insieme: cattolici, luterani e musulmani.

È in atto un cambiamento culturale. Si sta scardinando
«la mentalità che l’uomo è sempre quello che comanda e deve essere servito,
mentre la donna deve solo obbedire e servire»17.

È spuntata davvero una nuova stella sul firmamento di
Ilamba e dintorni.

L’ospedale di Ikonda

Una stella polare

Oggi e domani, strada facendo «guarite gli infermi»
(Matteo 10, 8).

L’attenzione agli ammalati è una «stella polare»
nell’evangelizzazione missionaria. Lo conferma anche il Consolata Hospital Ikonda, diocesi di Njombe.

Però quanta fatica, pure psicologica! I luterani,
numerosi in quella regione, ostacolarono l’ospedale in tutti i modi. Eravamo
nel 1964-65, quando l’ecumenismo era una chimera.

L’ospedale nacque nel 1968, con l’applauso di Julius
Nyerere, presidente della nazione, che inaugurò la struttura con 60 posti
letto.

Oggi i posti letto rasentano i 400, senza contare i bimbi
nati prematuri e le donne in attesa di partorire. Le corsie sono dieci, tre le
sale operatorie, due le sale parto, un laboratorio ortopedico, il
«delicatissimo» reparto per sieropositivi (Aids), la ricca farmacia, la tac, la
risonanza magnetica.

Realtà che in Italia sono normali, come il caffè al bar.
Ma a Ikonda, dove i denari li maneggi con il contagocce, dove le strade sono
più insidiose dei serpenti, dove l’elettricità costante è solo una speranza
remota (e quindi, per rendere efficienti le sale operatorie, necessiti di
costose turbine che i fulmini mettono a ko
a ogni piè sospinto), non sono realtà scontate. Allora l’ospedale di Ikonda
cade e si rialza ogni mattina. Il suo sviluppo ricorda il detto africano: il
maestoso baobab è stato una foglia seminata dal vento.

«Perché avete costruito l’ospedale fuori dal mondo –
chiesi a padre Sandro Nava, direttore della struttura -. Altrove, gli ammalati
lo raggiungerebbero con maggiore facilità e minore spesa, non ti pare?».

Il missionario mi guardò stupito, come se avessi scoperto
l’acqua calda. Poi rispose: «Certo, un ospedale a Makambako o Njombe sarebbe
più comodo e, per noi, più redditizio. Però sarebbe un ospedale per gente di
città, non per poveri sperduti su queste vallate come pecore senza pastore. Un
ospedale così sarebbe ancora un ospedale missionario?».

Lasciai padre Sandro e sostai nell’ingresso, dove
campeggia la scritta: «Il bene va fatto bene». È l’impegno dell’ospedale di
Ikonda, alla scuola del Beato Giuseppe Allamano. 

Un centro per… centrare

Incontro di missionari della Consolata con padre Stefano Camerlengo, superiore generale, a Bunju (maggio 2013)

Oggi e domani, strada facendo «insegnate tutto ciò che vi ho comandato» (Matteo 28, 20). Qui entra in azione il Consolata Mission Centre di Bunju, a 35 chilometri da Dar Es Salaam.

Sul pavimento della sua chiesa spicca la data «2008»,
l’anno in cui il Centro aprì i battenti: la porta istoriata a fisarmonica della
stessa chiesa; le porte del salone-conferenze a onde marine; quelle ariose
della sala da pranzo; l’ingresso delle camere degli ospiti.

Al Consolata Mission Centre dormono 80 persone, 250
siedono davanti alla tradizionale polenta e 300 partecipano a dibattiti con il
cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam, o con altri relatori.
Costoro intrattengono l’uditorio con dibattiti, scritti e immagini in power point.

Il Centro è «un faro che illumina presente e futuro».
Tutti ne usufruiscono: uomini e donne a livello personale o raccolti in
movimenti, professori e studenti, catechisti e seminaristi, vescovi e preti.
Tantissimi i giovani, a prezzi scontatissimi.

Il Centro è «il volto nuovo della missione», che ha
aperto i suoi cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, musulmani.
Non mancano ecologisti, operatori di giustizia e pace, politici.

Il Centro è «esigente», anche economicamente, con i
prezzi in costante ascesa e 14 lavoratori da retribuire ogni mese. Qui
risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese,
chiedono un anticipo di stipendio, perché sono alla fame. Ma nell’Africa che
canta e danza, non bastono i tamburi e le nacchere. Bisogna studiare, pensare e
«formarsi». Guerre, carestie e Aids sono emergenze crudeli. Ma passano.

La «formazione» è prevenzione contro ogni miseria. I
missionari della Consolata ne sono convinti, e hanno inventato il Consolata
Mission Centre, un Centro per «centrare» la vita.

Chi è stato «prossimo»?

Padre Francesco Bernardi, autore di questo dossier, direttore in Tanzania della rivista Enendeni. ex direttore di Missioni Consolata

Oggi e domani, strada facendo domandatevi: chi è stato
«prossimo» del bisognoso? (cfr. Luca 10, 36 ).

È la domanda che Enendeni (Andate), rivista in lingua swahili, pone a tutti. Vi scrivono anche i missionari della Consolata del Tanzania presenti in Venezuela, Colombia, Brasile, Mozambico, ecc. Affrontando i temi dell’emarginazione e dello sfruttamento.

Chi è «prossimo» degli abbandonati nei suddetti (e altri)
paesi, compreso il Tanzania?

Un giorno a Dar Es Salaam incontrai un giovane.
Trascinava un sacco pieno di bottiglie di plastica, nella speranza di ricavare
qualche soldo. Ebbi l’ardire di chiedergli: «Guadagni abbastanza con questo
lavoro?». Dopo un istante, l’interessato rispose: «Tanti soldi dei tanzaniani
vengono spesi dal governo per parate militari, balli e canti nelle feste
nazionali, o per acquistare aerei per passeggeri benestanti, mentre io raccolgo
bottiglie di plastica».

Quando si voltò per proseguire per la sua strada, sulla
t-shirt lacera che indossava lessi: «Dio aiuta»18. Ma Dio esige soprattutto giustizia e dignità per tutti, specialmente
per i poveri. Per Enendeni è un dovere morale ribadirlo.

La rivista rilancia pure la voce coraggiosa dei
«Cristiani Professionisti del Tanzania», che hanno dichiarato: «In Tanzania c’è
il sospetto fondato sul cattivo uso del denaro da parte dello stato, il
sospetto di furto di voti nelle elezioni e di corruzione nelle commissioni
elettorali. I giovani vengono plagiati con false promesse. Il prodotto interno
lordo annuo cresce del 7 per cento, però esiste un abisso tra ricchi e
poveri…»19.

Qui il lettore italiano replica subito: «Nel nostro paese
le cose non vanno meglio».

Già, ma con una differenza: in Italia puoi parlare, in
Tanzania meno, molto meno.

Mentre «il prossimo», incappato nei briganti della
politica che l’hanno spogliato di tutto, non trova nemmeno il conforto di «un
buon samaritano».

Francesco Bernardi

Note

  • (1) Cfr. rivista La Consolata, agosto 1922.
  • (2) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Carteggio di un prestito per il Regno, Tanganyika 1919-1935, Edizioni Missioni Consolata, Torino 1987, p. 45.
  • (3) Alessandro Di Martino, ivi, p. 51.
  • (4) I missionari della Consolata nella Diocesi di Iringa, 1919-1969 (a cura di padre Riccardo Ossola), Tosamaganga 1969, p. 2 (ciclostilato).
  • (5) Alessandro Di Martino, op. cit., pp. 73-74.
  • (6) Ivi, p. 262.
  • (7) Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno (I Missionari della Consolata nel Tanganyika-Tanzania: 1936, 1964, 1969), Edizioni Missioni Consolata, Roma 1995, pp. 50-51.
  • (8) Circa l’iniziazione femminile dei Wahehe, pregevole è la documentazione fotografica raccolta da padre Alessandro Di Martino. Inoltre c’è il catechismo in kihehe di padre Egidio Crema, che scrisse anche la monografia Wahehe, un popolo bantu, Emi, Bologna 1987 (con traduzione in inglese di padre Marco Bagnarol).
  • (9) Testo riportato da: Alessandro Di Martino, Quel tanto di lievito del Regno, op.cit., p. 26.
  • (10) I Missionari «Fidei donum» sono nati in seguito all’omonima enciclica di Pio XII, del 1957, che esortava le diocesi ad essere missionarie inviando alcuni loro sacerdoti.
  • (11) Enendeni, Machi/Aprili 2017. «Enendeni» (Andate) è la rivista missionaria prodotta dai Missionari della Consolata in Tanzania.
  • (12) L’utawani era presente in numerosi centri dei Missionari della Consolata: da Tosamaganga a Madibira, da Wasa a Kipengere ecc. Il termine utawani deriva da mtawa, persona consacrata a Dio e che vive in comunità.
  • (13) Padre Giuseppe Inverardi, Superiore generale dei Missionari  della Consolata per 12 anni, oggi opera in Tanzania nel Consolata Mission Centre di Bunju, Dar Es Salaam.
  • (14) Giuseppe Allamano, Così vi voglio, Emi, Bologna 2007, p. 187.
  • (15) Il Fondatore e i Fratelli, Edizioni Missioni Consolata, Roma 2014, p. 18.
  • (16) Ivi.
  • (17) «I care» Tanzania (Storie di vita donata), p. 87.
  • (18) Cfr. Enendeni, Mei/Juni 2017, p. 4.
  • (19) Cfr. Enendeni, Novemba/Desemba 2016, p. 18.



Venezuela: Un paese sotto anestesia


La situazione sociale, economica e politica è precaria, e peggiora rapidamente. Molti fuggono dal paese. I missionari della Consolata, presenti dalla capitale Caracas alle foci del rio Orinoco, hanno scelto di restare accanto alla gente alimentando la speranza e condividendo la vita con i più poveri.

«Volevo offrirvi un caffè, ma oggi non ho niente». Lo sfogo viene da una madre che riceve una visita a casa sua nella regione di Barlovento, stato di Miranda, in Venezuela. La situazione economica, politica e sociale del paese è così complicata che diventa difficile da capire. Con ampi poteri, il governo di Nicolás Maduro, seguendo il suo ispiratore, Hugo Chávez, controlla tutte le istituzioni e impone la sua ideologia. Forse è per questo che ci sono ancora persone che difendono la «Rivoluzione Bolivariana». Tuttavia, crescono le critiche non solo dell’opposizione, ma anche di alcuni settori della sinistra e della popolazione in generale che soffre le dure conseguenze di una disastrosa gestione economica.

Coda per comperare del cibo a Caracas

«Non c’è prospettiva per il futuro e la cosa più triste è che le persone si abituano a vivere male. Il Venezuela è un paese anestetizzato da una diffusa rassegnazione», dice padre Adan Ramirez, cancelliere della curia a Caracas, analizzando lo stato generale e lo spirito della popolazione.

Ci sono persone che credono nella possibilità concreta di un cambiamento, ma manca un leader per transformare questo desiderio in un progetto politico alternativo.

«Tra aprile e luglio (2017) in particolare, in varie parti del paese si sono svolte proteste di massa a favore e contro il governo. Il diritto di riunione pacifica non è stato garantito. Secondo i dati forniti dalle autorità, nel contesto di queste proteste di massa sono rimaste uccise almeno 120 persone e più di 1.777 sono state ferite, tra manifestanti, membri delle forze di sicurezza e passanti» (dal Rapporto annuale 2017-2018 di Amnesty International). Centinaia le persone arrestate.

La situazione già precaria sta peggiorando rapidamente. Sebbene il paese abbia grandi riserve di petrolio, l’iperinflazione ha spinto l’economia nel caos.

È un Venezuela in fiamme quello di oggi, di contrapposizioni forti e sanguinarie. Per questo si scorge quella rassegnazione che nasce quando, alzando gli occhi al cielo, non si vedono più le stelle.

La corruzione e la mancanza di beni di prima necessità colpiscono la popolazione che già soffre a causa della carenza di energia elettrica, acqua, gas, trasporti, farmaci e servizi pubblici.

Distribuzione di cibo a Carapita

Senza nessuna prospettiva di lavoro, milioni di venezuelani emigrano, soprattutto giovani e professionisti. Quasi tutte le famiglie hanno qualcuno all’estero. Molti genitori affidano i bambini ai nonni e se ne vanno fuori dal paese alla ricerca di fortuna.

Secondo il cardinale Baltazar Porras Cardozo, arcivescovo di Mérida e amministratore apostolico di Caracas, il paese non ha la forza di reagire. «I partiti di opposizione sono disabilitati, i loro leader sono incarcerati o costretti a fuggire all’estero. Le istituzioni sono controllate dal governo che domina anche l’economia. La paura è grande, soprattutto tra i giovani che sono disillusi», dice il cardinale, che sottolinea anche le sfide di questa crisi per la Chiesa: «Rilanciare la speranza e la fede del popolo, oltre che curare l’odio, frutto della polarizzazione».

Il Venezuela è il paese con le maggiori riserve di petrolio del mondo, e questo fa dell’oro nero l’unico motore dell’economia, rappresentando oltre il 95% dei proventi delle esportazioni. Nel 2014, un barile di petrolio era scambiato a 115 dollari americani. Oggi è valutato a 70 dollari, dopo essere sceso a 26 nel 2016.

Il governo di Maduro accusa «la borghesia» di creare una struttura economica che non favorisce lo sviluppo. Un altro nemico sempre citato nelle spiegazioni del presidente sono gli Stati Uniti che, secondo lui, interferiscono per destabilizzare il paese.

Missionaria della Consolata riuniti a Barquisimeto

La Consolata in Venezuela

In Venezuela lavorano 13 missionari della Consolata:

  • a Barlovento nelle parrocchie di Panaquire, El Clavo e Tapipa;
  • nell’archidiocesi e nella città di Barquisimeto, con un Centro di animazione missionaria (Cam);
  • nel vicariato di Tucupita tra gli indigeni Warao a Tucupita e
    Nabasanuka;
  • a Caracas nella la sede della delegazione, nel seminario propedeutico e di filosofia, e nella parrocchia di Carapita in periferia.

Oltre a soddisfare i bisogni materiali, i missionari si preoccupano di mantenere viva la speranza della gente con una presenza di consolazione spirituale.

I padri keniani, Charles Gachara Munyu e Silvano Ngugi Omuono, lavorano in tre parrocchie di Barlovento, nella diocesi di Guarenas, regione a 100 chilometri da Caracas, controllata da gruppi armati che operano impunemente. Per visitare le 36 piccole comunità del territorio, i missionari hanno bisogno di avvisare i capi di questi gruppi per non correre rischi. Anche la strada nazionale che dà accesso a Tapipa, Panaquire e El Clavo è controllata. «Spesso siamo fermati dai “malandros”, (come vengono chiamati i ragazzi) che minacciano e rubano gli oggetti di valore», afferma padre Silvano. Il missionario ha già avuto la pistola puntata alla testa quattro volte. In una di queste era acompagnato dal vescovo. «Ho pensato qualche volta di lasciare il paese, ma non sono venuto qui per la mia sicurezza. Credo che sia stato Dio a mandarmi, e così Egli mi proteggerà. Vedendo la situazione della gente e come apprezzano la nostra presenza, riprendo coraggio per continuare la mia missione».

Padre Charles Gachara Munyu

«Una volta assunta la missione dobbiamo lasciarci guidare dallo Spirito, con un cuore aperto alla gente, imparare dalla realtà per aiutare con quello che abbiamo. La nostra cultura è diversa, ma il contributo che diamo è quello di creare e formare le comunità di base che in Kenya sono forti».

Questa è la richiesta principale degli animatori, come fa notare il catechista di Panaquire, Frank Rondón: «Abbiamo bisogno di formare ministri della Parola e dell’Eucaristia, catechisti e altri leader che possano assumere il lavoro di animazione delle comunità e non dipendere, così, sempre dai padri».

Nella diocesi di Guarenas ci sono cinque parrocchie senza parroco, e i missionari della Consolata che già lavorano in tre parrocchie, stanno studiando la possibilità di assumerne una quarta a Caucagua, a 15 km da Tapipa.

Zone «calde e pericolose» attorno a Barlovento

La pastorale afro

A Barlovento la popolazione è afro americana. «Dopo oltre 30 anni di presenza, adesso possiamo concentrarci in modo più mirato sulla pastorale afro. È necessario creare consapevolezza che essere afrodiscendenti ha il suo valore che può essere integrato nell’esperienza della fede cristiana, con un impatto sulla società, la politica, l’educazione e la salute», afferma padre Charles, missionario con un master in Teologia Biblica. «Questo è un processo lento, ma dobbiamo stabilire alleanze con altre organizzazioni per ottenere i diritti. Per molti anni, la Chiesa non ha riconosciuto l’identità afro del popolo sostenendo che erano tutti venezuelani. La nostra presenza è un segno di speranza, ma dobbiamo ancora lavorare sulla resistenza», dice il padre, presente nel paese dal 2002.

I missionari non pensano solo ai sacramenti. «Non importa se celebriamo le messe o semplicemente facciamo una visita. Il fatto di andare a vedere la gente è sufficiente per dire che non sono soli. Le persone apprezzano molto l’amicizia», aggiunge padre Charles. Eduin Ruiz, uno dei coordinatori della pastorale afro, spiega che «l’obiettivo è riscattare l’identità e i valori della cultura negata nel corso della storia. Ciò richiede un lavoro di inculturazione del Vangelo». Padre Silvanus offre un piccolo esempio di forte potere simbolico: «La stessa campana suonata nel passato per avvertire della fuga di uno schiavo, oggi serve per invitare gli afro americani a partecipare alle celebrazioni».

La terra è ricca per coltivare il cacao, che sarebbe un potenziale economico per le famiglie, ma, purtroppo, il governo impone dei prezzi molto bassi rendendone impossibile il commercio. «La qualità dell’istruzione si sta deteriorando, molte scuole sono state chiuse e i giovani non ricevono una formazione professionale adeguata», lamenta Eduin Ruiz, che aggiunge: «In molte famiglie i bambini non possono contare sulla presenza del padre e finiscono per strada dove sono vittime di violenza, povertà e delinquenza. La nostra lotta è per la vita, contro la droga, l’alcolismo e l’insicurezza».

Periferia di Caracas dove c’è la parrocchia di Carapita.

Essere segni di Consolazione

In visita al Venezuela, padre Stefano Camerlengo, superiore generale, ha lasciato tre parole di incoraggiamento. «La Consolazione: che non è un’idea, una politica, ma Gesù Cristo il Salvatore; la Comunione: la comunità non è costituita solo dal padre, ma da tutti coloro che vivono e lavorano per i valori comuni; la Liberazione: come insiste il papa Francesco, essere Chiesa in uscita significa che non dobbiamo solo pregare tra noi, ma dobbiamo andare a cercare e includere gli altri nella proclamazione del Vangelo che è gioia e salvezza per tutti».

La gente ricorda con affetto tutti i missionari della Consolata che negli ultimi 30 anni hanno lavorato nella regione. La catechista Alejandrina Pimentel rammenta che «ognuno contribuisce con il suo carisma. Cerchiamo di capire tutti. Vado in chiesa per la mia fede e non per il prete», osserva. Pedro Vamonde vede l’importanza di continuare il lavoro: «La vicinanza ai missionari ci ha aiutato a cambiare. La Chiesa siamo noi e dobbiamo contribuire di più per sostenerla». I missionari della Consolata si sono stabiliti in Venezuela nel 1971 con il padre Giovanni Vespertini, nella diocesi di Trujillo. Con l’arrivo nel 1974 di padre Francesco Babbini e di altri, i missionari hanno esteso la loro presenza nell’arcidiocesi di Caracas. Anche le missionarie della Consolata hanno tre comunità nel paese, a Caracas, a Puerto Ayacucho e Tencua.

Jaime C. Patias, IMC,
 Consigliere Generale per l’America

assemblea parrocchiale a Carapita


Qualche cifra

Il 20 agosto 2018 è stato introdotto il nuovo «bolivar soberano» (BsS) dal valore di 100mila bolivares (Bs) vecchi.

1 $ = 61 BsS (mercato nero: 90)

Il 1 ottobre è stata lanciata la cryptovaluta «Petro» dal valore di 60 $, ufficialmente acquistabile dal 5 novembre 2018.

Prezzi di alcuni prodotti essenziali

prezzo ufficiale in BsS       in  nero

1 kg di carne              90           250
12 uova                     120           360
1 l di latte 49            120
1 kg pollo 78            180
1 kg di formaggio      80           300
1 l olio da cucina       36             80
1 kg di riso                 42             70
1 kg zucchero            32           120
1 kg farina polenta    20             30
1 kg farina bianca      54           150

1 l benzina regolare  0,70 (= 70mila Bs, prima costava 1 Bs)
1 l benzina premium                 0,90          (da 6 Bs)
1 l Diesel  0,50
Questi prezzi della benzina sono validi solo per chi ha il «carnet de la patria».

Salario minimo: da settembre 2018: 1.800 BsS (30 $ ca.)

Confronta con i prezzi pubblicati su MC giugno 2018, pag. 27

(Dati al 1/10/2018 da nostra fonte in loco)

Mariakoto, casa lungo uno dei rami del delta dell’Orinoco nel vicariato di Tucupita


Sostieneni il progetto degli Amici Missioni Consolata in favore degli indigeni Warao nel delta dell’Orinoco.

P. Juan Carlos Greco con parte della comunità di Janabasaida.