Nel suo messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni, celebrata nella IV domenica di Pasqua, papa Francesco invitava a «considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita».
Il beato Allamano considerava la vocazione missionaria come un dono straordinario di Dio al punto di ritenere «fortunati» quei giovani che avevano sentito il suo invito a seguirlo sulla via della missione. «Egli – diceva il fondatore dei missionari della Consolata ai suoi – vi ha chiamati all’apostolato per sola sua bontà. L’ha fatta a voi questa grazia, a preferenza di tanti altri che ne erano più degni e che vi avrebbero forse corrisposto meglio. E perché proprio a voi? Perché vi ha amati di un amore particolare. Ha fatto con voi ciò che fece con quel giovane del Vangelo: “E Gesù fissatolo, lo amò e gli disse: vieni e seguimi” (Mc 10,21). Ecco che cosa è la vocazione! È questo sguardo di predilezione di Gesù».
La risposta alla vocazione spinge tante persone a consacrarsi e a offrire la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano.
Annunciare il Vangelo a quanti non lo conoscono, spezzare la propria vita, insieme al pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio: è questo il Dna della vocazione missionaria seminato nel cuore di tanti giovani dal beato Allamano.
La crisi di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa nel mondo occidentale a cui assistiamo oggi, tra le altre cause, è certamente determinata dalla crisi di identità di cui soffre l’uomo moderno che porta a cercare la propria realizzazione in surrogati che alla lunga si rivelano incapaci di soddisfare il desiderio di felicità che abita il cuore delle persone.
«Ascoltare la chiamata divina – scrive ancora papa Francesco – lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso, è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro. La nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo».
Sergio Frassetto
Seminatori di consolazione
Contemplando l’icona della Consolata, come faceva l’Allamano dal coretto del Santuario, suor Maria Luisa Casiraghi evidenzia le caratteristiche, i valori e i sentimenti che noi missionari siamo chiamati a incarnare per essere presenza di consolazione nel mondo.
Dal «coretto» il fondatore la contemplava
Noi missionari e le missionarie ci possiamo definire: «Seminatori e seminatrici di consolazione attraverso vie e modi che lo Spirito e le contingenze della vita ci fanno intravedere». Per fare questo cammino bisogna affidarci alla Consolata, dialogare con lei, accogliere le intuizioni dello Spirito.
Ma come? Quando desideriamo conoscere qualcuno cerchiamo di incontrarlo, parlargli, stare il più possibile in sua compagnia per carpire i suoi segreti, arricchirci della sua esperienza, accogliere i suoi consigli.
Il fondatore in questo ci è modello. Sappiamo infatti quanto tempo lui trascorreva in preghiera nel coretto del santuario della Consolata contemplando l’icona a lui e a noi tanto cara per comprendere meglio la volontà di Dio, il cammino da intraprendere e per avere il coraggio e la forza di realizzare ciò che Dio voleva da lui.
Penso che nel coretto del Santuario della Consolata, mentre contemplava il volto di Maria, il fondatore vedesse tratteggiati gli atteggiamenti e i lineamenti che noi missionarie e missionari avremmo dovuto incarnare per portare la consolazione alle persone nei luoghi e nelle situazioni che avremmo incontrato nel nostro cammino. Contemplando l’icona di Maria il fondatore focalizzava le sue virtù e meditava come noi, suoi figli e figlie, che avremmo portato nel mondo il suo nome, dovevamo viverle.
Come davanti a uno specchio
Mi sono posta più volte davanti all’icona della Consolata come davanti a uno specchio per cogliere qualche particolare che mi suggerisse i passi ancora da fare, i cammini da iniziare, gli atteggiamenti da vivere per divenire sempre di più una presenza di consolazione. E, contemplando questa icona, sono stata colpita da vari particolari, soprattutto dalle mani del bambino Gesù: una mano tiene stretto il pollice della Madre che così s’intreccia con la sua e l’altra indica a noi Maria. In questo intreccio di mani scorgo ciò che il fondatore spesso sottolineava quando ci incoraggiava a rivolgersi e a pregare la Consolata. Egli diceva: «È importante avere fiducia nella Consolata: senza di lei possiamo fare poco o nulla, con lei tutto. Fìdati della Madonna, è tua madre! Voglile bene! Senza di lei non si può volare e camminare nella santità. La nostra ala in più è lei, la madre di Gesù, la Consolata».
Essere «conche» per essere «canali»
Un secondo messaggio che ho visto scaturire contemplando Maria lo collego a un’altra espressione del Fondatore in cui affermava: «A riguardo del prossimo dobbiamo essere conche, non solo canali. Ma riguardo ai beni materiali dobbiamo essere solamente canali e non conche». La prima attitudine di Maria che emerge dai Vangeli è quella dell’accoglienza che fa posto allo Spirito, che si svuota per lasciarsi guidare da lui sulle strade di Dio.
Questo è l’atteggiamento che il fondatore voleva che noi coltivassimo per diventare conche e fonti vive. Essere conche ripiene di Spirito aiuta a comprendere l’importanza poi di divenire canali in cui scorrono generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.
C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la missione in modo autentico ed efficace.
I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare nella corrente, nel canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date». Solo così la missione diventa annuncio della consolazione, del dono che Dio fa al mondo: il suo unico figlio, tanto amato, offerto per la salvezza di tutti, un figlio che Maria ha rivestito della sua natura umana.
Seminare la buona notizia
Ancora: Maria, in questa icona non tiene il bambino stretto a sé, ma lo offre all’umanità. Il suo atteggiamento è rivolto anche a noi: non tenere stretta la buona notizia della salvezza, ma seminarla nelle pieghe del quotidiano per trasformare l’ordinario in straordinario. L’annuncio non nasce da noi, ci viene donato affinché lo condividiamo con parole, gesti, silenzi… come Maria ha fatto nella sua vita: poche parole, molti gesti per aprire cammini e orizzonti nuovi e tanti silenzi, non sterili, ma che hanno generato vita.
E termino con l’augurio fatto parecchi anni fa ai missionari e alle missionarie dall’allora arcivescovo di Torino, il cardinale Anastasio Ballestrero. Diceva: «Quando si è portatori di un annuncio di consolazione non si può esserlo autenticamente senza un entusiasmo che brucia dentro, senza un fervore totale che investe la vita e senza un ardore che non conosce stanchezza. Il popolo di Dio e tutti i popoli hanno bisogno di vedere che i missionari e le missionarie sono così: creature incandescenti che dovunque arrivano accendono il desiderio di Dio e dovunque passano lasciano un segno profetico profondo, efficace e fecondo». E, a questo segno, noi missionari e missionarie della Consolata diamo il nome di «consolazione».
Suor Maria Luisa Casiraghi
Ho speso tutto
Quando nel 1880 l’Allamano assunse la direzione del Santuario della Consolata, questo si presentava brutto e decadente, così, nel 1883 diede inizio a lavori di restauro esterno dell’edificio, su disegno dell’ingegnere Giovanni Battista Ferrante, che riportò il complesso alle linee originarie dell’architetto Filippo Juvarra. I lavori furono ultimati nel 1885. A convincere l’Allamano della necessità di intervenire nuovamente con lavori più radicali sull’edificio fu la prospettiva delle grandiose feste che si sarebbero dovute celebrare nel 1904, in occasione dell’ottavo centenario del ritrovamento dell’immagine della Consolata da parte del cieco di Briançon, avvenuto il 20 giugno 1104, secondo un’antica tradizione. Il progetto dei restauri fu affidato all’architetto Carlo Ceppi e i lavori di trasformazione furono compiuti tra il 1899 e il 1904. Attraverso l’inserimento di quattro cappelle ovoidali, sistemate attorno all’esagono guariniano, e la realizzazione di altri interventi architettonici e decorativi, la chiesa assunse una forma maestosa che dall’esterno si arricchiva di cupolini e volute, a coronamento delle nuove cappelle, mentre all’interno risplendeva di marmi e stucchi dorati così come la conosciamo oggi.
Per preparare il progetto dei restauri fu scelto il principe degli architetti torinesi, il conte Carlo Ceppi. «Ma, mio caro canonico, – fu il preambolo dell’architetto al Camisassa – che cosa possiamo fare qui? Siamo strangolati in tutti i modi». «Signor conte – replicò il Camisassa -, il Juvarra sfondò le pareti e creò quel magistrale ampliamento dove fece sorgere l’altare della Vittoria. Come ha fatto lui perché non possiamo fare anche noi altrettanto ai fianchi?». «La cosa è fattibile, e la faremo», concluse l’architetto, e si mise all’opera.
All’architetto che gli faceva presente che non sarebbe bastato un milione, l’Allamano rispose: «Ne metteremo due, tre, purché Torino abbia un santuario degno della sua Patrona».
«Quando io facevo restaurare il santuario – confidò l’Allamano – (ebbene, c’è andato un bel milione, sapete) qualcuno diceva: “Uh, che spreco! Perché adoperare del marmo così prezioso? Marmo d’Egitto? Si potrebbe mettere marmo finto come in quell’altra chiesa!…”. Ed io dicevo: “Per il Signore, per la Madonna non è mai troppo, non si spreca mai”. Alcuni mi dicevano: “Perché cambiare il pavimento? Mettere marmo di prima classe? […]. Quando si tratta della Madonna non bisogna aver paura anche di fare dei debiti, di fare delle imprudenze, e poi con la Consolata non si fanno delle imprudenze. Io per la Consolata ho speso tutto».
La riflessione conclusiva dell’Allamano svelò da dove egli prendeva l’ispirazione e il coraggio: «I lavori, con visibile protezione di Maria, furono deliberati proprio il 10 dicembre 1898, festa della S. Casa di Loreto, quasi per farci notare che “Lei stessa si è edificata la casa”. […]. Questa non è opera nostra, ma è proprio opera della Madonna».
Giuseppe Allamano, per le feste centenarie della Consolata, oltre ai lavori di restauro del tempio, volle regalare alla Vergine due preziose corone di brillanti che furono apposte al quadro. Le celebrazioni centenarie iniziarono l’11 giugno 1904 per terminare il 20, festa della Consolata. Il giorno 19 si svolse la processione per le vie della città, con la partecipazione di sei cardinali, 23 vescovi e 104 parroci, oltre alle congregazioni religiose e ai fedeli in numero incalcolabile. Il giornale «La Stampa» fece questo commento: «Certo è riuscita una manifestazione religiosa imponente che non ha precedenti nella memoria dei torinesi».
POSTULATORE > P. GIACOMO MAZZOTTI
Chi ricevesse una grazia per intercessione del beato Giuseppe Allamano è pregato di notificarlo ai seguenti indirizzi:
POSTULAZIONE MISSIONI CONSOLATA
• Viale Mura Aurelie, 11-13 – 00165 Roma
• Corso Ferrucci, 14 – 10138 Torino
E-mail: postulazione@consolata.org https://giuseppeallamano.consolata.org
Ucraina. Faccia a faccia con la guerra
30 aprile-5 maggio. Approfittando delle feste nazionali polacche, con don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la conferenza episcopale polacca, e di Rika Itozawa, ci mettiamo di nuovo in macchina per visitare alcune città al Sud dell’Ucraina e portare aiuti. Il nostro viaggio ci porta da Varsavia a Kiev e poi Odessa, Mikolajow e Cherson, con ritorno a Kiew e quindi a Varsavia. Dopo esserci fermati a Kiev per una sola notte, ci dirigiamo verso Odessa.
Odessa, città storica e strategica
Ritorniamo in questa bella città costruita sul Mar Nero dopo circa un anno per una breve visita. Odessa oltre a essere una città storica e artisticamente ricca, è soprattutto il luogo da cui partono decine di navi che trasportano in tutto il mondo i raccolti di frumento e mais del Paese (foto 1). Per questo motivo strategico è una città presa di mira dall’esercito russo (foto 2). Nelle ultime settimane gli attacchi provenienti dalla vicina Crimea o dalle navi russe sono aumentati.
Ci incontriamo con il cancelliere della diocesi, don Cristoforo. Ci racconta che gli aiuti sono diminuiti del 60% dall’inizio della guerra.
Mentre conversiamo, seduti in un ristorante tartaro accanto alla Cattedrale, le sirene iniziano a suonare. Non c’è alcuna reazione tra i clienti e i passanti. Questo può sorprendere, tuttavia occorre ricordare che da oltre due anni le sirene suonano quotidianamente. Dopo pochi minuti, si spengono.
Vediamo da un punto panoramico la città e il porto con i grandi silos. Ci sono almeno tre grandi navi nelle vicinanze. Ci raccontano che attualmente gli ucraini hanno un corridoio che permette alle imbarcazioni di dirigersi verso Istanbul e da lì proseguire per il canale di Suez.
Andiamo brevemente sulla spiaggia in una zona residenziale, una delle poche accessibili, e vediamo una casa, chiamata il castello di Potter a motivo della sua somiglianza con il castello del famoso film, con il tetto distrutto. Pochi giorni fa un missile dal mare ha colpito l’edificio causando delle vittime (foto 3 e 4).
La chiesa distrutta di Koszeliwka
Prima di sera ci rimettiamo in macchina per dirigerci verso la vicina Mykolaïv dove abita don Alessandro, presso il Santuario di san Giuseppe. Dopo esserci riposati, al mattino visitiamo il villaggio di Koszeliwka, a distanza di circa un anno dall’ultima volta. La chiesa in questo villaggio è stata distrutta e oggi rimangono solo le macerie (foto 5). Da poco don Alessandro ha acquistato due container dal porto di Odessa e li ha posti nei pressi della chiesa distrutta. Un container serve come cappella, l’altro come centro medico.
Il progetto per il futuro è quello di ricostruire la chiesa accanto a quella precedente, lasciando le rovine a ricordo. Anche le case duramente colpite iniziano a essere ricostituite dalle famiglie che lentamente provano a ritornare (Foto 6).
Cherson, sulla linea dei combattimenti
Nel pomeriggio ci viene a prendere, dalla vicina Cherson, don Massimo, il parroco, e ci guida attraverso i posti di blocco dei soldati fino alla sua parrocchia che si trova in prima linea in città.
Le nuove procedure impongono a noi stranieri di firmare una dichiarazione di responsabilità per poter entrare. La parrocchia del Sacro cuore di Gesù è l’unica romano-cattolica della città, e si trova vicina al fiume Dnepr in una zona abbandonata quasi da tutti. Se Cherson contava circa 300mila abitanti prima dell’invasione russa, oggi si stima abbia una popolazione di soli 20mila.
È la terza volta che visitiamo questo luogo e, nonostante il lungo tempo trascorso, non si vedono cambiamenti. Le strade sono deserte e continui colpi, rompono il silenzio che qui avvolge tutto.
Il fiume Dnepr, in questo momento, è la linea di confine tra i due eserciti che occupano le rispettive rive: a Est i russi, a Ovest gli ucraini che si scambiano colpi giorno e notte in tutta la regione (foto 7).
La città è fortemente segnata da questa situazione. Anche la parrocchia, il primo sabato di quaresima, è stata colpita per la seconda volta: quando, nel primo pomeriggio, un razzo è finito ai piedi della statua della Madonna che si trova davanti alla chiesa (foto 8).
Come la prima volta, quando un razzo entrò dal tetto della chiesa, anche questa volta non ci è stata l’esplosione. Le schegge dell’impatto hanno colpito la facciata della chiesa senza ferire nessuno nelle vicinanze.
Dopo qualche settimana, i soldati hanno messo in sicurezza il razzo che usciva dal terreno. Don Massimo vive qui con il vicario don Sergio e un aiutante, anche lui di nome Sergio. Senza nessuna costrizione, hanno scelto di restare per poter essere un segno di speranza non solo per le poche famiglie che qui sono rimaste ma anche per i tanti villaggi della regione che quotidianamente visitano portando aiuti, amministrando il sacramento della confessione e portando la santa comunione.
L’ospedale di Bilozerka
La mattina successiva visitiamo Bilozerka, un villaggio a Sud lungo il fiume. Arriviamo nel piccolo ospedale che serve tutta la zona. Ci dà il benvenuto la giovane dottoressa chirurga Natalia che qui lavora (foto 9). Mentre ci mostra il primo piano di questo semplice edificio, ci racconta che, a motivo delle continue esplosioni, gli ammalati sono stati trasferiti dal primo piano al piano terreno.
Tutte le finestre delle camere che vediamo sono state danneggiate dagli scoppi. L’unica attività rimasta al primo piano è quella della stanza operatoria che visitiamo notando i sacchi di sabbia a protezione dei vetri delle due stanze (foto 10).
La dottoressa Natalia ci racconta che per molti giorni l’ascensore è stata fuori servizio. Così le infermiere dovevano scendere le scale portando il paziente sdraiato sul letto. Oggi per fortuna l’ascensore è tornato in funzione. Raccontiamo che i prossimi giorni riceveremo dei farmaci dall’Italia e stabiliamo con la dottoressa quali sono quelli più necessari da far arrivare.
Nello stesso villaggio incontriamo il signor Władek, 94 anni, di origini polacche. Ci racconta la sua storia e manda anche un video di saluti ai suoi connazionali (foto 11).
Poi don Massimo ci accompagna dalla signora Lena che è paralizzata a letto da ben 29 anni (foto 12). Ci sorprende la sua vitalità e la sua energia. È molto contenta di accoglierci nella sua casa insieme al marito. Ci racconta che i due figli con le loro famiglie sono riusciti a scappare dal villaggio prima che venisse occupato dai soldati russi per alcuni mesi. Oggi ritornano spesso a visitare i genitori, ma le piccole nipoti hanno paura delle esplosioni che qui si sentono di continuo. Per questo le visite sono sempre brevi.
Ci raccontano che il tempo dell’occupazione è stato quello più difficile: i soldati passavo di casa in casa. Sono stati anche qui. C’era sempre paura, soprattutto quando erano visibilmente ubriachi.
Ci colpisce la vitalità del racconto di questa donna, che nonostante viva paralizzata a letto, nel mezzo di una guerra, trasmette la forza di vivere e un coraggio non comune. Spesso sorride e ha un timbro di voce forte e sicuro. Usciamo da questa casa edificati, e ringraziamo il Signore per questi esempi che ci pone di fronte.
Charkiv e le sue ferite
La seconda parte della giornata la trascorriamo ritornando a Charkiv, dove siamo stati diverse volte nei mesi scorsi, per visitare alcuni quartieri della città. Passeggiamo per il parco giochi dei bambini completamente abbandonato. Forte è il profumo delle acacie e dei castagni in fiore che ci abbraccia. Per terra si trovano i resti dei razzi esplosi.
Incontriamo alcune donne che ci invitano a seguirle. Ci mostrano la cantina in cui vivono nei sotterranei del loro palazzo distrutto dopo tre giorni incessanti di bombardamenti.
Ci fanno vedere i loro appartamenti dal cortile: i balconi sono devastati dalle esplosioni; penzolano i serramenti delle porte e delle finestre e i condizionatori appesi ai fili (foto 13-14).
Una improvvisa esplosione non lontana interrompe la nostra visita.
Ci rechiamo per brevemente a Nord della città per vedere i resti del ponte Antonov, uno dei pochi che collegavano le due sponde. Il ponte è stato fatto saltare dai russi durante l’abbandono della città (foto 15).
Don Massimo scrive una lettera di ringraziamento ai benefattori, molti sono tra voi lettori di Missioni Consolata. Con parte delle offerte raccolte abbiamo potuto finanziare il trasporto di aiuti giunti fino a qui (Foto 16).
I due giorni successivi sono impegnati per il ritorno a Varsavia passando da Kiev.
Gli aiuti che diminuiscono sono sempre più necessari. Per questo occorre non stancarsi e continuare a venire di persona per incontrare abitanti di questo Paese, ascoltare le loro storie, condividere del tempo e incoraggiare i confratelli sacerdoti, pregare con loro.
Luca Bovio
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Grazie da Cherson
A nome dei parrocchiani della Parrocchia del Sacratissimo Cuore di Gesù a Cherson, ringrazio i benefattori della Rivista Missioni Consolata per aver finanziato il costo del trasporto di aiuti umanitari.
Grazie al vostro aiuto e stato possibile ricevere materiale per pulizie e di igiene personale distribuito per i più bisognosi della città e dei villaggi.
Grazie per laiuto e la generosità. Un ricordo nella preghiera
Il nostro percorso alla scoperta di personaggi biblici la cui fede esemplare e affascinante può insegnare qualcosa anche a noi, è iniziato a gennaio con Abramo, il più noto dei patriarchi benché la sua precisa esistenza storica non sia al di sopra di ogni dubbio. Lo concludiamo con un personaggio che, all’opposto, è sicuramente esistito, ma che ha cercato in tutti i modi di nascondersi, tanto che, in effetti, non ne conosciamo neppure il nome, anche se ci ha lasciato alcune delle pagine più luminose e toccanti di tutta la Bibbia: parliamo dell’autore dei capitoli 40-55 del libro del profeta Isaia.
Lo sfondo letterario
Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. Gerusalemme e la Giudea avevano vissuto un momento di crisi e di gloria. Di crisi perché nella regione era arrivata la potenza terribile del nuovo impero assiro che aveva avuto ragione dei ben più agguerriti regni di Damasco e di Samaria. Quest’ultima, il regno di Israele del Nord, era stata conquistata e distrutta nel 721 a.C. con la conseguente deportazione della sua classe dirigente e di tutti coloro che, per abitudine o cultura, avrebbero potuto eventualmente guidare una rivolta.
Un gruppo di sacerdoti, probabilmente, si era rifugiato da Samaria a Gerusalemme portando con sé le proprie tradizioni religiose e profetiche, forse già in parte scritte. Essi, quindi, avevano contribuito alla gloria di quegli anni, perché da loro Gerusalemme era stata come rivitalizzata, prima che arrivasse anche su di lei l’ondata conquistatrice degli Assiri. Questi l’avevano sì assediata ma, distratti forse da disordini in patria o, più probabilmenti, delusi dalla povertà che comunque vedevano nella città (per cui lo scarso bottino non avrebbe giustificato l’enorme sforzo per conquistarla), avevano deciso di abbandonare l’assedio prima di dare l’assalto finale (701 a.C.).
In quegli anni operava a Gerusalemme un profeta dallo stile limpido e bellissimo, sicuro di sé e deciso, che esortava i giudei a confidare non in alleanze umane, ma solo in Dio. E, in effetti, si sarebbe potuto dire che, alla fine, la storia gli aveva dato ragione. Egli continuava a ripetere che «tempio del Signore è questo» e Dio non lo avrebbe lasciato conquistare mai. Questo suo ritornello negli anni si era conservato ed era stato rinfacciato, più di un secolo dopo, a Geremia, il quale invece sosteneva che, nel suo tempo, per fidarsi di Dio occorreva lasciare che i nemici conquistassero la città santa (Ger 7,4): infatti, mantenersi sulle vie del Signore non significava fare sempre le stesse scelte.
Un contesto nuovo
La storia poi darà ragione anche a Geremia.
A metà del vii secolo l’impero assiro va in crisi, e il suo posto viene preso da un altro impero, quello babilonese, che ricomincia a percorrere la strada di conquista e sopraffazione già nota, anche se con uno stile lievemente più mite.
Durante la conquista babilonese, Gerusalemme viene presa e la parte più capace e colta dei suoi abitanti deportata a Babilonia.
In quel periodo, o forse appena dopo, inizia a predicare un profeta nuovo, di cui non conosciamo né il nome, né la vita, né il motivo per il quale decide di fare ciò per cui ancora oggi restiamo ammirati.
Sarebbe infatti bello sapere se quello che noi oggi leggiamo lo abbia anche predicato, ma non possiamo fare altro che immaginare e fantasticare. Ciò che sappiamo è che prende il libro di Isaia, chiuso più di un secolo prima, e decide di proseguirlo.
L’autore del libro di Isaia cambia dal capitolo 40 in poi, perché cambiano lo stile, i temi, lo sfondo (si capisce benissimo che chi scrive è in esilio e scrive a esiliati). Ma lui decide di non iniziare un nuovo rotolo, di non dichiarare chi è. Si «limita» a proseguire uno scritto altrui. Così facendo, inevitabilmente, suggerisce la sua continuità con il «primo» Isaia (in realtà, l’unico di cui abbiamo il nome).
Questi, come abbiamo ricordato, aveva invitato a confidare in Dio, che avrebbe difeso il suo popolo anche politicamente e militarmente. Chi prende quel libro in mano e decide di proseguirlo, vuole invece suggerire che, anche se il popolo è stato sconfitto ed esiliato, Dio continua a essere al suo fianco, a essere affidabile. E già un messaggio del genere è sorprendente.
Avrebbe potuto decidere di nascondere e dimenticare il rotolo di Isaia, o dire che aveva parlato del passato, invece, dal fondo dell’abisso, dice che Dio è sempre lo stesso, continua ad assistere il suo popolo, continua a esserci e a sostenere i suoi.
Le parole nuove
«Consolate, consolate il mio popolo, parlate al cuore di Gerusalemme» (Is 40,1-2).
Le parole dei profeti, almeno in superficie, sono sempre state dure, di giudizio e castigo, anche quando poi, in fondo, parlavano di amore e misericordia. Il «secondo» Isaia, invece, non salva neanche la forma: Dio è un padre innamorato che corre in aiuto di sua figlia, ne giustifica persino gli errori, la abbraccia, la rincuora.
Se parole di giudizio ci sono, sono contro le nazioni intorno, che hanno esagerato nel punire Israele. Ma per il resto si parla di un Dio che vuole far sorridere d’affetto gli esiliati, che li accarezza, che li vuole riconfortare.
Certo, soprattutto a quel tempo, sarebbe stato facile contestare queste affermazioni: come è possibile dire che Dio vuole il bene di Israele che, invece, si ritrova battuto, umiliato e deportato dopo aver visto bruciare il suo tempio, «il luogo scelto da Dio per porre la sua dimora in mezzo agli uomini» (Dt 16,15, tra i tanti esempi)?
Per il mondo semitico, nel quale nasce anche questo testo, gli dèi difendono un luogo appartenente a loro popolo perché lo considerano proprio: se quel luogo viene conquistato è segno che quegli stessi dèi sono stati sconfitti. Dunque, qui si pone la questione: il Dio d’Israele ha abbandonato il suo popolo, oppure non è stato capace di difenderlo ed è stato sconfitto. Di fronte a questo dilemma verrebbe spontaneo abbandonare un simile Dio.
No, risponde il nostro profeta. E, per la prima volta con chiarezza assoluta, afferma quello che per il popolo ebraico diventerà il cuore della fede: Dio non è stato sconfitto e può decidere di non abbandonare il suo popolo, perché è l’unico Dio di tutta la terra, non uno dio tra i molti dèi. Egli gestisce tutto come vuole, e ha vissuto la prova del suo popolo con angoscia, e non vuole più che soffra, come un padre che ha lasciato sbagliare suo figlio, ma ha vissuto con più dolore di lui le piaghe conseguenti ai suoi errori.
E siccome Dio è l’unico dio della terra, anche i salvatori che arriveranno per il suo popolo, come il re dei Persiani, Ciro, sono in realtà scelti e voluti e chiamati da lui, anche se loro non lo conoscono (Is 45,1.4). Addirittura, il nostro profeta dice che Ciro è il «suo pastore» (44,28) e il «suo messia» (45,1), con un coraggio che a volte persino le nostre traduzioni moderne faticano a seguire, preferendo renderlo con il «suo eletto» o il «suo unto».
E Dio può serenamente sognare e promettere, a questo punto, non che tutti i popoli saranno vinti e soggiogati, ma anzi che tutti verranno a Gerusalemme per rendere onore al Dio d’Israele (45,22-24). E può invitare il suo popolo amato a violare, apparentemente, la legge dell’Esodo e del Deuteronomio, smettendo di ricordare le imprese del passato: «Ecco, faccio una cosa nuova, proprio adesso germoglia, non ve ne accorgete?» (43,19). Il nostro anonimo profeta, che potrebbe piangere la propria sorte, invita a vedere Dio presente, operante, attivo nella vita degli esiliati.
La sofferenza
Tutto bello? Tutto buono? Come poteva un profeta simile farsi accogliere da gente che soffriva? Non si accorge di che cosa ha intorno, questo ingenuo?
Se ne accorge, sì, ma coglie che c’è altro. Che Dio è presente anche nella sofferenza. Anzi, che se c’è un sofferente che patisce con mitezza per gli altri, non solo Dio approva, ma è lì, con lui, al suo fianco. E se anche nessuno apprezzasse quella sofferenza, Dio non la trascura, ma la vede e valorizza, dicendo che proprio colui che patisce è «il giusto mio servo» (Is 53,11).
È così che nascono alcune tra le pagine più spiazzanti della Bibbia, che i cristiani leggeranno forse con la pelle d’oca, perché non potranno che pensare: «Ma qui parla della passione di Gesù».
Quasi come fossero inserti inutili o fuori tema, compaiono dei «cantici» che lodano un «servo del Signore» che porta pace e risanamento a Israele (42,1-9), procurando peraltro luce e salvezza non solo a quel popolo, ma a tutte le nazioni (49,1-6), benché sembri non vincente, ma oppresso e sconfitto, con la barba strappata, deriso, insultato. E infine, addirittura, mortificato, ucciso, svergognato (52,13-53,12), eppure sicuro di essere dalla parte di Dio (50,4-9).
È l’intuizione che chi è dalla parte del giusto, di Dio, non può essere confuso, anche se agli occhi del mondo sembra esserlo. È la novità di uno sguardo che non punta alle conseguenze, agli esiti, ma al senso, a ciò che c’è a monte. Perché Dio non guarda ai risultati, ma al cuore.
È l’intuizione abissale che un Dio che difende gli umili e gli oppressi, si farà umile e oppresso come loro, con loro.
Il messaggio del profeta sconosciuto
Quale può essere il messaggio interiore, profondo, di un personaggio che neppure possiamo vedere, immaginare, chiamare per nome?
Il «secondo Isaia» (così è passato alla storia per i biblisti) intuisce che un Dio impegnato in un rapporto personale e intimo con l’essere umano non può abandonarlo, soprattutto quando è umiliato, vinto, disperso. Il secondo Isaia intuisce che Dio è presente, c’è, non si ritira soprattutto dove l’umanità ha perso.
Solo uno sguardo amante capisce che, quando la storia sembra dire che sei stato sconfitto e devi arrenderti e rinunciare, chi ama resta sempre presente. E Dio è colui che ama l’umanità a prescindere da ogni altra cosa, come ha lasciato capire in tanti secoli e in tanti personaggi e, per noi, in tanti libri biblici.
Anche quando tutto sembra perduto, anzi, soprattutto in quel momento, Dio è lì, è accanto, sorride, consola, abbraccia, rialza.
Questo profeta ci mostra uno sguardo che prova a penetrare nel pensiero di Dio, e scopre qualcosa di inaudito, di impensabile. Scopre che Dio è tanto interiore all’umanità da non poter fare a meno di farsi debole anche lui, fragile, oppresso e ucciso. Senza che questo gli tolga la capacità di salvare. Ma donandogli la possibilità di «saper prendere parte alle nostre debolezze, perché è stato messo alla prova in ogni cosa come noi» (Eb 4,15).
Il «secondo Isaia» non trova questo volto di Dio descritto da nessuna parte, ma lo intuisce guardando a ciò che il suo Signore ha fatto nella storia, cogliendone la logica, le modalità di comportamento. Il suo è lo sguardo fiducioso che non si aggrappa ai testi o alle argomentazioni (che forse non gli darebbero ragione), ma si affida a una relazione personale che (il profeta lo sa, lo intuisce, se ne fida) non verrà meno, mai.
Angelo Fracchia (Camminatori 10 – fine)
Ucraina. Angeli della gioia
Carissimi tutti
Un caro saluto a pochi giorni dal ritorno dell’ultimo viaggio fatto in Ucraina. Si è trattato di un viaggio breve di soli tre giorni dal 29 settembre al 1° ottobre, in compagnia di don Leszek e di Rika. L’obiettivo è stato quello di fare le riprese alle attività di suor Vittoria, impegnata in un progetto che da tempo organizza, chiamato Gli angeli della gioia.
La registrazione del video è la parte conclusiva di un progetto più grande, iniziato questa estate con la collaborazione del gruppo Eskenosen e Humane vitae, che si pone l’obiettivo di mostrare al mondo scolastico italiano (e non solo) storie di vita illustrative di come i bambini ucraini vivono la realtà della guerra.
La prima parte è stata registrata questa estate in Polonia, incontrando bambini che o si sono trasferiti temporaneamente nel paese oppure presenti brevemente per fare qualche giorno di vacanza. La seconda parte del video l’abbiamo realizzata durante questo viaggio andando ad incontrare i bambini sul luogo.
Suor Vittoria è una giovane suora ucraina che con l’aiuto di volontari organizza delle vere e proprie feste nei villaggi più dispersi del paese, con l’obiettivo di regalare un momento di gioia a bambini spesso provati duramente dalla guerra. I bambini a cui rivolge l’invito sono o abitanti di villaggi sperduti oppure bambini che provengono dal fronte e che in questi villaggi trovano riparo.
Per poter fare questo tipo di incontri è necessario essere riconosciuti dal governo locale, sempre attento a controllare le iniziative interne del paese. Suor Vittoria appartiene a una organizzazione cristiana riconosciuta dallo stato.
È curioso vederla indossare abbigliamento di colore militare (proprio dell’organizzazione) insieme a due grandi ali che le spuntano dalla schiena insieme ad una aureola sopra la testa. Lei appartiene alla Congregazione delle suore degli angeli e ha deciso di intitolare questi incontri – che avvengano sempre in luoghi diversi – l’Angelo della gioia. Incontrandola non sfugge a nessuno il suo sorriso e l’energia che trasmette.
Il primo passo che compie è quello di individuare un villaggio e di mettersi in contatto con il sindaco oppure con gli insegnanti. Poi si individuano le famiglie a cui rivolgere l’invito. Ci incontriamo in piccolo villaggio vicino a Zytmozier, una città a circa 150 km da Kiev.
Stabilito il giorno, nei locali della scuola del villaggio i volontari con suor Vittoria arrivano di buon mattino, organizzando la scenografia e addobbando la sala rendendola festosa e colorata. I bambini ricevono un invito scritto col loro nome all’entrata della scuola: tutto è pronto per dare inizio alla festa.
I bambini vengono presentati per nome e ricevono l’aureola dell’angelo che indosseranno tutto il tempo. L’età dei bambini varia a seconda dei villaggi, tra i 5 e i 14 anni. La festa trascorre tra canti e balli di gruppo che coinvolgono tutti, anche le mamme presenti. E’ una gioia contagiosa quella che si respira, una gioia che solo questi bambini riescono a trasmettere.
I bambini ricevono dello zucchero filato e dei dolci ben preparati. I volontari ci confidano che ha volte hanno incontrato bambini affamati non solo di dolci… per questo hanno deciso di offrire anche qualcosa di più sostanzioso. È facile immaginare le condizioni familiari di alcuni. A volte lo si capisce soltanto dal modo in cui sono vestiti.
Ad un certo momento i bambini sono invitati a firmare una bandiera del loro paese. Questa bandiera viene poi consegnata ai papà o ai parenti che si trovano sul fronte a combattere. Sono loro i loro angeli custodi che li difendono. La festa si conclude con la consegna dei regali. Ognuno riceve un simpatico peluche a ricordo di questa giornata, anche se è facile immaginare che il vero ricordo sarà la gioia che hanno vissuto in queste ore.
Alla fine della festa ci viene segnalata una famiglia di quel villaggio. La mamma accudisce, in una casa modesta di campagna, ben 12 figli. La figlia maggiore, che vive insieme alla madre, ha già sei figli… lasciamo a loro vestiti e cibo per bambini e veniamo ricompensati per questo con del miele di loro produzione.
Sulla via del ritorno, percorrendo una strada di campagna sterrata con pietre appuntite, riusciamo a bucare ben due pneumatici consecutivamente. Per fortuna i volontari sono ancora con noi e ci aiutano a risolvere la difficoltà, dei veri e propri angeli custodi. Cosi possiamo già il giorno successivo agevolmente ritornare a Varsavia. La registrazione dell’incontro e l’intervista a suor Vittoria le ha fatte un cameraman professionista giunto da Kiev. L’intero video tra breve sarà pronto e ve lo manderemo.
Luca Bovio
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Operatori di perdono
Nata in Colombia venti anni fa, in un contesto di guerra civile, la scuola di perdono e riconciliazione «Espere» oggi è diffusa in 20 paesi nel mondo. Anche in Portogallo, grazie a padre Albino Brás che l’ha sperimentata nei suoi anni di favela a Rio de Janeiro. In un tempo di conflitti a ogni livello, il perdono e la riconciliazione sono una strada di evangelizzazione.
I conflitti e la violenza sono all’ordine del giorno nella favela della parrocchia Nossa Senhora da Consolata a Rio de Janeiro. Per questo nel 2003, dopo sei anni di presenza sul territorio, padre Albino Brás decide di partecipare a un corso di «Espere» (Escuelas de perdón y reconciliación), la scuola di perdono e riconciliazione fondata in Colombia e poi diffusa in diversi paesi nel mondo dal confratello padre Leonel Narváez Gómez.
Il corso offre a padre Albino quegli strumenti che gli mancavano per dare corpo al desiderio di promuovere il perdono e la riconciliazione tra la sua gente. S’innamora a tal punto del metodo di Espere che, quando lascia il Brasile per il Portogallo, decide di farsene promotore anche nel suo paese di origine e in Europa.
Oggi afferma con convinzione che quella della risoluzione dei conflitti e della giustizia riparativa è una strada prioritaria di umanizzazione e missione.
In favela per la pace
«La mia prima destinazione è stata in Brasile. Sono arrivato lì il 17 maggio 1997», racconta padre Albino, nato il 15 agosto 1965 a Loureira, distretto di Leiria, regione centrale del Portogallo.
Ultimo di sei fratelli cresciuti in campagna in una famiglia umile, padre Albino è entrato in seminario a soli 13 anni, nel 1979, ed è stato ordinato nel 1996.
«Il lavoro pastorale in un contesto di favela è stato impegnativo. Come sacerdote appena ordinato, ho imparato lì il meglio del mio ministero e della mia vita missionaria. Ho lavorato molto in quegli anni nella pastorale delle favelas, nella dimensione socio caritativa, con i minori abbandonati, nella Commissione diocesana per i diritti umani, ma anche e soprattutto nell’ambito della spiritualità, della catechesi e dell’evangelizzazione.
Le sfide sono state molte. Ho vissuto momenti difficili, di persecuzione e violenza. Ma credo che sia proprio nelle situazioni di tensione che la Chiesa deve essere presente, anche correndo dei rischi, per promuovere la pace e il rispetto reciproco».
Una cultura del perdono
Padre Albino conosce il progetto Espere, nel 2003. «Padre Leonel ha tenuto una conferenza a Rio de Janeiro su violenza, conflitti, perdono e riconciliazione. Ero sensibile a questi temi, anche per la difficile realtà di Rio, e sono andato a seguirla. Poche settimane dopo ho fatto il corso.
Sebbene il progetto si chiami “scuola”, non è qualcosa di teorico: Espere offre un’esperienza di perdono e riconciliazione partendo dalla vita di ogni persona. Investendo nella creazione di una cultura del perdono, le Espere riparano la vittima e, allo stesso tempo, cercano il recupero dell’autore della violenza, a scapito di una giustizia meramente punitiva molto presente nelle società di oggi, anche in Europa.
Espere nasce dalla prospettiva non solo di sognare un mondo di pace, ma di lavorare concretamente per realizzarlo.
Mi è sempre stato detto che dovevo perdonare, ma mi mancava il “come”, e con Espere ho trovato gli strumenti, il processo, il metodo, per renderlo possibile.
Inoltre, Espere è in linea con il carisma dell’Imc e con il Vangelo della consolazione: perdono e riconciliazione, compassione e misericordia, amore e pace che derivano dall’esercizio della giustizia riparativa».
Subito dopo aver seguito il corso, padre Albino lo replica nella sua parrocchia. Le valutazioni dei partecipanti sono buone e il missionario si rende conto che produce trasformazione a livello personale, comunitario e sociale.
La missione in Portogallo
Il 14 gennaio 2005, padre Albino lascia il Brasile per il Portogallo.
Tra il 2005 e il 2012 sta nella comunità Imc di Fatima dove lavora nell’animazione missionaria e nella pastorale giovanile. È direttore nazionale del Segretariato Imc per la missione, coordina per sette anni il Corso di missiologia promosso dagli Istituti missionari ad gentes (Imag) e dalle Pontificie opere missionarie portoghesi. Fonda il gruppo Jmc (Giovani missionari della Consolata) che cresce negli anni.
«Sono stato poi in missione per quattro anni al Bairro do Zambujal, nel comune di Amadora, un sobborgo dell’area metropolitana di Lisbona – prosegue padre Albino -. Zambujal è un quartiere abitato principalmente da due gruppi etnici: africani e zingari. È stato molto impegnativo.
Nel 2016, poi, ho assunto la direzione di Fatima Missionária, la rivista fondata dai Missionari della Consolata in Portogallo quasi 70 anni fa. Dopo aver lasciato la direzione della rivista, oggi continuo a contribuire come collaboratore e lavoro anche nell’area della comunicazione dell’Imc in Portogallo, soprattutto nei media digitali.
Dalla fine del 2016 sono nella comunità Imc di Olivais, a Lisbona come superiore. Nell’aprile di quest’anno sono stato nominato Segretario dell’Imc Europa».
Espere a Zambujal
Domandiamo a padre Albino quando e perché ha ripreso in mano il programma di Espere nella sua terra di origine: «Ho sentito il bisogno di riprendere il progetto Espere quando mi trovavo nel Bairro do Zambujal, un quartiere periferico con molte tensioni tra le varie etnie.
Ho riunito un’équipe, abbiamo fatto formazione, tradotto materiali e programmato corsi.
Fino allo scoppio della pandemia da Covid-19 che ci ha costretti a fermarci, ne abbiamo tenuti nove. Il team nazionale era composto da undici facilitatori organizzati in due nuclei: Lisbona e Porto. Espere consiste in due moduli di alcuni incontri ciascuno: un modulo sul perdono e uno sulla riconciliazione».
Padre Albino è il primo a promuovere il progetto Espere in Portogallo, ampliando così la crescente Rete internazionale già presente in diciannove paesi.
Liberazione e guarigione
I destinatari dei corsi sono i più vari: gruppi parrocchiali, comunità religiose, «abbiamo ricevuto richieste anche dalla Spagna – prosegue padre Albino -. C’è un grande desiderio di applicare i corsi anche nelle carceri.
Nell’ultimo organizzato, quasi tutti i partecipanti erano coordinatori e volontari del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati (Jrs) la cui missione è “accompagnare, servire e difendere” i rifugiati, gli sfollati e tutti i migranti in situazioni di vulnerabilità.
È stato bello sapere che stavamo aiutando il processo di perdono e riconciliazione di tanti migranti. Spesso sono persone con ferite aperte, a volte rancori e risentimenti. Molti sono dovuti fuggire da guerre, persecuzioni religiose e politiche, tante situazioni avverse, tanto odio, ferite nel corpo e nell’anima che hanno bisogno di liberazione e di guarigione».
Spezzare la violenza
Oltre ai corsi, il missionario tiene diverse conferenze e interviste ai media nazionali. «Le persone mi confidano che l’approccio al tema del perdono e della riconciliazione porta molta novità nella loro vita. Si rendono conto che è la chiave per spezzare i circoli viziosi della violenza.
Sebbene questa metodologia sia nata in Colombia, in un contesto di “frontiera della violenza”, credo che essa sia necessaria anche per un paese come il Portogallo, e in un continente come l’Europa che, pur non avendo la guerriglia, vive altre forme di violenza: in famiglia, nella coppia, nelle scuole, al lavoro.
La via della convivenza, della fraternità e della comunione è una via che tutti dovremmo seguire, perché, quando perdoniamo, portiamo benefici a noi stessi prima ancora che alla persona che ci ha offesi.
I benefici del perdono non rimangono confinati nell’interiorità, ma hanno ripercussioni dirette anche sullo stato fisico di ciascuno. Papa Francesco dice che “il perdono è fonte di gioia, di salute, e chi non perdona si ammala fisicamente e mentalmente”. Oggi è noto che chi non perdona ha una maggiore tendenza ad ammalarsi.
Quando lo facciamo, interrompiamo questo ciclo. È un processo di guarigione personale e, a poco a poco, della società».
Il perdono evangelizza
Durante la pandemia il gruppo ha dovuto interrompere i corsi, perché la metodologia di Espere richiede la presenza fisica dei partecipanti. Padre Albino progetta di riprendere quest’anno, dopo l’estate.
Lui considera le Espere uno strumento privilegiato di evangelizzazione che l’Imc può utilizzare con frutto anche in Europa.
«Il perdono dei peccati è nel mandato missionario che Gesù dà agli apostoli. Fa parte della missione della Chiesa. E sarebbe una povertà se lo limitassimo al sacramento della Confessione.
Il perdono è un elemento della spiritualità umana. È un tema che sta acquisendo sempre più importanza anche in scienze come la psicologia, la sociologia, l’antropologia, la biomedicina.
In questo momento abbiamo una guerra fratricida in Ucraina, nel mezzo dell’Europa. Ma tutto il mondo è assetato di processi di perdono e riconciliazione.
Tutti i conflitti, tutte le guerre esistono perché le persone, i gruppi, i capi delle nazioni, i Paesi, si lasciano intossicare dal veleno di rancori e risentimenti storici che li fanno degenerare nella violenza. Questo è ciò che sta accadendo oggi nella Russia di Putin: in questo momento la capitale mondiale del risentimento e dell’odio.
Mi chiedo: quale futuro sarà possibile, dopo questa guerra, in quei paesi? Saranno nemici per sempre, in una sorta di guerra fredda perenne e di pace marcia?
In Europa, con tutti i problemi che ho già sottolineato, abbiamo più che mai bisogno di mediatori, di operatori di pace. E i missionari dovrebbero essere specialisti in questo. Mediatori di conflitti, facilitatori di comunione.
Quali altre vie di missione può percorrere l’Imc in Europa?».
Missionari sulla soglia
Padre Albino, durante la nostra intervista ci ricorda il Progetto missionario che l’Imc ha scritto nel 2021 durante la Conferenza della Regione Europa: «È un progetto che ci invita ad approfondire il “cosa”, il “come” e il “dove” della nostra missione in questo continente. Il tutto, ovviamente, tenendo conto di chi sono i missionari delle nostre quasi 40 presenze europee. Le nostre comunità, colorate con le tonalità dell’interculturalità, rappresentano un valore aggiunto in un’Europa dove i temi dell’accoglienza, dell’unità nella diversità e, più in generale, della fraternità vengono minacciati ogni giorno di più.
Mi piace quando il Progetto missionario chiede a noi missionari in Europa di essere persone che stanno “sulla soglia”, capaci di leggere la complessità della realtà, disponibili ad abitare le periferie esistenziali e antropologiche, ad andare dove altri non vogliono o non possono, chiamati a “prenderci cura” del creato, della giustizia, della pace e della riconciliazione, consapevoli che è questo che ci rende missionari».
Europa, luogo di missione
«Non è una novità che l’Europa sia oggi un innegabile campo di missione – aggiunge ancora padre Albino -. Il nostro istituto ha fatto scelte teoriche e missionarie molto attraenti: lavorare nelle periferie esistenziali, con gli immigrati e i rifugiati, dentro una società edonistica, individualista e consumistica.
Ma ho l’impressione che ci manchino alcuni strumenti per lavorare in una prospettiva veramente missionaria. La società cambia velocemente, e i missionari non sempre si preparano per accompagnare il cambiamento.
È necessario sintonizzarsi con un mondo segnato dalla massificazione delle tecnologie, dalla pluralità di voci e pensieri potenziati dalle reti sociali, dalle fake news, dall’intelligenza artificiale.
Di fronte a queste realtà, la reazione più immediata di molti di noi può essere quella di chiudersi e dire: “Se la realtà è così, peggio per la realtà!”. E allora, rimanendo fuori, il Vangelo cessa di avere la possibilità di essere lievito nella pasta, nella società.
Per questo, penso e sostengo che dobbiamo migliorare i nostri metodi. Sì, perché molte volte individuiamo le cause missionarie ma poi non definiamo il metodo: il come, con quali strumenti, definendo il processo.
Posso dire che il successo di Espere nel mondo deriva proprio da questo: aver trovato una metodologia efficace, un processo con dei passi da seguire e un risultato da presentare.
E questo dovrebbe essere trasversale a tutte le cause, i progetti e gli impegni missionari in una realtà e in un continente missionariamente impegnativo come l’Europa.
L’evangelizzazione qui non sembra facile, ma credo che, nella fede in Cristo e nella potenza del nostro carisma allamaniano e consolatino, è possibile».
Luca Lorusso
Le scuole di perdono e riconciliazione
Le Scuole del perdono e della riconciliazione (Espere, Escuelas de Perdón y Reconciliación) sono un percorso pensato per aiutare persone offese da diversi tipi di violenza a guarire le ferite, trasformare la memoria, generare pratiche riparatrici e ritrovare la fiducia. Sono improntate a una metodologia pedagogica esperienziale e ludica che attiva nei partecipanti un processo personale di perdono e riconciliazione che permette loro di identificare e alleviare le conseguenze delle violenze subite nella vita e di ristabilire dei legami sani con se stessi e con la comunità, generando coesione sociale.
Il programma Espere ha una durata di 96 ore suddivise in dodici moduli, e si sviluppa in due fasi: quella dedicata al perdono e quella dedicata alla riconciliazione. I gruppi sono composti normalmente da 15-21 persone.
Le Espere, ideate da padre Leonel Narváez Gómez, missionario della Consolata colombiano, attuale presidente della Fundación para la Reconciliación nata il 13 marzo 2003, si sono diffuse in 19 paesi e hanno lavorato con più di 2 milioni di persone.
Negli anni, hanno ricevuto diversi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui il Premio Unesco per l’educazione alla pace nel 2006.
Ricostruire è un altro modo per dire consolare. E oggi c’è bisogno di farlo per persone e comunità in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa. Laddove ci sono situazioni infrante, consolare è favorire il perdono che libera e la riconciliazione che ricuce.
Ero a Bogotá. Il superiore mi aveva chiesto, con una certa insistenza, di partecipare a un incontro di teologia organizzato dall’Università dei Gesuiti. Poteva essere una specie di penitenza o, forse, il fatto che non trovasse nessun altro.
Vi andai e rimasi contento.
Il linguaggio, anche se esatto e raffinato, era accessibile.
Mi interessò soprattutto quanto detto da un anziano gesuita, professore molto rispettato, ormai in pensione, che iniziò parlando del capitolo 40 di Isaia, il famoso passo che dice: «Consolate, consolate il mio popolo…».
«Israele si trova in una situazione disastrosa. Il tempio è distrutto, le mura della città abbattute, il sacerdozio, non esistendo più il tempio, non ha ragione di essere, la popolazione è stata dispersa, le persone con qualche capacità di lavoro sono deportate a Babilonia. Non servono parole o gesti consolatori. Qui c’è bisogno di una ricostruzione dalla radice».
Giunto a questo punto del suo intervento, il professore diede sfoggio delle sue conoscenze della lingua ebraica: «Le parole “consolare” e “ricostruire” hanno, in ebraico, la stessa radice», disse. «Quindi consolare sta per ricostruire».
Come missionario della consolazione sentii che il teologo gesuita parlava del mio carisma: l’impegno di ricostruire le persone, le situazioni, le relazioni.
Da allora, l’affermazione dell’antico professore, che non ho mai potuto verificare, l’ho sempre venduta, così come l’ho ricevuta.
Persone e comunità distrutte
Oggi incontriamo molte persone che si sentono distrutte, non trovano ragioni per andare avanti. A volte si tratta di situazioni non particolarmente disastrate, ma senza soluzione, per l’incomprensione e il rifiuto continuo all’interno delle relazioni più intime e familiari.
La maggior parte delle persone che si avvicinano al sacramento della penitenza, più che altro cercano ascolto, consolazione, indicazioni per ricostruire se stesse o le relazioni con chi si è allontanato.
C’è, quindi, un estremo bisogno di ricostruire persone e comunità. Questo è il nome della consolazione, necessaria oggi in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa.
Il perdono è liberazione
Come possono ricomporre la propria vita persone distrutte perché offese, violentate, calunniate, diffamate?
C’è una parola fondamentale: il perdono.
Se ne parla spesso, ma forse è importante sottolinearne alcuni aspetti.
C’è chi lo vede come un dovere morale: «Devi perdonare». Ma, a chi è stato ferito, si può chiedere di aggiungere al dolore subìto anche il peso di guardare con rispetto il proprio offensore?
Forse non è questo il perdono utile per ricostruire la persona.
Allo stesso tempo, però, se al male rispondiamo con il male, allunghiamo una catena che ci tiene schiavi.
Il perdono è spezzare quella catena.
Mi fanno del male? Rispondo in un altro modo. Non voglio che chi mi ha fatto soffrire continui a dominare su di me.
Il perdono è liberazione, è costruire la propria vita con tutta la libertà possibile. Se è vero che il perdono non cambia il passato, può liberare però il futuro.
Ho diritto a provare rabbia di fronte a un fatto ingiusto, ma trasformare la rabbia in rancore, vivere di rabbia, è una disgrazia.
Se, invece, riesco a liberare la mia vita dal desiderio della vendetta, se non conservo il male dentro di me verso chi mi ha fatto del male, allora curo la ferita che mi è stata inferta e mi sento capace di affrontare il futuro con libertà.
Certamente perdonare non è dimenticare, ma è ricordare in modo nuovo e diverso.
Questo non vuol dire che mi sia riconciliato con chi mi ha offeso, ma almeno ho preso il largo, sento che non sono più alle dipendenze di chi mi vuole o mi ha voluto male.
È facile perdonare? No. Bisogna lasciare alle spalle l’oscurità della rabbia e del rancore per prendere una decisione che mi fa stare bene. E ciò che mi aiuta in questa decisione è essere convinto che devo cambiare il mio punto di vista, non per giustificare quanto è avvenuto, ma per cercare di comprendere.
La persona che mi ha fatto soffrire è certamente una persona, sotto molti punti di vista, orribile. Ma è pur sempre una persona.
Non sei ciò che hai fatto
Una chiacchierata fatta qualche tempo fa nel carcere minorile di Torino con un gruppo di interni, mi ha permesso di condividere questo tema.
Un giovane, che aveva commesso un grave delitto, mi ha detto: «Io sono un assassino». «No», gli ho risposto. «Allora che cosa sono?», ha ribattuto. «Sei una persona che ha ucciso». «Ma è lo stesso». «No, non è lo stesso».
Un giovane tunisino è intervenuto con una battuta: «Quando esco di qui voglio andare in Spagna». «Ti piace la Spagna?», gli ho chiesto. «È che là non mi conoscono», mi ha risposto. «È già un bel motivo per andarci. Ma che cosa vai a fare in Spagna?». «Voglio fare una banda». «E tu che cosa suoni?». «Ma non è per suonare. È per rubare». Allora io ho ribattuto: «Ma tu non sei un ladro». «E che cosa sono?». «Sei una persona che ruba». «Ma è lo stesso». «Penso di no. Non è lo stesso».
E così con un marocchino. «Tu non sei uno spacciatore. Sei una persona che spaccia».
Il dialogo è continuato a lungo e si è fatto acceso. Alla fine, ho detto: «Vi faccio un’ultima domanda e la finiamo lì. Chi è nato ladro, assassino o spacciatore?». La risposta è stata unanime: «Nessuno». «Come siamo nati? Come persone. Ecco quello che siamo. Poi non è uguale uccidere e aiutare, rubare o spacciare e servire gli altri. Allora ognuno si prenda le sue responsabilità. Ma tu non sei quello che hai fatto. Sei anche quello che puoi essere. Non sei solo il tuo passato, ma anche il tuo presente e il tuo futuro».
Se questa diventa una nostra convinzione, allora avremo purificato il nostro sguardo su chi ci ha fatto del male. Ma avremo anche purificato il nostro sguardo sul perdono più difficile, che è perdonare se stessi.
Ricostruire se stessi è l’impresa più grande, ma anche la più necessaria e liberatrice.
A volte risulta più facile offrire il nostro perdono agli altri che a noi stessi. Abbiamo in noi il desiderio di sentirci perfetti e invece è importante avere il coraggio di ritenerci limitati, fragili. Il perfezionismo non è utile, perché ci rende infelici, ci impedisce di accettare gli altri e noi stessi nelle nostre limitazioni.
Qualunque cosa sia avvenuta nella nostra vita, noi non siamo il nostro errore. Ci dobbiamo guardare con simpatia e fiducia sapendo che il passato non c’è più, il presente e il futuro sono nelle nostre mani.
Certamente possono rimanere in noi le radici del passato, radici che dobbiamo saper controllare e limitare nei loro sviluppi. È vero che il perdono non cambia il passato, il perdono verso gli altri e verso di noi libera il futuro.
La riconciliazione
Se, con il perdono abbiamo ripulito e curato la nostra ferita, che, pur lasciando una cicatrice, non brucia più come agli inizi, adesso possiamo passare a curare la ferita con l’altro, con chi ci ha fatto del male.
Questo percorso lo chiamiamo riconciliazione.
Il perdono è sempre totale, senza condizioni. Sempre possiamo perdonare, perché ci fa stare bene, ci libera, ci rende creativi e padroni di noi stessi.
La riconciliazione, invece, non sempre è possibile. Se il nostro avversario si rifiuta, se è morto, se non so dove si trovi… allora posso perdonare, cioè rimuovere da me ogni desiderio di vendetta, di fare del male, ma non mi posso riconciliare.
Inoltre, la riconciliazione richiede la volontà da parte di tutti e due per percorrere un cammino che permetta l’incontro. E questo cammino si sviluppa attraverso varie tappe, che sono condizioni perché la riconciliazione sia reale.
Questo vale quando la riconciliazione è interpersonale o quando avviene tra due gruppi di avversari, o anche quando si tratta di riconciliazioni di tipo storico, ad esempio riconciliazioni nazionali come furono quelle molto interessanti elaborate in Sudafrica, in Perù o in Croazia.
Sono tentativi che non risolvono tutti i problemi, ma cercano di disinnescare conflitti maggiori e violenti.
Memoria, verità, giustizia per un patto nuovo
Per percorrere in modo positivo il cammino della riconciliazione sono necessarie delle condizioni chiare.
Iniziamo con la memoria.
Non si costruisce la riconciliazione sul nulla. Qualcosa è successo, c’è stato un conflitto. La memoria non è una risorsa per ricordare, ma per ricostruire il passato con una finalità: assumere verso di esso un atteggiamento etico, cioè arrivare ad affermare «mai più, questo non deve succedere più».
Non si sta a esaminare il passato per distribuire colpe o errori: si scaverebbe una fossa che interromperebbe le relazioni. Si cerca, piuttosto, di arrivare insieme alla conclusione che quanto è avvenuto non è utile, non aiuta, non libera, non ci rende più umani.
Si passa poi al tema della verità. Anche qui non è importante la verità oggettiva, che è stata già in parte affrontata con la memoria, ma l’atteggiamento di reciproca sincerità. La verità delle relazioni, la fiducia rinnovata, la comunicazione sono necessarie per guardarsi in faccia e negli occhi affermando, senza il pericolo di inganno, che ci si può fidare, che si è recuperata una base solida su cui costruire o ricostruire la possibilità di una relazione solida.
Il passo successivo ci porta a riflettere sulla giustizia, che richiede due momenti: il primo, assumere la propria responsabilità, il secondo, offrire una riparazione.
Quando si è affermato che nessuno è il suo errore, si è anche detto che ogni atto ha un suo senso: non è lo stesso agire in un modo o in un altro. Ognuno può assumersi le proprie responsabilità.
Anche perdonare se stessi non equivale ad assolversi, ma significa non bloccarsi in una situazione.
Assumere la propria responsabilità su ciò che è avvenuto può essere fatto nel dialogo o anche nel silenzio interiore. Allora è importante passare al secondo momento: offrire una riparazione, che può consistere in un oggetto donato, un gesto che esprima la volontà di riconciliazione. In questo caso sono importanti i gesti o rituali della pace: un abbraccio, un bacio, una stretta di mano…
Finalmente, l’ultimo passo nel cammino della riconciliazione consiste nel guardare verso il futuro e stringere un patto o accordo.
I patti si costruiscono in base alla necessità o alla convenienza. Se si considera necessario giungere a un accordo, allora bisogna che ognuno guadagni qualcosa e trovi il modo per superare le differenze.
È chiaro che, soprattutto nel momento del patto, è necessaria la presenza di un mediatore che possa facilitare un buon risultato. In un patto ben costruito nessuno perde, ma tutti guadagnano.
I patti, poi, possono avere diversi livelli. Ci sono patti di coesistenza, che potremmo anche chiamare patti di non aggressione. Ognuno vive per proprio conto, senza maggiori interferenze. Ci sono poi i patti di convivenza, dove si condivide, in qualche modo, qualche aspetto della vita. Infine, ci sono i patti di comunione, quelli tramite i quali si pianifica, si realizza, si valuta e si condivide tutto.
Ognuno sceglierà il patto possibile. Non è necessario, e a volte non è bene, per evitarsi inutili frustrazioni, puntare al patto più perfetto.
In ogni caso, anche una buona separazione è già anche una forma di riconciliazione. Quando non è possibile continuare insieme, si arriva alla conclusione che ognuno può prendere la propria strada, ma in modo serio e rispettoso. Ognuno ricupera la sua libertà rispettando la libertà dell’altro.
Ricostruire persone e situazioni infrante
Non sarà questa una strada di consolazione? Quella di ricostruire persone e situazioni infrante, aiutando perché ognuno personalmente, con il perdono, o comunitariamente, con la riconciliazione, ritrovi la propria libertà e armonia?
Qualche anno fa mi trovavo a Scutari, in Albania. Il vescovo mi aveva chiesto di parlare di questi temi a un gruppo di universitari albanesi e kosovari. Alla fine dell’incontro si è avvicinata una ragazza, che parlava bene l’italiano, come quasi tutti loro, e mi ha detto: «Lei ha parlato di me. Quello è il mio caso».
Avevo affermato, alla fine del discorso, che, a volte, io stesso consiglio di perdonare senza cercare la riconciliazione. Il caso più chiaro è quando si tratta di una ragazza violentata da suo padre. «Perdona», dicevo, «cioè, cerca di guarire questa enorme ferita. Tu ti meriti tutto l’amore e il rispetto di questo mondo. Sei una vittima, non sei colpevole. Riprendi nelle tue mani la tua vita, sentiti libera, costruisci il tuo futuro. Il segno di questa violenza rimarrà in te, come una cicatrice, non più come una ferita. Cerca di volerti bene e stai lontana da chi ti ha fatto del male». «E il comandamento che dice di amare i propri genitori?», mi ha domandato. «Sì, onora tuo padre, tua madre, ma anche tua figlia. È l’onore e l’amore per tutta la famiglia. Se tieni lontano tuo padre non gli farai nessun male ed eviterai che lui ne possa fare ancora a te».
Quella ragazza mi è saltata al collo e mi ha detto: «Grazie. Mi sento liberata. Sono felice».
Penso che, quel giorno, la consolazione sia arrivata a quella vita, che l’abbia ricostruita.
Anche in Europa c’è tanto bisogno di consolazione.
Gianfranco Testa
L’Università del Perdono è un’Associazione Onlus, senza fini di lucro, apolitica e aconfessionale, che intende promuovere uno stile di vita improntato al perdono e alla nonviolenza attiva.
L’Università mette in atto qualsiasi intervento o azione che possa essere funzionale alla diffusione dei valori del perdono e della nonviolenza, mettendo al centro l’uomo piuttosto che il conflitto.
L’ordinazione episcopale del primo missionario della Consolata venezuelano nominato ausiliare di Caracas, ha coronato le celebrazioni del 50° anniversario della presenza dell’Istituto nel paese.
In una bella e sentita celebrazione nella chiesa di San Giovanni Bosco, nella capitale del Venezuela, sabato 12 marzo, il cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi, accompagnato da monsignor Jesús Gonzáles de Zárate, presidente della Conferenza episcopale venezuelana, e monsignor Raúl Biord Castillo, Sdb, vescovo di La Guajira, hanno consacrato i due nuovi vescovi ausiliari di Caracas: monsignor Lisandro
Rivas, missionario della Consolata, che fino a ora era stato rettore del Pontificio collegio San Paolo di Roma, e monsignor Carlos Márquez Delima, del clero della medesima arcidiocesi.
Celebravano con loro una ventina di vescovi, tra cui monsignor Francisco Múnera Correa, arcivescovo di Cartagena de Indias e monsignor Joaquín Humberto Pinzón, del vicario apostolico di Puerto Leguizamo Solano, ambedue consolatini dalla Colombia.
Il superiore generale, padre Stefano Camerlengo, introducendo la celebrazione, ha ricordato ai due nuovi vescovi che l’episcopato nella Chiesa non è un ruolo di potere destinato a valorizzare la carriera di chi lo riceve, ma un servizio per il bene di tutti, per la crescita e il cammino della comunità. Li ha chiamati «beati», per ricordare loro che, secondo il Vangelo, il termine «beati» deve essere tradotto così: vescovi che stanno «in piedi, in cammino, in marcia, poveri, perché Dio cammina e combatte con voi ed è per voi garanzia di felicità e fonte di gioia eterna. E questo è il servizio per il quale sono chiamati: aiutarci a stare in piedi». Ha poi concluso invitandoli a essere testimoni delle Beatitudini e, con le parole del beato Allamano, a camminare nel Signore: «Avanti in Domino».
Chi è Lisandro rivas
Monsignor Lisandro è nato in un paesino sui monti vicino a Boconó, nello stato di Trujillo, Venezuela. Figlio di Allirio Domingo Rivas e Durán Estéfana, ha una sorella, Lisay. La mamma, donna di profonda fede, lo ha formato a una religiosità semplice e concreta alla scuola di una vita dedicata al lavoro della terra.
Dopo aver conosciuto i Missionari della Consolata, ha iniziato il suo percorso formativo a Caracas; ha poi studiato filosofia all’istituto Juan German Roscio a Los Teques, e continuato la teologia in Inghilterra. Ordinato sacerdote il 19 agosto 1995, il giovane andino ha preso le sue valigie e iniziato il viaggio che lo ha condotto nelle missioni del Kenya, dove ha lavorato per cinque anni nel Meru, prima a Kagaene, poi nell’antica missione di Mekinduri e, da ultimo, quando queste sono state consegnate alla diocesi, nella nuova missione di Kagaene.
Nel 2001 l’Istituto gli ha chiesto di ritornare in patria per fare il formatore nel seminario, dove ha svolto un intenso lavoro di accompagnamento dei futuri sacerdoti, oltre a dedicarsi a diversi impegni nell’ambito di «Giustizia e pace», specialmente al servizio dei carcerati. Incaricato della formazione dei «Laici della Consolata», è stato di grande aiuto per la crescita di questo gruppo. In seguito, l’Istituto lo ha inviato come rettore del Seminario Imc di Bogotà, in Colombia, e poi a Roma, al servizio del Collegio pontificio San Paolo di Propaganda Fide, chiamato anche seminario missionario.
Qui ha ricevuto la notizia della sua designazione per il nuovo servizio pastorale in Venezuela. Padre Lisandro ricorda: «A Roma sono stato in comunità con 192 sacerdoti diocesani che provenivano da 45 paesi del mondo. Ciò mi ha permesso di sentirmi come un fratello universale».
La diocesi che lo riceve
Caracas è la diocesi della capitale venezuelana, città con oltre tre milioni di abitanti. Essendo la sede del governo, è stata la prima che ha risentito l’effetto di tutti i confronti e scontri che hanno segnato il paese durante più di vent’anni di «rivoluzione bolivariana». L’arcidiocesi ha più di 5 milioni di abitanti e, come ha ricordato il cardinale Baltazar Porras, richiede un governo pastorale di grande complessità.
In questa diocesi i Missionari della Consolata sono presenti da più di 50 anni (vedi dossier in MC novembre 2021). In Caracas hanno la Casa regionale, il seminario propedeutico e filosofico e, da più di vent’anni, la parrocchia San Joaquin e Santa Ana a Carapita, un quartiere periferico tra i più poveri della città. Lì il nuovo vescovo ha poi celebrato la sua prima messa il 13 marzo.
Vescovo e missionario
Il cardinal Baltazar Porras, in riferimento al fatto che padre Lisandro appartiene a un istituto missionario, ha insistito: «Adesso dovrai vivere lo spirito missionario in cui sei cresciuto e che hai vissuto oltremare in questa terra caraqueña».
In effetti, la nomina di monsignor Lisandro Rivas come vescovo ausiliare di Caracas, avvenuta precisamente nel mese in cui i Missionari della Consolata completavano la celebrazione del 50° di presenza nel paese, è stata interpretata come un segno provvidenziale. In un paese che è stato straziato da conflitti politici e da una complessa crisi umanitaria ancora in corso, la direzione verso cui orientare il servizio pastorale non può essere altra che: «Consolate, consolate il mio popolo. Ditegli che il suo peccato è stato già perdonato».
Il nuovo vescovo è ben cosciente che la gente è molto provata e scoraggiata dalla situazione che sta vivendo. Per questo vuole una evangelizzazione che crei vicinanza ed empatia. Nel suo servizio di consolazione vuole stare con la gente, ascoltarla e accompagnarla, non solo dentro la chiesa ma là dove vive, per ricostruire insieme il paese. In questo impegno sa bene di non essere solo, ma di avere il supporto di tutta la famiglia della Consolata: padri, suore, laici e amici.
traduzione e adattamento di Gigi Anataloni
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Nel cuore e alle frontiere d’Europa
Il vecchio continente è il «qui e ora» della missione. Per i Missionari della Consolata è il luogo delle radici, della sorgente del loro carisma. Sempre più è vera frontiera di testimonianza, annuncio e consolazione.
Non come lupi solitari, ma come tessitori di reti.
«Le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità» (Laudato si’, n. 17).
Questa breve citazione di papa Francesco, tratta dall’enciclica Laudato si’, sarebbe potuta essere il cappello sotto cui collocare tutta la riflessione della prima Conferenza della neonata Regione Europa dei Missionari della Consolata.
Questo incontro, iniziato in streaming lo scorso mese di maggio e conclusosi in presenza a Fátima (Portogallo) dal 20 al 24 settembre 2021, ha di fatto sancito l’unione in un’unica circoscrizione (iniziata giuridicamente due anni fa) delle nostre comunità di Missionari della Consolata in Italia, Polonia, Portogallo e Spagna.
Ne è nato un documento interessante, il Progetto missionario regionale, una sorta di vademecum che, definendo in modo chiaro alcuni obiettivi, cerca di individuare criteri e linee di azione per giungere a una nuova comprensione, e quindi a un nuovo orientamento di ruolo e azione, del missionario della Consolata oggi in Europa.
Il contesto
Come emerge chiaramente dalla citazione di papa Francesco, il confronto con l’hic et nunc, il «qui e ora» della missione, deve essere l’imprescindibile punto di partenza come anche l’auspicato traguardo dell’impegno missionario nel continente.
La Conferenza ha ribadito l’importanza di dedicare tempo e attenzione all’analisi del contesto, in modo che essa possa diventare atteggiamento e metodo, ispirazione e prassi.
È inutile ricordare come la missione in Europa sia stata caratterizzata fino a non molti anni fa da una dimensione totalmente opposta: era una missione ibi et post, «lì e dopo», che si svolgeva altrove, e per la quale in Europa ci si preparava, tanto da un punto di vista accademico professionale, quanto economico e strutturale.
La Conferenza regionale ha scelto di focalizzare il proprio lavoro sull’analisi della realtà, nella consapevolezza che è il contesto che sceglie noi, ci interpella come cristiani e missionari, ci obbliga a prendere decisioni, orientare la preghiera, ispirare l’azione.
Mentre scrivo, svariati paesi dell’Europa sono nuovamente sfidati da una crescita esponenziale del Covid, le cui conseguenze economiche e sociali generano un malcontento popolare difficile da controllare e per giunta cavalcato in modo opportunista e strumentale da frange estremiste e xenofobe.
Al confine orientale dell’Unione europea va in scena una tragedia umana di dimensioni epocali con migliaia di migranti esposti ai rigori dell’inverno, che rischiano di morire di freddo, stenti o botte al confine tra Polonia e Bielorussia.
Reticolati e muri diventano la cifra delle nostre relazioni, mentre la Cop26 ha lasciato senza risposta gli interrogativi circa la volontà dei governi di assumere impegni concreti e soprattutto urgenti e credibili nei confronti della salvaguardia del pianeta (cfr il Dossier di questo numero).
In soli dieci giorni tutti questi fatti sono stati oggetto di cronaca, hanno rappresentato il «qui e ora», uno scenario in cui anche il missionario può dire la sua. Anzi, è chiamato a farlo.
Dal Marocco alla Bielorussia
Ecco allora che, qualcuno dice profeticamente, la prima Conferenza della Regione Europa Imc ha dato il visto buono all’apertura della comunità di Oujda, in Marocco, vicino al confine con l’Algeria. Il Marocco non è in Europa, ma Oujda è, oggi, un punto di approdo per chi ha appena terminato di attraversare il deserto e arriva in condizioni di grande bisogno a un punto cruciale del suo viaggio della speranza verso l’Europa. Sono stati i nostri confratelli in Spagna, da anni parte di una rete/osservatorio sui movimenti migratori nel Mediterraneo, a spingere affinché l’Istituto scegliesse un impegno concreto in questa realtà.
La stessa Conferenza ha dato il via libera alla volontà dei missionari della Consolata in Polonia, di aprire una seconda comunità, in una città a trenta chilometri dalla frontiera con la Bielorussia.
Nel 2008, il nostro Istituto aveva scelto di dare vita a una presenza in Polonia per essere germe di universalità e interculturalità in una Chiesa tradizionalmente molto forte, ma che sentiva il bisogno di essere maggiormente stimolata nella propria dimensione missionaria.
Sarebbe dovuto anche essere un primo passo verso un’ulteriore apertura nell’Est Europa. Oggi, è significativo essere presenti come segno di fraternità universale in quella frontiera simbolo della chiusura delle nostre frontiere e dei nostri cuori.
Senza il bisogno di tante parole, le nostre comunità interculturali, formate da confratelli provenienti da tre diversi continenti, annunciano che la logica del Vangelo è quella del ponte, non certo quella del muro o del cavallo di frisia.
Ovviamente, è importante formarsi in maniera adeguata a questa missione. Il Progetto missionario regionale europeo ha ben chiaro che soltanto chi saprà usare in modo armonico Bibbia e giornale, spiritualità e attenzione alla realtà, riuscirà a penetrare le pieghe di una cultura in continua evoluzione e rispondere a sfide importanti come quelle che la Chiesa sta vivendo oggi in Europa: la perdita di significato e di credibilità, la marginalizzazione, l’essere divenuti minoranza.
Educarsi alla missione in Europa, oggi richiede il coraggio di cambiare paradigma formativo, associando alla ricerca di una spiritualità forte, costruita sull’incontro costante e profondo con la Parola, l’inserimento in comunità che siano allo stesso tempo apostoliche e formative, in cui la ricerca di una buona preparazione accademica si sposi con un’approfondita conoscenza della realtà e delle persone che la compongono.
Carisma
Va da sé che la bontà o meno del Progetto regionale, la sua assunzione da parte delle comunità di missionari della Consolata e la messa in pratica nelle varie attività regionali, dipenderanno in gran parte dalla capacità che le comunità avranno di rileggere e interpretare il carisma del nostro istituto alla luce dell’oggi.
Le nostre comunità Imc in Europa, in particolare quelle in Italia, sono depositarie di un patrimonio spirituale e carismatico importante. Esse vivono e operano nei luoghi dove tutto ebbe inizio, ma guai se questi si trasformassero in una sorta di museo spirituale, dove trovare una collezione di cimeli con i quali crogiolarsi nel ricordo dei «bei tempi andati».
Oggi il nostro Istituto, come del resto altre congregazioni fondate più o meno nello stesso periodo (a cavallo fra 19° e 20° secolo), sta vivendo un’esperienza particolare: da una parte l’estinzione di una generazione di missionari che ha conosciuto o è stata molto vicina alle fonti dirette del carisma, le ha studiate e tramandate, alcune volte pubblicando testi che sono ancora imprescindibili per chi vuole conoscere la storia e lo spirito delle nostre missioni; dall’altra l’emergere di una nuova generazione di missionari che corre il rischio di perdere il legame vitale con la storia dell’Istituto e quindi di non essere capace di trasmettere con efficacia l’eredità spirituale di chi ci ha preceduto.
La Regione Europa Imc ha il dovere di continuare a essere «culla» del carisma, ma deve altresì essere anche «girello», strumento attraverso cui il pensiero di Giuseppe Allamano e le intuizioni significative dei missionari cresciuti sotto le sue ali, vengono portati per le vie della nostra missione di oggi nel continente. Pensieri e intuizioni depurati di tutto quanto non è più attuale e creativamente nutriti delle nuove e dinamiche manifestazioni dello Spirito.
Le parole della missione
Come comprendere e declinare, allora, alcune parole che fanno parte del nostro bagaglio missionario alla luce di dove e di quanto stiamo vivendo?
La parola annuncio, per esempio, attraverso la quale il missionario riscopre oggi, anche in Europa, il suo ruolo di araldo del Vangelo, di messaggero del primo annuncio, di testimone di Cristo, presentato a chi non lo ha incontrato prima o a chi, forse, ne ha soltanto sentito parlare in tempi ormai lontani.
Oggi, il missionario, per essere tale, per poter continuare a fregiarsi di un titolo che gli viene attribuito in virtù di una vocazione specifica, non può abdicare alla missione di cercare «i lontani», anche quelli che si trovano dietro l’angolo, di entrare in dialogo con quelle frange di umanità che non hanno mai frequentato, o non frequentano più, i nostri abituali recinti.
Come comprendere oggi la parola consolazione? L’assemblea dei missionari riuniti in Conferenza ha cercato di leggere la portata attuale di questo termine che è parte del nostro nome, parola con la quale ci presentiamo. Le nostre comunità non cessino di essere presenza viva, autentica e prossima a chi sta sempre ai margini, affamato di compassione e condivisione.
Che senso possiamo dare oggi alla parola parrocchia, perché indichi una realtà che sia un segno distintivo del nostro modo di vivere la missione ad gentes, soprattutto nelle periferie delle città europee?
Come ricomprendere il termine economia, riferita alla vita materiale delle nostre comunità Imc, in modo che diventi non soltanto uno strumento funzionale all’organizzazione della vita e delle opere dei missionari, ma sia una vera e propria dichiarazione di intenti nella testimonianza di giustizia, impegno per la pace e salvaguardia della casa comune nella quale viviamo?
Riempire le parole di un significato nuovo e attuale, non lasciare che risuonino vuote, fare in modo che parlino veramente alla testa e al cuore delle persone che incontriamo, è una delle prime condizioni per dare corpo alla nostra missione in Europa.
Camminare insieme
Sappiamo che la strada da percorrere non è facile.
I missionari della Consolata riuniti a Fátima non hanno peccato di ingenuità, e sono stati ben contenti di ritrovarsi insieme in un luogo benedetto dalla presenza della Vergine Maria, loro protettrice, per affidare ancora una volta a lei le scelte impegnative che li attendono dietro l’angolo.
Alcune circostanze del contesto europeo non vanno prese sottogamba, e obbligano chi dirige oggi il cammino della Regione a fare i salti mortali per riuscire ad armonizzare l’utopia con il disincanto, la provvidenza con il realismo.
In alcuni casi saremo certo obbligati a puntare al ribasso: la nostra missione è oggi più povera di risorse, tanto umane quanto economiche, rispetto al passato; ciò avviene per tante e diverse ragioni che vanno dalla perdita, nella società, del senso religioso e dell’affezione verso il mondo missionario, al crollo di fiducia (soprattutto delle generazioni più giovani) verso la Chiesa vista come istituzione.
Stiamo diventando (fisicamente e metaforicamente) più anziani e, con l’età, non mancano gli acciacchi. Questo ci obbliga a «dimagrire», a spendere energie in un processo di spoliazione tanto doloroso quanto inevitabile. Questo fenomeno, non serve nascondersi dietro un dito, condizionerà le scelte attuali e future e andrà tenuto sempre presente per poter progettare una missione che sia anche fattibile.
Tuttavia, non siamo esentati dal sollevare la testa guardandoci intorno. Dobbiamo continuare a dire: «Possiamo», se lo vogliamo, e, soprattutto, se crediamo fermamente che lo vuole il Signore. Lui non farà mancare il suo aiuto nei momenti di aridità, di «impantanamento», di difficoltà anche drammatica, come tante volte ha dimostrato nel passato. A noi sta il compito di provarci sempre e comunque.
Nel corso dei prossimi mesi, MC vi porterà a spasso per alcune delle nostre comunità in Europa, perché vogliamo condividere con voi alcuni tentativi già in atto di vivere l’ad gentes alla luce dei tempi e dei luoghi in cui siamo inviati ad annunciare il Vangelo.
Saranno questi percorsi, accompagnati dalla viva voce dei missionari che li hanno intrapresi, a spiegare con chiarezza, sicuramente meglio delle parole di questo articolo, che cosa intendiamo per missione in Europa oggi.
Nel fare questo, inoltre, non nascondiamo il nostro desiderio di coinvolgere in questa avventura anche voi che, in questo momento, state leggendo MC.
L’invito a seguirci che vi rivolgiamo, vuole, infatti, sancire un altro dei criteri che il Progetto regionale reputa fondamentali per vivere la nostra missione nella gioia ed efficacemente: fare rete, non pensare di voler costruire il Regno di Dio da soli, camminare con altri.
La Chiesa oggi chiama questo stile «sinodalità», e dà a esso così tanta importanza da aver deciso di istituire un Sinodo su questo tema, e di voler dedicare il tempo che intercorrerà tra adesso e la sua celebrazione (ottobre 2023) a un cammino di ripensamento della Chiesa sulla base del coinvolgimento comunitario. La missione oggi in Europa non può essere fatta da «lupi solitari»; non è più il tempo per camminare da soli.
A questo riguardo, nel ribadire che il vero agente della missione è la Chiesa locale, la Conferenza dice che, pur preservando le nostre specificità e il nostro carisma, è soltanto all’interno di essa e in comunione con essa che la nostra missione sarà gioiosamente efficace, gratificante e, chissà, magari anche profetica.
Il nostro stile di presenza in un mondo caratterizzato sempre più dalla multiculturalità ci apre a bellissime esperienze di collaborazione in tutto il Continente, tanto nel catecumenato, quanto, più in generale, nella catechesi degli adulti, nella formazione dei catechisti e nella pastorale migranti.
In contesti, anche ecclesiali, tentati dalla chiusura e dall’autoreferenzialità, il nostro apporto negli uffici missionari delle varie diocesi può essere (e di fatto lo è) valorizzato come una boccata d’aria fresca. Sempre e soltanto nel momento in cui, però, la chiesa locale diventi veramente famiglia, compagna di viaggio.
Infine, sempre nello spirito della sinodalità, la nostra missione in Europa deve continuare a guardare fuori dal proprio orto. Grazie alla generosità e al sacrificio di tanti, le nostre comunità hanno potuto costantemente dare una mano a quelle degli altri continenti. Secondo il principio che si può aiutare le nuove chiese sia partendo che donando, molti nostri benefattori ci hanno permesso di non essere estranei a tante situazioni di dolore e necessità nel mondo.
Chiediamo però che questa disposizione, sempre attiva nel sostenere progetti di sviluppo, programmi di formazione e sostegno a distanza, crei rapporti di interscambio con altre realtà del mondo che, grazie al dono della loro cultura e delle loro tradizioni, possano aiutarci a far comprendere e accogliere alle nostre chiese il dono dell’altro.
Cinque missionari della Consolata raccontano la loro lotta contro il Covid-19. Da un punto di osservazione (e partecipazione) particolare: quello del vescovo. Cinque Chiese locali in cinque paesi tra Africa, Asia e America Latina. Cinque esperienze accomunate dallo spirito missionario, quello che va in cerca dei lontani e degli ultimi, anche in tempi di confinamento.
I vescovi missionari della Consolata oggi sono dodici. Tutti al servizio di Chiese presenti in territori poveri e a volte dilaniati dai conflitti, comunità colpite duramente anche dalla pandemia di Covid-19.
Nati in otto paesi diversi tra Europa, Africa e America Latina, hanno dai 47 ai 79 anni e operano in Brasile, Colombia, Eswatini, Kenya, Mongolia e Mozambico.
Dall’Africa alla Mongolia all’America Latina, il Covid-19 non ha risparmiato nessun paese e nessuna classe sociale, ma i primi a rimanere senza ossigeno sono stati, come sempre, i più poveri, gli esclusi, compresi quelli che nemmeno hanno potuto capire di cosa stessero morendo e sono rimasti fuori dalle statistiche per mancanza di tamponi, perché nel loro paese c’è un solo medico ogni 10mila persone.
Cinque di questi vescovi raccontano ai lettori di MC come stanno affrontando l’emergenza sanitaria nelle Chiese che servono. Monsignor Giorgio in Mongolia, mons. Joaquín in Colombia, mons. Diamantino in Mozambico, mons. José Luis in Eswatini e mons. Giovanni in Brasile.
Ciò che accomuna i loro episcopati è lo stile missionario, declinato in modo originale in ciascuna delle Chiese particolari nelle quali hanno operato e operano. L’annuncio a tutti, soprattutto a chi non ha ancora conosciuto Cristo, la scelta degli ultimi, la consolazione, la promozione della pace, il dialogo interreligioso, l’amore per Maria Consolata sono tra i pilastri della loro azione pastorale, anche in mezzo alla pandemia.
Sono volti di una chiesa che partecipa alla sofferenza e alla speranza del suo popolo.
Luca Lorusso
Confinati nelle steppe
Mongolia: Monsignor Giorgio Marengo
È diventato vescovo della giovanissima chiesa mongola nel mezzo della pandemia. Con tutti i luoghi di culto chiusi, dopo più di un anno, monsignor Marengo non ha ancora potuto celebrare l’eucaristia con il suo popolo. Ma la vicinanza ai mongoli, sia cristiani che non, è sempre viva.
La nomina a vescovo di Ulaan Baatar è arrivata a padre Giorgio Marengo il 2 aprile 2020, mentre era parroco della missione di Arvahieer, un piccolo centro rurale della Mongolia.
In quei giorni, le immagini della fila di camion militari che trasportavano le bare delle vittime bergamasche del Covid-19, facevano il giro del mondo. Il 27 marzo in Italia si era registrato il numero più alto di morti nella prima ondata, 919 in 24 ore, superato solo dai 993 del 3 dicembre successivo. La Mongolia sperimentava le chiusure anti-Covid già da febbraio, benché mancassero molti mesi al 29 dicembre, quando si sarebbe registrato il primo morto per Covid anche lì.
A causa delle chiusure, monsignor Giorgio non ha potuto essere ordinato vescovo in Mongolia e ha dovuto aspettare quattro mesi dopo la nomina. L’ordinazione è avvenuta l’8 agosto 2020 nella sua Torino, al santuario della Consolata.
È successore di mons. Wenceslao Selga Padilla, vescovo filippino della congregazione del Cuore immacolato di Maria, morto nel 2018, che, assieme ad alcuni confratelli, aveva rifondato la chiesa in Mongolia dal 1992, dopo 70 anni di comunismo. La Prefettura apostolica comprende l’intero territorio della Mongolia, 1,566 milioni di Km2 (quasi cinque volte l’Italia) nei quali vivono tre milioni di abitanti, e 1.300 cattolici. I sacerdoti sono 24, tutti, tranne uno che è locale, sono missionari stranieri. C’è un diacono che aspetta da due anni, a causa del Covid, di diventare prete, e 35 suore, anch’esse straniere.
A oggi, mons. Marengo non ha potuto ancora celebrare l’eucaristia con il suo popolo.
Monsignor Marengo, lei è diventato vescovo l’8 agosto 2020 nel bel mezzo della pandemia.
«La mia vita è cambiata in un anno strano. Molte delle cose legate al diventare vescovo, io le ho vissute fuori dagli schemi. Ad esempio: quando vieni nominato vescovo, entro 90 giorni devi essere consacrato. Ecco, per me non è stato possibile, perché in Mongolia non poteva venire nessuno, il paese era chiuso. Un altro esempio è la nomina: di solito vi è coinvolta molta gente, compreso il nunzio… per me, invece, eravamo quattro gatti, e tutto è stato fatto in sordina.
L’ho presa come un’indicazione di metodo, che poi è quello allamaniano di non fare rumore.
Oggi la Mongolia è ancora isolata e i luoghi di culto sono tutti chiusi da un anno e mezzo.
All’inizio, ho vissuto la pandemia in campagna, ad Arvahieer, come parroco. Quando è arrivato il momento di dare pubblicamente la notizia della mia nomina, sono andato in corriera a Ulaan Baatar. In quei giorni l’Italia era il paese più colpito dal coronavirus. Quando sono arrivato in capitale, è entrata la polizia nella corriera e, dato che io ero l’unico straniero, mi hanno chiesto di dove fossi. Quando ho risposto che ero italiano si sono spaventati tutti. Allora l’autista, che mi conosce, ha subito detto: “No no, lui vive qua, non era in Italia in queste settimane”».
La chiusura ha riguardato solo le riunioni religiose, o tutti?
«A ondate è stata ridotta, fino a essere cancellata, anche la vita sociale in generale: le attività, i cinema, i teatri, ecc.
A intermittenza, le altre attività sono riprese, quella religiosa no. Non solo i luoghi di culto cristiani, ma tutti, anche i monasteri buddisti. Per noi cristiani è fondamentale recarci di persona in chiesa, per la celebrazione dei sacramenti, soprattutto l’eucaristia. È dunque un grande sacrificio quello che ci viene chiesto».
Ci fa una cronaca del Covid nel paese?
«Quando in Italia c’era il Festival di Sanremo, nel 2020, in Mongolia eravamo già chiusi.
Appena sono arrivate le prime notizie da Wuhan, il governo ha chiuso il confine con la Cina e ha bloccato tutte le comunicazioni interne.
In Mongolia sono molto bravi perché sono abituati a epidemie periodiche, per esempio alla peste bubbonica trasmessa dalle marmotte e dai roditori. Ogni anno d’estate ci sono dei luoghi in cui scoppia un focolaio, e allora chiudono tutto.
Per il Covid sono stati tempestivi, e sono riusciti a stare tranquilli per diversi mesi.
A marzo 2020 c’è stato il primo caso di un positivo: era un francese, lavoratore di una multinazionale. All’inizio è stato molto male, ma poi è guarito, e questa guarigione è stata vissuta dal paese come una vittoria. Si è diffusa un po’ l’illusione che la Mongolia fosse esente dalla pandemia. In effetti, i casi sono stati molto pochi per diversi mesi, fino all’autunno del 2020.
L’11 novembre è iniziato il primo lockdown serio, fino a Natale. Non si poteva uscire di casa. In quei mesi i mongoli hanno capito che non erano indenni neanche loro.
Con l’anno nuovo è iniziata la campagna vaccinale di massa. Questa primavera è stato un susseguirsi di lockdown e parziali riaperture.
Oggi (ad agosto, ndr) i casi sono molti e ci sono ancora decessi quotidiani, con picchi di 10 persone al giorno*».
Quali nuovi problemi e nuove opportunità ha portato la pandemia al paese?
«Nei momenti di chiusura sono emerse con più forza le grandi tensioni già presenti nella popolazione. Quelle che sfociano in piaghe sociali come l’alcolismo, che infatti ha avuto un boom.
La famiglia si sta sgretolando in Mongolia. Molte famiglie si sono trovate all’improvviso a stare “recluse” insieme nei pochi metri quadri della loro gher o appartamento, e sono venute fuori molte situazioni difficili, soprattutto laddove l’unità familiare era già minacciata dall’assenza di uno dei genitori, solitamente il padre. In generale, è balzata all’occhio di tutti la carenza del sistema sanitario. In un paese che sta crescendo, la sanità pubblica dovrebbe essere una priorità.
Il popolo mongolo, però, si compatta molto bene in caso di emergenza. Il sentimento di unità nazionale è molto forte, e si è visto chiaramente con la pandemia. Ad esempio, nessuno si lamenta della mascherina.
Sono anche emersi casi di eroismo civile: quando scarseggiavano ambulanze e autisti e lo stato ha chiesto aiuto alla popolazione, molta gente, anche con la propria macchina, si è offerta.
Come Chiesa abbiamo innanzitutto cercato di soccorrere le persone più in difficoltà, organizzando distribuzioni di generi di prima necessità. In questo, molti amici italiani sono stati di grande aiuto, rispondendo con generosità ai nostri appelli. Poi, trovandoci chiusi in casa, abbiamo potuto riflettere maggiormente sulle nostre attività, provando a intraprendere un discernimento. Da questo lavoro è nato, ad esempio, un progetto di catechesi in piccoli gruppi che possa andare avanti anche in caso di lockdown, perché le riunioni fino a cinque persone sono concesse. Una catechesi slegata dagli schemi del classico catechismo parrocchiale, quello fatto dall’autunno alla primavera, con la pausa estiva. Ci siamo inventati qualcosa di più adattabile.
E poi c’è tutto il discorso dei media: ancora adesso facciamo la trasmissione online della messa sul canale FB della prefettura apostolica della Mongolia. Anche le parrocchie la fanno. E i catechisti hanno iniziato a far circolare materiale sui social per sostenere i fedeli».
Qual è la peculiarità dell’essere un vescovo missionario della Consolata? Qual è il «valore aggiunto» che lei e i suoi confratelli vescovi offrite alle diocesi che guidate? E cosa offre il vostro essere vescovi all’Istituto?
«Alle chiese particolari i vescovi della Consolata offrono il loro essere missionari, quella spinta che va in ricerca non solo di chi è già cristiano, ma anche di chi è ancora fuori dal gregge cattolico. Penso anche alla nostra impostazione sacerdotale basata sulla spiritualità del beato Allamano, e quindi sui pilastri dell’eucaristia, della vita mariana e del fare bene il bene senza rumore. Sottolineerei soprattutto la dimensione della ricerca dell’annuncio. Cosa che magari in altri contesti, se il vescovo non viene da un’esperienza missionaria, può essere meno presente. Quindi un’attenzione particolare agli ultimi, e a quelli che, semplicemente, non sono cristiani, un atteggiamento di dialogo, una volontà di creare ponti nella società.
Per l’Imc avere dei vescovi tra i suoi missionari penso possa voler dire avere sott’occhio la situazione delle Chiese particolari da una prospettiva un po’ più ampia. Sono un po’ come delle voci che portano dentro l’Istituto tutta la Chiesa».
Il motto del suo episcopato è un versetto del salmo 34: «Guardate a Lui e sarete raggianti». In che modo ha vissuto questa esortazione nel suo primo anno da vescovo?
«Intanto mi sono piacevolmente stupito di come questo salmo ritorni molto spesso nella liturgia feriale. Ogni tanto nella messa quotidiana salta fuori questo “guardate a Lui e sarete raggianti”. Puntare lo sguardo del cuore verso il Signore penso sia la priorità del vescovo missionario.
Cerco, con tutta la mia povertà, di attaccarmi a questa Parola per viverla. La sproporzione fra le esigenze e le sfide della chiesa, e la mia povertà personale, mi mette con le spalle al muro, e mi rende più consapevole che la luce viene da Cristo. Se veramente guardiamo tutti a Lui, questa luce poi si espande nelle nostre realtà.
Poi c’è questa particolarità: “Guardate a lui e sarete raggianti” può essere tradotto anche con “guardate a lui e sarete luminosi”, oppure “illuminati”. Ecco, per noi l’illuminazione viene come pura grazia, non è il raggiungimento di un’intuizione nostra, è la luce di Cristo che ci raggiunge. L’illuminazione è anche il concetto centrale del buddismo. Quindi per me il versetto del salmo 34 ha anche il gusto del dialogo interreligioso.
Ho una grande stima dell’illuminazione come cammino di perfezionamento proposto dal buddismo, e nello stesso tempo sono felice di essere cristiano perché so che la luce viene e, semplicemente, noi la dobbiamo accogliere, e che arriva per chiunque, non è una cosa riservata a pochi intimi, ma è la proposta cristiana per tutti».
Luca Lorusso
* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mongolia sono stati 236mila, 780 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 968, uno ogni 3.127 abitanti (in Italia uno ogni 470).
Scuola, sanità e narcos
Colombia: Monsignor Joaquín Humberto Pinzón Güiza
Monsignor Pinzón è il primo vescovo del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano. In un territorio «remoto», dove i confini sono percepiti come idee astratte, il Covid ha portato la durezza del confinamento, e la coscienza di essere uno spazio marginale per lo stato centrale. La pandemia ha evidenziato la carenza di sanità e scuola, ma anche il potere del narcotraffico e dei gruppi di guerriglieri. Nonostante questo, la resilienza e la speranza del popolo rimangono intatte.
Il nostro Vicariato di Puerto Leguizamo-Solano, costituito nel 2013, si trova nel Sud dell’Amazzonia colombiana. Comprende un territorio di 56mila km2 in cui convergono le comunità di tre dipartimenti colombiani: Sud di Putumayo, Sud di Caquetá e Nord dell’Amazzonia. La sua popolazione è di circa 59mila abitanti, di cui 49mila cattolici. Ci sono tredici sacerdoti, di cui 12 religiosi e uno diocesano, e 12 suore per 5 parrocchie. Uno dei suoi tratti peculiari è il suo carattere di confine (tra Colombia, Perù ed Ecuador), che consente lo sviluppo di dinamiche di scambio a tutti i livelli.
Frontiere immaginarie, frontiere reali
Quando papa Francesco dice che «tutto è connesso», ci aiuta a prendere coscienza che le dinamiche vitali che si generano sul pianeta riguardano tutti noi che lo abitiamo.
Essa è una verità ancora più evidente in questo tempo di pandemia da Covid-19. Chi avrebbe immaginato che il coronavirus, avendo avuto origine in terre lontane, avrebbe colpito anche questo angolo di mondo? Questo «luogo remoto», come è considerato da molti.
Possiamo dire che la pandemia non solo ha raggiunto il nostro territorio, ma ci ha anche colpito in modi sorprendenti e inaspettati*.
In questo spazio di vita colombiano dove i confini politici degli stati spesso sono più realtà immaginarie che effettive, dove le frontiere non entrano nella mentalità delle persone e dei popoli, ci è stato imposto un confinamento duro.
Improvvisamente le nostre interazioni e i nostri movimenti sono stati limitati.
Abbiamo capito che nonostante l’Amazzonia sia ampia, possono verificarsi condizioni che impongono limiti al movimento e alle relazioni.
Ora i confini nazionali e internazionali stavano entrando in vigore e in vita. Sì, la sfocatura e la relatività dei confini erano fortemente diluite davanti al nostro sguardo attonito e impotente.
Ora il fiume che ci ha sempre unito, non solo ci separava, ma sollevava nazionalismi che non aiutano nella ricerca di soluzioni ai problemi comuni che affrontiamo come persone, popoli e paesi.
Ora reciprocità e armonia lasciavano il posto all’isolamento e alle tensioni personali e comunitarie, locali, nazionali e internazionali.
Territorio trascurato: salute, scuola, fame
Il Covid-19 non solo ha messo in evidenza le differenze tra i paesi, ma ha anche e soprattutto rivelato le differenze all’interno del nostro paese. Abbiamo capito che quando veniamo chiamati «abitanti lontani» c’è qualcosa di vero, poiché in questo tempo di pandemia si è manifestato in modo chiaro lo storico abbandono dei luoghi periferici della Colombia da parte dello stato.
È così che il nostro territorio si rivela, pur con tutto il suo splendore, come territorio marginale, territorio di remota, vera frontiera. I servizi sanitari sono carenti: non esistono né le infrastrutture né il personale sufficiente, tanto meno le attrezzature e le forniture necessarie. Se la pandemia ha aiutato in qualcosa, l’ha fatto nell’evidenziare la precarietà del sistema sanitario.
Anche i servizi educativi sono stati travolti. Si è pensato di poter offrire un’educazione virtuale ai nostri bambini e ragazzi, ma qui, al di là dei cartelloni pubblicitari che affermano: «Leguizamo vive digitale», non c’è un servizio internet all’altezza. Non esistono apparecchiature informatiche che possano consentire ai ragazzi di connettersi. Se queste carenze sono state vissute nei centri urbani, che dire dei villaggi e delle comunità più remote?
È stato un fenomeno che ha esacerbato i problemi già esistenti di un sistema educativo di bassissima qualità, con molti limiti materiali e umani; un sistema che sopravvive grazie agli enormi sforzi degli insegnanti.
Purtroppo, tra i ragazzi c’è una grande diserzione della scuola: molti, demotivati dal fatto di non avere i mezzi per studiare, hanno iniziato a lavorare in fattorie, miniere o coltivazioni illecite.
Il confinamento ha portato anche la fame a coloro che vivono alla giornata (soprattutto nei centri abitati). A riguardo di questo, apprezziamo molto la generosità che è nata per soccorrere tante famiglie in difficoltà. Il valore della solidarietà è stato visibile.
Il traffico di droga non si ferma
Una realtà che non ha subito il confinamento è stata quella del traffico di droga. Anche durante la pandemia hanno continuato a esistere la coltivazione, la lavorazione e la commercializzazione delle droghe. È un fenomeno che rafforza un altro problema drammatico: la violenza.
Senza dubbio, quest’altra pandemia, quella della violenza, ha generato più morti del Covid-19, soprattutto tra i giovani.
Le coltivazioni illecite hanno la capacità di incoraggiare le nuove generazioni a entrare nel mondo del guadagno facile, di difondere quella che viene definita «narco mentalità», quella di chi vuole arricchirsi in fretta e con poco sforzo.
Tutto questo sta generando disgregazione familiare e sociale, sia nelle comunità contadine che in quelle indigene.
La guerriglia
Un’altra realtà, legata a quella della droga, che non ha vissuto il confinamento, è quella bellica. Essa ha continuato a seguire il suo corso «normale», uccidendo e provocando danni.
Gli effetti del processo di pace che si sta portando avanti con i guerriglieri delle Farc, li abbiamo sentiti nella fase di attuazione, quando il gruppo di insorti ha deciso di consegnare le armi. Abbiamo vissuto un periodo di armonia nel territorio e abbiamo potuto sperimentare una certa tranquillità. Ma è stato qualcosa di effimero, come ci ha detto un contadino: «Tanta felicità non può essere così duratura».
Ebbene, purtroppo, il processo di pace non ha previsto come fare per mantenere il controllo e garantire l’ordine nei territori precedentemente in mano alle Farc. Le istituzioni non sono state in grado di arrivare in quei territori. E i territori strategici per la loro collocazione geografica, come il nostro, sono diventati oggetto di contesa da parte di diversi attori, come i dissidenti delle Farc e i gruppi legati al narcotraffico (senza specifica identificazione), tutti motivati dal profitto che le economie illegali portano, e tutti generatori di paura, ansia, caos e morte.
La nostra gente vive consapevole che non c’è alternativa al resistere, e al resistere con saggezza e prudenza, come sa fare da decenni. È la stessa strategia che mette in atto per affrontare il Covid.
Fare del Covid un’opportunità per la vita
Le devastazioni della pandemia da Covid-19 e le altre pandemie che abbiamo descritto, fanno percepire alle persone la fragilità della vita, nonostante sia un dono così prezioso. La malattia, così come la violenza, non hanno remore a colpirci con forza. Ciò che risalta di più in questa lotta è la resilienza delle persone che guardano al futuro con speranza.
Scendendo dal fiume Caquetá sul deslizador, mezzo di trasporto fluviale di questi territori, ho assistito a una conversazione tra alcune persone. Mi ha colpito la frase di una donna: «A che ci è servito tutto questo, se non impariamo niente? Continuiamo come prima».
La verità è che, per molti, tutto quello che hanno vissuto in questo tempo di pandemia, è stato solo una parentesi da chiudere al più presto per tornare alla «vita normale». Ma c’è anche chi crede che questa esperienza ci abbia aiutato in qualcosa, soprattutto a pensare e ripensare il nostro stile di vita politico, economico e sociale.
La pandemia ha messo in luce lo splendore e la fragilità della vita, e la precarietà dei nostri servizi educativi e sanitari. Ecco perché l’imperativo che ne traiamo è quello di valorizzare la vita al di là di ogni altra realtà e di lottare per essa, individualmente e collettivamente.
L’incertezza è ciò che caratterizza il futuro del nostro territorio. Il destino della guerra e del traffico di droga è incerto; incerta la situazione di abbandono da parte dello stato, e la condizione dei servizi educativi e sanitari. Sì, tutto è incerto, e qualsiasi previsione sarà sempre inscritta nell’orizzonte delle probabilità, delle utopie che a volte si trasformano in chimere. Tuttavia noi, come Chiesa, crediamo che la situazione che stiamo vivendo sia uno spazio propizio per sviluppare una spiritualità che ci permetta di affrontare le difficoltà, per rafforzare le spiritualità dei popoli e, al loro interno, proporre la spiritualità della cura, della riconciliazione, della comunione e dell’accompagnamento.
Qui è urgente sognare, progettare e realizzare propositi evangelici che formino e alimentino la vita dei credenti come popolo e come discepoli.
Essere famiglia umana
La coscienza di essere un’unica famiglia umana si rafforza nella fraternità e nell’amicizia sociale.
Nel nostro Vicariato sarà urgente la formazione della coscienza comunitaria, e il rispetto della vita in tutte le sue manifestazioni.
Qui siamo sollecitati a capire che siamo tutti sulla stessa barca e che i problemi di alcuni riguardano tutti, come ha sottolineato papa Francesco. È necessario dare corpo all’utopia della fratellanza, quella tra gli uomini e quella tra l’uomo e la natura. A tal fine, cercheremo di fare delle nostre comunità spazi di vita e di comunione, spazi di trasmissione e coltivazione dei valori di un’umanità solidale.
I motivi per credere sono tanti, tanto da fare della resistenza la nostra forza e da trasformare la paura in speranza.
Joaquín Humberto Pinzón Güiza
* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Colombia, su una popolazione di 48,6 milioni di persone, sono stati 4,9 milioni, 1.011 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 125.331, uno ogni 387 abitanti (in Italia uno ogni 470).
Se non bastassero cicloni e terrorismo
Mozambico: Monsignor Diamantino Guapo Antunes
Successore del suo confratello, monsignor Ignazio Saure, divenuto arcivescovo di Nampula, mons. Diamantino è vescovo di Tete dal 12 maggio 2019. È il quinto da quando la diocesi è stata eretta nel 1962. Il Covid, in Mozambico, come in molti altri paesi, ha reso ancora più evidente l’insufficienza della sanità pubblica, e il bisogno di vicinanza e di gesti di consolazione.
La diocesi di Tete conta circa tre milioni di abitanti sparsi in un’area di 100mila Km2 (un terzo dell’Italia). I cattolici sono 750mila. Ci sono 35 parrocchie, 65 sacerdoti, tra cui 17 diocesani e gli altri missionari. I Missionari della Consolata sono sette, incluso il vescovo, responsabili di quattro missioni e un centro di formazione per catechisti.
Il territorio è molto vario, c’è una zona fertile molto popolata (altipiano di Angonia), e una zona secca e arida (lungo il rio Zambesi). Centro propulsore di tutta la regione è la città di Tete.
Le popolazioni appartengono alla stessa etnia bantu, ma sono differenti per lingua e tradizioni. Le principali lingue sono: cinyungwe (40%), cichewa (35%) e cisena (15%) e altre (10%).
La gente vive di agricoltura e, quando può, di commercio informale con bancarelle lungo la strada. Si vive a contatto con le popolazioni dello Zambia, Zimbabwe e Malawi. Il territorio di Tete è ricco di miniere di carbone e ha una delle più grandi centrali idroelettriche dell’Africa, la diga di Cabora Bassa sul fiume Zambezi.
Storia della diocesi
Possiamo dividere la storia dell’evangelizzazione nell’attuale diocesi di Tete in due periodi. Il primo fu iniziato nel 1562 da gesuiti e domenicani che rimasero nella zona fino alla loro espulsione nel 1910. Il secondo iniziò nel 1942, e fu un periodo di penetrazione e consolidamento della Chiesa nel vasto territorio. Esso portò alla creazione della diocesi nel 1962. L’opera di evangelizzazione continua a essere svolta dai gesuiti, dai Missionari d’Africa, dai Padri di Burgos, dai Missionari Comboniani e della Consolata, a diretto contatto con la popolazione, nel lavoro quotidiano e nell’assistenza sanitaria, con notevoli frutti.
La situazione pandemica
Il primo caso di infezione con il nuovo coronavirus in Mozambico è stato confermato il 22 marzo 2020. Si trattava di un uomo di 75 anni tornato dal Regno Unito. Nel 2020 i casi di infezione sono stati pochi, ma con l’allentamento di alcune misure di prevenzione alla fine dell’anno, e l’arrivo dei turisti sudafricani, i casi sono aumentati notevolmente*.
Il Mozambico a inizio agosto era il paese africano con il maggiore tasso di positività, il 16,7%. Le misure del governo si sono fatte più severe. Le scuole sono state chiuse in alcune città, i luoghi di culto pure, c’è il coprifuoco dalle 21 alle 4. Mercati chiusi la domenica. Funerali limitati.
Gli operatori sanitari sono vaccinati, ma la campagna di vaccinazione è lenta. L’intento è di estenderla a tutto il paese entro la fine del 2021.
I nuovi problemi
Il Covid-19 è arrivato in Mozambico in un momento di grande difficoltà. Eravamo nel mezzo della gestione dell’emergenza legata ai cicloni Idai e Kenneth, che avevano distrutto nel 2019 case, centri di salute e ospedali, oltre ad aver causato 600 morti e molti dispersi. Inoltre il terrorismo islamista nella provincia di Cabo Delgado era (ed è) un altro grave problema.
La pandemia ha avuto un grande impatto sull’economia e sulla società, in particolare sul turismo e l’esportazione di materie prime. Il 60% degli stabilimenti turistici ha chiuso. La caduta dei prezzi di materie prime, come carbone e gas, ha pregiudicato gli investimenti esteri, facendo perdere altri posti di lavoro ed entrate statali.
Le piccole imprese hanno immensa difficoltà a mantenere i propri impegni fiscali, divenendo un problema per il paese già abbastanza indebitato.
L’impossibilità dell’insegnamento in presenza ha avuto un profondo impatto sul settore educativo. Lo stesso possiamo dire in campo religioso con la sospensione delle celebrazioni pubbliche e delle altre attività pastorali.
Senza accesso a redditi o sussidi di disoccupazione, con un risparmio piccolo o nullo, e in uno scenario di aumento dei prezzi, la popolazione più povera di Tete, soprattutto urbana, è oggi vulnerabile alla fame. La povertà e l’insicurezza alimentare aumentano l’insicurezza pubblica e urbana, e la piccola criminalità.
Infine, si è ridotta la risposta dei servizi sanitari di trattamento e prevenzione di altre malattie comuni come malaria, tubercolosi, Hiv-Aids.
La risposta della diocesi di Tete
La provincia di Tete è una delle più colpite dalla pandemia. Essa è, infatti, un corridoio di passaggio per i vicini Malawi, Zambia e Zimbabwe.
La diocesi ha cercato di mantenere viva la speranza tra la gente e di essere una presenza di consolazione e aiuto. Il vescovo ha visitato le missioni ed è stato in contatto con le comunità. Ha chiesto ai missionari di stare ancora più vicini ai fedeli, anche visitando le famiglie.
Siamo a stretto contatto con il ministero della Sanità a livello provinciale, partecipiamo ai tavoli tecnici per organizzare una risposta al coronavirus che metta al primo posto la prevenzione.
Nella Provincia di Tete c’è meno di un medico ogni 10mila abitanti (in Italia ce n’è uno ogni 247, ndr) e le strutture sanitarie sono poche e a volte prive di medicinali. Per questo la prevenzione e la formazione sono la chiave.
Gli agenti di pastorale si sono impegnati anche per diffondere messaggi di sensibilizzazione sul coronavirus, lavorando in piccoli gruppi per rispettare il distanziamento sociale. Abbiamo prodotto spot che sono trasmessi dalla neonata radio diocesana. Gli spot vengono diffusi in dialetti differenti, per arrivare a tutti. Alcuni missionari hanno montato degli amplificatori sulle macchine che girano per barrio e villaggi diffondendo le stesse raccomandazioni.
Diamantino Guapo Antunes
* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi positivi registrati in Mozambico, su una popolazione di 28,8 milioni di persone, sono stati 148mila, 51 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.881, uno ogni 15mila abitanti (in Italia uno ogni 470).
Una chiesa piccolo ma pronta
Eswatini: Monsignor José Luís Gerardo Ponce de León
Dal 2014 è vescovo dell’unica diocesi del piccolo Regno di Eswatini. Monsignor Ponce de León descrive una chiesa viva in un paese che, pur pacifico, ha manifestato negli ultimi mesi diverse tensioni, e palesato problemi sanitari, scolastici, economici e sociali rafforzati dal Covid.
Il Regno di Eswatini si trova tra Sudafrica e Mozambico. Il paese, che fino al 2018 si chiamava Swaziland, ha di recente fatto notizia a causa delle violenze dello scorso luglio. Conosciuta come una nazione pacifica, in pochi giorni ha visto la morte di una cinquantina di persone, il ferimento di altre centinaia, e la distruzione di molti negozi.
La diocesi di Manzini è l’unica del paese e, così, io sono l’unico vescovo cattolico. Su una superficie di 17mila km2 (come il Lazio, ndr) vivono 1,4 milioni di abitanti dei quali il 5% cattolici. Arrivato nel 2012 come «amministratore apostolico» dopo la morte di mons. Louis Ncamiso Ndlovu dell’Ordine dei servi di Maria, nel gennaio del 2014 sono diventato il suo quinto vescovo.
La piccola presenza cattolica, in questa nazione a maggioranza cristiana, è ben conosciuta, anche grazie al nostro servizio nel campo della salute (un ospedale, sette cliniche, un ospizio), dell’educazione (sessanta scuole) e della promozione di giustizia e pace (traffico di persone, rifugiati) coordinati dalla Caritas Eswatini.
Proteggere la popolazione
Non appena il presidente del Consiglio ha dichiarato, lo scorso marzo 2020, lo stato di emergenza, la nostra diocesi ha preso due iniziative. La prima è stata quella di interrompere la celebrazione delle funzioni religiose in tutte le parrocchie (17) e le comunità (un centinaio). La rapidità della decisione ha colto di sorpresa molti che hanno così capito la gravità della pandemia. La seconda è stata quella di identificare, insieme alla Caritas, le aree di intervento urgente. Ne abbiamo identificate sei: salute, cibo, acqua, rifugiati, comunicazione, casa.
Salute. Abbiamo fornito l’ospedale, i centri di salute e l’ospizio dei dispositivi di protezione individuale. La Conferenza episcopale italiana ci ha aiutati.
Cibo. La mancanza lavoro e la riduzione degli stipendi hanno inciso sulle famiglie. Le scuole, poi, nel nostro paese, sono una delle principali fonti di nutrimento per i bambini. Con le scuole chiuse, non ne potevano più beneficiare. Per questo, attraverso le nostre parrocchie, stiamo fornendo pacchi alimentari ai poveri della zona.
Acqua. Il messaggio «Lavati le mani» è stato uno dei primi che tutti abbiamo ricevuto e predicato. La domanda qui era: «Come fai quando l’acqua non c’è?». Abbiamo quindi offerto ad alcune famiglie una cisterna e delle grondaie per raccogliere l’acqua piovana. Avere un serbatoio consente anche di acquistare acqua da conservare per i tempi meno piovosi.
Informazione. Come in altri paesi, il governo ha utilizzato radio e Tv per informare sul virus. Con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che c’erano famiglie nelle zone rurali che non avevano nemmeno una radio. Pertanto è stato fatto un elenco di 500 famiglie cui fornirle. Le radio hanno aiutato anche i bambini che hanno potuto ascoltare i programmi radiofonici di insegnamento.
Case con due stanze. Questo programma è iniziato in diocesi molti anni fa grazie al supporto di Home Plan (Olanda). Il Covid-19 lo ha reso più urgente. Il distanziamento è essenziale nella lotta al virus, ma per alcune famiglie che vivono affollate in case di una sola stanza è un lusso.
Rifugiati. Ogni anno visitiamo il Centro per i rifugiati sostenendo le famiglie con pacchi alimentari. La metà dei rifugiati sono bambini. Quest’anno la richiesta del Centro è stata di fornire loro articoli da toeletta e materassi.
Vicinanza social, ma non solo social
Come in altre nazioni, il Covid, oltre a creare dei nuovi problemi, ha portato allo scoperto quelli che già esistevamo ma stavano nascosti, come la mancanza di cibo e di acqua. Ne ha anche accentuati diversi, come la difficoltà delle famiglie di pagare la scuola: quando i giovani hanno potuto tornarci, tanti ci hanno chiesto una mano. La Chiesa cattolica qui è conosciuta come una chiesa al servizio di tutti, e il vescovo, in qualche modo, padre di tutti. Chiunque ne ha bisogno viene a trovarmi e, anche se non possiamo aiutare ogni volta, apprezzano di essere ascoltati.
Da sempre la diocesi ha saputo rispondere alle sfide sociali. Il Covid però ha portato nuove sfide come quella di accompagnare la fede dei cattolici che non potevano più andare in chiesa. La messa qui non è un’abitudine. Celebrare insieme è un elemento forte della nostra spiritualità.
Abbiamo allora preparato dei file audio da inviare via WhatsApp: preghiere e riflessioni sulle letture proposte dai preti della diocesi. Abbiamo anche offerto la messa della domenica su YouTube e, nella settimana santa, «le sette parole».
Con la pagina Facebook della diocesi sappiamo di aver raggiunto tanti.
Le sfide non finiscono
Al momento di scrivere questo articolo Eswatini si trova ad affrontare la terza ondata del Covid*, e soltanto il 10% della popolazione ha ricevuto le due dosi del vaccino. I numeri di coloro che possono entrare in chiesa è limitato. Chi vuole prepararsi per i sacramenti (battesimo degli adulti, comunione, cresima) non può farlo.
Per di più viviamo un tempo di violenza. Sembra che la calma sia tornata, ma è dovuta soltanto alla presenza dei soldati per le strade.
Un’altra sfida che rimane è quella della vicinanza a coloro che sono stati colpiti dal Covid. C’è bisogno di aiuto a livello spirituale e psicologico. Chi è stato contagiato e ha sentito la morte alle porte, chi ha visto i famigliari soffrire o morire a casa (una donna ne ha persi sette in due mesi), è rimasto con delle ferite non guarite.
Le chiese sono sempre il punto di riferimento più importante nei momenti difficili, e, allo stesso tempo, sono le prime a dover chiudere le porte…
Abbiamo bisogno, come diocesi, di ritrovarci (preti, religiose e laici) per riflettere su come essere chiesa in questo momento. La terza ondata probabilmente non sarà l’ultima e rischiamo di mancare di creatività, quella che ci porta lo Spirito, per continuare a testimoniare il Risorto.
José Luís Gerardo Ponce de León
* Al 7 settembre, dall’inizio della pandemia i casi registrati in Eswatini, su una popolazione di 1,5 milioni, erano 44mila, 302 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 1.158, uno ogni 1.267 abitanti (in Italia uno ogni 470).
È tempo di prendersi cura
Brasile: Monsignor Giovanni Crippa
Fin dall’inizio dell’emergenza Covid, dal marzo 2020, la Chiesa brasiliana si è spesa per soccorrere la popolazione, in particolare i poveri. Anche nella diocesi di Estância, dove monsignor Crippa è stato vescovo dal 2014 fino ad agosto, la pandemia ha colpito duro, ma la risposta della Chiesa è stata, ed è, forte e creativa.
La diocesi di Estância è stata eretta da papa Giovanni XXIII nel 1960. Il suo territorio fu il primo in Sergipe (Nord Est del Brasile, ndr) a essere toccato dall’azione missionaria dei Gesuiti (1575).
Situata nella parte centro meridionale dello stato di Sergipe, la diocesi ha una superficie di 6.650 km2 e una popolazione di 509.675 abitanti, di cui, secondo il censimento del 2010, il 50,56% vive in aree urbane e il 76,85% si dichiara cattolico.
La popolazione è il risultato dell’incrocio di indios, neri (ex schiavi) e bianchi figli dei colonizzatori, particolarmente dal Portogallo.
Abbiamo 28 parrocchie e 617 comunità, 41 sacerdoti, tutti diocesani, 22 seminaristi, 8 istituti religiosi femminili, con 52 religiose in 12 comunità.
Le frequenti situazioni di violenza, disoccupazione, illegalità e aggressione all’ambiente richiamano l’attenzione della diocesi, la quale risponde con progetti di formazione e di promozione umana, giustizia e salvaguardia del creato.
La realtà pandemica in Brasile
Tutti nel mondo stiamo vivendo un momento molto difficile a causa della pandemia. Un tempo che tocca la vita delle comunità nei suoi aspetti pastorali, liturgici, spirituali, sociali ed economici.
Il Brasile è uno dei paesi più colpiti, e fin da subito la Chiesa brasiliana si è mobilitata. Già il 15 marzo 2020, infatti, la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha diffuso un messaggio chiedendo l’osservanza delle indicazioni sanitarie per contrastare la diffusione del virus.
La pandemia, inoltre, ha aggravato la crisi politica già in atto da tempo nel paese. Il 30 aprile 2020, il Consiglio pastorale episcopale della Cnbb ha approvato una nota in cui dichiarava il proprio impegno per un «Patto per la vita e il Brasile», firmato con altre importanti entità brasiliane. Allo stesso modo, ha invitato la società e le autorità pubbliche a unirsi per prevenire e combattere la più grave crisi sanitaria degli ultimi tempi.
In quello stesso mese di aprile 2020 la Cnbb e la Cáritas brasileira hanno avviato l’iniziativa «É Tempo de cuidar» (È tempo di prendersi cura) con l’obiettivo di promuovere la solidarietà a favore delle famiglie bisognose, prive di cibo, lavoro, casa e accesso alle cure mediche.
Un anno dopo, nella 58ª Assemblea generale della Cnbb dell’aprile 2021, è stata nuovamente discussa la realtà pandemica in Brasile, e si è deciso di proseguire con la campagna. L’iniziativa «É Tempo de cuidar» incoraggia anche il supporto spirituale, psicologico e religioso per chi ha vissuto il lutto a causa della pandemia.
Con il tema «Ogni vita è importante», la Cnbb ha poi organizzato il 19 giugno 2021 una giornata di sensibilizzazione e preghiera in memoria degli oltre 500mila morti per Covid-19. Per entrare in sintonia con la Cnbb e il popolo brasiliano, nello stesso giorno, alle ore 15, tutte le campane delle chiese hanno suonato assieme.
Il 9 luglio 2021, ancora una volta, la Cnbb ha alzato la voce per difendere le vite minacciate, i diritti violati e per sostenere il ripristino della giustizia, cosciente che la società democratica brasiliana sta attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia.
La tragica perdita di oltre mezzo milione di vite, fra le quali un grande numero di sacerdoti e alcuni vescovi, è purtroppo aggravata dal sospetto di illeciti e corruzione compiuti nella lotta alla pandemia. Il grande numero di contagiati* ha rivelato la precarietà del sistema ospedaliero brasiliano, nonché il rifiuto degli orientamenti della scienza da parte dell’attuale governo, particolarmente del presidente Jair Messias Bolsonaro.
Gli effetti nella diocesi
Anche la diocesi di Estância ha dovuto prendere decisioni che hanno segnato la vita delle comunità. Dal 18 marzo 2020, infatti, si è entrati in una sorta di quarantena generale: rapporti sociali ridotti al minimo, distanza di sicurezza tra le persone, manifestazioni di affetto da evitare, confinamento in casa, rinuncia a tutte le attività che comportano assembramenti, comprese le celebrazioni eucaristiche pubbliche.
La pandemia ci ha chiesto di essere più umili: con una maggiore coscienza dei nostri limiti e di non essere né onnipotenti né autosufficienti.
In questo tempo siamo chiamati a ricostruire la speranza, promuovere la solidarietà e incentivare la preghiera. È un tempo che ci ha chiesto una vita di austerità, sobrietà e semplicità.
Tutte le comunità hanno dato una testimonianza evangelica di solidarietà raccogliendo donazioni per i bisogni dei più poveri che bussano sempre più numerosi alle porte delle nostre chiese.
Se le porte delle nostre chiese sono rimaste «chiuse» per un certo tempo, la Chiesa ha però continuato la sua azione evangelizzatrice.
Le sfide in tempi di Covid
La condizione inedita in cui viviamo suscita molti interrogativi e, soprattutto, richiede un discernimento spirituale su ciò che il Signore vuole comunicarci in questo momento di tribolazione.
La pastorale ha bisogno in questo momento di reinventarsi, di usare la creatività. Le Linee generali per l’azione evangelizzatrice della Chiesa in Brasile (Dgae 2019-2023), sono strutturate sulla Comunità ecclesiale missionaria presentata con l’immagine della «casa». Una casa con le porte aperte per entrare (l’importanza dell’accoglienza) e anche per uscire (in missione).
La situazione che stiamo vivendo ci chiede di essere audaci cercando Gesù fuori dalle nostre case. Gesù non può essere ridotto al tempio. Le chiese dalle «porte ancora semi chiuse» ci provocano e ci sfidano a fare delle nostre case uno spazio per costruire la Chiesa domestica.
La Chiesa, anche attraverso i social media, ha davanti a sé la grande sfida di andare nelle periferie geografiche ed esistenziali e risvegliare tanti fratelli e sorelle alla vita di fede comunitaria.
La pandemia ha colpito tutti, anche se con impatti diversi. In questo momento, la Chiesa deve essere un «ospedale da campo» per sanare le ferite, offrire consolazione e speranza. Le situazioni di miseria, perdita del lavoro, vulnerabilità al contagio, interpellano la Chiesa a collaborare per il bene comune con le autorità pubbliche, a superare l’assistenzialismo e ad aiutare le persone a essere soggetti della propria storia.
Forse l’attuale «stato di emergenza» è un indicatore e anche un acceleratore del nuovo volto della Chiesa che Gesù vuole per questo nuovo tempo, che non può e non deve tornare indietro.
Giovanni Crippa**
* Al 7 settembre, i casi registrati in Brasile, su una popolazione di 207,6 milioni, erano 20,9 milioni, 1.006 ogni 10mila (in Italia 755). I morti 584mila, uno ogni 355 abitanti (in Italia uno ogni 470).
** Pochi giorni dopo aver scritto queste righe, monsignor Giovanni Crippa, l’11 agosto, è stato nominato dal papa vescovo di Ilhéus, diocesi 600 km più a Sud.
Attuali vescovi IMC:
Luis Augusto Castro Quiroga nato l’8/4/1942 a Santa Fe de Bogotá (Colombia). OE: 29/11/1986 a Santa Fe de Bogotá.
Virgilio Pante nato il 16/3/1946 a Lamon, (Italia). OE: 6/10/2001 a Maralal.
Anthony Ireri Mukobo nato il 23/9/1949 a Mufu – Kyeni (Kenya). OE: 18/3/2000 a Nairobi.
Elio Rama nato il 28/10/1953 a Tucunduva (Brasile). OE: 30/12/2012 a São Paulo.
Peter Kihara Kariuki nato il 6/2/1954 a Thunguri – Othaya (Kenya). OE: 11/9/1999 a Murang’a.
Francisco Javier Múnera Correa nato il 21/10/1956 a Copacabana (Colombia). OE: 11/2/1999 a Santa Fe de Bogotá.
Giovanni Crippa nato il 6/10/1958 a Besana in Brianza (Italia). OE: 13/5/2012 a Feira de Santana.
Inácio Saure nato il 2/3/1960 a Balama (Mozambico). OE: 22/5/2011 a Maputo.
José Luis Gerardo Ponce de León nato l’8/5/1961 a Buenos Aires (Argentina). OE: 18/4/2009 a Mtubatuba.
Diamantino Guapo Antunes nato il 30/11/1966 a Albergaria dos Doze (Portogallo). OE: 12/05/2019 a Tete.
Joaquín Humberto Pinzón Güiza nato il 3/7/1969 a Velez (Colombia). OE: 20/4/2013 a Bogotá.
Giorgio Marengo nato il 07/06/1974 a Cuneo (Italia). OE: 8/8/2020 a Torino.
Hanno contribuito al dossier:
Monsignor Giorgio Marengo Vescovo di Ulaan Baatar, Mongolia, dall’8/8/2020.
Mons. Joaquín Humberto Pinzón Vescovo di Puerto Leguízamo-Solano, Colombia, dal 20/4/2013.
Mons. Diamantino Guapo Antunes Vescovo di Tete, Mozambico, dal 12/5/2019.
Mons. José Luís Gerardo Ponce de León Vescovo di Ingwavuma, Sudafrica, dal 18/4/2009; poi vescovo di Manzini, Regno di Eswatini, dal 26/1/2014.
Mons. Giovanni Crippa Vescovo ausiliare di São Salvador da Bahia, Brasile, dal 13/5/2012; poi vescovo di Estância, Sergipe, Brasile, dal 9/7/2014; ora vescovo di Ilhéus, Bahia, Brasile, dal 9/10/2021.
Luca Lorusso Giornalista redazione MC che ha curato il dossier
La morte nel pancione: «Mi dispiace, non c’è battito»
Secondo i dati dell’Istat, in Italia, un bimbo concepito ogni quattro non sopravvive. La perdita di un figlio in gravidanza è un evento traumatico che va elaborato. Nel vissuto dei genitori, al lutto si aggiunge il dolore dell’incomprensione e della solitudine. Amici, famigliari e operatori sanitari faticano a superare il tabù che circonda la morte e la sofferenza. Alcune iniziative stanno tentando di porre il tema all’attenzione pubblica.
«Alla prima ecografia, questa è la prima cosa che ho visto di te: un puntino, il battito del tuo cuore», scrive Silvia in una lettera al suo bimbo, nato morto dieci giorni prima della data attesa del parto, «dopo aver saputo che eri un maschietto abbiamo deciso il tuo nome. Matteo: “Dono di Dio”».
Silvia e Nicola sono genitori speciali che non hanno potuto tenere in braccio il loro bimbo vivo, sentire il suo pianto o incrociare il suo sguardo. Un giorno, alla 38ª settimana, Silvia non ha più sentito i movimenti di Matteo, ed è corsa in pronto soccorso: «Trovo un’ostetrica. Mi scuso, ma a costo di sembrare paranoica ho deciso di fare un controllo. Prendono la sonda, l’appoggiano sulla pancia: silenzio. […] Mi spostano nella sala ecografia e chiamano il ginecologo. […] punta il cuore: silenzio. Tutti sono zitti. Allora parlo io: “Non c’è battito vero?”».
Silvia e Nicola raccontano così il loro passaggio dalla gioia dell’attesa al lutto. Un lutto incompreso perché personale sanitario, amici, famigliari sembrano non capire che quel bimbo nato senza vita era una persona ed era un figlio.
Quattro ogni dieci
Quella di Matteo viene definita dalle organizzazioni internazionali «morte perinatale». Riguarda i bimbi tra la 28ª settimana di gravidanza e il 7° giorno dopo il parto. Per i bimbi sotto le 28 settimane si parla di «aborti spontanei» (miscarriage) che sono molto più frequenti e difficili da registrare.
Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità1, nel mondo si sono contati nel 2015 circa 2,6 milioni di bimbi nati morti (stillbirth): 18,4 ogni mille nati vivi. Di questi, 1,3 milioni sono deceduti durante il travaglio, prima della nascita e, per la gran parte, erano morti evitabili. Il 98% degli stillbirths avvengono nei paesi a basso e medio reddito dove l’assistenza sanitaria è carente o assente. Nello stesso periodo i bimbi morti entro i primi 7 giorni dalla nascita sono stati 2 milioni: 4,6 milioni di morti perinatali.
In Italia, la morte perinatale riguarda 4,1 bimbi ogni mille nati vivi. Nel 2016, quando le nascite sono state 468.345, le morti perinatali sono state 1.920: circa 700 nei primi sette giorni dalla nascita, gli altri in utero, dopo la 28a settimana. Nello stesso anno, secondo l’Istat2, nel nostro paese gli aborti spontanei sono stati 61.580. Di questi, l’89% (55mila) sono avvenuti entro le prime 12 settimane (46.500 entro le 10). Le interruzioni volontarie di gravidanza sono state 84.874.
In Italia, un bimbo concepito su quattro, il 23%, non sopravvive.
Uno studio della Johns Hopkins University3 stima che negli Usa finiscano in un aborto spontaneo il 30-40% dei concepimenti. Si parla di stima e non di dati registrati perché la maggior parte di essi avviene prima che la donna si sia accorta di essere incinta e non danno luogo, quindi, a un ricovero ospedaliero. Lo stesso studio, inoltre, afferma che il 50% delle perdite di gravidanza non hanno spiegazione.
Un tabù che genera solitudine
L’arrivo di una gravidanza nella vita di una coppia è un evento spartiacque che richiede ai genitori una rivoluzione nel loro modo di affrontare la vita. La morte del bimbo atteso è un secondo spartiacque, un terremoto.
Anche per quelli che hanno già altri bambini, il lutto per il piccolo che si spegne nel grembo è grande. L’evento costringe la coppia a rinunciare al suo progetto genitoriale. Quella creatura già tanto amata viene a mancare.
I genitori sono assaliti dall’incredulità e dal dolore, poi da una grande confusione emotiva: si mischiano in loro vissuti di vergogna, paura, rabbia, dubbi e sensi di colpa: «Non siamo riusciti a proteggerlo»; «Se fossimo andati subito al pronto soccorso…».
Assieme al dolore, allo spaesamento e al senso di colpa, sovente i genitori in lutto sentono una grande solitudine. La morte in gravidanza, pur essendo frequente, è percepita come innaturale e vissuta come un tabù. Spesso, di fronte a essa, le persone fuggono (dai, non parliamo di queste cose tristi) o negano (non era neanche un bambino; ma sì, ne farete altri), qualcuno è insofferente (dopo tre mesi soffri ancora?).
Sembra che il lutto di questi genitori non abbia diritto di esistere, che sia un sentimento inopportuno ed esagerato. Sembra che quei bambini siano figli solo per loro: «Allora dentro di me – scrive Silvia – inizia a salire il grido di una mamma orfana. È il grido di una madre che vuole far sapere al mondo che ha avuto un figlio che è morto! Non è stata una fantasia, è stato reale!».
L’associazione CiaoLapo
La storia di Silvia e Nicola è stata raccolta in un libro4 dall’associazione CiaoLapo5, nata nel 2006 a Prato da due «genitori speciali», Claudia Ravaldi e Alfredo Vannacci, in ricordo del loro piccolo Lapo, morto in utero a 38 settimane. CiaoLapo si occupa, da un lato, di accompagnare le famiglie in lutto e, dall’altro, di ricerca scientifica e di formazione rivolta al personale sanitario.
Ai tempi del loro lutto, in Italia non c’era sensibilità sul tema, e per Claudia e Alfredo è stato fondamentale conoscere associazioni che operavano in altri paesi. Avendo formazione medica e psicologica, hanno iniziato a importare la ricerca scientifica estera strutturando un modello per accompagnare i genitori e uno di istruzioni per operatori sanitari.
Oggi l’associazione ha referenti in tutte le regioni italiane e accompagna genitori in lutto con l’aiuto psicologico individuale e i gruppi di auto mutuo aiuto seguiti da professionisti volontari.
Abbiamo sentito Micarnela Darsena, psicoterapeuta volontaria di CiaoLapo dal 2012: «L’associazione accoglie tutti. Che siano genitori passati attraverso l’interruzione terapeutica o volontaria, che abbiano subito un aborto spontaneo, o morti perinatali. Non facciamo distinzioni. Accogliamo il genitore e il dolore che porta per il proprio bambino, e ci occupiamo di sostenerlo e aiutarlo a elaborare il lutto».
Micarnela è entrata nell’associazione dopo aver vissuto in prima persona la perdita di due gemelline, Elisa e Silvia, nate alla 23° settimana e vissute solo pochi minuti. Dopo aver fatto il suo percorso come genitore, ora, come psicoterapeuta, offre sostegno agli altri, facilita i gruppi e fa formazione agli operatori sanitari.
Psicologia e fede
Oltre all’associazione CiaoLapo, sono nate negli anni in Italia anche altre iniziative6. Una di esse è quella promossa da Benedetta Foà7, psicologa clinica e counselor, esperta di lutto in gravidanza. Grazie alla sua esperienza professionale ha dato vita, cinque anni fa, al seminario «dalle tenebre alla luce»: cinque giorni residenziali nei quali un gruppo di 10-15 genitori per volta viene accompagnato da Benedetta stessa e da un sacerdote in un percorso di elaborazione del lutto che mette in rilievo anche la dimensione religiosa, portando i genitori a una riconciliazione con sé, con il bambino perduto e con Dio. «Si parla poco del tema aborto – ci dice Benedetta al telefono -, sia di quelli spontanei che di quelli procurati. Soprattutto, si parla poco dello stress post aborto. La nostra società fa difficoltà a stare davanti al dolore. Una volta si partoriva e moriva in casa. Oggi, con l’ospedalizzazione, la sofferenza non si vede più, ed è diventato impossibile parlarne. Amici e parenti tacciono, magari per paura di far soffrire i genitori in lutto, ma, alla fine, li lasciano nella solitudine. Inoltre, spesso, i genitori non riescono neppure ad avere il corpicino del loro bimbo per seppellirlo e lasciarlo andare, e non hanno il conforto religioso».
Sentiamo al telefono anche don Roberto Panizzo, il sacerdote che Benedetta Foà ha coinvolto nell’esperienza dei seminari: «Mi era già capitato d’incontrare persone che non riuscivano a riconciliarsi con se stesse e con Dio per la loro esperienza di aborto spontaneo, oppure voluto. Chi ha avuto un aborto spontaneo, spesso sente forti sensi di colpa perché si vede inadeguato al ruolo, incapace di generare. Chi provoca un aborto ha un peso in più. In fondo però i sentimenti sono gli stessi: senso di colpa, motivato da cause differenti, disistima e difficoltà a lasciarsi perdonare. Mettere tutto questo in un rapporto filiale con Dio e in una condivisione con altri è terapeutico, sia dal punto di vista psicologico che spirituale».
Stare nel dolore
Con le loro attività, CiaoLapo e le altre iniziative contribuiscono a creare uno spazio di dibattito che oggi è ancora inesistente: «Già si fa fatica a parlare di morte e di lutto in generale – afferma Micarnela -, ancora di più se si tratta di un bambino. Le persone si difendono. È un dolore che non viene riconosciuto».
Anche gli operatori sanitari spesso minimizzano quello che sta succedendo alla coppia che si presenta in pronto soccorso: «Questo è fatto nel tentativo di far superare il dolore. Ma il dolore va attraversato. Per i genitori non è possibile fare finta che non sia successo niente. Per loro niente sarà più come prima – sottolinea con forza Micarnela -. Elaborare non vuol dire dimenticare, ma integrare quello che è successo nella mia storia di vita, dargli un personale significato, e cercare di riadattare la mia vita tenendo conto di quella perdita. I genitori soffrono molto la mancata comprensione del loro dolore, il mancato riconoscimento di quel bambino così amato. Soffrono l’invito a reagire, a superare velocemente, a non piangere più… a non stare in quel dolore.
Ogni genitore vive il suo lutto in modo personale e deve potersi sentire accolto».
«Ho terminato da poco un percorso con una coppia che ha perso il figlio otto anni fa – racconta Benedetta -. Lei per otto anni ha negato a se stessa che aveva perso un figlio. Però stava male. Quando la situazione si è incancrenita è arrivata da me.
Sono tante le ragioni per cui le persone reagiscono in modi diversi. C’è qualcuno che ci passa sopra dicendo “va bene, è la natura”, qualcuno se ne occupa, ad esempio facendo dire una messa e pregando per lui, qualcun altro invece va in depressione, si ammala, non riesce più a reagire. Ho in mente una signora che ha perso il bambino il giorno prima di partorire. Io l’ho incontrata dieci anni dopo. Nel frattempo era entrata e uscita da ospedali psichiatrici e aveva, di fatto, abbandonato la prima figlia per gestire il lutto del secondo».
«L’esperienza ci fa dire che il dolore non lo si può ignorare – aggiunge don Roberto -, non si può evitare facendo finta di niente. L’unico modo per superarlo è quello di renderlo presente con una lettura positiva, e qui la fede ci aiuta, perché Cristo ha assunto su di sé la sofferenza. Non ti dà una spiegazione, però condivide con te il cammino. Puoi affrontare il dolore cercando non tanto di evitarlo o di dargli delle ragioni di comodo, quanto di dargli ragione nell’oggi. Dare al dolore un senso oggi, per quello che sei ora, permette di trasformare qualcosa di oggettivamente negativo in qualcosa di salvifico. È fondamentale che il dolore si accolga. Il dolore ha un senso. Nella mia libertà, solo io posso darglielo».
«Dalle tenebre alla luce»
Se il dolore non si può evitare, e zittirlo spesso significa amplificare la sua voce, il primo passo è riconoscerlo e dargli un nome. Per questo è importante il confronto con qualcuno che sappia aiutare, e anche la condivisione con chi ha dei vissuti simili.
L’esperienza del seminario «dalle tenebre alla luce» mette in rilievo proprio queste due dimensioni, aggiungendo, per i credenti, quella spirituale. «È un percorso sul lutto, nel quale ci si prende cura del bambino che non è nato», spiega Benedetta.
Nei seminari, organizzati ogni volta in una città diversa, è condensato tutto ciò che nel suo lavoro quotidiano Benedetta propone con approccio laico ai singoli genitori in lutto, associando a esso l’aspetto religioso.
Nel seminario i genitori vivono quattro passaggi fondamentali: possono parlare dell’accaduto in un clima di ascolto privo di giudizio; lasciano emergere sentimenti che a volte loro stessi negavano; vivono un incontro simbolico con il figlio attraverso un oggetto, una lettera scritta e l’uso guidato dell’immaginazione; dopo aver recuperato l’identità del figlio, gli dicono addio, lo lasciano andare.
Don Panizzo racconta: «Si comincia con l’accoglienza e il racconto vicendevole. L’obiettivo è di aiutare i genitori a ristabilire un rapporto con i loro figli, un rapporto che da un lato è interrotto, ma dall’altro è continuamente presente come un’esperienza traumatica. Benedetta chiede alle persone di portare un oggetto: un ciuccio, un pupazzetto, nel quale identificare la creatura che non c’è più. Questo oggetto viene manipolato, tenuto in mano per tutto il percorso, in modo che il contatto fisico crei un rapporto. A un certo punto si dà un nome al bambino e gli si scrive una lettera. Una lettera di addio, di ricordo, di espressione di affetto. Il momento in cui si ristabilisce un contatto con il bambino è molto delicato e doloroso. Poi Benedetta chiede ai genitori di figurarsi un incontro con lui. Il figlio può essere immaginato nel luogo che preferiscono, può avere qualsiasi età. A volte ha 5 anni, altre volte è un giovane. Spesso l’età corrisponde a quella che avrebbe se fosse vivo. I genitori sono chiamati a immaginare l’incontro con il figlio, e poi anche la sua morte. Questo perché rivivano la perdita nel momento presente, in un contesto comunitario, di accoglienza e di fede. L’ultimo momento è quello nel quale i genitori seppelliscono l’oggetto.
Infine si celebra una messa nella quale si benedicono delle vesti bianche, come nei battesimi. Questa messa aiuta i genitori a sperimentare la comunione con Dio che dipende anche da quanto lasciano entrare nella gloria di Dio il loro bambino.
Se il percorso ha successo, i genitori non sono più legati all’episodio in cui hanno perso il loro bambino. Lo lasciano andare. Iniziano a ricordarlo non più legato in maniera traumatica a loro, ma ormai lasciato a Dio».
Un corpo da toccare
I genitori che perdono il proprio bimbo nelle prime settimane di gravidanza non possono avere con lui nemmeno il più elementare contatto fisico. Ma quando è possibile, l’aspetto del toccare, del vedere, del poter vivere un rito di separazione è importante. Micarnela conferma: «Questo è un tema su cui stiamo formando gli operatori sanitari. La vista, il contatto con il bambino, il poter avere dei ricordi, sono elementi preziosi per l’elaborazione, per il distacco, per poter salutare il bambino. Quando i genitori non riescono a farlo, in seguito si trovano a gestire molte emozioni in più: “Avrei dovuto fare, dire…”.
Per le perdite molto precoci, quando non c’è nessun contatto fisico, a volte i genitori compiono qualche rito personale: piantano un albero, fanno volare un palloncino in memoria del figlio. È importante poter celebrare il passaggio di quel bambino».
Benedetta aggiunge: «Molte persone mi hanno detto di non aver avuto la forza di vederlo, però poi rimane un vuoto. Se l’aborto avviene quando il bimbo è un po’ più grande, spesso i genitori chiedono il corpo e lo seppelliscono. Il seppellimento è molto consolatorio. So che il mio bambino è lì, posso andare a piangerlo lì. Ci sono molti cimiteri che hanno degli spazi dedicati ai bimbi piccoli. Senza questo, invece, i genitori dopo un po’ iniziano a dire: “Ma dov’è il mio bambino? L’ospedale cosa ne ha fatto?”. Diventa tutto una ricerca, un dolore. A volte, quando si scopre cosa ne ha fatto l’ospedale è ancora più doloroso, perché magari è stato buttato via insieme ai rifiuti speciali».
«Per il mondo, per la medicina, quando il feto è molto piccolo, è solo materia, qualcosa di scarto – afferma don Roberto -. Quando l’aborto avviene presto, il genitore non ha la possibilità fisica di avere un contatto con suo figlio. Quando, con il tempo, la problematica viene fuori, è proprio questa mancanza che gioca un ruolo importante: nell’immaginazione l’evento rimane continuamente presente. Non c’è un parto, un dare alla luce. Il percorso del seminario “dalle tenebre alla luce” ha proprio questo fine: ripercorrere quello che non è avvenuto, cioè un contatto fisico, una relazione, ma anche il distacco.
Noi siamo degli esseri simbolici, abbiamo la capacità di trarre dalle cose, dalla natura, un significato più profondo. Anche un ciuccio può essere rivelatore. Siamo esseri simbolici e viviamo nella nostra carne, nella nostra creaturalità fisica, oltre che psicologica e spirituale, e quindi abbiamo bisogno di materia, di cose concrete per entrare in relazione».
Lasciare andare
Nei casi di aborti dalla 20a settimana in su è più facile che i genitori e, in molti casi, anche i fratelli più grandi, possano vedere e toccare il corpo del bimbo. Si può vestirlo, fare delle foto, creare dei ricordi tangibili da portare a casa. «CiaoLapo fornisce agli ospedali la Memory box, una scatola con una copertina, degli abitini in cui avvolgere il bimbo. Tutto quello che i genitori possono fare in quelle poche ore è importantissimo, perché possano tornare a casa non proprio a braccia vuote. Questo, a livello internazionale, è riconosciuto come un buon inizio di elaborazione».
Per quanto riguarda un vero e proprio rito funebre, Micarnela ci spiega: «Non so in altre regioni, ma in Lombardia, che venga richiesto o meno dai genitori, si procede alla sepoltura del corpicino a qualsiasi epoca gestazionale. I genitori possono portare a casa il bimbo e fare personalmente la sepoltura. A volte non se la sentono e lasciano che sia l’ospedale a occuparsene. Se intendono farlo loro devono fare richiesta entro 24 ore. Purtroppo non sempre il personale informa i genitori di questo».
Benedetta ci parla della sua esperienza: «Faccio parte dell’associazione Difendere la vita con Maria che ha aperto delle convenzioni con diversi ospedali per occuparsi del seppellimento. Il problema è che il genitore, quando sta perdendo il bambino, è sconvolto. In quel momento non è in grado di pensare in modo lucido e, qualunque cosa gli venga proposta dall’ospedale, si adegua. Sovente non sa neanche che si può seppellire, e quindi lascia fare all’ospedale. Se quest’ultimo ha la convenzione con la nostra associazione, allora propone il seppellimento».
La giornata del BabyLoss
Micarnela ci parla della giornata internazionale del BabyLoss di sensibilizzazione sul lutto perinatale celebrata ogni anno il 15 ottobre: è un’iniziativa a livello mondiale che propone dei riti per ricordare i bimbi che i loro genitori non sono riusciti a vedere, a salutare, a tenere in braccio.
CiaoLapo, già diversi anni fa, ha fatto una proposta di legge per istituire una giornata nazionale di consapevolezza sul tema delle morti in utero. «La proposta è ferma in parlamento da anni, ogni tanto torniamo a fare questa richiesta proprio per allinearci a ciò che succede a livello internazionale». La richiesta è che anche l’Italia riconosca questa giornata e inizi a far uscire dal silenzio il lutto di questi «genitori speciali».
Luca Lorusso
Note
1- Dati riportati nella pagina dedicata alla mortalità perinatale di www.epicentro.iss.it il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica a cura del Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità.
3-Johns Hopkins Manual
of Gynecology and Obstetrics edito nel 2012 dal Dipartimento di Ginecologia e Ostetricia della
Johns Hopkins University School of Medicine.
4- Claudia
Ravaldi (a cura di), La tua culla è il mio cuore, Officina grafica,
Verona 2016.
6- Ne citiamo solo alcune, ma ciascuno può trovarne nella propria zona di residenza: Il Mandorlo, studio di psicologia-psicoterapia a Torino (www.post-aborto.it/equipe/); La Vigna di Rachele, rete ecclesiale per l’elaborazione del lutto per aborto (www.progettorachele.org); A braccia vuote, (www.luciarecchione.it/sportello-a-braccia-vuote/).
– Claudia Ravaldi ha scritto diversi volumi sul tema della morte in gravidanza e del lutto. Citiamo qui solo La morte in-attesa e La tua culla è il mio cuore, entrambi pubblicati da Officina Grafica Edizioni, Verona 2016;
– Benedetta Foà, Dare un nome al dolore, Effatà editrice, Cantalupa (To), 2014; Le doglie del ri-nascere, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2018;
– L. Bulleri, A. De Marco, Le madri interrotte, Franco Angeli, Milano 2013.
Il lutto dei padri
Quelle poche volte che si parla della perdita di un figlio in gravidanza, ci si riferisce soprattutto al lutto delle madri. E il lutto dei padri? «Il lutto dei padri – risponde Micarnela Darsena dell’associazione CiaoLapo – purtroppo è ancora meno riconosciuto di quello delle mamme. Questo accade per un problema culturale generale con le emozioni maschili: gli uomini devono essere forti, devono reagire, non devono piangere, e così via. Molti papà ci dicono: “Per un po’ mi hanno chiesto ‘come sta tua moglie?’, ma a me non hanno mai chiesto come sto”. Caspita! Anche quel papà ha sofferto per la perdita di quel bambino, anche quel papà aveva investito in progettualità su quella nascita. Quanto dolore c’è in un papà che ha perso il suo bimbo.
Quando nei nostri incontri di gruppo sono presenti dei papà, spesso ci dicono che quelli sono gli unici momenti in cui possono parlare del loro dolore.
Hanno sempre detto loro: “Tu devi essere forte per tua moglie, devi sostenerla”. Certo, nelle dinamiche di coppia è facile che inizialmente uno dei due sostenga l’altro e poi, quando questo inizia a stare meglio, il primo si permetta di lasciar andare le emozioni. Questa cosa generalmente succede ai papà: cominciano a stare male quando le mamme stanno meglio, perché finalmente se lo concedono».
L.L.
La sepoltura
Le linee guida internazionali sull’assistenza al lutto, in gravidanza o dopo il parto, prestano molta attenzione alle informazioni da dare ai genitori in merito ai riti funebri e alla sepoltura. È esperienza condivisa a livello transculturale che poter sancire il passaggio, poter chiudere un cerchio, anche solo simbolicamente, è molto importante per i genitori e per il loro lutto. […] È molto importante che i genitori possano conoscere chiaramente le opzioni possibili […]. I genitori che dopo mesi, in molti casi addirittura dopo anni dalla perdita del loro bambino, chiedono informazioni in merito alla sepoltura, riferiscono di aver provato sollievo, e pace, quando si sono potuti recare al cimitero […].
In caso di morte perinatale (dalla 28ª settimana di gestazione)
In questi casi vige l’obbligo di registrazione presso l’anagrafe come previsto dall’art. 74 del Regio Decreto 09/07/1939 n. 1238 […].
In caso di aborto
I regolamenti cimiteriali italiani, pur con variazioni locali, si basano sul D.p.r. 10/09/1990 n. 285, il quale nell’articolo 7 dichiara: […]
2. Per la sepoltura dei prodotti abortivi di presunta età gestazionale dalle 20 alle 28 settimane complete e dei feti che abbiano presumibilmente compiuto 28 settimane di età intrauterina […] i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale.
3. A richiesta dei genitori, nel cimitero possono essere raccolti con la stessa procedura anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane.
4. Nei casi previsti dai commi 2 e 3, i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione o estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale […].
C. Ravaldi, da La morte in-attesa, Officina Grafica, Verona 2016, pp. 155-158