Nel suo messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni, celebrata nella IV domenica di Pasqua, papa Francesco invitava a «considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita».
Il beato Allamano considerava la vocazione missionaria come un dono straordinario di Dio al punto di ritenere «fortunati» quei giovani che avevano sentito il suo invito a seguirlo sulla via della missione. «Egli – diceva il fondatore dei missionari della Consolata ai suoi – vi ha chiamati all’apostolato per sola sua bontà. L’ha fatta a voi questa grazia, a preferenza di tanti altri che ne erano più degni e che vi avrebbero forse corrisposto meglio. E perché proprio a voi? Perché vi ha amati di un amore particolare. Ha fatto con voi ciò che fece con quel giovane del Vangelo: “E Gesù fissatolo, lo amò e gli disse: vieni e seguimi” (Mc 10,21). Ecco che cosa è la vocazione! È questo sguardo di predilezione di Gesù».
La risposta alla vocazione spinge tante persone a consacrarsi e a offrire la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano.
Annunciare il Vangelo a quanti non lo conoscono, spezzare la propria vita, insieme al pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio: è questo il Dna della vocazione missionaria seminato nel cuore di tanti giovani dal beato Allamano.
La crisi di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa nel mondo occidentale a cui assistiamo oggi, tra le altre cause, è certamente determinata dalla crisi di identità di cui soffre l’uomo moderno che porta a cercare la propria realizzazione in surrogati che alla lunga si rivelano incapaci di soddisfare il desiderio di felicità che abita il cuore delle persone.
«Ascoltare la chiamata divina – scrive ancora papa Francesco – lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso, è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro. La nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo».
Sergio Frassetto
Seminatori di consolazione
Contemplando l’icona della Consolata, come faceva l’Allamano dal coretto del Santuario, suor Maria Luisa Casiraghi evidenzia le caratteristiche, i valori e i sentimenti che noi missionari siamo chiamati a incarnare per essere presenza di consolazione nel mondo.
Dal «coretto» il fondatore la contemplava
Noi missionari e le missionarie ci possiamo definire: «Seminatori e seminatrici di consolazione attraverso vie e modi che lo Spirito e le contingenze della vita ci fanno intravedere». Per fare questo cammino bisogna affidarci alla Consolata, dialogare con lei, accogliere le intuizioni dello Spirito.
Ma come? Quando desideriamo conoscere qualcuno cerchiamo di incontrarlo, parlargli, stare il più possibile in sua compagnia per carpire i suoi segreti, arricchirci della sua esperienza, accogliere i suoi consigli.
Il fondatore in questo ci è modello. Sappiamo infatti quanto tempo lui trascorreva in preghiera nel coretto del santuario della Consolata contemplando l’icona a lui e a noi tanto cara per comprendere meglio la volontà di Dio, il cammino da intraprendere e per avere il coraggio e la forza di realizzare ciò che Dio voleva da lui.
Penso che nel coretto del Santuario della Consolata, mentre contemplava il volto di Maria, il fondatore vedesse tratteggiati gli atteggiamenti e i lineamenti che noi missionarie e missionari avremmo dovuto incarnare per portare la consolazione alle persone nei luoghi e nelle situazioni che avremmo incontrato nel nostro cammino. Contemplando l’icona di Maria il fondatore focalizzava le sue virtù e meditava come noi, suoi figli e figlie, che avremmo portato nel mondo il suo nome, dovevamo viverle.
Come davanti a uno specchio
Mi sono posta più volte davanti all’icona della Consolata come davanti a uno specchio per cogliere qualche particolare che mi suggerisse i passi ancora da fare, i cammini da iniziare, gli atteggiamenti da vivere per divenire sempre di più una presenza di consolazione. E, contemplando questa icona, sono stata colpita da vari particolari, soprattutto dalle mani del bambino Gesù: una mano tiene stretto il pollice della Madre che così s’intreccia con la sua e l’altra indica a noi Maria. In questo intreccio di mani scorgo ciò che il fondatore spesso sottolineava quando ci incoraggiava a rivolgersi e a pregare la Consolata. Egli diceva: «È importante avere fiducia nella Consolata: senza di lei possiamo fare poco o nulla, con lei tutto. Fìdati della Madonna, è tua madre! Voglile bene! Senza di lei non si può volare e camminare nella santità. La nostra ala in più è lei, la madre di Gesù, la Consolata».
Essere «conche» per essere «canali»
Un secondo messaggio che ho visto scaturire contemplando Maria lo collego a un’altra espressione del Fondatore in cui affermava: «A riguardo del prossimo dobbiamo essere conche, non solo canali. Ma riguardo ai beni materiali dobbiamo essere solamente canali e non conche». La prima attitudine di Maria che emerge dai Vangeli è quella dell’accoglienza che fa posto allo Spirito, che si svuota per lasciarsi guidare da lui sulle strade di Dio.
Questo è l’atteggiamento che il fondatore voleva che noi coltivassimo per diventare conche e fonti vive. Essere conche ripiene di Spirito aiuta a comprendere l’importanza poi di divenire canali in cui scorrono generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.
C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la missione in modo autentico ed efficace.
I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare nella corrente, nel canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date». Solo così la missione diventa annuncio della consolazione, del dono che Dio fa al mondo: il suo unico figlio, tanto amato, offerto per la salvezza di tutti, un figlio che Maria ha rivestito della sua natura umana.
Seminare la buona notizia
Ancora: Maria, in questa icona non tiene il bambino stretto a sé, ma lo offre all’umanità. Il suo atteggiamento è rivolto anche a noi: non tenere stretta la buona notizia della salvezza, ma seminarla nelle pieghe del quotidiano per trasformare l’ordinario in straordinario. L’annuncio non nasce da noi, ci viene donato affinché lo condividiamo con parole, gesti, silenzi… come Maria ha fatto nella sua vita: poche parole, molti gesti per aprire cammini e orizzonti nuovi e tanti silenzi, non sterili, ma che hanno generato vita.
E termino con l’augurio fatto parecchi anni fa ai missionari e alle missionarie dall’allora arcivescovo di Torino, il cardinale Anastasio Ballestrero. Diceva: «Quando si è portatori di un annuncio di consolazione non si può esserlo autenticamente senza un entusiasmo che brucia dentro, senza un fervore totale che investe la vita e senza un ardore che non conosce stanchezza. Il popolo di Dio e tutti i popoli hanno bisogno di vedere che i missionari e le missionarie sono così: creature incandescenti che dovunque arrivano accendono il desiderio di Dio e dovunque passano lasciano un segno profetico profondo, efficace e fecondo». E, a questo segno, noi missionari e missionarie della Consolata diamo il nome di «consolazione».
Suor Maria Luisa Casiraghi
Ho speso tutto
Quando nel 1880 l’Allamano assunse la direzione del Santuario della Consolata, questo si presentava brutto e decadente, così, nel 1883 diede inizio a lavori di restauro esterno dell’edificio, su disegno dell’ingegnere Giovanni Battista Ferrante, che riportò il complesso alle linee originarie dell’architetto Filippo Juvarra. I lavori furono ultimati nel 1885. A convincere l’Allamano della necessità di intervenire nuovamente con lavori più radicali sull’edificio fu la prospettiva delle grandiose feste che si sarebbero dovute celebrare nel 1904, in occasione dell’ottavo centenario del ritrovamento dell’immagine della Consolata da parte del cieco di Briançon, avvenuto il 20 giugno 1104, secondo un’antica tradizione. Il progetto dei restauri fu affidato all’architetto Carlo Ceppi e i lavori di trasformazione furono compiuti tra il 1899 e il 1904. Attraverso l’inserimento di quattro cappelle ovoidali, sistemate attorno all’esagono guariniano, e la realizzazione di altri interventi architettonici e decorativi, la chiesa assunse una forma maestosa che dall’esterno si arricchiva di cupolini e volute, a coronamento delle nuove cappelle, mentre all’interno risplendeva di marmi e stucchi dorati così come la conosciamo oggi.
Per preparare il progetto dei restauri fu scelto il principe degli architetti torinesi, il conte Carlo Ceppi. «Ma, mio caro canonico, – fu il preambolo dell’architetto al Camisassa – che cosa possiamo fare qui? Siamo strangolati in tutti i modi». «Signor conte – replicò il Camisassa -, il Juvarra sfondò le pareti e creò quel magistrale ampliamento dove fece sorgere l’altare della Vittoria. Come ha fatto lui perché non possiamo fare anche noi altrettanto ai fianchi?». «La cosa è fattibile, e la faremo», concluse l’architetto, e si mise all’opera.
All’architetto che gli faceva presente che non sarebbe bastato un milione, l’Allamano rispose: «Ne metteremo due, tre, purché Torino abbia un santuario degno della sua Patrona».
«Quando io facevo restaurare il santuario – confidò l’Allamano – (ebbene, c’è andato un bel milione, sapete) qualcuno diceva: “Uh, che spreco! Perché adoperare del marmo così prezioso? Marmo d’Egitto? Si potrebbe mettere marmo finto come in quell’altra chiesa!…”. Ed io dicevo: “Per il Signore, per la Madonna non è mai troppo, non si spreca mai”. Alcuni mi dicevano: “Perché cambiare il pavimento? Mettere marmo di prima classe? […]. Quando si tratta della Madonna non bisogna aver paura anche di fare dei debiti, di fare delle imprudenze, e poi con la Consolata non si fanno delle imprudenze. Io per la Consolata ho speso tutto».
La riflessione conclusiva dell’Allamano svelò da dove egli prendeva l’ispirazione e il coraggio: «I lavori, con visibile protezione di Maria, furono deliberati proprio il 10 dicembre 1898, festa della S. Casa di Loreto, quasi per farci notare che “Lei stessa si è edificata la casa”. […]. Questa non è opera nostra, ma è proprio opera della Madonna».
Giuseppe Allamano, per le feste centenarie della Consolata, oltre ai lavori di restauro del tempio, volle regalare alla Vergine due preziose corone di brillanti che furono apposte al quadro. Le celebrazioni centenarie iniziarono l’11 giugno 1904 per terminare il 20, festa della Consolata. Il giorno 19 si svolse la processione per le vie della città, con la partecipazione di sei cardinali, 23 vescovi e 104 parroci, oltre alle congregazioni religiose e ai fedeli in numero incalcolabile. Il giornale «La Stampa» fece questo commento: «Certo è riuscita una manifestazione religiosa imponente che non ha precedenti nella memoria dei torinesi».
POSTULATORE > P. GIACOMO MAZZOTTI
Chi ricevesse una grazia per intercessione del beato Giuseppe Allamano è pregato di notificarlo ai seguenti indirizzi:
POSTULAZIONE MISSIONI CONSOLATA
• Viale Mura Aurelie, 11-13 – 00165 Roma
• Corso Ferrucci, 14 – 10138 Torino
E-mail: postulazione@consolata.org https://giuseppeallamano.consolata.org
Braccio destro del beato Giuseppe Allamano per 42 anni, Giacomo Camisassa è stato un uomo e un prete schivo che non amava far parlare di sé, ma che ha lasciato un segno unico e irripetibile nella Chiesa torinese e nella vita dei Missionari e Missionarie della Consolata. Nato il 26 settembre 1854, quest’anno ricorrono i cento anni dalla sua morte, avvenuta il 18 agosto 1922.
ll 18 agosto 2022 ricorre il centenario della morte del canonico Giacomo Camisassa, confondatore dei nostri due Istituti missionari, fraterno amico e strettissimo collaboratore del fondatore Giuseppe Allamano, il quale ben difficilmente avrebbe messo mano all’opera della fondazione senza di lui.
Desideriamo riscoprire la figura di questo vero uomo di Dio, tutto dedito al Regno, alla Chiesa, alla Missione, ai nostri Istituti, capace di vivere «la beatitudine di essere secondo» coltivando un’amicizia profondissima, intensa, fedele, rispettosa con l’Allamano che egli considerava «padre».
Tra l’Allamano e il Camisassa ci fu un’intesa straordinaria, che portò a una stretta collaborazione che si rivelò un dono particolare di Dio, proprio in vista di quanto avrebbero realizzato assieme.
Il segreto della loro profonda amicizia ci pare che si possa trovare nella loro spiritualità. L’Allamano ricevette da Dio la vocazione di fondare i due Istituti missionari. Il Camisassa ricevette la vocazione di essere il collaboratore indispensabile nella realizzazione della missione dell’Allamano. Non è fuori posto pensare che, senza l’apporto continuo e attento del Camisassa, l’Allamano non avrebbe realizzato quanto invece portò a termine in tutte le sue iniziative. Il ruolo specifico del Camisassa non consistette solo nella stima e nel rispetto verso l’Allamano, ma anche nella capacità di capirlo, di interpretare le sue idee e di collaborare stando sempre al proprio posto. Non ci furono momenti nei quali il Camisassa volle sostituirsi all’Allamano, mai.
Tra il Camisassa e l’Allamano la fiducia era totale. Si comunicavano idee, sentimenti, intuizioni, impressioni, informazioni, situazioni e notizie, anche sul personale, sicuri della reciproca confidenzialità.
L’Allamano ebbe l’abilità di scegliersi un collaboratore che lo completasse. Aveva potuto conoscere le qualità del Camisassa durante il periodo del seminario, trovandolo adatto e affine, pur nella diversità.
Durante i 42 anni di convivenza al Santuario della Consolata, il Camisassa fu sempre il «Vicerettore» ed economo. Giuseppe Allamano, il Rettore, l’aveva richiesto come «coadiutore» e tale il Camisassa rimase per tutta la vita. Un binomio inossidabile ed esemplare di vita e di apostolato, che niente riuscì a spezzare, nemmeno le varie proposte di promozioni a incarichi più autorevoli, quali l’episcopato in diocesi piemontesi.
La profonda sintonia tra il Camisassa e l’Allamano maturò nella continua ricerca del dialogo, cibo quotidiano per sostenere i loro molteplici impegni apostolici e per crescere nella mutua comunione.
Il Camisassa non aveva segreti per l’Allamano.
L’Allamano e il Camisassa si erano impegnati a «dirsi sempre la verità», e lo fecero. Un mezzo che avevano appreso dagli anni del Seminario e che non tralasciarono mai era la cosiddetta «correzione fraterna».
Cento anni dopo la morte del Camisassa, siamo qui a commemorare la sua straordinaria figura di uomo di Dio, uomo di comunione, uomo di acuta intelligenza e profondissima umiltà, uomo di alacre operosità e intensa vita interiore, che ebbe una parte essenziale e insostituibile nella nascita e sviluppo dei nostri Istituti. In comunione,
suor Simona Brambilla e padre Stefano Camerlengo
(Testo adattato e ridotto dalla lettera dell’8 dicembre 2021, Anno del Camisassa nel centenario della sua morte, dei due superiori generali ai Missionari e Missionarie della Consolata e loro amici e benefattori)
«Non dimenticate quest’uomo!»
Giacomo Camisassa, il gregario ideale
Ricordare una persona, nel senso etimologico, è «riportarla al cuore», ravvivandone una riconoscente memoria. Giacomo Camisassa, sacerdote di Torino, fu un uomo di Dio, lavoratore instancabile e umile, con grandi capacità di relazione. La sua amicizia con il beato Giuseppe Allamano segnò la vita di entrambi e dei due istituti missionari di cui fu confondatore.
«Non potremmo certo dimenticarlo e dimenticare il bene che fece per l’Istituto, per il quale tutto si sacrificò fino all’ultimo respiro della sua preziosa e santa vita» (Beato G. Allamano, lettera circolare ai Missionari, 20 giugno 1923).
Personalità armoniosa
Prima di raccontare la vita del Camisassa e il bene da lui realizzato, è utile riflettere sul fatto che la sua fu una personalità armonica e armoniosa, nella quale maturità, responsabilità, equilibrio e stabilità si seppero intrecciare mirabilmente. Le numerose doti, le molteplici attività intraprese, la grande capacità di relazioni, la vita cristiana vissuta in modo missionario e lo spirito di fede per essere in sintonia con il progetto di Dio su di lui, si fusero in una grande unità e caratterizzarono la solidità della sua personalità.
Per essere veramente ben compreso, ogni atto della sua vita va letto alla luce della totalità della sua esistenza. Che egli fosse un «lavoratore» indefesso e geniale tutti l’ammettono facilmente. Anzi, monsignor Gaudenzio Barlassina, allora vescovo della Prefettura apostolica del Kaffa in Etiopia, commemorandolo nel primo anniversario della morte, mise in guardia coloro che del Camisassa coglievano soltanto questa dimensione: «Quelli che lo guardano con un occhio solo, non vedono in lui che una meravigliosa operosità. Ma noi, che abbiamo avuto agio di rimirarlo con due, abbiamo potuto scorgere e contemplare la sua eccelsa virtuosità, non inferiore alla capacità tecnica, alla sua costante attività».
Uomo concreto
Il canonico Camisassa, di costituzione robusta e tendente all’obesità, fornito di rara intelligenza e di ferma volontà, era un uomo eminentemente pratico e sempre in moto. Fu un artista della tecnica e dell’esecuzione delle opere materiali.
Architetti, ingegneri, pittori, decoratori, marmisti, muratori, ditte industriali, impresari, appaltatori, notai, ragionieri, avvocati, professionisti in genere, trovavano in lui l’esperto.
Con facilità e sveltezza abbozzava prospetti, stendeva relazioni, redigeva progetti, scriveva articoli, faceva bilanci, saldava parcelle, rivedeva conti, calcolava l’ampiezza di un locale e le sue giuste proporzioni in comodità, estetica, igiene, solidità, economia. Esaminava il materiale da impiegarsi, la portata della tubatura dell’acqua e della conduttura del gas, il telaio di una finestra, la serratura di una porta, la qualità di una stoffa, la foggia di un vestito, l’arredamento di una camera, l’imballaggio di una cassa. Le sue erano giornate piene, costruttive, in cui non si perdeva tempo e si verificavano pochi sbagli.
«L’Allamano aveva in grande stima il canonico Camisassa e un alto concetto delle sue virtù e dei talenti di lui. Lo trattava paternamente con modi rispettosi e squisitamente educati; aveva riposta in lui la sua piena fiducia e colla massima tranquillità attendeva da lui ogni più valido aiuto; di lui si serviva come Iddio deve servirsi degli Angeli, come la Madonna a Nazareth, per le proprie faccende doveva servirsi di Gesù adolescente» (Tommaso Gays, 16 febbraio 1942, 16° anniversario della morte del veneratissimo Padre Fondatore).
Uomo di Dio
Era un uomo di fede perché tutto compiva sotto gli occhi di Dio e nulla altro temeva. Era questo il segreto della sua inalterabile calma, anche in mezzo alle contraddizioni e alle prove.
Il denaro per lui fu sempre e unicamente il mezzo per procurare la maggior gloria di Dio. Visse e morì povero. La prebenda canonicale (Prebenda: una specie di rendita che gli era dovuta per il suo ruolo di canonico della diocesi di Torino, ndr), quando l’ebbe dal 1892, la donò sempre per il bene dei missionari e per i restauri del santuario. Avrebbe potuto esser ricco, invece visse poveramente.
«Era assolutamente schivo dagli onori che evitava. Era alieno da qualunque parata e con studio spontaneo si eclissava ovunque vi fosse da fare bella figura» (padre Borda Bossana – Testi citati nella lettera dei superiori generali dell’8 dicembre 202).
Era cortese, affabile e, «a tavola era molto parco nel cibo; durante il pasto non beveva mai, solo in fine beveva un bicchiere di vino, diceva, per digerire». «In contrario al suo aspetto serio e chiuso, quando alcuno aveva occasione di parlargli, allora egli manifestava la grande bontà del suo cuore», perché «in lui batteva un cuore sempre pronto alle necessità altrui, anzi a niuno secondo per finezza di discernimento delle miserie della povera umanità» (da testimonianze di vari confratelli).
Gentile e cortese con i sani, lo era maggiormente con gli infermi. «Quando alcuno della casa era malato se ne interessava tosto, riferiva al Rettore e disponeva per tutto quanto occorreva con larghezza di cuore. Ammirai in lui delicatezza e cuore. Aveva proprio un cuore di padre; per rimettermi bene in salute mi aveva procurato un liquore da prendersi giornalmente a bicchierini, che mi fece tanto bene; infatti, poco dopo ripartivo per l’Africa» (fratel Anselmo Jantet).
Chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno fondamentale e unico della sua vita e del suo sacerdozio.
Coloro che volessero vedere nel canonico Camisassa puramente l’uomo dell’azione esteriore, sbaglierebbero. Fu uomo di azione senza dubbio, ma soprattutto un sacerdote.
Tenera e sentita fu la sua devozione a Maria: «Mi abbandono tra le braccia di Dio ed in quelle di Maria». Viene spontanea la conclusione che è di tutti quelli che l’hanno conosciuto: la sua attività fu manifestazione del suo zelo e della sua pietà, prova ed effetto della sua santità.
La giovinezza
Giacomo Camisassa nacque a Caramagna (Cuneo) il 27 settembre 1854, quintogenito di Gabriele Camisassa e Agnese Perlo. Era il tempo in cui il Piemonte vide fiorire una meravigliosa schiera di santi e di anime apostoliche e contemplative: Giovanni Bosco, Giuseppe Cafasso, Maria Mazzarello, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Luigi Orione, Leonardo Murialdo, i fratelli Luigi e Giovanni Maria Boccardo, Pier Giorgio Frassati, Callisto Caravario, Guglielmo Massaia, Giuseppe Marello, Ignazio di Santhià, Maria Cristina di Savoia, e molti altri.
Fattosi più grande, frequentò le scuole elementari del comune con assiduità e impegno, dando sempre prova di spiccata inclinazione allo studio, di chiara intelligenza e di esemplare condotta. Imparò presto il catechismo, e, come chierichetto, a servire bene la messa e tutte le altre funzioni religiose. Gli piaceva cantare e fu, per tutta la vita, un grande innamorato della musica sacra.
Da ragazzo lavorò come apprendista nella bottega di un fabbro, e nel 1868 entrò nell’Oratorio di S. Francesco di Sales, iniziato dopo tante peripezie e contrarietà da Don Bosco con l’aiuto di san Giuseppe Cafasso, zio materno dell’Allamano. Frequentò poi il seminario di Chieri per gli studi filosofici e, nel 1873, studiò teologia nel seminario di Torino, dove incontrò Giuseppe Allamano che, nonostante fosse appena tre anni più vecchio di lui, divenne la sua guida spirituale per cinque anni, dal 1873 al 1879.
Fu ordinato sacerdote nel 1878 e, in seguito, completati i suoi studi, fu aggregato fra i dottori delle Facoltà di Teologia e di Diritto di Torino.
Promotore di sinodalità
L’amicizia tra l’Allamano e il Camisassa fu caratterizzata da uno spirito di sinodalità molto vivo. Pensavano e realizzavano tutto insieme, dialogando e dicendosi le cose con verità. La loro amicizia e collaborazione sacerdotale, durata tutta la vita senza alcuna incrinatura, nel rispetto vicendevole dei loro ruoli e nella condivisione di ideali, rimane un esempio mirabile.
Oggi ci si può meravigliare quando si scopre che l’Allamano e il Camisassa si diedero del «lei» per tutta la vita. Se da una parte questo era un uso più comune e normale allora rispetto a oggi, dall’altra non era assolutamente necessario comportarsi in tal modo tra amici.
Tutto nacque da un vero atto di fede nella volontà di Dio espressa dal comando di monsignor Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino dal 1871 al 1883, che aveva assegnato prima l’Allamano alla formazione in seminario e poi nel settembre 1980, con il Camisassa, al Santuario della Consolata e all’annesso Convitto ecclesiastico. Ne seguì un lungo cammino di vera comunione di intenti, di progetti, di azione che produsse una incredibile mole di opere al santuario prima e all’Istituto dopo.
«Insieme sulla scia della volontà di Dio», così termina la lettera che l’Allamano scrisse al Camisassa informandolo del suo nuovo incarico come rettore del santuario della Consolata e invitandolo a essere suo aiutante come economo e vicerettore: «Faremo d’accordo un po’ di bene, eserciteremo la carità […], procureremo di onorare il culto della nostra madre Consolata; in questo nuovo ufficio avrà campo di esercitare il santo ministero, sia nel predicare che nel confessare».
«Ci siamo promessi di dire sempre la verità», disse l’Allamano in un’altra circostanza, svelando uno dei segreti per camminare insieme sulla scia della volontà di Dio.
L’Allamano iniziò il suo servizio al santuario il 2 ottobre 1880, raggiunto il giorno dopo dal Camisassa.
Ma la realtà più bella, nata dallo spirito di collaborazione tra i due, fu l’eredità di testimonianza che essi ci hanno lasciato, mostrandoci come si deve lavorare nella Chiesa e nell’Istituto, qual è lo spirito che lo permea, come cioè si deve evangelizzare. La loro collaborazione e amicizia aveva una solida base in Dio. «Erano 42 anni che eravamo insieme; eravamo una cosa sola; ci siamo sempre amati in Dio», confessò il fondatore alla morte dell’amico (Sr. Chiara Strapazzon, Deposizione, vol. 11, p. 854).
Sebbene essi avessero personalità e doti molto differenti, seppero tuttavia allacciare una relazione profonda e costante, nel rispetto della diversità, nel desiderio della complementarità. Crebbero come persone, come sacerdoti, come uomini di Dio. La pratica del dialogo fu fondamentale per rinsaldare e rendere efficace l’amicizia che legò il Camisassa al Fondatore.
Dirsi tutto
Una bella pagina del volume dei fratelli Giuseppe e Gian Paola Mina, dal titolo «La beatitudine di essere secondo» (Giuseppe e Gian Paola Mina, La beatitudine di essere secondo, Emi, Bologna 1982; riedizione riveduta e ridotta con ampio apparato fotografico, Editrice Velar, Golle [Bg] 2021), che è la biografia del Camisassa, presenta efficacemente la realtà di comunione tra l’Allamano e il suo più stretto collaboratore: «Dopo pranzo, nell’ufficio dell’Allamano, i due amici prendono una tazzina di caffè insieme e parlano. Più che un parlare, è un comunicarsi gli eventi grandi e piccoli, per un bisogno di confronto, sempre tesi come sono l’uno e l’altro alla ricerca della verità per scoprire i segni dei tempi […]. Dopo la cena, si ritrovano per vagliare quanto nella giornata è emerso e quanto il domani sembra prospettare. Niente di formale, niente di rigido, ma tutto è chiarezza, ricerca, gioia di camminare insieme […]; non ritengono sprecato quel tempo speso per chiarirsi le idee, per approfondire problemi, per giungere a conclusioni. Pregano, vivono nella stessa direzione. L’uno è sicuro dell’agire dell’altro e ciascuno conserva mirabile autonomia».
Ogni idea, ogni proposta, ogni progetto veniva esaminato, vagliato, controllato da ambedue insieme: nulla fu mai fatto o da uno solo di essi o indipendentemente uno dall’altro.
Frutto di questo dialogo fu la nascita e la crescita dei due Istituti missionari. A noi è rimasto uno spirito, una eredità. «Unità di intenti» era, infatti, l’ideale proposto dal fondatore ai suoi missionari.
Nell’abbellimento del Santuario
Il 3 ottobre 1880 arrivò al santuario don Giacomo Camisassa, chiamato dall’Allamano per coadiuvarlo. Qui fu vicerettore ed economo del santuario e del Convitto ecclesiastico a esso connesso (Fondato nel 1817 per i sacerdoti appena ordinati, che per due anni approfondivano la teologia – soprattutto quella morale – e la pratica pastorale. San Cafasso vi aveva insegnato fino al 1860. Nel 1876 il vescovo Gastaldi lo chiuse per contrasti sull’insegnamento della morale. L’Allamano lo fece riaprire nel 1880 nei locali annessi al santuario – ndr).
Nei 42 anni successivi (1880-1922) alla Consolata, l’Allamano e il Camisassa diedero inizio a tutta la serie di attività che avrebbero riempito la loro vita e li avrebbe resi grandi agli occhi di Dio e della Chiesa: riapertura del Convitto ecclesiastico, restauri del santuario, sviluppo della devozione alla Consolata, beatificazione di san Giuseppe Cafasso presentato quale modello del clero, fondazione di due Istituti missionari.
Insieme decisero di intraprendere i restauri necessari al santuario in vista anche della celebrazione dell’ottocentesimo anniversario del 1904, ma toccò al Camisassa seguire puntualmente i molteplici lavori. Il santuario allargato e ristrutturato fu benedetto il 20 giugno 1904, con la partecipazione di un legato pontificio, cardinali, arcivescovi e vescovi.
Insieme all’Allamano, fondò e diresse la rivista «La Consolata» (1899), per far conoscere la vita del santuario, i lavori di restauro e, in seguito, la vita e lo sviluppo dell’Istituto e delle missioni.
Nel 1892 il Camisassa fu anche nominato canonico della cattedrale di Torino.
Nella fondazione dell’Istituto
Nel 1897 il cardinal Agostino Richelmy, compagno di seminario di Giuseppe Allamano, fu nominato arcivescovo di Torino. Lo speciale rapporto di fiducia e confidenza con il nuovo vescovo, consolidò l’idea della fondazione dell’Istituto missionario che l’Allamano coltivava da tempo, e il 29 gennaio 1901 nacque l’«Istituto della Consolata per le Missioni Estere» del quale Giuseppe Allamano non volle mai essere chiamato «fondatore», convinto profondamente che fondatrice fosse solo la Consolata.
Il Camisassa, dunque, chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno centrale della sua vita e del suo sacerdozio. Sentì che il programma dell’Allamano era pure il suo, non solo per un dovere di contratto, ma per un obbligo di elezione divina.
Ambedue si dedicarono alla preparazione dei futuri missionari. Nel 1902, l’8 maggio, partirono per il Kenya in Africa i primi quattro, due sacerdoti e due laici, seguiti poi da altri quattro il 15 dicembre. Altri sei, affiancati da otto suore Vincenzine del Cottolengo, arrivarono a destinazione in Kenya il 17 giugno 1903.
Nella costruzione della Casa Madre
Quando la prima casa dell’Istituto in corso Duca di Genova (l’attuale corso Stati Uniti) a Torino, denominata «la Consolatina», non fu più sufficiente a ospitare gli aspiranti missionari che vi studiavano, vivevano e lavoravano, l’Allamano acquistò un terreno di 12mila m2 in via Circonvallazione 514-516 angolo corso Oporto (ora corso Francesco Ferrucci, dal 12 al 18). Nel marzo 1905, sotto la guida del Camisassa, si iniziarono i lavori di quella che sarebbe diventata la Casa Madre.
Nel provvedere per le missioni
Tutta l’organizzazione materiale delle prime missioni (preparazione del corredo per i missionari, spedizione di casse, progetti per la costruzione di case, fornitura di attrezzi di lavoro, ecc.) dipendeva da Giacomo Camisassa.
Come già per il Santuario aveva studiato progetti, trattato con impresari, tenuto sedute con architetti, assistito a lavori, scelto i materiali, cercato persone idonee, concluso contratti, sempre attento alla perfezione della riuscita; così fu per il compito che assolse per le missioni.
Il canonico Allamano non era fatto per questo genere di preoccupazioni e di occupazioni. Il primo a riconoscerlo e manifestarlo fu egli stesso, come scrisse padre Sales: «Era solito dichiarare che non si sarebbe deciso al grave passo – di fondare l’Istituto – se non si fosse trovato al fianco un uomo della tempra e dell’abilità del Camisassa».
Il Camisassa, di fatto, era il dinamismo in persona, con una competenza spiccata per le «cose pratiche».
Testimonia padre Antonio Borda Bossana, membro del secondo gruppo partito per il Kenya: «Il salone del Convitto sopra la sacrestia divenne un bazar di ogni cosa necessaria alla vita dei missionari. È lui (il Camisassa, ndr) che pensava a tutto e tutto provvedeva, lui che si recava nei negozi a scegliere e contrattare le merci. L’economo e i preti addetti al Santuario alle sue dipendenze erano tutto il giorno di corsa per eseguire le sue commissioni, massime quando s’approssimava il tempo di spedizione delle merci».
Nella visita alle missioni del Kenya
Dieci anni dopo la partenza dei primi missionari, e poco dopo la fondazione delle Missionarie della Consolata nel gennaio 1910, i missionari in Kenya reclamavano una visita del fondatore perché conoscesse bene la situazione, valutasse risultati, chiarisse problemi per poi affrontare insieme il cammino da fare. L’Allamano non era in condizione di lasciare il Santuario e la sua salute non gli permetteva un viaggio così impegnativo. Mandò così il suo più fedele collaboratore che partì da Torino l’8 febbraio 1911. Giunto in Kenya a marzo 1911 vi restò fino ad aprile 1912, rientrando a Torino il 26 di quel mese. Scopo del viaggio: aumentare l’entusiasmo dei missionari, rinsaldare la loro buona volontà, approfondire la loro spiritualità e confortarli con la sua presenza, sostenendoli nelle difficoltà e negli insuccessi. A sessant’anni circa, era arzillo come un giovane, con il largo cappello di sughero, in abiti rurali, pronto al lavoro e sempre fresco, come nulla gli mancasse.
Nonostante la lentezza della posta a quei tempi, tenne costantemente informato l’Allamano sulle sue attività, creando una fitta corrispondenza e chiedendo i suoi consigli su situazioni difficili.
Parlando del programma della visita all’Africa del Camisassa, l’Allamano avrebbe ricordato che: «Vi andò per parlare ai missionari, sia in privato nelle singole stazioni, sia in pubblico durante i Santi spirituali esercizi, ed intendersi con essi sulle Costituzioni, Regolamento, esercizi di pietà, vita comune, ecc., secondo un formulario che avevamo preparato di comune accordo».
Il Camisassa diede grande impulso e aiuto ai lavori materiali. In diverse sue lettere autografe ai missionari si notano, tracciati a penna, rapidi schizzi di macchinari o di attrezzi di lavoro. Prima di spedire il materiale in Africa, a volte progettato sulla base delle indicazioni dei missionari stessi, il Camisassa si preoccupava di istruire per lettera gli interessati che lo avrebbero adoperato. Sono particolarmente dense di questi disegni le lettere che scrisse nel 1911, durante la sua visita alle missioni del Kenya, perché poteva constatare di persona le necessità e controllare i lavori.
Nella segheria installata nella foresta di Tuthu, sotto la guida del coadiutore Benedetto Falda, si costruirono diverse case prefabbricate, che furono le prime abitazioni in legno per il personale delle missioni.
Provvide a realizzare gli altarini portatili perché i missionari potessero sempre celebrare la messa, anche durante i viaggi. Nell’archivio dell’Istituto è conservata copia del disegno, opera sua, di un altare portatile composto da 22 pezzi smontabili e facili da assemblare per la celebrazione.
La più bella conclusione a questo punto siano le due lettere scritte dal Camisassa e dall’Allamano al termine della visita in Africa.
Scrisse il Camisassa: «Le accoglienze cordialissime da parte vostra eran cose che poteva già aspettarmi ben conoscendo quanto affetto avete sempre nutrito verso la mia povera persona, quale debole cooperatore di quell’anima santa che tutti siam fortunati di chiamare col dolce nome di Padre».
Scrisse l’Allamano: «Il felice ritorno del sospirato Vice Superiore fu un momento di gioia per me e per tutti nell’Istituto. […] Vi rinnovo i ringraziamenti per le festose accoglienze che gli avete fatte e per la docilità con cui avete accettato quanto egli credette di dirvi pel vostro maggior bene».
Confondatore
Non c’è dubbio che gli Istituti fondati dall’Allamano ritengono, con ragione, il Camisassa loro «confondatore», come era già denominato quando l’Allamano era vivo, il quale per primo, volle dargli il più ampio riconoscimento chiamandolo confondatore egli stesso, vale a dire: «Fondatore con lui, fondatore unitamente a lui».
In due documenti ufficiali datati 2 ottobre 1909, si parla di «due fondatori» e sono firmati da entrambi i canonici Allamano e Camisassa.
Il primo è la supplica al Papa per ottenere l’approvazione dell’Istituto, di modo che divenisse di diritto pontificio. Essa incomincia: «Beatissimo Padre, i sottoscritti fondatori dell’Istituto della Consolata […]» (cfr. Lett., V, 278).
Il secondo è la petizione alla Congregazione dei religiosi, per lo stesso motivo.
«Aveva l’arte di nascondersi»
L’umiltà fu la sua virtù prediletta. Nascondeva costantemente se stesso per mettere gli altri in luce. Mai parlava di sé e di quanto faceva. Pochi lo conoscevano di nome, pochissimi di vista (Da Giuseppe Ronco, Il confondatore aveva l’arte di nascondersi, in https://giuseppeallamano.consolata.org). «Ho sempre ammirato in lui una umiltà profonda, si faceva uno studio di nascondersi sempre dietro l’ombra del Rettore. La sua preoccupazione era di scomparire, di essere ignorato» (mons. Rostagno).
Sperimentava la beatitudine di essere secondo.
Quanto l’Allamano stimasse il Camisassa, oltre ad averlo dimostrato con tutta la vita, appare da queste sue affermazioni proferite durante la malattia e dopo la morte dell’amico: «Per lui ho offerto la vita, ma vale niente»; «Senza di me potete fare, ma senza di lui, no»; «Tocca a me fare i suoi elogi. Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà».
Ciò che colpisce non è solo la collaborazione, ma anche lo stile con cui questa collaborazione venne attuata per così tanti anni. Uno stile indicato dalle parole dell’Allamano già citate: «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto». Si comprende allora perché diceva: «Non dimenticate quest’uomo!» (Padre Aquileo Fiorentini, Missionari di Gesù Cristo per la gioia del mondo, come Paolo e i suoi collaboratori, Bollettino ufficiale 125, gennaio 2009).
Tessitore di fraternità
Conosciamo bene l’attaccamento sincero e il servizio incondizionato che il Camisassa dedicò ai due Istituti missionari, con particolare attenzione a quello delle suore.
La nuova casa dei missionari fu inaugurata il 23 ottobre 1909, mentre il 29 gennaio 1910, si diede inizio alle suore «Missionarie della Consolata».
Si preoccupò che anche le suore avessero una casa e si prese cura della sua costruzione. Il 4 settembre 1922 la comunità delle Missionarie della Consolata poté entrare nella propria Casa Madre.
Nella Lettera Circolare del 26 agosto 1922, il fondatore, comunicando ai missionari la dolorosa notizia della morte del Camisassa, così si esprimeva: «Egli viveva per voi e per le nostre missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Le sue ultime parole, che disse nel suo testamento, furono di unione fra i missionari e le missionarie». La sua vita fu la testimonianza più bella di quell’unione. Il suo amore era per tutti senza distinzione.
Fu un umile maestro di vita che si prodigò per il bene dei due Istituti, affinché vivessero in comunione. Il suo servizio fu caratterizzato dalla sincerità, dalla fiducia e dalla correzione fraterna, dal vivere l’unità di intenti nella collaborazione e corresponsabilità, quello che oggi chiameremmo lo spirito della sinodalità.
La morte
Il 18 agosto, verso sera, come svegliandosi da un sogno, il canonico Giacomo Camisassa si guardò intorno e fece cenno a suor Virginia Barra, che lo assisteva, di dargli il suo Crocifisso, lo stesso fece con padre Carlo Francesco Sciolla che la aiutava. Legò insieme i lacci dei due Crocifissi e li tenne sul cuore mentre guardava intensamente il padre e la suora. Cercò di parlare e dire qualcosa, ma non riuscendo lo aiutarono: «Significa che i padri e le sorelle devono restare uniti nell’amore reciproco?». «Sì; sì; questo è tutto…», rispose. Poi, continuando a tenere lo sguardo sui presenti, disse: «È il padre (Allamano, ndr) che vi ha legati». «E lei desidera che noi rimaniamo sempre così uniti; è giusto?». «Sì, è il mio desiderio, ma è il padre che lo vuole». Continuò a baciare i Crocifissi, stringendoli al cuore.
In quel momento, l’Allamano entrò nella stanza. Non capì cosa stesse accadendo e, così, chiese loro di sciogliere i Crocifissi. Il malato dimostrò di soffrire per questo.
Appena venne a conoscenza di ciò che era capitato, l’Allamano disse: «Se solo avessi saputo, non avrei mai chiesto di slegare i due Crocifissi. Li avrei tenuti com’erano a testimonianza delle sue intenzioni».
Scrisse ai missionari in Kenya: «Le ultime parole del nostro caro defunto furono sull’unione tra i nostri missionari, gli uomini con le donne».
Più tardi scrisse ancora: «Quell’azione fu un’ultima volontà d’amore. Sta a noi essere fedeli a essa: è sacra».
Erano circa le 20, una sera calda e umida. Tutti erano a cena, tranne suor Emerenziana e suor Ambrosina che assistevano il malato che era preso dalla smania di alzarsi per «andare all’Istituto». Nel suo delirio, all’improvviso, il Camisassa riuscì ad alzarsi dal letto, fece alcuni passi barcollanti e cadde: era morto.
«Era maturo per il cielo»
«Carissimi e carissime in N. S. G. C. (Nostro Signor Gesù Cristo, ndr)
Mi trema la mano, il cuore si gonfia e gli occhi versano lacrime nell’indirizzarvi questa breve lettera. Il nostro caro Vicerettore e Vice Superiore non è più tra noi e non lo rivedremo che in Paradiso. Spirò placidamente la sera del 18 corr. mese, con tutti i conforti religiosi e le cure più affettuose. Quale perdita per il santuario e più per l’Istituto e le Missioni! Vedevamo necessaria la sua esistenza e pregammo la nostra SS. Consolata a prolungargli per qualche tempo la vita. Molti, io pure, hanno offerto la propria vita perché fosse conservata quella del nostro caro.
La SS. Consolata non credette di esaudire le comuni preghiere. Era maturo per il cielo. Aveva compiuto la sua santa e laboriosa giornata e poteva dire con san Paolo: Cursum consummavi, in reliquo reposita est mihi corona justitiae (ho terminato la corsa, … mi resta solo la corona di giustizia, ndr). Pronunciate con me il fiat all’imperscrutabile volontà di Dio, e sia in suffragio della bell’anima.
In tanto dolore ci consolarono le prove di stima e di affetto che tutta Torino diede a Lui umile e da molti sconosciuto. La sepoltura fu un trionfo. Egli viveva per noi e per le nostre Missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Pregate per Lui ed anche per me desolatissimo che nel nome della SS. Consolata vi benedico».
Così scrisse l’Allamano ai missionari e missionarie per dare l’annuncio della morte di Giacomo Camisassa, per la quale soffrì molto (Lettera n. 1580, da Candido Bona (a cura di), Quasi una vita, lettere scritte e ricevute dal beato Giuseppe Allamano, Vol IX/1 p. 448). Allora confessò umilmente che, in quel momento, aveva come «perduto tutte due le braccia». «Se non avessi avuto al mio fianco il canonico Camisassa, non avrei fatto quello che ho fatto».
La morte del Camisassa fu un colpo molto sentito, così per dodici mesi consecutivi, nel giorno 18 di ogni mese si celebrò in Casa Madre una messa solenne. Nella nona ricorrenza, il 18 maggio 1923, la santa messa fu cantata da monsignor Gaudenzio Barlassina, tornato dal Kaffa, in Etiopia. Il venticinque luglio, festa di san Giacomo, tutte le comunità di Casa Madre andarono al cimitero a celebrare una santa messa e a visitarne la tomba.
«Proruppe in un pianto dirotto»
Il canonico Nicola Baravalle così espresse la propria ammirazione per l’Allamano, con il quale aveva collaborato molti anni: «Ricordo quella sera nella quale eravamo tutti addoloratissimi, sia per la perdita del grande canonico Camisassa, come per la ripercussione che tale dipartita avrebbe avuto sul Servo di Dio. Assistette all’agonia ed alla morte senza una lacrima. E poi, portatosi in chiesa, appena inginocchiato, proruppe in un pianto dirottissimo e restò parecchio assorto in Dio. Rialzatosi, prese le disposizioni del caso; restò per qualche tempo impressionato, ma non ebbe più una lacrima, e non ritornò più sul fatto. Solo si rese più appartato, dovendo supplire a quanto faceva il Camisassa».
Anche le Missionarie della Consolata colsero le reazioni dell’Allamano dopo la morte del suo amico. Nel breve incontro alla Consolata del 3 settembre 1922, l’amanuense annotò, tra parentesi «(Andiamo noi alla Consolata perché pioveva)», e poi al termine delle poche righe: «(Ritornando a parlare del Sig. Vicerettore) Sì, non mi sembra vero che non ci sia più, ma penso che c’è il suo spirito. Pensate a far tutto come voleva lui, e pregate per lui».
I suoi figli e figlie, anche quelli lontani, compresero perfettamente e condivisero lo stato d’animo del loro padre. A nome di tutti loro, così scriveva dal Kenya il vicario apostolico monsignor Filippo Perlo all’Allamano: «[…] il suo buon esempio non può non apportare anche a noi conforto e incoraggiamento. Grazie anche per questo».
Uno accanto all’altro
Dal 2001, le spoglie mortali del Camisassa riposano accanto a quelle dell’Allamano. L’urna di zinco è contenuta in un elegante cofano di legno. Dietro il cofano, in lettere d’oro, si possono leggere queste parole: «Un amico fedele è un balsamo (Si 6,15). Tale è stato Giacomo Camisassa per l’Allamano. Di lui ha detto l’Allamano: “Ci siamo sempre amati in Dio”. “Abbiamo promesso di dirci sempre la verità e lo abbiamo sempre fatto”. “Viveva per noi e per le nostre missioni”. “Ha sempre e solo lavorato per amor di Dio”. “Non dimenticate quest’uomo”». L’Allamano e il Camisassa, che ora riposano l’uno accanto all’altro, sono meta di filiali visite da parte dei Missionari e delle Missionarie della Consolata e di molta gente.
Giuseppe Ronco
Apostoli con la parola e il lavoro
Lettera a fratel Benedetto Falda nella segheria della missione di Tuthu
Torino, 8 marzo 1904
Carissimo fratel Benedetto,
ho ricevuto ieri la tua lettera del 3 febbraio scorso. Non puoi credere quanto mi abbia fatto piacere sapere che l’andamento alla segheria procede benissimo e tu sei sempre felice del tuo lavoro. Persuaditi che quello è un vero apostolato, tanto quanto il sacerdote che predica. L’impressione che il lavoro fa sugli Akikuyu, il movimento febbrile delle macchine, onora presso di loro il lavoro e sveglia la brama di imitarvi, d’imparare affin di migliorare le loro condizioni di vita. […]
Sai, Benedetto, perché ti dico queste cose? Perché tu e quanti sono con te vi persuadiate che, come coadiutori, siete veri missionari, anche facendo il falegname, il muratore, il contadino o altro. Per fare bene la vostra parte dovete lavorare con spirito di fede, volentieri, allegri, concordi e sempre intenti al pensiero che Dio vi vede, intenti a dare il buon esempio.
Con spirito di fede: col pensiero che Dio vede, fare le cose come se aveste accanto Gesù e dovesse esaminarvi se fate bene e se vi approvi.
Volentieri: cioè, come foste mai stanchi; mai perdere tempo!
Allegri: sempre col sorriso sulle labbra, mai di cattivo umore. Qualche volta può darsi che non lo siate, ma non fatelo trasparire. E poi, mai tratti duri con gli Africani!
Concordi: trattarvi a vicenda con carità, aiutandovi scambievolmente; insomma essere un cuore solo, un’anima sola, come veri fratelli nel Signore Gesù.
Buon esempio: gli indigeni hanno occhi semplici, ma tutto vedono, tutto osservano, fanno ciò che voi fate. […] Guai se scandalizzaste uno di loro! Applicate le parole di Gesù al vostro ambiente. […] Finisco!
Voglio solo aggiungere che il Signor Rettore, leggendo la tua lettera, è rimasto molto contento, gioisce quando gli dici che i tuoi ti vogliono bene. Ciò significa che si vanno affezionando a te, a tutti. Sì, cerca di affezionarteli, per poter dire, anche sul lavoro, brevi parole di esortazioni, su Dio che premia i buoni… Sono parole e, dice il Signor Rettore, che, se dette con fede, ti fanno apostolo. Così dice il Rettore: «essere apostolo con la parola e con il lavoro».
Can. G. Camisassa
Un uomo dalla fede adamantina
Testimonianza di fratel Benedetto Falda sul Camisassa, Torino, 2 giugno 1944
Rev.mo Padre Gays,
In referenza alla sua domanda di mettere in carte quel che ricordo del nostro amatissimo Can. Camisassa, mi permetto di scriverle quel che più mi si impresse nella mia mente.
Conobbi il Rev.mo Sig. Vicerettore, così nominato da tutti i confratelli all’Istituto, dal primo giorno che ebbi la fortuna di essere posto a contatto col Rev.mo Nostro Fondatore. Mi ricordo che mi colpì la sua affabilità, non dico paterna, ma fraterna, anzi, quasi di compagno. Essendo in quei giorni preoccupato di cercare un meccanico per inviare in Africa con le nuove macchine mi ebbe subito caro e mi pose a parte dei suoi progetti condivisi completamente da me, entusiasta dei suoi ideali che feci miei.
Stante la scarsità del tempo (4 mesi in tutto, per la mia preparazione e quella delle macchine) si occupò personalmente a farmi avere conoscenze per aver occasione di impraticarmi di segheria di cui ero affatto digiuno. Ebbi modo di constatare con quale praticità e facilità e accuratezza trattava gli affari […] dal trattare con l’ingegnere per l’amplificazione del Santuario [al dare] ordini all’economo, don Gunetti, per riguardo al vino in cantina e […] vedere se le lime che io avevo comperato erano del giusto taglio per affilare le seghe di acciaio […]. Aveva tracciato progetti d’impianti che poi ai disegni che ne facevo, correggeva colla medesima cura e competenza, come correggerà le bozze del Periodico, andando fino alle minuzie, non con pedanteria, ma con la competenza che lo rendeva atto a correggere anche i disegni dei marmi dell’impresario Catella.
Quell’che più mi impresse si fu che la sua attività lo faceva avaro del tempo […].
Quando arrivai in Missione, ebbi campo di mettere in pratica i consigli praticissimi che Egli mi aveva dato alla partenza, ma pochi mesi dopo il mio arrivo colà mi scriveva una lettera, mi pare del mese di settembre (1904), che la S. V. R. ricevette da me qualche mese fa. In quella mi ammoniva amorevolmente che io mi tenevo troppo riservato nello scrivere e mi diceva: «Come va che dopo tanto combinato per quel macchinario, non mi fai parola? Riguardo allo spirituale scrivi sovente al Sig. Rettore, ma pei lavori voglio da te lettere particolareggiate e lunghe e frequenti». […]
Dopo qualche mese, mi giunsero disegni e particolari di una casa a due piani, che voleva come modello, fosse eseguita per l’abitazione dei Missionari. Ma i particolari erano così minuziosi e copiosi ed eseguiti con tale perizia, che pensavo dove avesse fatto gli studi per essere così pratico di falegnameria e di accorgimenti propri solo a tecnici provetti. Nell’1908, nella mia venuta a Torino, ebbi agio di osservare la costruzione della Casa Madre di Corso Ferrucci (allora chiamato via circonvallazione, ndr), lavoro colossale che egli concepì e diresse con una diligenza e competenza non comune. […]
Lo rividi nel 1911-1912 nel Kenya, nella sua visita che fece colà. […]
Per il lavoro di Missione, poi, aveva un culto speciale – interessandosi della vita nostra di Missione come se non avesse avuto altro scopo nella sua vita. […] E nelle sue lettere non si riservava solo di parlarmi di lavori, ma conservai per lungo tempo una sua lunga lettera di quattro pagine in cui mi animava nel proseguire con lena nel servizio della Missione, con parole tanto infiammate di amore per Dio e per le anime che ne fui tocco al cuore!
Lo rividi nel 1920 nella mia venuta in Italia; dopo 18 anni, mi accorsi che il lavoro e gli anni cominciavano a contare sulla sua forte fibra, ma il suo sguardo e la sua parola era[no] ancora quelle di tanti anni addietro, tutto vivezza e tutto slancio per quel che riguardava l’Istituto, che certamente considerava come parte sua creatura […]. Ebbi per Lui sempre un’affezione speciale e un’ammirazione illimitata; lo considerai sempre un uomo dalla fede adamantina […]. Credo che il suo motto fosse «Tutto per la gloria di Dio». Gradisca, Rev.mo Padre i miei più affettuosi saluti nel Signore.
Coad. Benedetto Falda
Date essenziali
27 settembre 1854 Nascita di Giacomo Camisassa a Caramagna Piemonte (Cn) – Italia.
(data registrata in comune; nel registro del battesimo risulta invece nato alle ore 23 del giorno 26 settembre, ndr)
Ottobre 1868 Entra all’Oratorio di don Bosco, a Torino, per i corsi ginnasiali.
22 ottobre 1871 Veste l’abito chiericale nella chiesa parrocchiale di Caramagna.
15 giugno 1877 Ordinato sacerdote nel duomo di Torino, da mons. Lorenzo Gastaldi.
8 luglio 1879 Si laurea in Teologia, a pieni voti.
3 ottobre 1880 Su invito del can. Giuseppe Allamano, diventa economo nel Santuario della Consolata.
15 giugno 1887 Il card. Gaetano Alimonda, lo nomina uno dei sette membri della Facoltà di Diritto canonico e civile.
7 luglio 1892 Nominato «Canonico onorario».
20 ottobre 1895 Viene confermato membro aggiunto della Facoltà legale, col titolo di «avvocato».
Gennaio 1899 Esce il primo numero del periodico «La Consolata», ideato e fondato dal Camisassa.
10 maggio 1902 Accompagna, fino a Marsiglia, la spedizione dei primi quattro Missionari della Consolata per il Kenya.
19 giugno 1905 È nominato «Canonico effettivo».
8 febbraio 1911 Inizia la visita alle missioni del Kenya.
26 aprile 1912 Rientra a Torino dal viaggio in Kenya, dopo una sosta a Roma.
18 agosto 1922 Muore presso il Santuario della Consolata.
15 novembre 1976 La sua salma viene trasferita nella cappella mortuaria dell’Istituto (Camposanto generale di Torino).
5 ottobre 2001 Le spoglie mortali del Camisassa vengono solennemente collocate accanto al sepolcro dell’Allamano, nella chiesa santuario di Casa Madre a Torino.
Preghiera per l’anno del Camisassa
Grazie, Signore, per aver donato
alla nostra famiglia missionaria
la presenza discreta, operosa e benedicente
del canonico Giacomo Camisassa.
Egli, uomo di Dio,
uomo di comunione e collaborazione,
in sintonia con il beato Giuseppe Allamano
sostenne la nascita e lo sviluppo
degli Istituti missionari della Consolata.
Donaci, Signore, di imparare dal nostro Confondatore
l’arte della vera amicizia fraterna,
la silenziosa operosità,
l’umiltà di chi cerca Dio con tutto il cuore
e la dedizione entusiasta alla missione
nella quale Dio, nella sua bontà, ci coinvolge.
Lo chiediamo a Te, Signore Gesù,
il Figlio missionario del Padre,
che vivi e regni con Lui e lo Spirito Santo
nei secoli dei secoli. Amen!
Hanno firmato questo dossier:
Giuseppe Ronco, missionario della Consolata. Ha servito due periodi in Zaire – Rd Congo (1973-1977 e 1985-1987). Formatore dei teologi a Rivoli (1977-1985). In Canada, a Montréal, dal 1987 al 2007. A Roma dal 2007 al 2018. Ora è in Casa Madre a Torino. Per questo dossier si è avvalso anche di lettere e comunicazioni interne dei superiori generali delle missionarie e dei missionari della Consolata.
A cura di Gigi Anataloni, direttore di MC dal 2010.
Foto di questo dossier
Dall’Archivio fotografico Missioni Consolata (AfMC) a Torino. Quelle scattate in Kenya sono di monsignor Filippo Perlo.
Testi
Nei dossier ci sono molte citazioni di testimonianze di Missionari e Missionarie della Consolata e altri sacerdoti della diocesi di Torino. Gli originali sono nell’archivio generale dei Missionari della Consolata a Roma, spesso frutto delle ricerche e degli studi del compianto padre Francesco Pavese.
Festa della Consolata da Kiełpin
Carissimi un caro saluto a tutti voi. Vi invito domenica 19 giugno alla festa della Consolata, nostra patrona tenerissima.
La festa di quest’anno che terremo a Kiełpin avrà un significato speciale.
Alcuni gruppi di ucraini desiderano ringraziarvi per la solidarietà che avete dimostrato.
Per questo organizzeremo una diretta su youtube (qui sotto trovate il link), attraverso il quale potrete collegarvi e seguire la santa Messa dal nostro giardino presieduta dal Nunzio apostolico S.E. Salvatore Pennacchio il quale alla fine benedirà i nostri volontari che questa estate partiranno per il Tanzania.
Appena finita la Messa, il coro di musica sacra ucraino (gli Angeli) terrà un concerto di ringraziamento per tutti voi, per il bene che avete condiviso.
All’inizio del concerto proverò a leggere in italiano una lista dei gruppi o dei volontari che in questi mesi hanno aiutato la causa ucraina attraverso la nostra comunità, sperando di non dimenticare nessuno di voi.
Un caro saluto a tutti. Buona festa con un ricordo.
È da poco passata la bella festa della nostra Consolata, mentre mi accingo a stendere queste note per il prossimo mese. E mi ritorna alla mente la «Maratona di preghiera» voluta da papa Francesco per pregare Maria, nel mese di maggio, in una trentina di santuari sparsi per il mondo. Ho cercato di collegarmi, ogni sera, in quasi tutte queste tappe, commovendomi, ogni volta, nel vedere i diversi modi con cui ogni comunità di credenti (anche nei paesi più lontani, piccoli, o poveri) si rivolgeva alla Madre del Signore per chiedere protezione, conforto e… guarigione in questa interminabile pandemia di Covid-19.
Dunque, un vero tour missionario, «di quelli che non trovi tanto sulle carte geografiche – ha scritto qualcuno – ma disegnato sulle pareti del cuore; una “mappa” dello spirito, incorniciata da due sole linee: una orizzontale a unire i compagni di strada, l’altra orientata verso l’alto, a legare la terra al cielo in quel dialogo di vita che si realizza nella preghiera».
E la maratona si è (ovviamente) conclusa a Roma, nella casa (o meglio, nei giardini) del Papa che, in un gesto di profondo affetto filiale, ha anche voluto incoronare l’immagine della «Madonna che scioglie i nodi», di cui egli è particolarmente devoto.
Nodi che sono stati evocati col loro nome preciso: la nostra relazionalità ferita dalla solitudine e indifferenza; il dramma della violenza, scatenata soprattutto in famiglia durante il coronavirus; la disoccupazione crescente, con particolare attenzione a quella giovanile e femminile; la ricerca scientifica, capace di scoperte da rendere accessibili a tutti, soprattutto ai più deboli e poveri; una pastorale nuova, che renda più dinamiche le comunità ed entusiasmi i giovani a costruirsi una famiglia e un futuro migliore. Cinque nodi, come i misteri del Rosario, anche se ce ne sarebbero molti altri…
Che bello, allora, pensare che nei nostri piccoli, ma tenaci sforzi per sciogliere questi nodi, siamo accompagnati dallo sguardo e dal cuore di Maria, per noi la Consolata, che è diventata «un po’ più missionaria» grazie alla tenace fiducia di Giuseppe Allamano, nostro padre e fondatore, il quale, con il suo esempio e i suoi insegnamenti, spinge tutti noi, suoi figli e figlie (ma anche i tanti suoi amici e devoti), a non stancarci mai di portare consolazione e speranza, proprio nel nome di Maria e «fino agli estremi confini della terra».
Sciogliendo nodi, per tessere legami di vera e universale fraternità.
padre Giacomo Mazzotti
Un nome che impegna
Giuseppe Allamano era convinto, e lo diceva apertamente, che la spinta per dare il via ai suoi due istituti missionari era partita dalla Madonna, alla quale attribuiva, senza nessuna esitazione, il titolo di «Fondatrice». Per questo, è stato un atto spontaneo e logico per lui chiamarli col nome di «missionari e missionarie della Consolata». Egli, tuttavia, non concepiva questo nome come un semplice titolo, ma, come lui stesso ha spiegato, come l’indicazione di un’identità e di un programma di vita dei suoi figli e figlie.
Due nomi, ma uno solo basterebbe
Un giorno, incoraggiando gli allievi a fare bene la novena della Consolata, l’Allamano ebbe a dire: «Ne portiamo il titolo come un nome e cognome». Sappiamo che, almeno nella nostra cultura, il nome e il cognome identificano una persona e, quando diventano una firma, la impegnano. Per l’Allamano il nome e il cognome dei suoi missionari, vale a dire ciò che li identificava e li impegnava, coincidevano con un unico termine: «Consolata».
Pochi giorni dopo, accingendosi a spiegare le Costituzioni, come è logico, incominciò dal titolo dell’Istituto. Ecco come si espresse: «Possiamo gloriarci di avere due titoli: quello della Madonna (Consolata) e quello del fine (missionari), ciascuno dei quali basterebbe».
Questa idea dell’Allamano ha uno spessore notevole: due titoli, ma uno solo sarebbe sufficiente. Quale dei due? Il nostro fondatore non si dilunga a spiegarlo, ma è ovvio che nella qualifica mariana l’Allamano comprendeva anche quella missionaria e viceversa. Ciò non stupisce, se consideriamo come lui abbia insistito perché i suoi figli e figlie fossero totalmente mariani e totalmente missionari. Oltre tutto, nel parlare familiare, li chiamava volentieri «missionari», ma qualche volta anche «Consolatini». Il che è tutto dire.
Spiegando alle suore questa duplice identità mariano-missionaria ebbe a dire: «Il nostro istituto si chiama: “Istituto missionarie della Consolata”, cioè noi siamo della Consolata e, tra quelli della Consolata, siamo i missionari. Il titolo di “missionari” è quello che determina il nostro istituto».
Come motto posto all’inizio del primo regolamento, l’Allamano aveva scelto il testo del profeta Isaia 66,19: «Et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (E annunzieranno la mia gloria alle genti). Ovviamente, non ignorava che il profeta parlava della gloria di Dio che Israele avrebbe dovuto promuovere in mezzo ai popoli nei quali era stato disperso. Tuttavia, nella sua filiale pietà mariana, egli si permise di fare un’interpretazione devozionale, riferendo queste parole alla Madonna, a motivo della sua indissolubile unione con il Figlio per la redenzione dell’umanità. Dunque, i Missionari della Consolata, nella convinzione dell’Allamano, avrebbero dovuto impegnarsi per la gloria di Dio, e congiuntamente e subordinatamente per la gloria di Maria, attraverso l’annuncio del Vangelo e la salvezza delle anime.
Diventare ciò che il nome esprime
Portare il nome della Madonna è sicuramente un onore. L’Allamano ci ha invitato a sentirci orgogliosi di avere tale nome, ma non si è fermato lì. Forte della sua esperienza di educatore e concreto com’era, egli ha indicato dei percorsi di crescita proprio in forza del nome che la Consolata «si è degnata di imprestarci».
Scrivendo il 16 maggio 1914 a sr. Margherita Demaria, superiora delle missionarie in Kenya, concluse la lettera con queste incoraggianti parole: «Vi benedico ai piedi della nostra Patrona: dimostratevi sempre degne del nome che portate». Questa esortazione ad essere degni del proprio nome, perché era un dono della Consolata, è stata ripetuta altre volte. Per esempio: «Noi siamo un miracolo vivente delle grazie della Madonna; cerchiamo di meritarci ogni giorno di più il bel titolo che ci ha dato e state attente che un giorno o l’altro non ce lo tolga e ci dica: “non siete più Consolatine”, no, no, per carità».
Commentando la festa della Consolata appena celebrata, in una conferenza domenicale, disse: «Voi dovete essere santamente superbe di essere sotto la protezione della Consolata: il nome che portate deve spingervi a divenire ciò che dovete essere». Divenire ciò che indica e richiede il proprio nome per lui voleva dire che i suoi missionari e missionarie dovevano essere semplicemente dei «consolatori» di prima qualità, impegnati a portare ai fratelli e sorelle dei paesi di missione la vera «consolazione» che è la salvezza in Gesù.
Che questo modo di riflettere sia esatto, lo ha confermato il Sommo Pontefice nel messaggio che ci ha inviato per il centenario di fondazione dell’Istituto nel 2001, quando ci scrisse: «Con l’aiuto della Consolata, carissimi fratelli, diffondete la vera consolazione, la salvezza cioè che è Cristo, salvatore dell’uomo».
Figli prediletti e felici
Leggendo quanto ha detto l’Allamano sul rapporto dei suoi missionari e missionarie con la Consolata c’è da rimanere stupiti. Ha usato, infatti, espressioni così intense, che si possono spiegare solo se pensiamo al suo specialissimo rapporto con la Madonna che sognava di trasmettere, allo stesso livello, a quanti intendevano seguirlo.
Ed ecco qualcuna di queste belle espressioni, rivolte dall’Allamano alla Consolata, che possono valere per tutti coloro che seguono la sua spiritualità: «Non è infatti la SS. Vergine, sotto il bel titolo di Consolata, nostra madre, e noi suoi figli? Sì, madre nostra tenerissima, che ci ama come pupilla dei suoi occhi»; «Quando le diciamo (con S. Bernardo): “mostrati madre”, non ci potrebbe rispondere: “e tu ti regoli da figlio?”. Ci regoliamo noi da figli, da veri teneri figli?»; «Quanti ci vogliono bene perché ci chiamiamo: Missionari della Consolata»; «Siamo fortunati, perché la gente non può nominare noi senza nominare la Madonna Consolata».
Essere «della Consolata» è davvero un grande onore, ma anche un forte impegno che ci lega direttamente alla missione.
padre Francesco Pavese
Domenico Agasso, Fare bene il bene.
Giuseppe Allamano, Ed. Paoline, Milano 1990, pp. 198
Dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo
È morto la notte di San Silvestro del 2020, Domenico Agasso, giornalista originario di Carmagnola (To), dove era nato nel 1921, per molti un maestro, un precursore, un narratore di tempi, uomini e luoghi. Fu caporedattore a «Famiglia Cristiana», divenne poi direttore di «Epoca» e del settimanale diocesano torinese «Il Nostro Tempo». Nel 1978, aveva pubblicato una «Storia d’Italia» in otto volumi; autore di libri su papa Roncalli («Mi chiamerò Giovanni»), su papa Montini («Paolo VI. Le chiavi pesanti») e… per noi missionari/e della Consolata, nel 1990, sul beato Giuseppe Allamano, nostro fondatore: «Fare bene il bene».
Vogliamo, allora, ripresentare questa biografia, come segno di gratitudine all’autore che, con questo suo lavoro ha diffuso la conoscenza del fondatore dei Missionari della Consolata, rendendo più simpatica la sua figura e più accessibile la sua santità.
Biografia divulgativa
È una prima caratteristica di questo volume. Esso rappresenta un contributo prezioso di conoscenza, soprattutto sul piano della divulgazione. Il libro è scritto in uno stile essenziale e, nello stesso tempo, confidenziale, aderente alle cose, ma ricco di sfumature. Perciò, si lascia leggere come «un’appassionante avventura dello spirito».
Storia di un santo, nella storia di un tempo Un’altra caratteristica percorre tutte le pagine della biografia, la figura del canonico Allamano viene inserita nel suo contesto storico: quello delle colline monferrine di Castelnuovo e poi quello della Torino fine Ottocento, ricca di fermenti sociali e di santità. E Agasso riesce subito a far cogliere un dato importante: e cioè quanto siano strettamente intrecciate con le avventure terrene dei grandi santi sociali torinesi del secolo scorso.
L’autore, infatti, con pennellate essenziali ma sicure, inserisce la vita di Giuseppe Allamano nel contesto storico e religioso dei suoi tempi, ricostruendo con rara schiettezza le condizioni di vita del seminario, della Consolata, del Convitto, della diocesi, del mondo piemontese, della stessa Chiesa universale. Con misura e discrezione fa poi emergere le virtù coltivate con fedeltà inalterata da questo prete dotto e schivo, paziente e deciso, preciso e autorevole, obbediente e profetico, ordinato nello studio e nella vita, fisicamente gracile e instancabilmente creativo di opere e di fondazioni.
Il «mondo» torinese dell’Allamano
Nei suoi 46 anni di servizio come rettore del santuario della Consolata l’Allamano si ritrova al centro di un universo vivo, popolato di personaggi che hanno lasciato un segno profondo nella storia di Torino e in quella della chiesa. Diventa, così, uno dei protagonisti della «piccola Torino» del suo tempo, e una figura di riferimento per il clero della sua epoca.
L’autore sottolinea che, con Giuseppe Allamano, la Torino dei mestieri e delle botteghe artigiane, ora affacciata sul futuro industriale, apprende (o ri-apprende) il gusto di sentirsi a casa propria sotto le volte sacre del santuario della Consolata. La molta gente che, sempre più numerosa, affolla il santuario è attratta dall’aria nuova che vi spira. L’Allamano rinnova e amplia le strutture, ma anche lo «stile» delle celebrazioni, della pietà e, soprattutto, dell’accoglienza. Molti lo aspettano al confessionale; altri lo cercano in sacrestia per un consiglio, un aiuto, o mettono nelle sue mani un problema di famiglia. È questa folla che lo aiuta a far nuova la Consolata.
Apertura missionaria
Egli, però, non si è accontentato: ha saputo mettere questa «marea di gente» in stato di missione. Lo sottolinea il cardinal G. Saldarini, nella prefazione: «Sacerdote diocesano, formatore di preti secolari, canonico della cattedrale, presente e attivo in tutte le iniziative spirituali, caritative e sociali della diocesi, dai giornali cattolici alle società operaie, l’Allamano porta nella chiesa che è in Torino la coscienza che essa deve essere missionaria, in senso universale, proprio perché è chiesa, chiesa cattolica, e la “missione” è la sua identità e quindi la condizione della sua vitalità».
Gran parte del volume è così dedicata all’azione dell’Allamano come fondatore di due istituti missionari e come organizzatore, assieme al fedele canonico Giacomo Camisassa, delle spedizioni missionarie e responsabile ultimo della direzione da imprimere al lavoro di evangelizzazione. I problemi delle missioni e dei missionari sul campo affluiscono alla sua stanza al santuario della Consolata. Ed egli vi si immerge, li fa suoi e per questo perviene a una comprensione dei problemi di missione in Africa con la sicurezza di chi vi si è preparato con anni di studio; è l’uomo della missione moderna, con la straordinaria capacità di vedere, e in qualche modo vivere, le situazioni e i problemi senza muoversi dalla sua terra: andando dalla Consolata al duomo, dalla Consolata alla casa madre, dal confessionale agli esercizi spirituali. Il libro di Agasso è la testimonianza di questo cammino silenzioso, che porta dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo.
Questa biografia del beato Allamano, afferma ancora il cardinale, «ha tutta la capacità di far ritrovare la “bella immagine del prete”, ridestare nei giovani l’entusiasmo dei grandi ideali apostolici, tener viva in tutto il popolo di Dio la coscienza e la cooperazione missionaria… Per questo mi sento di augurare che questa biografia del nuovo beato Giuseppe Allamano… sia conosciuta da tanti, preti e laici, dai giovani soprattutto. Sono convinto che molto può derivare da questo incontro. Perciò non temo di esortare i giovani a leggerla».
padre Giacomo Mazzotti
Consolate il mio popolo
Un anno fa scrivevo l’editoriale del mese di giugno dal chiuso della mia stanza, nel bel mezzo di una clausura forzata durata ben oltre due mesi. Quei giorni dovrebbero essere un lontano ricordo, e invece la pandemia è ancora qui e sta manifestando la sua virulenza in tutto il mondo, in particolare in quei paesi già colpiti da povertà, guerre e deficienze strutturali croniche. E facciamo fatica a tornare alla «normalità» che rimpiangiamo.
Scrivo «normalità» tra virgolette, perché mi piacerebbe vedere nascere dalla tragedia del Covid una normalità diversa da quella di prima. Quella di cui abbiamo tutti nostalgia, infatti, era fatta di consumi eccessivi di risorse, di spreco e di ingiustizia sociale. Una normalità alla quale siamo stati abituati nei decenni da un sistema economico incentrato sul profitto immediato, che ora spinge perché venga ripristinata quanto prima quella stessa normalità.
La parte di normalità precedente al Covid che salverei e, anzi, amplificherei, è invece quella fatta di relazioni: scambiare un abbraccio, tenersi per mano, mangiare insieme, far festa, danzare, partecipare alla messa e quanto altro comunica amore, aiuta l’incontro, dona consolazione.
E di relazione con la natura, nella quale vivere da ospiti e non da padroni.
Per riprendere nel modo più forte e profondo quella normalità, un esercizio utile da fare è quello della contemplazione, del rintracciare nel mondo che abbiamo attorno i segni della presenza di Dio, i segni che riempiono il cuore e spingono alla comunione con gli altri, e alla consolazione.
Quando usciamo per le strade, allora, proviamo ad assumere lo sguardo di un mio confratello, padre Andrés Garcia, missionario della Consolata che vive tra i Warao a Nabasunuka sui canali del Delta dell’Orinoco in Venezuela, del quale condivido le parole, scritte dopo aver gridato con forza che non vuole rassegnarsi né abituarsi alla paura, alla povertà, all’ingiustizia e al dare sempre la colpa agli altri. Voglio condividere le sue parole con voi, in questo mese dedicato alla nostra Consolata, madre del vero Consolatore e modello di ogni missionario.
«Voglio rallegrarmi per ogni persona che si rialza, per ogni tentativo, per ogni sospiro di speranza.
Voglio sognare di nuovo con ogni sorriso, con ogni carezza, con ogni sforzo.
Voglio che si imprima a fuoco nella mia anima la gioia di quella bambina che dice alla mamma di sapere già le vocali e del suo fratellino più grande che, con espressione di trionfo, mi dice che lui sa già leggere e scrivere.
Voglio continuare ad emozionarmi nel vedere due anziani camminare per strada mano nella mano, innamorati, e nell’ascoltare quei giovani fidanzati che sognano come sarà la loro famiglia, la loro storia d’amore.
Voglio rimanere senza parole di fronte alla bellezza del fiore che cresce umilmente completando con il suo colore e profumo la sinfonia della giungla e anche davanti a quella (giungla) che cresce in città.
Voglio sentirmi una sola cosa con l’universo nel bel mezzo della tempesta e quando la leggera brezza mi accarezza.
Voglio fremere con ogni persona che sogna una nuova umanità e impegnarmi per ogni persona che costruisce giustizia e pace con il suo stile di vita e anche con chi lo fa attraverso i movimenti sociali e i tribunali.
Voglio gioire per tutti gli sforzi fatti in favore della riconciliazione delle persone e dei popoli.
Voglio cantare con ogni persona che si rialza dopo ogni caduta, cercando di essere migliore.
Voglio dirvi che oggi migliaia di persone si sono riconciliate, che sono nati migliaia di bambini, che centinaia di migliaia di innamorati si sono baciati (sì, anche nella quarantena), che centinaia di popoli continuano ad organizzarsi per riprendere i loro diritti, per recuperare la loro storia, le loro terre, la loro cultura, la loro dignità.
Oggi, anche oggi, come ieri e come domani, l’amore continua a vincere e a generare vita in tutto l’universo.
Voglio dirvi quello che già sapete: che Dio è Amore e che lui vince sempre e per sempre.
Non lo vedete?».
Aria di miracolo
Nel mese di marzo scorso, è stata celebrata a Roraima (Brasile) l’inchiesta diocesana sulla guarigione «miracolosa» di Sorino Yanomami (un indigeno della foresta amazzonica), ottenuta attraverso la preghiera e l’intercessione del nostro beato Fondatore. I superiori generali dei missionari/e della Consolata hanno scritto: «Questo è un “miracolo missionario” molto in sintonia con lo spirito dell’Allamano per il quale santità e missione vanno insieme, sono facce della stessa moneta, nella missione la santità trova una casa, nella santità la missione trova il suo significato e i propositi più profondi. La speranza è che questo miracolo, così significativo per noi, sia riconosciuto dalla Chiesa e sia uno stimolo per noi e per tutti a crescere nell’amore per la missione ad gentes che il nostro Fondatore ci ha indicato come finalità specifica dei nostri Istituti e loro ragione di essere».
E il vescovo di Roraima, dom Mário Antônio da Silva, nella messa conclusiva dell’intensa settimana del «Processo diocesano», con commosso entusiasmo del cuore (e della voce), così ha ricordato: «Rivolgiamo lo sguardo al beato Giuseppe Allamano, ringraziando Dio per il dono della sua vita, della sua vocazione, e della sua opera missionaria. Egli, pur restando sacerdote diocesano a Torino, ha fondato gli istituti dei missionari e missionarie della Consolata. Molte volte mi hanno chiesto quante volte l’Allamano fosse venuto a Roraima e ho dovuto rispondere che storicamente non è mai arrivato fin qui. Ma lui è stato presente a Roraima per mezzo dei suoi missionari e missionarie per più di 70 anni, con il carisma, l’amore, l’impegno per la vita dei più poveri, dei popoli indigeni, dei popoli delle regioni più interne o che vivono lungo i fiumi, ai bordi delle strade e della periferia delle nostre città…
E questo “sacerdote diocesano” mi ha toccato il cuore, quando ho letto nei suoi scritti: “Maria, la Consolata, con la sua tenerezza penetra nelle intenzioni del suo Divino Figlio, sa quanto gli costiamo, sa che Gesù vuole la salvezza di tutti. Per questo, il desiderio più ardente della Madonna è che tutte le persone siano salvate; ed è per questo che Gesù è venuto nel mondo e lei, che è sempre stata unita a Lui, non può desiderare altro. E la Consolata – ci insegna ancora il beato Allamano – è nostra madre tenerissima che ci ama come la pupilla dei suoi occhi». Cos’è la tenerezza? La tenerezza è la capacità di amare, risvegliare la gioia nella persona amata, senza interesse, nella gratuità, nella vicinanza, nella docilità e – perché no? – nella gioia e nella santità».
padre Giacomo Mazzotti
o
Tesoriere e segretario della Consolata
Per la rubrica «Cammino di santità» continueremo ad attingere ai numerosi e approfonditi scritti di padre Francesco Pavese, scomparso il 3 maggio 2020.
L’Allamano, più di una volta si è autodefinito «segretario» e «tesoriere» della Consolata. Ovviamente, sono termini che vanno presi in senso analogico, perché il tono con cui sono stati pronunciati era decisamente familiare. Esprimono, però, una convinzione dell’Allamano stesso, che possiamo capire dal suo pensiero sulla Madonna e poi dal contesto nel quale si è espresso parlando sia ai missionari che alla gente.
Non c’è dubbio che l’Allamano abbia vissuto un’intensa spiritualità mariana. Sapeva partecipare interiormente a tutti i misteri riguardanti Maria, e ogni sua festa, anche la più popolare, diventava motivo di riflessione e di incoraggiamento per impegnarsi nel bene.
La dottrina che sta alla base della sua spiritualità mariana risente molto della sua esperienza al Santuario della Consolata. Parlando della Madonna, infatti, ha spesso valorizzato la liturgia della festa della Consolata, e in particolare la colletta della messa, nella quale si leggono queste parole: «Signore Gesù Cristo, che nella tua ineffabile provvidenza hai disposto che ricevessimo ogni cosa per mezzo di Maria, tua SS. Madre, concedici benigno (ecc.)».
L’Allamano ha illustrato le parole di questa orazione richiamandosi alla mariologia di san Bernardo: «La Madonna, dice san Bernardo, è un acquedotto e una fontana. Una fontana perché tutte le grazie ci vengono di lì. “Hai voluto che ricevessimo ogni cosa per mezzo di Maria”. E poi un acquedotto perché tutto deve passare di lì. La Madonna è questo canale che porta a noi la grazia di Dio».
In altra occasione, parlando sullo stesso argomento, si espresse con termini simili: «Nessuna grazia il Signore ha voluto che venisse a noi, se non per mezzo di Maria, essa è tesoriera e dispensatrice». Ecco, per la prima volta, il termine «Tesoriere», ma riferito alla Madonna. Secondo l’Allamano, Maria è «tesoriera», in quanto ha l’incarico, per esplicita volontà di Dio, di dispensare le grazie ai fedeli.
Giuseppe Allamano credeva di avere un rapporto privilegiato di collaborazione con Maria, quasi prolungando questa sua funzione di dispensare i favori di Dio. La sua attiva e prolungata presenza di primo responsabile al Santuario, forse corroborata dall’esperienza personale di grazie ricevute, probabilmente lo induceva a convincersi che tra la Consolata e lui si erano come create un’intesa e una collaborazione speciali.
Si noti, però, che l’Allamano per lo più faceva precedere al titolo di «Tesoriere» quello di «Segretario», forse proprio per precisare questa sua funzione di totale subordine. In pratica, pensava di aiutare la Consolata a concedere i favori alla gente, prendendo nota delle varie necessità.
I contesti nei quali l’Allamano ha parlato di sé come «Segretario» e «Tesoriere» della Consolata aiutano a capire che cosa intendesse usan- do questi termini.
Nel 1922, durante la novena della Consolata, l’Allamano chiese alle suore che pregassero la Madonna per due intenzioni che in quel periodo gli stavano a cuore: perché la Santa Sede approvasse il miracolo per la beatificazione dello zio Giuseppe Cafasso e, perché approvasse definitivamente le Costituzioni dell’Istituto.
Ecco le sue parole, che sembrano quasi uno sfogo a motivo del ritardo che gli pareva di notare: «Pregate la Madonna che ci faccia questo regalo. Del resto, non perderemo la pace per quello se la Madonna non crede di darcelo. In sostanza io son qui [al santuario] tesoriere, segretario, e dovrei avere il diritto di prendere le grazie principali ed invece… Tutti vengono a dire: Io ho ricevuto questa grazia…; io ho avuto questa… Ed io? Io registro sempre, ma pregate che il Signore faccia la sua santa volontà: è poi tutto lì, vedete!». Come appare evidente, è un santo che si confida alle sue figlie, preoccupato sì, ma totalmente affidato alla volontà di Dio.
Due anni dopo, nel notiziario della Casa Madre inviato alle sorelle in missione, scrivendo sul miracolo del Cafasso che, a Roma, aveva avuto esito favorevole, si legge: «19 febbraio: giornata eucaristica alla Consolata per il ven. Cafasso. Tutti gli allievi e allieve di Casa Madre portano il loro contributo di preghiere fiduciosi di vedere presto innalzato agli onori degli altari il caro Venerabile.
L’amatissimo Padre [Allamano] lo troviamo così sollevato e lieto. Ci dice di averli già fatti lui i patti con la Madonna: “Tutte le preghiere – le ho detto – che oggi i missionari e le missionarie faranno per don Cafasso, rivolgetele a loro e fateli santi subito, incominciando dagli ultimi entrati, e credo che la Madonna avrà fatto così. Io sono il suo segretario, il suo tesoriere ed ho il diritto di essere ascoltato prima degli altri”. E noi ci siamo presentate alla Madonna sicure che la sua benedizione feconderà i nostri sforzi costanti per corrispondere ai grandi desideri dell’amato Padre». Questa volta, il suo rapporto privilegiato con la Madonna lo valorizzò in favore della qualità dei suoi figli e figlie che, in realtà, erano quanto di più prezioso egli avesse.
Questa autodefinizione dell’Allamano ci porta a credere che noi, missionari e missionarie della Consolata, abbiamo l’esperienza della continua ed efficace intercessione del nostro Padre Fondatore presso Dio e la SS. Consolata. Il suo benevolo aiuto ci fu stato assicurato da lui stesso, quando ci disse: «Per voi dal Paradiso farò più di quanto ho fatto sulla terra».
Questa non è stata solo la nostra esperienza. Quando era in vita, molti ricorrevano a lui, perché fosse lui stesso ad intercedere direttamente presso la Consolata. Padre Giuseppe Giacobbe, sacerdote dottrinario che riceveva le confidenze dell’Allamano, disse ai suoi confratelli che l’Allamano era un «Santo che consola e porta la Consolata in saccoccia».
padre Francesco Pavese
Processo di canonizzazione del beato Allamano
Dal 7 al 15 marzo 2021, si è svolta a Boa Vista (Brasile), nella diocesi di Roraima, la fase diocesana della causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, per il riconoscimento della guarigione miracolosa dell’indigeno Sorino Yanomami, attribuita all’intercessione del beato.
Domenica 7 marzo, l’evento è iniziato nella parrocchia della Consolata di Boa Vista con la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo diocesano di Roraima, dom Mário Antônio da Silva.
Alle 10 si è svolta la sessione pubblica di apertura del processo. Il collegio del tribunale era composto dal vescovo dom Mário Antônio da Silva, padre Lucio Nicoletto, vicario generale della diocesi, padre Raimundo Vantuir Neto, cancelliere della curia, padre Michelangelo Piovano, missionario della Consolata, notaio, Elizabete Sales de Lucena Vida, segretaria della curia e il dottor Augusto Affonso Botelho Neto, medico.
Oltre al collegio erano presenti padre Giacomo Mazzotti, missionario della Consolata, postulatore per la causa di canonizzazione del beato, il diacono Augusto Monteiro e le suore, missionarie della Consolata, Renata Conti postulatrice Mc e Maria José.
Iniziando la sessione, dom Mário si è detto onorato nell’aprire il tribunale diocesano per le cause dei santi con il compito di svolgere le necessarie indagini sulla causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Padre Giacomo Mazzotti ha quindi presentato ufficialmente la petizione per aprire il processo sul presunto miracolo della guarigione di Sorino Yanomami, attribuito al beato Allamano.
Di seguito ha avuto luogo il giuramento dei componenti il collegio tribunalizio e, chiudendo la sessione, Dom Mário ha chiesto l’aiuto della preghiera a tutti coloro che avrebbero seguito il processo.
L’attività della Corte è proseguita per tutta la settimana con l’ascolto dei testimoni e ha avuto come momento particolare l’adorazione eucaristica e il canto dei vespri con il clero, i religiosi e le religiose locali, venerdì 12 marzo.
Lunedì 15 marzo, alle 8,30 si è svolta la sessione pubblica di chiusura del processo e alle 19 la celebrazione finale di ringraziamento nella cattedrale.
Ora, gli atti sono stati trasmessi alla Congregazione per le Cause dei santi, in Vaticano.
Suor Maria da Silva Ferreira
«È un momento davvero emozionante – racconta sr. Maria, missionaria della Consolata portoghese e testimone del presunto miracolo, avvenuto 25 anni fa -. Per certi aspetti si tratta di una data storica. Naturalmente, nessuno ha in animo di anticipare i tempi della canonizzazione di Giuseppe Allamano, ma vale la pena fin d’ora di raccontare le circostanze della presunta guarigione miracolosa. Era il 7 febbraio di 25 anni fa. L’indigeno Sorino, nella foresta, venne assalito da un giaguaro, che con forza gli strappò il cuoio capelluto. Ricordo che si ruppe in parte la scatola cranica, ci fu una fuoriuscita di materiale cerebrale e Sorino perse la vista. Furono momenti di grande concitazione, chiamammo i medici e non si pensava di poterlo salvare. Iniziava in quei giorni la novena del beato Giuseppe Allamano e lo invocammo per la guarigione di questa persona. Fu trovato improvvisamente guarito e già allora si gridò al miracolo».
All’epoca, i missionari e le missionarie della Consolata erano molto presi dall’attività con il popolo Yanomami e, stranamente, nessuno ha pensato di andare avanti con il riconoscimento della guarigione. Il Sinodo per l’Amazzonia è stato importante per risvegliare il ricordo di questo fatto. Tra il popolo Yanomami non ci sono quasi cristiani, e il riconoscimento del miracolo sarebbe anche un riconoscimento dal Cielo della nostra pluridecennale attività al fianco di questa etnia, nel nome del dialogo e della promozione umana. In ogni caso, il beato Allamano diceva di fare le cose “bene, senza rumore e senza fretta”. Ed è quello che accade con questa causa».
Don Lucio Nicoletto
missionario fidei donum padovano, vicario generale della diocesi di Roraima, e delegato episcopale nell’inchiesta diocesana sul presunto miracolo di Sorino Yanomami, conosce bene i missionari e le missionarie della Consolata e conferma: «Roraima è cresciuta assieme ai padri e alle suore, grazie alle loro istituzioni educative. Sono stati dei missionari a tutto campo per cui, domenica 7 marzo, inizio del processo diocesano, in una certa maniera si è celebrato un riconoscimento della presen-za dell’Istituto, si è vissuto un atto di fede; per noi “miracolo” non è un fatto fuori dal normale, è riconoscere l’azione di Dio nella vita di ogni giorno, che agisce quando trova il cuore aperto delle persone. La gratitudine si esprime anche attraverso questo segno, che ora viene analizzato e comprovato.
Sorino, infatti, pur non conoscendo il messaggio cristiano, riconosce il bene che ha ricevuto, soprattutto grazie alle cure e all’attenzione delle suore che lo hanno sostenuto e hanno pregato per lui, dandogli così la possibilità di riprendere la vita che conduce-va prima dell’incidente, dopo che il giaguaro gli aveva fracassato il cranio». Un fatto sul quale, dopo 25 anni esatti, si indaga, per scoprire se davvero Dio ha visitato, guarito e salvato Sorino, umile e fiero abitante dell’immensa foresta amazzonica brasiliana.
padre Sergio Frassetto
Cinquant’anni in Sudafrica
Breve presentazione del calendario 2021, dono ai lettori di MC.
I missionari della Consolata arrivano «per forza» in Sudafrica nel 1940 quando sono prelevati dal Kenya e internati a Koffiefontein. Dopo la guerra rimangono in contatto con i molti ex prigionieri italiani ormai stabiliti nel paese e nel 1948 aprono una casa a Città del Capo per missionari che devono fare gli studi di specializzazione necessari per essere riconosciuti come insegnanti nelle colonie inglesi.
Superiore è padre Lorenzo Maletto che lavora intensamente con la comunità italiana e prepara il terreno per le future missioni tra gli Zulu e gli Swati.
Con i missionari, a Città del Capo arriva anche un quadro della Consolata (nella foto). Una tradizione dice che sia stato un dono del fondatore, il beato Giuseppe Allamano, ai missionari in Etiopia, e che mons. Luigi Santa, già vescovo Gimma (fino al 1941), e poi di Rimini, lo abbia conservato come caro ricordo e poi dato ai pionieri di Città del Capo, dove la casa per studi è benedetta nel 1949. Quel quadro diventerà come la «bandiera» dell’Imc in Sudafrica.
Inizio della nostra presenza di evangelizzazione
Il 10 marzo 1971 arrivano in Sudafrica i padri Giovanni Viscardi e Giovanni Berté, rispettivamente dalle missioni del Tanzania e del Kenya. La prima missione è Piet Retief, al confine con lo Swaziland, dal 2018 chiamato Eswatini (in lingua locale: Umbuso weSwatini, regno degli Swazi). Da lì l’evangelizzazione prende due indirizzi: rurale e urbano.
Damesfontein (1972-2009) è il simbolo dell’evangelizzazione rurale attraverso la creazione di piccole comunità, l’accompagnamento spirituale, la formazione di catechisti e leader, il tutto unito alla promozione umana, all’impegno per la salute e la scuola.
Quella urbana comincia con un’équipe di quattro missionari nel 1991 nella vasta zona di Newcastle, Kwa-Zulu-Natal, e partecipa attivamente al cammino del nuovo Sudafrica, inaugurato da Nelson Mandela il 27 aprile 1994. Il ministero dei missionari è un lievito che forma catechisti, leader di settori e organizzazioni di comunità sia nella parrocchia che per la città.
Animazione missionaria e vocazionale
Nel 1995 i missionari della Consolata aprono nell’arcidiocesi di Pretoria, a Waverley e Mamelodi, con lo scopo di farsi conoscere di più in Sudafrica, dare un po’ di grinta missionaria alla chiesa locale e, possibilmente, accogliere anche giovani che vogliano condividerne la missione. Nel 2004 aprono a Daveyton (township), raggiungendo così il cuore politico e sociale del paese.
Il seminario di teologia
Pur non avendo vocazioni sudafricane, i missionari fondano un seminario teologico interculturale a Merrivale (Durban), che può ospitare una dozzina di seminaristi da varie parti del mondo. È il 1° settembre 2008, primo giorno di primavera in Sudafrica. I giovani seminaristi provenienti da diverse nazioni, sono un segno della primavera dell’evangelizzazione di questa nazione multirazziale e multireligiosa.
Un vescovo della Consolata
Il 18 aprile 2009, il padre argentino José Luis Gerardo Ponce De Leon, è ordinato vescovo del Vicariato di
Ingwavuma. Nel novembre 2013 diventa vescovo di Manzini (la capitale del regno di Eswatini) 2013. Dal 2016 gli Imc sono con lui nel piccolo regno.
Missione sempre nuova
Il movimento dei popoli della terra non finisce mai. L’immigrazione è all’ordine del giorno, e tanti rifugiati e migranti da vari paesi africani confluiscono in Sudafrica. La loro presenza è significativa nelle missioni della Consolata, specialmente a Mamelodi (Pretoria), Daveyton (Johannesburg) e Manzini. Sono sfide sempre nuove, rese più impegnative oggi da crisi economiche che aumentano la xenofobia, e dalla pandemia del Covid-19, che colpisce duramente il paese.
A volte si ha la sensazione di essere impreparati di fronte a sfide così grandi, ma la paura non può paralizzare la missione.
Con il continente africano per il mondo
Per i missionari della Consolata, celebrare 50 anni di presenza in Sudafrica è anzitutto ringraziare per il cammino fatto. Tanti dei missionari dei primi giorni ci hanno lasciato e sono in cielo a ricevere il premio dei servi fedeli e, da lassù, fanno il tifo per noi. Ma la missione continua e il Signore manda forze nuove che non solo sono servi di speranza e fraternità in Sudafrica, ma seminano consolazione in tante parti del mondo, Europa compresa.
Lode al Signore e alla nostra Madre Consolata.
da appunti di padre Rocco Marra,
superiore del gruppo in Sudafrica
PS: «Sanibonani» (significa «ti vedo, riconosco la tua presenza») è il tipico saluto in lingua zulu.
Un vescovo che sussurri il Vangelo
testi di Federica Bello, cardinal Luis Antonio Tagle, Anto nio Pompili e Camilla Ceraso
foto di Gigi Anataloni, quando non specificato diversamente |
L’ordinazione episcopale di padre Giorgio Marengo, primo missionario della Consolata nel paese asiatico, prefetto apostolico di Ulan Bator. «È la terra che il Signore ha pensato per me».
Con gli sguardi rivolti all’effigie della Consolata, cuore del santuario torinese dedicato alla Vergine, mentre si diffondeva l’audio di un canto a Maria in lingua mongola, musicato nelle steppe. Si è conclusa così, la mattina dell’otto agosto scorso, a testimoniare quel profondo legame di «cuore e Vangelo» tra la Chiesa torinese e quella mongola (che ha seguito la diretta web), la consacrazione episcopale di padre Giorgio Marengo, primo missionario della Consolata nel paese asiatico, che lo scorso aprile papa Francesco ha nominato prefetto apostolico di Ulan Bator (o Ulaanbaatar), dal nome della capitale.
La consacrazione è avvenuta per le mani del cardinale Luis Antonio Tagle, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Coconsacranti Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, e il cardinale Severino Poletto, arcivescovo emerito della città, che nel 2001 ordinò sacerdote padre Marengo. Concelebranti numerosi vescovi del Piemonte, l’arcivescovo Gabriele Giordano Caccia, rappresentante della Santa Sede all’Onu, il superiore dei missionari della Consolata, padre Stefano Camerlengo, confratelli dell’Istituto missionario e preti diocesani. Stretti intorno alla famiglia – la mamma Laura e la sorella Mariachiara -, anche tutto il consiglio delle missionarie della Consolata. Palpabile la gioia per la consacrazione di un sacerdote molto amato ovunque ha operato.
Chi è Giorgio Marengo?
Vescovo titolare di Castra Severiana (antica diocesi dell’Algeria), padre Marengo, cuneese di nascita (7 giugno 1974) è cresciuto a Torino dove è stato scout e ha frequentato le parrocchie di sant’Alfonso e Maria Regina delle Missioni. Entrato nel seminario dei missionari della Consolata a Rivoli (To) nel settembre 1993, ha studiato filosofia alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (1993-95). Dopo un anno di noviziato a Vittorio Veneto (Tv) ha emesso i primi voti il 25 agosto 1996. Trasferito nel seminario di Bravetta (Roma), ha completato gli studi di teologia nella Pontificia Università Gregoriana (1996-99). Ha poi compiuto ulteriori studi presso la Pontificia Università Urbaniana, conseguendo licenza (2002) e dottorato in missiologia (2016).
Ordinato sacerdote a Torino da mons. Severino Poletto il 26 maggio 2001, dal 2003 ha svolto il suo ministero pastorale in Mongolia, dove è stato uno dei primi due missionari della Consolata a entrare nel paese. Dal 2016 ha avuto il compito di coordinare i gruppo dei missionari in Mongolia ed essere membro del consiglio della Regione Asia, che include anche i missionari presenti in Corea del Sud e in Taiwan.
La consacrazione episcopale sarebbe dovuta avvenire a Ulaanbaatar, ma per la pandemia la scelta è caduta su Torino, in quel santuario «dove mi piace pensare che il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata, oggi si unisca a noi – ha ricordato il rettore, monsignor Giacomo Martinacci – non dal coretto a lato dell’altare, dove sostava per invocare la Consolata, ma dal cielo per assicurare a padre Giorgio la sua preghiera».
Vantarsi solo dell’Amore
Una preghiera segnata dalla commozione in tanti momenti della celebrazione a partire dalle parole che il cardinale Tagle ha rivolto a padre Marengo: un invito a sperimentare nel suo ministero «l’amore rassicurante di Dio che dà la capacità di essere profeti e l’umiltà di chi non è padrone ma custode del gregge». «Un vescovo – ha aggiunto – può solo vantarsi dell’amore compassionevole di Gesù».
E poi l’augurio: «Lascia che il tuo cuore, che i tuoi scritti, le tue parole, i tuoi sorrisi sussurrino Gesù alla gente, ai poveri, ai sofferenti, alla steppa, ai fiumi, agli eterni cieli blu della Mongolia. Sussurra Gesù con la fiducia e la condivisione del tuo cuore e così nelle tue conversazioni, nei momenti di convivenza e nelle tue serate silenziose in Mongolia lo Spirito Santo porterà il tuo umile sussurro anche alle terre e ai cuori a te inaccessibili».
Giorno di luce
Un desiderio di annuncio e di «condivisione del cuore per il popolo mongolo» che emerge anche dai simboli scelti per lo stemma episcopale di Marengo: oltre alla Consolata, una croce nestoriana e un calice come quelli in uso in Mongolia. Un cammino segnato dal motto Respicite ad eum et illuminamini («Guardate a lui e sarete raggianti»), perché non c’è annuncio senza gioia, come testimoniato dal volto sorridente mostrato anche nelle prime parole da vescovo (in italiano e in mongolo): «Oggi è intensa la luce del mistero celebrato, oggi è un condensato di grazia che posso accogliere solo con grande riconoscenza. La Trasfigurazione è luce per confortare i discepoli. Questo giorno luminoso è luce a cui dovrò sempre ricorrere per seguire il Signore che mi manda in Mongolia, nella terra che ha pensato per me al servizio di chi ancora non lo conosce e allora oggi solo il grazie può risuonare».
Gratitudine a cui si è aggiunta quella di mons. Nosiglia: «Questo è un bel segno di gioia e speranza per la nostra Chiesa». Con l’augurio dal cardinale Poletto: «Oggi lo affido di cuore alla Consolata che lo accompagni sempre».
Federica Bello*
* Adattato dall’articolo che l’autrice, giornalista de «La Voce e il tempo» di Torino e compagna di scuola e di parrocchia di padre Giorgio, ha pubblicato su Avvenire il 9 agosto 2020.
Dall’omelia del cardinal Tagle
Sussurra Gesù
Miei cari fratelli e sorelle in Cristo, ringraziamo il Signore per averci riunito, come una comunità di fede, in occasione di questa consacrazione episcopale. Chiamando monsignor Giorgio Marengo da Torino e dai missionari della Consolata a diventare vescovo in Mongolia e nella Chiesa Universale, Dio ha manifestato il Suo amore fedele verso il Suo popolo in tutte le parti del mondo. Noi ringraziamo mons. Giorgio per aver risposto a quella chiamata e per essere qui oggi! Avevo paura che sarebbe scappato! Chi non tremerebbe e non si tirerebbe indietro di fronte al peso del ministero episcopale? Che cosa si aspetta il Popolo di Dio da un vescovo? Permettetemi di condividere con voi alcuni degli insegnamenti del Concilio Vaticano II sul ministero e sulla vita di un vescovo.
[…] In Christus Dominus, il concilio esorta i vescovi ad insegnare il valore della persona umana e della famiglia (CD 12), a preoccuparsi dell’insegnamento del catechismo (14), a promuovere la santità del clero, dei religiosi e dei laici (15), ad incoraggiare varie forme di apostolato e a mostrare un particolare interessamento per gli emigranti, gli esuli, i profughi (18).
Questi sono solo alcuni dei molti nobili ministeri del vescovo. Sono sicuro che avete visto vescovi svolgere il proprio ministero fedelmente, instancabilmente, e in maniera perfino eroica. È una benedizione averli visti portare avanti così i compiti loro assegnati. Ma c’è qualcosa che non vediamo? Cosa succede nel cuore di un vescovo? Come si forma il cuore di un vescovo?
Molte volte, nel corso del suo ministero, un vescovo si chiede «Come posso fare ciò che ci si aspetta da me? Come posso veramente onorare il ministero episcopale?». La risposta è semplice: come esseri umani, non possiamo farlo. Ecco perché abbiamo bisogno di un sacramento, perché è solo attraverso la grazia e la presenza di Dio che un povero peccatore può rispondere ad una chiamata che oltrepassa le sue capacità umane. […] Dopo la Risurrezione, Gesù incontra un Pietro più umile, non affannato a dare prova di sé, ma capace di amare e servire Gesù e il gregge di Gesù. Un vescovo non deve dare prova di sé, perché non ha comunque nulla di cui dare prova. Come Pietro, un vescovo può solo vantarsi dell’amore compassionevole di Gesù, che affida ad un povero peccatore la cura del Suo gregge. […] Come Paolo, un vescovo non dovrebbe formare i fedeli a sua immagine e somiglianza, ma sull’immagine di Cristo. Come Pietro, un vescovo non diventa il padrone del gregge, ma ne è sempre un custode. Esso resta il gregge di Gesù: «Pasci i miei agnelli, pascola le mie pecore».
Monsignor Giorgio, il «dramma interiore» che hanno sperimentato Geremìa, Pietro e Paolo sarà il dramma invisibile del tuo episcopato ogni giorno. Il tuo ministero attivo e visibile deve essere accompagnato dalla tua invisibilità, che ha origine dall’umile ammissione delle limitazioni e delle debolezze, dalla dipendenza dalla Parola di Dio, dalla sua presenza e dalla sua protezione, dalla cura del gregge di Gesù come custode. La tua gioia è vedere il gregge crescere nella conoscenza, nell’amore e nel servizio a Gesù, il suo vero Pastore.
Com’è misterioso il nostro ministero: la sua visibilità è alimentata dalla nostra invisibilità. Quest’arte delicata è un dono di Dio, ma tu puoi alimentarla se guarderai sempre a Gesù, così da irradiare la Sua luce, come affermato nel tuo motto episcopale, Respicite ad eum et illuminamini (Guardate a lui e sarete raggianti, Salmo 34,6).
Come Maria, nostra Madre della Consolata, tieni Gesù nel tuo cuore, anche quando non sempre Lo comprendi, e lascia che la Sua consolazione dia forza agli altri. Lascia che il tuo cuore, i tuoi occhi, il tuo volto, i tuoi sorrisi, i tuoi canti e i tuoi scritti sussurrino Gesù, la Buona Novella vivente alla gente, ai poveri, ai sofferenti, alla steppa, ai fiumi, alle colline e agli eterni cieli blu della Mongolia! Sussurra Gesù con la fiducia e la convinzione del tuo cuore, nelle tue conversazioni, nei momenti di convivenza e nelle serate silenziose con i tuoi amici in Mongolia. Lo Spirito Santo porterà il tuo umile sussurro anche alle terre e ai cuori a te inaccessibili. Amen.
cardinal Luis Antonio Tagle
Uno stemma, un programma
Guadate a Lui e sarete raggianti
Lo stemma di un vescovo non è un ornamento, ma esprime la sintesi di un programma di vita, indica lo stile di un cammino, l’anima di una missione.
Il campo principale dello scudo è d’argento metallo che in araldica, per la sua candida lucentezza ben si adatta ad accompagnare la figura della Vergine Maria richiamando la sua purezza. La figura della Vergine è rappresentata secondo le fattezze della Madonna Consolata, patrona dell’arcidiocesi di Torino, venerata dai missionari che da Lei prendono nome e dai quali proviene il titolare dello stemma. I missionari della Consolata furono fondati dal beato Giuseppe Allamano, nipote del Cafasso e rettore del Santuario mariano torinese per 46 anni. I missionari, avendo la Consolata come ispiratrice e Madre, proprio come la Vergine, vogliono portare al mondo la vera Consolazione, che è Gesù, il vangelo, e insieme: la vicinanza agli emarginati, il conforto agli afflitti, la cura dei malati, la elevazione umana, la difesa dei diritti umani, la promozione della giustizia e della pace. L’immagine araldica ripropone quella del quadro della Madonna Consolata venerato oggi nel santuario del capoluogo piemontese. Dono del cardinale Della Rovere (che fu il costruttore del Duomo di Torino), è attribuito ad Antoniazzo Romano. Opera della fine del XV secolo si ispira alla Madonna del Popolo di Roma.
Nelle due campiture superiori troviamo su un campo azzurro, colore tipicamente mariano, due figure scelte per il loro alto valore simbolico, ma anche a motivo della loro particolare fattezza, in riferimento alla Mongolia, territorio nel quale già da quasi venti anni prima della sua nomina vescovile mons. Marengo si è impegnato nella sua opera missionaria.
Ritroviamo infatti innanzitutto una croce nestoriana. La croce, segno per eccellenza della redenzione operata da Cristo e primo e più importante distintivo dei cristiani di tutti i tempi e di ogni luogo della terra, ha qui la caratteristica forma patente e fioronata con cui veniva usata nella chiesa nestoriana. Con tale aspetto la croce si ritrova presente nei territori asiatici in cui questa chiesa è stata o è tuttora presente. Spesso accompagnata dalla figura della colomba (simbolo dello Spirito Santo) e del fiore di loto, si presenta di fatto come una croce trionfante, con i bracci che si allargano alle estremità quasi a significare la vita del Crocifisso Risorto che si estende verso il mondo intero.
L’altra figura è invece un calice per la celebrazione della santa messa nella forma caratteristica di quelli in uso in Mongolia. Il simbolismo eucaristico è chiarito dalla presenza dell’ostia che sormonta il vaso sacro. L’Eucaristia, fonte e culmine della vita della Chiesa, è anche la forza dello slancio missionario. D’altra parte l’azione missionaria della Chiesa è orientata ad accompagnare gli uomini alla piena comunione con Cristo che proprio nella celebrazione eucaristica trova la sua attuazione sacramentale.
Don Antonio Pompili socio ordinario dell’Istituto araldico genealogico italiano
La Chiesa cattolica in Mongolia
Oggi la Chiesa cattolica in Mongolia conta circa mille e 300 fedeli su una popolazione di poco più di 3 milioni, in un paese grande 5 volte l’Italia.
L’evangelizzazione moderna della Mongolia è cominciata ufficialmente il 14 marzo 1922 quando venne eretta la Missione sui iuris. I missionari però poterono entrare nel territorio solo nel 1992. È stata elevata a Prefettura apostolica di Ulaanbaatar nel 2002 con primo vescovo il missionario di Scheut mons. Wenceslao Selga Padilla dalle Filippine. Contava allora 114 cristiani, tra cui 2 sacerdoti, 7 religiosi e 17 suore.
Nel 2020, oltre alla cattedrale dedicata ai santi Pietro e Paolo, ci sono 7 parrocchie e due cappelle (San Tommaso e Dio Misericordioso), oltre al Mandak Karan Centre gestito insieme dalle missionarie e missionari della Consolata, i quali risiedono in un appartamento dentro un palazzo di Ulaanbaatar e curano la parrocchia della Madre della Misericordia ad Arvaiheer dove sono arrivati nel 2006.
I missionari presenti sono:
missionari di Scheut
salesiani di Don Bosco
missionari della Consolata
due fidei donum dalla
Corea e dalla Francia.
Le suore missionarie sono:
le missionarie del Cuore
Immacolato di Maria (ICM)
suore di s. Paolo di Chartres
missionarie della Carità
di Madre Teresa
missionarie della Consolata
Inbo sisters della Corea
suore della Congregatio Jesu
Un servizio di vicinanza
Il 12 agosto, pochi giorni dopo la sua consacrazione espiscopale, padre Giorgio è stato ricevuto in udienza da papa Francesco. In un’intervista presenta le priorità del suo ministero episcopale.
«Abbiamo vissuto un momento molto cordiale e molto bello in cui ho chiesto al Santo Padre proprio una parola di incoraggiamento che mi ha dato e che porto nel cuore. Lui è molto interessato alla realtà della Chiesa in Mongolia, del popolo mongolo in generale. Sappiamo quanto al papa stia a cuore tutta la realtà della Chiesa anche laddove non ci sono grandi numeri anzi proprio laddove la Chiesa è più in minoranza, lì il cuore del papa è sempre molto vibrante, e questo è bello». Questo il commento di padre Giorgio dopo l’udienza parlando con Gabriella Ceraso di Vaticannews.
La giornalista lo ha incarzato: «C’è qualcosa nel magistero del papa che, dopo questo colloquio, si sente di voler vivere in particolare nella terra in cui appunto ritornerà, in Mongolia?».
Ecco la risposta del nuovo vescovo. «Il punto principale è la vicinanza alla comunità cattolica della Mongolia che è piccola ed è in minoranza assoluta rispetto alla società. Per questo ha bisogno di sentire che, chi è stato chiamato a guidarla, è vicino. Quindi vicinanza in termini di visite alle comunità, di celebrazioni insieme, di tempo riservato all’ascolto delle persone, della loro storia, delle loro situazioni, ovviamente insieme ai missionari e alle missionarie che animano queste comunità. Questa è una priorità per me.
Proprio perché la comunità cattolica è così sparuta, è anche importante curare che le relazioni con le autorità civili siano il più possibile positive. Occorre continuare sulla linea della collaborazione e dell’aiuto reciproco che esiste già, perché anche il mio predecessore è stato molto forte in questo.
Poi serve un’attenzione particolare al dialogo interreligioso, visto che la Mongolia è un paese che ha dei punti di riferimento religiosi soprattutto nel Buddismo e nello Sciamanesimo: quindi continuare questo ponte di relazioni di fraternità con persone che hanno altre fedi.
Dunque il dialogo interreligioso, la vicinanza ai poveri, ai piccoli, alle persone sofferenti in una società che è in rapido cambiamento; e anche un’attenzione a tutto ciò che è approfondimento direi sia culturale – cioè storia e tradizioni, identità culturale dei mongoli che hanno molto da dire e da dare al resto dell’umanità – e sia spirituale. Cioè una cura alla spiritualità: le persone mongole hanno una grande sensibilità e hanno bisogno – coloro che già l’hanno abbracciata – di approfondire la loro fede, di farla sempre più propria.
Quindi un discorso di profondità, di autenticità nel camminare nella fede, una scuola di preghiera continua per aiutare le persone a poter camminare sulla loro strada con facilità e serenità».
Consacrazione episcopale di padre Giorgio Marengo, Imc
Consacrazione episcopale
di padre Giorgio Marengo, Imc
Prefetto apostolico di Ulaanbaatar in Mongolia
Carissimi Fratelli e Sorelle,
la comunità cattolica della Mongolia
e i Missionari e le Missionarie della Consolata
con gioia annunciano che la consacrazione episcopale di padre Giorgio Marengo,
per le mani del cardinal Luis Antonio Tagle, avverrà il giorno 8 agosto, alle ore 10, al Santuario della Consolata di Torino.
Nominato Prefetto Apostolico e vescovo da Papa Francesco lo scorso 2 aprile, padre Giorgio ha aspettato fino all’ultimo che ci fossero le condizioni per organizzare la consacrazione episcopale a Ulaanbaatar, in Mongolia, dove sarebbe stato naturale che avvenisse. Ma a causa delle severe restrizioni applicate per contenere la pandemia Covid-19, è diventato evidente che tali condizioni non si sarebbero date e sarebbe stato impossibile persino ai vescovi consacranti entrare nel paese.
Si è quindi pensato all’Italia e la scelta di Torino è stata spontanea, sia per il profondo legame dell’Istituto con la chiesa subalpina che per le origini stesse di padre Giorgio.
Padre Giorgio Marengo sarà consacrato il giorno 8 agosto, alle ore 10, nel Santuario della Consolata di Torino, per le mani del cardinal Luis Antonio Tagle, assistito dal cardinal Severino Poletto e dall’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia.
Anche la scelta del Santuario della Consolata non è casuale. Con questo gesto si vuole esprimere anzitutto una profonda gratitudine alla Consolata per aver inviato i suoi missionari nelle lontane terre della Mongolia. È la Consolata che ha voluto i suoi missionari in Mongolia e, quindi, è al suo abbraccio che è affidata tutta la Prefettura Apostolica.
«Che la consacrazione episcopale avvenga a Torino è il risultato di un misterioso intreccio di eventi ed è un dono del tutto inaspettato – scrive padre Giorgio -. I legami di amicizia e di collaborazione che ci uniscono vi porterebbero certamente a voler essere tutti presenti quel giorno al Santuario della Consolata, ma questo non sarà purtroppo possibile: siamo infatti ancora in tempi difficili e non possiamo dimenticarcelo.
Queste restrizioni ci impongono un sacrificio, quello cioè di lasciare che alla celebrazione partecipi solo un gruppo su invito personale: membri della mia famiglia stretta e di quella allargata dei Missionari e Missionarie della Consolata, con un’esigua rappresentanza di sacerdoti e consacrati e consacrate e di altre Chiese particolari legate alla Mongolia. Sono sicuro che tutti capite la situazione e troverete il modo di farvi presenti con la preghiera e l’affetto anche a distanza».
Padre Giorgio sarà il secondo missionario della Consolata a diventare vescovo nel santuario dopo mons. Filippo Perlo consacrato il 23 ottobre 1909 dal cardinal Agostino Richelmy.
Inoltre, attraverso il cardinal Tagle, padre Giorgio riceve anche un insolito legame con la chiesa torinese, perché nello loro linea di successione apostolica c’è il cardinal Gaetano Alimonda, arcivescovo di Torino dal 1883.
Per favorire la comunione e rendere possibile a tanti di partecipare «a distanza», sarà predisposta una trasmissione in diretta internetsul canale YouTube della diocesi di Torino, su quello dei Missionari della Consolata e quello della prefettura in Mongolia. Dettagli per il collegamento verranno comunicati quanto prima.
Incontri col nuovo vescovo
Nei giorni successivi alla consacrazione sarà comunque possibile salutare il nuovo vescovo che incontrerà diverse comunità prima del suo ritorno in Mongolia. I primi appuntamenti sono domenica 9 agosto:
ore 10.30 nella Chiesa del Beato Giuseppe Allamano – Casa Madre dei Missionari della Consolata (C. Ferrucci, 18)
ore 18.00, nella parrocchia S. Alfonso Maria de’ Liguori (via Netro, 3)
Uno degli ultimi è domenica 30 agosto:
ore 11.00 nella parrocchia Maria Regina delle Missioni (via Cialdini, 20)
Uniamoci in spirito a questo evento e preghiamo soprattutto per la Chiesa in Mongolia.
Siria. Negli ultimi tempi avete trattato spesso argomenti che parlano di atrocità contro popolazioni e religioni diverse, nonché distruzioni di chiese, templi e testimonianze architettoniche. Allego il racconto di una mia visita a Palmira, uno dei ricordi più belli e coinvolgenti fra tutte le mie esperienze in giro per il mondo.
Atrocità nel Medio Oriente: i nuovi Barbari
Parecchi secoli fa anche l’Italia conobbe le invasioni barbariche. Un certo Attila, soprannominato Flagello di Dio, si vantava addirittura di non far più crescere l’erba dopo il suo passaggio. Spagnoli e Portoghesi non si comportarono molto diversamente in America Latina massacrando i locali e distruggendo testimonianze di civiltà millenarie. Oggi, a farne le spese, sono le popolazioni mediorientali e le straordinarie testimonianze religiose e storiche sopravvissute per millenni. Le atrocità, le nefandezze, i vandalismi continuamente riproposti dai mezzi di informazione, ci mostrano con dovizia di particolari fino a che punto viene profanato quel libero arbitrio che Dio ha concesso all’uomo per farne un uso positivo. Sentiamo spesso definire bestiali alcuni comportamenti, quasi a voler creare un distinguo, quasi a voler cercare un alibi per l’essere umano, quasi a voler identificare una fetta ristretta di umanità come animalizzata, come seguace di pratiche animalesche.
Abbiamo il coraggio, una volta per tutte, di definire umani questi comportamenti perché nessun animale, pur aggredendone altri più deboli per saziarsi (non molto diverso da ciò che, in ogni caso, è pratica comune fra gli umani con pesca, caccia, mattatoi, vivai ittici, ecc.), si spingerebbe a tanto.
Ciò che mi ha sconvolto negli ultimi tempi è particolarmente legato a Palmira, località siriana patrimonio dell’umanità, di cui conservo uno dei più toccanti ricordi di viaggio. Palmira è stata un importantissimo centro carovaniero per i commerci e, per i Romani, il prezioso punto di collegamento fra l’Impero Occidentale e l’Estremo Oriente.
Colonnati, templi, necropoli e teatri costruiti nel sito, hanno saputo sfidare le insidie non indifferenti di duemila anni. Ma oggi (nel 2015, ndr), i nuovi barbari, stanno per metterla al tappeto, stanno per infliggerle un pesantissimo k.o., come hanno fatto in centinaia e centinaia di altri posti.
Di Palmira conservo una emozione profonda che ho sempre raccontato come una delle più coinvolgenti vissute nei miei tanti viaggi. Ero da quelle parti una ventina di anni fa. Regnava ancora, termine appropriato anche se ufficialmente era classificato come presidente, il nonno dell’attuale Bashar al-Assad, un dittatore a tuttotondo. Dovunque ti girassi trovavi imponenti statue che lo raffiguravano; in ogni negozio campeggiavano gigantografie col suo faccione; dal lunotto posteriore di ogni macchina (non moltissime a dire il vero), si vedevano penzolare i suoi ritratti. Avevo potuto girare la Siria in lungo e in largo avendo l’impressione (non so fino a che punto veritiera) che nessuno mi avrebbe torto un capello, pena pesanti punizioni. Di Palmira avevo letto lo straordinario spettacolo del sorgere del sole nel Colonnato e non me lo volevo perdere. Alle 4 del mattino, con i tre compagni di viaggio, mi sono incamminato verso le collinette che sovrastano il sito. Ognuno in una posizione diversa per poter vivere quella rappresentazione in meditazione. Da soli.
All’apparire dei primi raggi, è stato come se su quell’enorme palcoscenico naturale una sapiente regia accendesse luci in punti diversi. Simile al risveglio della natura rappresentato nei balletti. Ogni colonna rifletteva la luce ricevuta accendendone altre e alla fine il tripudio. Tutto era luce, bellezza, splendore. Restammo a lungo su quelle colline. Impietriti. Troppo emozionante era ciò che avevamo visto. Nessuno aveva voglia di fare il primo passo verso il ritorno. Solo quando il sole fu alto e la nomade vita di pastori e cammellieri era pienamente avviata, lo facemmo. In silenzio. Ciò che ognuno di noi custodiva nel proprio cuore, era troppo grande, troppo intimo, troppo personale per essere in quel momento condiviso con altri.
Carissimi saluti
Mario Beltrami 19/03/2019
Molino Girolomoni
Buongiorno redazione,
proseguono i lavori per la costruzione del molino Girolomoni, che porterà la cooperativa marchigiana (la «Gino Girolomoni Cooperativa Agricola») ad essere il primo pastificio bio a controllare completamente la filiera di produzione.
«Il molino – spiega Lorenzo Proserpio, futuro mugnaio di questo nuovo impianto – permetterà di lavorare il chicco di grano in modo accuratissimo grazie all’adozione delle tecnologie più avanzate, senza scartare nulla e dandoci la possibilità di scegliere la ricetta giusta per la nostra semola. Il vero punto di forza – prosegue Proserpio – sarà la possibilità di partire da una materia prima di qualità, ben coltivata, e di poter scegliere i silos da cui attingere nella preparazione delle giuste miscele di grano da avviare alla macinazione. È un indiscutibile valore aggiunto potere selezionare le migliori semole per fare la pasta, con un feedback continuo tra laboratorio, analisi, molino e pastificio».
Per fine aprile verranno montati i macchinari interni, a settembre l’imponente molino verrà avviato con il grano del nuovo raccolto, e nel 2020 è prevista l’inaugurazione. Un caro saluto
Federica Morselli 15/04/2019
Abbiamo scritto di Gino Girolomoni nel mese di maggio 2015. Siamo lieti che il suo sogno abbia trovato altri sognatori e diventi realtà.
Acqua, tasse e promesse non mantenute
Cari Missionari,
quello che afferma Gesualdi nella sua rubrica è talmente vero che persino le bollette su un bene di primaria importanza come l’acqua, diventano un canale del quale il fisco […] si avvale per rimpinguare le sue casse senza fondo. Questo, si badi bene, accade non solo là dove i servizi di fornitura sono stati privatizzati, ma anche in quei comuni dove le giunte al potere hanno sempre difeso a spada tratta il concetto che «l’acqua deve restare pubblica» perché «l’acqua è vita», «l’acqua è un diritto imprescindibile», «i privati se ne fregano dei poveri», eccetera, eccetera.
Ebbene, in una città come Fano, guidata da uomini e donne eletti nelle liste di quegli stessi partiti che scrissero gli articoli della Costituzione, il peso delle tasse è tale che una bolletta, a fronte di consumi idrici che sono rimasti gli stessi o sono addirittura diminuiti, raddoppia, triplica, quadruplica rispetto a quella che l’ha preceduta (e questa altalenanza, badate bene, non è l’eccezione ma la regola: provate a parlare con i Fanesi e non solo loro, e fatevi dire se sono più grosse, più frequenti e peggio motivate le stangate rifilate loro dalla municipalizzata o dalle altre bollette). Ditemi Voi se questo è un andazzo moralmente accettabile, oltre che economicamente sostenibile e socialmente equo.
Buona Pasqua
Donatello Di Roberto 13/04/2019
«Beati i poveri»
Leggo volentieri il vostro giornale che dà notizie un po’ da tutto il mondo. Informazioni quasi sempre più obiettive anche perché giungono da chi è, spesso eroicamente, proprio sul campo. Ringraziandovi per il vostro lavoro generoso, vi invio questa riflessione.
Nella messa domenicale del 17 febbraio si e letto il brano delle beatitudini del Vangelo di Luca. Brano molto rivoluzionario e moderno ancora oggi. «Beati voi poveri»: Gesù si schiera con i poveri in quanto chi è povero è tale perché è vittima di ingiustizie di chi vuole di più per sé senza uguaglianza sociale. Gesù con questo brano evangelico ci dice che non siamo coerenti se andiamo in chiesa a pregarlo e poi Lo lasciamo penare, morire di fame e di stenti assieme ai poveri perché Lui è la accanto ai poveri. Ciò per costringerci a maggiore giustizia sociale, a lottare pacificamente ma energicamente contro i soprusi, lo sfruttamento ecc. Non è che sia contro il benessere, anzi in altri brani del vangelo vuole che facciamo fruttare i talenti ricevuti proprio per il progresso di tutti, per migliorare ma vuole che tutti stiano bene. Gesù condanna chi si tiene per sé il talento e non lo fa raddoppiare o quadruplicare per spingerci ad almeno impegnarci per il progresso, vuole il benessere per tutti in modo giusto equo, fraterno. Nel «guai a voi ricchi» non è che condanni il benessere o il progresso ma condanna l’ingiustizia sociale, la non condivisione, lo sfruttamento, il mantenere in povertà altri per arricchire noi. Condanna le paghe ingiuste, la depredazione delle abbondanti e preziose risorse minerarie che ha l’Africa, sfruttamento che lascia in povertà la popolazione dell’Africa o dell’America Latina, vere proprietarie di tali ricchezze. Condanna i trafficanti di esseri umani, i mafiosi che vendono droga, cioè morte più o meno lenta, o si arricchiscono con il «pizzo» e in altri modi ingiusti. Condanna chi si crogiola nelle sue numerose amicizie, ricco di tali compagnie e non si cura di chi è solo, incapace di socializzare perché troppo timido o vittima di sensi di inferiorità. Non per nulla si dice che oggi c’è una nuova tremenda povertà: la solitudine, la mancanza di amicizie sincere. Nel «beati voi poveri» non ci dice che dobbiamo solo trattarli bene come si trattano con riguardo le specie rare che si salvaguardano mantenendole nel loro ambiente ma vuol invece dire in modo molto energico e chiaro aiutarli a uscire dalla povertà, non rigettarli continuamente nella miseria depredandoli o fomentando guerre per vendere armi e per poi arricchirci noi europei con le successive ricostruzioni dopo i bombardamenti. Il Vangelo non è accarezzare i poveri senza fare il necessario affinché possano riscattarsi, ma è: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare ecc.». È aiuto concreto non saltuario, è impegnarsi per toglierli dalla povertà, aiutarli affinché ne possano uscire. Ci sarebbe benessere per tutti al mondo se ci fosse più condivisione e aiuto vero reciproco, anzi se ci fosse equità, giustizia e condivisione il benessere per tutti aumenterebbe. Cordiali Saluti
Enrica Barbiroglio 28/02/2019
Amore alla Consolata
Non ricordo come l’immagine della Ss. Vergine Consolata sia entrata nella mia casa, so per certo che ne sono diventata devota, imparando a pregare e credere nel suo aiuto. Ieri dopo una giornata difficile, mi sono sentita serena, tranquilla ricordando le mie suppliche: «…io non vi chiedo onori, o Maria, non piaceri, non ricchezze, Vi chiedo consolazione». Credo sia questo il vero miracolo. Desidero esprimere un grazie e invitare tutti a pregare.
Emy Audoly Milano, 13/04/2019
Come missionari della Consolata facciamo nostra la sua preghiera, sapendo che la «sua Consolazione» è Gesù, che ha dato la sua vita affinché imparassimo davvero ad essere figli del Padre celeste e di una Madre dal cuore così grande.
Offriamo tre immagini diverse della Consolata – tra le tantissime che ormai sono diffuse in tutto il mondo.
la statua del 1948 (a destra) che fino a poco tempo fa dominava la Casa Madre di Torino e ora ha trovato un nuovo posto sotto il porticato della stessa casa;
il quadretto (sotto) che era nella casa di Rivoli appeso sopra il letto del beato Allamano e davanti al quale nel 1901 il fondatore prese l’impegno di dar vita a un istituto di missionari se fosse guarito dalla sua grave malattia;
la Consolata che offre Gesù luce del mondo (sopra a sinistra) in un’interpretazione del 2016.