Tanzania. Turismo invadente


Fino dall’epoca della colonia britannica, il popolo Masai ha dovuto lasciare le proprie terre. La creazione dei grandi parchi ha aggravato la situazione. Il tutto appoggiato dall’Unesco. Oggi i Masai devono ancora «ricollocarsi» con il rischio di perdere la propria cultura.

I Masai sono un popolo di pastori transumanti che da secoli abitano sugli altipiani tra il Sud del Kenya e il Nord della Tanzania. In quest’ultima, già nel XV secolo si insediarono nel territorio dell’attuale Parco nazionale del Serengeti, un nome che in maa (la lingua dei masai) significa «il posto dove la terra si estende all’infinito». In effetti, il Serengeti è una vasta pianura, dove fiumi e foreste si alternano a praterie e savane. Il tutto abitato da 70 specie di mammiferi e oltre 500 di uccelli. Lì i Masai allevavano il bestiame e nei periodi di necessità coltivavano anche la terra.

Dal Serengeti al Ngorongoro

Ma come in tanti altri contesti africani, anche in Tanzania, l’arrivo dei coloni portò con sé politiche per la «conservazione della natura». Le quali il più delle volte si tradussero nella creazione di Parchi nazionali, aree di competenza statale dove qualsiasi diritto (soprattutto se tradizionale) o titolo di possesso esistente fino a quel momento veniva meno. E dove, per preservare il particolare valore naturalistico dell’area, erano vietati insediamenti umani e attività economiche.

Così i Masai furono costretti ad abbandonare il Serengeti dal 1959, poi diventato un Parco nazionale. Si spostarono nella Ngorongoro conservation area (Nca), dove il loro diritto a insediarsi fu riconosciuto formalmente e ufficialmente dalla Ngorongoro conservation area ordinance.

Anch’essa un’area ricca di biodiversità, la Nca si estende su 809.440 ettari che includono savane, foreste e il cratere del Ngorongoro. Al suo interno vivono circa 25mila animali di grandi dimensioni e diverse specie a rischio estinzione come il rinoceronte nero, il dingo e gli elefanti.

Una volta giunti in questo nuovo territorio, i Masai instaurarono una relazione profonda con l’ambiente circostante, sviluppando uno stile di vita che promuove, in modo naturale, conservazione e tutela delle risorse. Basti pensare che la cultura masai proibisce il consumo di carne di selvaggina e il taglio di alberi interi. Quando invece coltivano la terra, gli agricoltori prevedono periodi di maggese per ripristinare la fertilità del suolo. Mentre gli allevatori, nella scelta dei pascoli, attuano valutazioni attente: mangiando, gli animali contribuiscono a controllare la vegetazione, evitandone una crescita eccessiva.

L’ambiente naturale ha anche un ruolo centrale nella cultura dei Masai: la loro spiritualità si lega profondamente al territorio circostante e ai suoi luoghi simbolo. È proprio in queste aree che si sono tenute a lungo le assemblee comunitarie ed è stato insegnato ai giovani come vivere in armonia con l’ecosistema.

Turismo, avanti tutta

Queste pratiche hanno fatto sì che per secoli l’ambiente naturale non fosse intaccato dalla presenza umana. Nonostante ciò, negli ultimi anni il governo tanzaniano – appoggiato da partner internazionali come l’Unesco (l’agenzia delle Nazioni Unite per la tutela del patrimonio culturale e ambientale) – ha iniziato a sostenere che la crescita della popolazione e del bestiame metteva sotto pressione le risorse naturali e rischiava di causare la distruzione dell’ecosistema circostante.

Addirittura, l’Unesco ha consigliato alle istituzioni tanzaniane di trasformare la Nca in un’area libera da qualsiasi presenza umana, invitandole quindi a valutare il trasferimento delle comunità che abitavano all’interno dell’area protetta, perché tanto «la riallocazione dei Masai non sarà un evento nuovo in Tanzania». E, quindi, nel giro di poco, il governo tanzaniano ha introdotto politiche di espropriazione – accompagnate dall’uso sistematico della violenza – per allontanare i Masai dalla Nca.

In realtà, dietro alla volontà dichiarata di tutelare e conservare l’ecosistema, si nascondeva la decisione delle istituzioni tanzaniane di investire sempre più nello sviluppo del turismo, un settore che negli ultimi anni si è rivelato un volano economico per il Paese. Nel 2023 infatti, le entrate generate dal settore ammontavano a 7,8 miliardi di dollari (il 9,5% del Pil nazionale), in netta crescita rispetto ai 2,5 miliardi del 2019.

Così sono sorte nuove aree protette – prive di insediamenti umani e attività economiche – e game reserve, destinate ad attrarre un numero sempre maggiore di visitatori e compagnie turistiche straniere. Meglio ancora se di lusso, come la già attiva Tanzania conservation ltd di Boston che pianifica esperienze esclusive. Oppure la Ortello business corporation, a lungo responsabile dell’organizzazione delle battute di caccia della famiglia reale degli Emirati arabi uniti.

Riallocazioni «volontarie»

Per rendere la Nca un’area priva di insediamenti umani e attività economiche – di fatto, una zona a esclusivo uso turistico -, l’esecutivo tanzaniano ha dato il via a politiche sempre più brutali, volte ad allontanare i Masai dalle proprie terre. Violando anche alcuni diritti fondamentali del popolo.

Dal 2022, i fondi destinati al Ngorongoro sono stati sistematicamente tagliati, privando la popolazione locale di servizi essenziali come educazione e salute. Human rights defenders, un’organizzazione tanzaniana per la difesa dei diritti, ha denunciato che nel 2022 più di 3 milioni di scellini (circa 1.100 dollari) erano stati sviati verso altre aree del Paese.

I dipendenti statali sono stati ritirati da tutti i centri sanitari, mettendo a repentaglio il diritto alla salute degli abitanti e creando uno stato di incertezza perenne. Come ha raccontato un leader tradizionale a Human rights watch (Hrw, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani con sede a New York): «Ogni residente ha paura. Se ti ammali, pensi ai grandi costi che sosterrai per avere dei servizi medici. Le persone più povere sono le più vulnerabili perché non hanno denaro per viaggiare lontano e i dispensari locali non hanno medicine». A molti non resta che «usare le erbe tradizionali o pregare per un miracolo».

Entrare e uscire dalla Nca è diventato sempre più difficile. Gli abitanti possono farlo solo mostrando la carta d’identità o la tessera elettorale o pagando – al pari dei turisti – una tassa di 27.275 scellini (10 dollari). Così come è sempre minore anche la libertà di movimento all’interno dell’area: «Conservazione ed ecoturismo» sono le giustificazioni utilizzate per limitare l’accesso a specifiche zone. Come il cratere del Ngorongoro, storica pozza d’acqua ricca di nutrienti di origine vulcanica, dove dal 2016 non è più possibile abbeverare il bestiame. Oppure le foreste del Nord e i crateri di Marhes, Ndutu, Ormoti ed Emabakaai.

I servizi veterinari sono cessati. La fornitura governativa di sale supplementare (necessario agli animali per compensare la mancata assunzione di micronutrienti di origine vulcanica) si è invece rivelata una trappola. Dopo che tra il 2018 e il 2021 erano morti più di 77mila capi, le analisi della Tanzania veterinary laboratory agency (l’agenzia governativa per la salute del bestiame) hanno confermato che il prodotto era avvelenato.

Gli attacchi dei ranger (guardaparco) nei confronti degli abitanti della Nca sono diventati frequenti: aggressioni, sparizioni e uccisioni colpiscono uomini, donne e bambini in modo indiscriminato. Gli avvisi di espropriazione invece sono sempre più diffusi e si dirigono contro abitazioni o edifici pubblici che, secondo le autorità, sorgono all’interno del perimetro dell’area protetta.

Tutte queste misure contribuiscono a rendere molto difficili – se non impossibili – le condizioni di vita degli abitanti del Ngorongoro. Tanto da spingerli a scegliere «volontariamente» di lasciare le proprie terre e trasferirsi a centinaia di chilometri di distanza nei villaggi di Msomera e Kitwai, i siti identificati dal governo per la riallocazione, con la promessa di migliori condizioni di vita.

Terra è cultura

A Msomera, le case sono tutte identiche: tre stanze con i muri bianchi, ricoperti da un tetto in lamiera. Le abitazioni sono affiancate da cinque ettari di terra, spesso destinati ad agricoltura e allevamento. Caserme militari circondano l’insediamento che brulica di soldati in mimetica. Un modo per instillare paura e controllare la narrativa sulla riallocazione.

Oleshangay vive in una di queste case. È uno dei Masai del Ngorongoro che hanno accettato di trasferirsi. Ma lo racconta a malincuore a Hrw: «Avevamo paura a lasciare la terra dei nostri antenati. Sono nato lì e ho vi vissuto tutta la mia vita. Quindi è stato difficile andarmene». Oltre alla casa, ha ricevuto dieci milioni di scellini (3.700 dollari) e cinque ettari di terra. Ma dice: «Tu mi stai dando un pezzo di terra che per me non ha valore». Le terre del Ngorongoro infatti sono cultura, religione e legami sociali. I riti più importanti possono svolgersi solo in siti ancestrali come il vulcano Ol Doinyo Lengai (dal maa, «la montagna di Dio»). Riallocazione vuol dire anche allentare e perdere il legame con la propria terra, religione e cultura.

Ed è proprio sul piano culturale che impatta maggiormente la riallocazione. Racconta un leader tradizionale: «Andare a Msomera è problematico per la nostra cultura. Hai una piccola casa con tre stanze: vivi con tua moglie, i tuoi figli, le mogli dei tuoi figli e i tuoi nipoti. Nella cultura masai questo è severamente proibito». Un’imposizione di tale genere «uccide la cultura» ed è frutto di piani governativi che non considerano la natura complessa delle famiglie masai. Spesso multigenerazionali e multifamiliari, oltre che poligame. Ma «due mogli non possono vivere nella stessa casa». E quindi alcune famiglie sono state costrette a usare buona parte del denaro ricevuto come compensazione per costruire nuove abitazioni per mogli e figli.

Risorse scarse

Molti di coloro che hanno abbandonato il Ngorongoro hanno perso parte del bestiame durante il viaggio o appena giunti a Msomera a causa della scarsità d’acqua. Altri hanno utilizzato quasi tutto il denaro ricevuto come compensazione per rendere coltivabili i cinque ettari di terra arida intorno alla loro casa. Molti pastori hanno deciso di lasciare i propri animali in altri luoghi, data la mancanza di terre da destinare al pascolo e di acqua per abbeverare il bestiame.

A Msomera proprio la scarsità di risorse – acqua e pascoli – sta creando le condizioni per lo scoppio di conflitti con la comunità autoctona. La quale d’altra parte è, a sua volta, composta da numerosi pastori che già prima dell’arrivo dei masai faticavano a mantenere le proprie greggi a causa dell’asprezza del territorio circostante. Una scarsità di risorse che ora è solo destinata ad acuirsi.

D’altronde, il governo nel disegnare il piano di riallocazione non ha coinvolto gli abitanti di Msomera in un processo di consultazione previo e informato. E così le istituzioni tanzaniane non hanno considerato la complessità del territorio destinato ad accogliere i Masai. Addirittura, diversi abitanti del villaggio sono stati espropriati e le loro case e terre distribuite a chi proveniva dal Ngorongoro. Non stupisce quindi che un leader tradizionale del villaggio abbia sottolineato: «Non siamo d’accordo con il piano del governo di dare la nostra terra alle persone del Ngorongoro, ma l’autorità governativa è troppo grande e non possiamo combatterla».

Dall’altro lato, molti Masai non hanno intenzione di piegarsi alle scelte dell’esecutivo e continuano a opporsi al piano di riallocazione, rivendicando al contempo i diritti sulle proprie terre nel Ngorongoro. Ad aprile 2022, i leader comunitari hanno inviato una lettera – firmata da 11mila membri – al governo e ai suoi maggiori finanziatori, ricordando che «questa non è la prima volta che combattiamo per assicurare i nostri diritti e proteggere le vite del nostro popolo. Abbiamo bisogno di una soluzione permanente e ne abbiamo bisogno ora. Non ce ne andremo. Né ora, né mai».

Aurora Guainazzi


Continua lo sfratto delle popolazioni locali da Nord a Sud

Per alleggerire la pressione turistica sui Parchi del Nord, negli ultimi anni, la Tanzania ha iniziato a investire sempre di più nella creazione di aree protette anche a Sud. Tra esse il Parco nazionale del Ruaha, il cui sviluppo dal 2017 è al centro di un progetto finanziato dalla Banca mondiale. L’iniziativa, dal valore di 150 milioni di dollari e dalla durata di otto anni, mira alla creazione di un’area protetta dove, al pari di quanto sta avvenendo nel Ngorongoro, insediamenti umani e attività economiche sono proibiti e lasciano spazio alle attività turistiche. Anche in questo caso, le politiche che il governo tanzaniano sta perseguendo per raggiungere il suo obiettivo sono subdole e violente. Attraverso espropriazioni, uccisioni extragiudiziali e saccheggio del bestiame, i ranger del Ruaha mettono le popolazioni locali sotto pressione, rendendo le loro condizioni di vita insostenibili e forzandole ad abbandonare le proprie terre. E quel che è peggio, è che tutto ciò è accaduto con il tacito benestare della Banca mondiale, che a lungo ha ignorato le accuse di violenza rivolte ai ranger tanzaniani. Solo ad aprile 2024, dopo l’ennesima denuncia della comunità locale e un’indagine interna, l’organizzazione finanziaria internaziona- le ha deciso di sospendere la concessione dei fondi (anche se nella pratica gran parte di essi – circa 100 milioni di dollari – è già stata erogata).

A.G.




Paradosso conservazione

 


Ambientalisti poco radicati nell’ambiente, governi che fingono di proteggere la natura dei loro paesi per interessi economici. Il tutto a scapito delle culture e della sapienza ancestrale locali. Come si sdoganano pratiche non appropriate per la conservazione degli ecosistemi. In tutto il pianeta.

Come anche le persone più distratte si saranno accorte, a volte le tragedie sono simili a Nord come al Sud del mondo, ma la portata è ben diversa. Ad esempio, in Europa gli incidenti stradali di mezzi pubblici coinvolgono raramente più di poche persone, mentre ad altre latitudini le vittime si contano spesso a decine. Idem per attentati, malattie, infortuni sul lavoro, scontri di piazza e così via. Negli ultimi deccenni si è fatta strada un’altra similitudine: i paradossi del conservazionismo ambientale.

Nel nostro Paese la questione si è resa evidente nel nuovo millennio con il ritorno del lupo che, a partire dai pochi nuclei sopravvissuti sull’Appennino centromeridionale (dove alla fine degli anni Sessanta aveva raggiunto il minimo storico di nemmeno cento unità), in virtù delle misure protezionistiche, si è rapidamente diffuso verso nord e ora conta di oltre 3.300 esemplari in tutta Italia.

Il Piemonte, per la sua conformazione che lo rende un ponte naturale tra aree alpina e appenninica, è la regione montana maggiormente interessata al fenomeno e oggi vi si trova più di metà dei circa mille lupi censiti sulle Alpi italiane. Man mano che il numero di esemplari cresceva, alla soddisfazione degli ecologisti andava affiancandosi la preoccupazione, ben presto trasformatasi in aperta protesta, degli allevatori. Le predazioni sul bestiame allevato sono infatti cresciute di pari passo, e le misure di prevenzione (recinti elettrificati, cani da guardiania e pastori retribuiti) proposte dal programma Life Wolfalps dell’Unione europea, si sono rivelate applicabili ed efficaci solo in alcuni casi.

Nel contempo, la concessione dei pascoli comunali in affitto al migliore offerente, misura decisa in sede comunitaria, ha di fatto favorito le grosse aziende e cooperative, molte delle quali costituite ad hoc per ottenere fondi pubblici.

Alla conseguente moltiplicazione delle frodi ha fatto seguito un inasprimento dei provvedimenti da parte di carabinieri forestali e aziende sanitarie locali, penalizzando ulteriormente le piccole unità produttive che mal si adattano a richieste troppo fiscali (scadenze burocratiche, controllo sull’identificazione degli animali, aggiornamento puntuale dei registri aziendali, ecc.). Va poi tenuto conto che in Italia la maggior parte dei piccoli allevatori ha un’età media relativamente elevata, per cui i fattori citati sopra hanno agito su un tessuto sociale di per sé fragile e poco incline al cambiamento. Di fatto, negli ultimi anni un numero crescente di piccoli allevatori ha chiuso i battenti, con conseguente abbandono di aree montane che prima venivano tenute in ordine da essi a costo zero per la comunità. Il conseguente danno ambientale è enorme, poiché numerosi studi evidenziano senza ombra di dubbio come l’abbandono delle attività agro-silvo-pastorali comporti inevitabilmente una diminuzione della biodiversità e un aumento dei rischi idrogeologici.

Ma non è tutto, bisogna mettere in conto anche il ruolo sociale svolto dal piccolo allevamento, ad esempio nel prevenire l’inattività degli anziani, e trasmettere i saperi alle giovani generazioni per non perdere i patrimoni culturali. Non a caso, in un articolo apparso su MC nel luglio del 2017 veniva segnalato che «la montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti, crolla».

Ambientalismo da città

In Italia l’ambientalismo ha avuto tra i suoi molti esponenti, a partire dagli anni sessanta, uomini politici come Arturo Osio e Fulco Pratesi, che nel 1967 hanno fondato la sezione italiana del World Wildlife Fund (Wwf). Come avvenuto per altri sodalizi di rilevanza nazionale (un esempio tra tutti è il Club alpino italiano), la spinta costitutiva è venuta da ambienti politico culturali del tutto estranei a chi in montagna doveva guadagnarsi da vivere faticando ogni giorno; pertanto, l’attività di tali enti si è sviluppata, nel migliore dei casi, a latere dei contesti sociali rurali, avendo invece come protagonisti alcuni cittadini che consideravano l’ambiente naturale in termini ideali e ricreativi. L’integrazione tra i due mondi è stata minima per cui, quando ci si è trovati di fronte a un punto forte divergente, come la questione del lupo, la contrapposizione è risultata molto dura.

Oggi, a causa dell’eccessiva importanza acquisita dai social network, anche a tale riguardo si sono formati due schieramenti che cercano di screditarsi l’un l’altro invece di dialogare.

Io ho lavorato trent’anni in qualità di veterinario pubblico in Val d’Ossola, incontrando centinaia di piccoli allevatori, e nessuno di loro è favorevole al ritorno del lupo. Vorrà ben dire qualcosa.

Fuori gli indigeni

Ma allarghiamo lo sguardo: secondo i dati di Survival International, al mondo esistono ben 120mila aree protette che coprono il 13% delle terre emerse. Il problema è che diversi milioni di indigeni, che su tale superficie si procuravano il cibo, sono stati sfrattati e si sono trasformati in «rifugiati ambientali». Dal 1872 (anno di fondazione del parco nazionale di Yellowstone, il primo al mondo) a oggi, la decisione di istituire delle misure conservazioniste in determinate aree è stata presa ignorando cultura, interessi e opinioni di chi ci viveva. Si è discusso a più riprese sui benefici per le specie da proteggere, sull’estensione di tali aree, sulle regolamentazioni di utilizzo, sui finanziamenti necessari e via dicendo, ma, anche quando lo si è fatto in buona fede, quasi sempre è stato dal di fuori.

Il grave errore metodologico è stato lo stesso commesso nel caso della cooperazione internazionale, laddove progetti decisi da esperti che vivevano altrove, sono stati calati sulla testa degli abitanti locali ignorandone la competenza elaborata attraverso secoli di vita in quei luoghi. Non a caso, in occasione del quinto congresso dell’Unione internazionale per la conservazione della natura svoltosi a Durban (Sudafrica) nel 2003, una delegazione di popoli indigeni ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava che «prima ci hanno sfrattato in nome di re e imperatori, poi nel nome dello sviluppo e ora nel nome della conservazione». Oggi, dopo decenni di «cattedrali nel deserto», la valorizzazione delle esperienze locali si sta facendo strada in vari programmi di cooperazione, seppur a fatica e non certo abbastanza. Nel contempo, studi sempre più precisi riconoscono la validità delle metodiche di gestione tradizionale dell’ambiente. Tra questi, MC dello scorso novembre segnala una ricerca, pubblicata dalla rivista Nature sustainability a inizio 2023, che mette in risalto il ruolo importante delle popolazioni indigene nella conservazione forestale.

Infatti, secondo il rapporto Parks need people, redatto da Survival International nel 2014, la stragrande maggioranza dei luoghi a più alta biodiversità al mondo si trova in aree abitate da popoli tribali, i quali hanno saputo conservarla mirabilmente proprio perché si trattava di una qualità necessaria alla loro sopravvivenza. Ritenere che biologi e operatori turistici sappiano fare meglio, è un esempio di supponente arroganza.

Sviluppo e conservazione

Si commetterebbe però un errore a pensare che il cosiddetto «altrove» nel quale vengono prese decisioni sulla testa della gente abbia sede solo nei Paesi del Nord del mondo. Al contrario, certe politiche sviluppiste e conservazioniste sono oggi portate avanti soprattutto da funzionari dei governi e delle Ong di Paesi africani, asiatici e sudamericani sul territorio dei quali tali politiche vengono applicate. «Più realiste del re», queste figure non esitano a varare misure e progetti che possano inserirsi in programmi di sviluppo e conservazione elaborati dalle grandi agenzie internazionali, così da riceverne i finanziamenti.

Nel periodo coloniale, le risorse dei suoli intertropicali erano destinate ad arricchire le nazioni occupanti. Oggi il meccanismo non è cambiato, ma si è parzialmente rimodulato nello spazio, cosicché nelle capitali di tanti Paesi del Sud del mondo, Africa in primis, si sono sviluppati dei centri direttivi che, in sinergia con i dettami provenienti da governi stranieri e dalle grandi agenzie internazionali, sfornano politiche che scavalcano culture e interessi del mondo rurale in nome di uno sviluppo incentrato su forme e modi importati dall’estero. «Anche noi abbiano diritto ad avere le cose che avete voi», mi sono tante volte sentito dire da persone africane che vivono in città. Peccato che questo «avere» per pochi si traduca in un «togliere» per molti.

In altri termini, di tanti progetti pensati al Nord, ne hanno beneficiato solo un piccolo numero di persone, le quali potevano permettersi di adeguarsi alle nostre idee sviluppiste occidentali. Si è così contribuito a formare dei piccoli nuclei di persone egoiste tanto quanto noi. E le politiche di indebitamento proposte e consentite, sulle quali si sono poi innestati gli aggiustamenti strutturali imposti dal Fondo monetario internazionale per far fronte a tale debito, hanno costituito lo sfondo sul quale tutto ciò si è realizzato.

Guerrieri maasai seduti in cerchio.

Il caso Ngorongoro

Un esempio eloquente è quello del famoso cratere di Ngorongoro che, con i suoi 16 km di diametro, è in diretta continuazione con il celebre parco nazionale del Serengeti, in Tanzania. Frequentato dai pastori locali da tempo immemorabile, non ha mai avuto problemi di sovra sfruttamento poiché i suoi pascoli e le sue fonti idriche riuscivano a soddisfare le esigenze di ruminanti domestici e selvatici allo stesso tempo, e poiché la caccia tradizionale avveniva nel rispetto di norme conservazioniste tramandate da una generazione all’altra. Tuttavia, a partire dagli anni 60 si sono levate alcune voci preoccupate per determinate specie che sarebbero state a rischio, e da quel momento in poi l’accesso per le mandrie locali è stato sempre più ridotto. Nei decenni seguenti, l’apertura a operatori turistici ha fatto aumentare il numero dei visitatori annui fin oltre il mezzo milione. Si è quindi capito che il problema non erano i piccoli allevatori del posto, tanto che nel 2013 il governo tanzaniano ha dovuto riconoscere che «i pastori tradizionali masai sono di fatto degli ottimi conservazionisti» e a considerazioni analoghe sono giunti anche i consulenti della Banca mondiale.

L’esperienza ha infatti mostrato che, allontanando i popoli indigeni dai parchi, non solo si contribuisce allo sviluppo di un tessuto sociale di persone culturalmente sradicate, le quali cadono più facilmente preda di alcolismo e piccola criminalità (se non addirittura, in certi casi, finiscono per diventare manovalanza alle compagini terroristiche), ma si priva il territorio di un efficace controllo, a costo zero, nei confronti del bracconaggio su larga scala, della diffusione di specie invasive che diminuiscono la biodiversità e degli incendi, questi ultimi ben diversi dei tanto discussi interventi tradizionali di diserbo tramite fuoco messi in atto sotto la sorveglianza dei pastori stessi.

Saggezza versus economia

Purtroppo, come spesso accade, la saggezza derivante dall’esperienza viene trascurata dagli interessi economici di parte. Così, si contrabbanda come «ambientalista» la ridicola proposta di continuare a sostenere un’economia basata sullo sfruttamento di risorse energetiche fossili controbilanciandola con l’istituzione di aree protette sul 30% delle terre disponibili, nell’ottica di ciò che vengono definite «soluzioni basate sulla natura» (in inglese Nbs). In questo modo, per non mettere in discussione il diritto a inquinare di popolazioni ricche e nazioni emergenti, si condannano alla scomparsa popoli e culture che su quel 30% di terre hanno sempre vissuto in modo ecologicamente sostenibile e che verranno privati dei basilari mezzi di sostentamento.

Il paradosso è simile a quello che riguarda la produzione di auto elettriche: mentre in molti si rallegrano per il notevole progresso ecologico, in pochi si preoccupano per le terribili condizioni alle quali sono sottoposti i bambini in Repubblica democratica del Congo che vengono sfruttati nelle miniere dei minerali necessari a realizzare le batterie.

Intanto, attorno alla fauna selvatica circolano somme da capogiro, e in Africa subsahariana (dove il numero di persone sottonutrite ha superato i 280 milioni) i cacciatori stranieri pagano fino a 60mila euro per abbattere legalmente un elefante o un leone.

Forse sarebbe il caso di rimettere la persona al centro di ogni ragionamento.

Alberto Zorloni




Parchi e Diritti Umani:

Conservazionismo vs Popoli Indigeni


La Conservazione della Natura versus i Diritti dei popoli

«Occhi e orecchie» della foresta
Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»
Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Contro il bracconaggio (ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I parchi hanno bisogno di loro
I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

* Per tutti gli studi e le ricerche citati qui di seguito, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.


«Occhi e orecchie» della foresta

Quasi tutte le aree protette del mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel nome della «conservazione». Con questo termine si intende un’ideologia che auspica il mantenimento della qualità di un determinato ambiente e delle risorse naturali, degli ecosistemi e della biodiversità a esso relazionati, tramite la creazione di aree protette e parchi naturali. Gli sfratti possono distruggere sia la vita dei popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per generazioni.

Spesso le terre indigene sono erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree di cosiddetta wilderness, governi, società, associazioni e altre componenti dell’«industria della conservazione» (nel senso che in molti paesi la conservazione è diventata un settore economico significativo) si adoperano per farne «zone inviolate», libere dalla presenza umana.

Per i popoli indigeni, lo sfratto può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono l’autosufficienza. E se prima prosperavano, dopo spesso si ritrovano a vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di reinsediamento.

Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani indigeni, anche l’ambiente può finire per soffrire perché bracconaggio, sfruttamento eccessivo delle risorse e grandi incendi aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.

L’80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terre indigene. Non è un caso.

Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che abitano e amano, i popoli tribali (o nativi) hanno contribuito direttamente all’altissima diversità di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni.

Come disse Martin Saning’o Kariongi, un anziano Masai della Tanzania, al World Conservation Congress del 2004, «le nostre tecniche di coltivazione impollinano numerose specie di semi e mantengono canali di comunicazione tra gli ecosistemi. Noi eravamo i conservazionisti originari».

In Amazzonia, ad esempio, studi scientifici* basati su immagini satellitari dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto dell’Amazzonia brasiliana, sono di vitale importanza per fermare disboscamento e incendi, e costituiscono la barriera più importante alla deforestazione. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie, e in Guatemala (venti volte minore). Il futuro successo della conservazione dipende quindi dai popoli indigeni.

Survival International

Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»

Le aree protette sono pensate per conservare flora e fauna, ma spesso dimenticano gli uomini. Popoli, abituati da sempre a vivere in simbiosi con l’ecosistema, sono obbligati a lasciare le loro terre. Diventano così dei rifugiati, costretti a vivere di donazioni. E dietro a tutto questo ci sono una ideologia e una storia precisa.

Le aree protette, siano esse nella forma di parchi nazionali, aree di conservazione, riserve naturali o altro, sono create per tutelare flora e fauna, non gli uomini. Nel mondo esistono oggi oltre 120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa.

Le aree protette si differenziano per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli indigeni devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.

Oltre il 70% dei parchi tropicali sono abitati*. Una fetta ancor più grande dipende dalle comunità che li circondano. Eppure, quando questi popoli vengono cacciati dai loro territori, convertiti in parchi, è perché improvvisamente vengono considerati «nemici della conservazione», per usare le parole dell’anziano Masai Kariongi.

Il lato oscuro della conservazione

L’idea di preservare le aree di «wilderness» attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX secolo. Si fondava su una lettura arrogante del diritto alla terra che mancava completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmare e alimentare la stessa. La convinzione era che a sapere cosa fare per il bene dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano.

A promuovere questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Theodore Roosevelt. Si adattava perfettamente alla sua visione: «La più giusta fra tutte le guerre è quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti. È d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale».

Il primo parco nazionale della storia fu Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel 1872, ai nativi, che vi vivevano da secoli, fu inizialmente permesso di restare, ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In una sola battaglia si dice morirono 300 persone*.

Dettagli storici come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del parco. Tuttavia tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non solo per i popoli indigeni ma anche per la natura.

Chi c’è dietro gli sfratti

Riportiamo una citazione del 2003 di Mike Fay, influente ecologista della Ong Wildlife Conservation Society (Wcs), pubblicata dal giornalista Mark Dowie: «Teddy Roosevelt aveva ragione. Nel 1907, quando gli Stati Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di aree protette facendone un pilastro della sua [politica interna]… In pratica, il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il modello statunitense in Africa».

Il presidente Roosevelt aveva torto. Ciò nonostante, oggi, la sua teoria continua a influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti devastanti. Sfrattare intere popolazioni dalle zone protette comporta costi ingenti, sia in termini di denaro sia di reputazione. Quindi perché i governi lo fanno? Le principali ragioni sono le seguenti.

  • Paternalismo e razzismo: alcuni governi hanno sfrattato i popoli nativi dai parchi nel tentativo, paternalista e razzista, di costringerli ad assimilarsi al resto della società. La rimozione dei Boscimani dalla Central Kalahari Game Reserve del Botswana, ad esempio, è stata in parte dovuta a questo atteggiamento e all’accusa infondata rivolta ai Boscimani che cacciassero troppi animali.
  • Turismo: gli sfratti vengono giustificati anche nell’interesse del turismo – altamente lucrativo – e nella convinzione che i turisti vogliano vedere solo flora e fauna selvatica, non persone.
  • Controllo: molti governi aspirano al controllo supremo sia dei territori sia della popolazione; separando gli indigeni diventa più facile raggiungere l’obiettivo.

Le organizzazioni internazionali per la conservazione alimentano gli sfratti incoraggiando i governi a intensificare le operazioni di polizia e protezione. A volte i governi trasferiscono questi poteri alle organizzazioni stesse, che in tal modo acquisiscono il diritto di arrestare e sfrattare. Storicamente, la maggioranza di queste organizzazioni conservazioniste è stata gestita da biologi la cui preoccupazione per habitat e singole specie prevale sulla capacità di apprezzare il modo in cui interi ecosistemi sono stati alimentati e custoditi dai popoli indigeni, che dovrebbero quindi essere i partner principali nella loro conservazione.

Un esempio. Nel 1995, l’Ong World wildlife fund (Wwf) India presentò una mozione al governo indiano per rinforzare la legge Wildlife protection Act, allo scopo di proibire tutte le attività umane nei parchi. La Corte suprema acconsentì e ordinò alle autorità statali di rimuovere tutti i residenti dai parchi entro un anno. Una richiesta totalmente irrealistica. Non fu fatto alcun accenno ai diritti e ai bisogni dei circa quattro milioni di persone che abitavano la vasta rete di aree protette dell’India, per la maggior parte Adivasi (indigeni). Oggi queste comunità convivono con la minaccia costante di sfratto, sottoposti senza sosta a persecuzioni, minacce e pressioni affinché abbandonino i parchi.

Un problema mondiale

«L’istituzione di aree protette nei territori indigeni, fatta senza il nostro consenso né il nostro coinvolgimento, ha provocato la spoliazione e il reinsediamento dei nostri popoli, la violazione dei nostri diritti, lo sfratto delle nostre comunità, la perdita dei nostri luoghi sacri e il lento ma continuo sgretolarsi delle nostre culture, nonché l’impoverimento…», dalla «Dichiarazione dei delegati indigeni» al Congresso mondiale dei parchi del 2003. È estremamente difficile quantificare l’entità degli sfratti dai parchi perché in molte aree non esistono dati, mentre in altre non sono attendibili. Alcuni esempi danno un’idea dell’ordine di grandezza del problema.

  • Africa: uno studio* sui parchi centroafricani stima che le persone sfrattate siano più di 50.000, molte delle quali sono popoli tribali. Altri studi parlano di milioni*.
  • India: nel 2009 vengono stimate* in 100.000 le persone sfrattate dai parchi, oltre a numerosi milioni privati in toto o in parte dei loro mezzi di sostentamento e sopravvivenza. Nei parchi nazionali dell’India, che negli ultimi anni si sono espansi considerevolmente, vivono tra i tre e i quattro milioni di persone, su cui pende costantemente la minaccia di sfratto.
  • Thailandia (situazione simile nel resto del Sud Est asiatico): le persone minacciate di sfratto nel nome della protezione di foreste e bacini idrografici sono mezzo milione*.

Anche se è impossibile dare numeri precisi, le persone sfrattate dalle loro case nel nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto, sono molti milioni nel mondo. La maggior parte sono indigeni.

Alla base ci sono presupposti non scientifici secondo cui i popoli tribali non sarebbero in grado di gestire le loro terre in modo sostenibile, perché cacciano, pascolano e utilizzano le risorse dei territori in modo eccessivo. Ma c’è anche la volontà, sostanzialmente razzista, dei governi di integrare, «modernizzare» e soprattutto controllare i popoli tribali dei loro paesi.

Vengono quindi varate politiche nazionali che implicano lo sfratto degli indigeni e forzano i popoli dipendenti dalle foreste a imparare modi diversi di vivere. Gli orticoltori a passare all’agricoltura intensiva, i nomadi a sedentarizzarsi e popoli che hanno sempre agito collettivamente ad accettare titoli personali di proprietà su piccoli appezzamenti di terra o «pacchetti di risarcimento». Tutto ciò equivale a trasformare popoli indipendenti e autosufficienti in «beneficiari» dipendenti che, si presume, si inseriranno nella società dominante.

Anziché celebrare e valorizzare il fatto che i popoli indigeni sono «gli occhi e le orecchie» della foresta, la loro diversità viene usata per giustificare sfratti e molestie. Quando gli habitat vengono degradati o alcune specie si estinguono, il dito viene spesso puntato contro i popoli indigeni invece che contro i veri colpevoli, politicamente più impegnativi: bracconieri, contrabbandieri di legname, minatori illegali, imprenditori turistici – tutti dotati di potenti alleati – o grandi infrastrutture come silvicolture, miniere e dighe.

Sfratti eccellenti

Tra i molti esempi possibili, significativo è quello della riserva delle tigri di Kanha, Madhya Pradesh, India.

  • Nel nome della conservazione della tigre, migliaia di Baiga e Gond sono stati sfrattati illegalmente e con la forza dalla riserva indiana di Kanha* (luogo in cui è ambientato il famoso «Libro della giungla» di Kipling). Le famiglie sono state perseguitate per anni affinché lasciassero la riserva. Nel 2014 centinaia di persone sono state sfrattate. Hanno ricevuto denaro, ma né terra né aiuto per ristabilire le loro vite all’esterno. Intere comunità sono state distrutte.
  • Altro caso è quello dei Boscimani della Central Kalahari Game Reserve, Botswana*. Nel 2002 ai Boscimani fu detto che sarebbero stati rimossi dalla riserva ai fini della «conservazione», ma prima ancora che gli sfratti avessero luogo furono attuati test di prospezione mineraria, e dopo il loro sfratto fu inaugurata una miniera di diamanti.
  • I Masai di Loliondo, Tanzania settentrionale erano stati minacciati di sfratto con il pretesto della necessità di creare un corridoio di collegamento tra i due parchi nazionali Serengeti e Maasai Mara. Poi, però, la terra fu data in locazione a una compagnia di safari di caccia.

Rifugiati a casa loro

Che si tratti di miniere, dighe o progetti di conservazione, sfrattare gli indigeni dalle loro terre ha sempre gli stessi devastanti effetti: da un giorno all’altro popoli prima autosufficienti si trasformano in rifugiati. Strappati dalle loro terre e dalle risorse che le sostentavano, si ritrovano all’improvviso a dover dipendere da sussidi ed elemosina. Le comunità sprofondano nella povertà: cattive condizioni di salute, malnutrizione, alcolismo e malattie mentali. Relegati ai margini della società dominante, spesso la loro presenza è mal tollerata dai nuovi vicini, con cui emergono conflitti e tensioni sociali.

I popoli indigeni non sono gli unici a essere sfrattati dalle aree protette, ma sono quelli che ne soffrono immensamente di più. La ragione è che per sopravvivere dipendono completamente dalla terra in cui vivono e dalle sue risorse, e non hanno fonti di reddito. Per loro, la terra è tutto e non può essere rimpiazzata anche in virtù del profondo legame storico e spirituale che li unisce a essa.

Nelle parole dell’antropologo Jerome Lewis: «Ai contadini che, da quando (fu ufficializzato il Mgahinga National Park, in Uganda) negli anni ’30, avevano distrutto parte della foresta per costruire le loro fattorie, furono riconosciuti i diritti territoriali e ricevettero gran parte dei risarcimenti disponibili. I Batwa, invece, che avevano posseduto quella foresta per generazioni senza danneggiarne flora e fauna, avrebbero potuto ottenere qualche indennizzo solo se avessero agito come quegli agricoltori, distruggendo appezzamenti di foresta per trasformarli in campi. Un classico caso di mancato riconoscimento dei diritti alla terra dei popoli cacciatori-raccoglitori».

Le famiglie tribali raramente ricevono compensi adeguati – se mai ne ricevono – per tre principali ragioni:

  1. In quanto società non statali, spesso i popoli indigeni non compaiono nei censimenti ufficiali. Quando esistono dati demografici, nel migliore dei casi sono inattendibili. I governi spesso ignorano i diritti consuetudinari e informali dei popoli indigeni che fanno quindi molta fatica a difendersi ricorrendo ad azioni legali.
  2. Nei confronti della caccia, della raccolta e della pastorizia nomade, spesso praticate dai popoli tribali, vige una diffusa forma di razzismo, che li dipinge come arretrati rispetto ai contadini stanziali. Dei coltivatori si dice che abbiano migliorato la terra e per questo viene riconosciuto loro un risarcimento se la perdono a causa di sfratti o trasferimenti. Al contrario, alle tribù che non hanno costruito strutture permanenti né coltivato cereali e ortaggi, non viene riconosciuta alcuna proprietà fisica da risarcire. Ironicamente, è proprio il fatto che non siano state «migliorate» a rendere le loro terre tanto appetibili agli occhi dei conservazionisti.
  3. Non esiste risarcimento che possa compensare il legame che unisce i popoli indigeni alle loro terre. «Prima ci impoveriscono togliendoci la nostra terra, la caccia e il nostro stile di vita. Poi ci dicono che non contiamo niente perché siamo poveri», Jumanda Gakelebone, Boscimane, Botswana.

Survival International

Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Le leggi che istituiscono i parchi sono spesso in grave violazione di trattati e convenzioni internazionali sui diritti dei popoli nativi. Questi spesso non hanno i titoli formali delle loro terre. Sono così facilmente espulsi e perdono ogni possibilità di sussistenza. Gli schemi alternativi proposti finiscono per creare un circolo di dipendenza.

Alcune leggi nazionali fanno riferimento alla creazione di aree protette «inviolabili». Tuttavia, la legge internazionale vieta esplicitamente a governi e altre organizzazioni di violare i diritti dei popoli, per qualsiasi motivo, anche la conservazione.

La maggior parte delle aree protette si trova in terre su cui i popoli indigeni hanno diritti consuetudinari o informali anziché titoli cartacei di proprietà registrati ufficialmente. Nonostante ciò, il loro rapporto con quelle terre è antico risalendo indietro nel tempo a un numero incalcolabile di generazioni e i legami economici, culturali e spirituali che hanno con esse sono molto profondi. Affinché i popoli indigeni possano sopravvivere è di cruciale importanza che i loro diritti territoriali siano rispettati, perché tutti i loro diritti umani derivano da questo. Se i loro diritti alla terra vengono violati, i popoli indigeni non possono godere nemmeno dei diritti umani fondamentali.

Convenzioni violate

Tra i diritti più spesso violati con la creazione dei parchi se ne conta una serie riconosciuta ai popoli indigeni dalla «Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», in particolare:

  • all’autodeterminazione (articolo 1.1);
  • a non essere privati dei mezzi di sussistenza (articolo 1.2);
  • a non essere sottoposti a interferenze arbitrarie o illegittime nella propria casa (articolo 17.1);
  • alla libertà di religione (articolo 18.1);
  • a vivere la propria cultura in comune con gli altri membri del proprio gruppo (articolo 27).

In quanto popoli indigeni, essi hanno poi un’altra serie di diritti, individuali e collettivi, sanciti dal diritto internazionale: la «Convenzione 169» dell’Organizzazione internazionale del lavoro e la «Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni» delle Nazioni Unite. Tra questi ci sono il diritto alla proprietà collettiva della terra e il diritto a dare o negare il consenso a progetti che hanno un impatto sulle loro terre.

Recinzioni, multe e intimidazioni

Una volta tracciati i confini di un parco, le comunità si vedono improvvisamente negare l’accesso ai luoghi di culto e sepoltura, alle piante medicinali necessarie e, in generale, ai mezzi di prima necessità, come cibo e combustibile per cuocere o prodotti della foresta da scambiare con altri gruppi.

Nel giro di qualche ora, perdono tutte le risorse che sostenevano la tribù da tempo immemorabile. Se cacciano, sono accusati di bracconaggio; se vengono sorpresi a raccogliere prodotti della foresta, rischiano multe o addirittura il carcere. La comunità si ritrova assoggettata ai capricci di guardaparco incuranti delle politiche ufficiali che magari le garantiscono il diritto a un «uso sostenibile» delle risorse.

In alcuni casi, vengono messe in atto iniziative speciali per cercare di compensare queste perdite attraverso «schemi alternativi di sussistenza» o «attività generanti reddito»*. Benché talvolta venga lasciata una possibilità di scelta, l’opzione di mantenere e potenziare ulteriormente la strategia tradizionale di sussistenza non viene praticamente mai presa in considerazione. Al contrario, questi progetti, molto spesso, non si curano di quali siano le vere necessità della tribù e impongono cambiamenti e integrazione. Spesso non offrono soluzioni a lungo termine in grado di compensare davvero la dipendenza sostenibile che la tribù aveva prima con la sua terra; al contrario, spingono le comunità verso un nuovo e insostenibile circolo di dipendenza dai meccanismi esterni.

Survival International

Contro il bracconaggio
(ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I Pigmei Baka in Camerun

Nella guerra contro il bracconaggio, i Pigmei1 Baka del Camerun si trovano spesso nel mezzo di fuochi incrociati. E come loro i Pigmei Bayaka e decine di altri popoli della foresta, vengono trattati come bracconieri perché cacciano per nutrire le loro famiglie, come hanno fatto per generazioni, o semplicemente perché osano entrare nelle aree protette create nelle loro terre ancestrali. Subiscono arresti, pestaggi, torture e morte per mano dei guardaparco. Questi sono finanziati ed equipaggiati allo scopo di proteggere i parchi da organizzazioni come il World Wildlife Fund (Wwf) e la Wildlife Conservation Society (Wcs) che sono a conoscenza degli abusi da più di un decennio ma non li hanno fermati2.

Survival International ha ricevuto l’appello di molti indigeni da Camerun, Repubblica Centrafricana e Repubblica democratica del Congo che hanno denunciato gli abusi subiti. Un uomo Baka, ad esempio, ha raccontato a un ricercatore di Survival che i guardaparco lo hanno picchiato e poi hanno ribaltato il letto dove stava dormendo il figlio neonato, gettandolo violentemente a terra. Il bambino è morto poco dopo; i suoi genitori non avevano nemmeno avuto il tempo di dargli un nome.

Ma la violenza fisica è solo una parte degli abusi che i Pigmei e i loro vicini subiscono nel nome della conservazione. I guardaparco bruciano regolarmente gli accampamenti di caccia e raccolta, annientando in questo modo la forza vitale dei Baka, rubano la frutta e la verdura raccolte, il pesce pescato, le loro stoviglie e i loro attrezzi. I Baka vengono così sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali in cui non possono più vivere come prima, e molti denunciano che la loro salute sta peggiorando visibilmente a causa della malnutrizione, delle nuove malattie e della perdita di accesso alle medicine della foresta.

Nel febbraio 2016 Survival ha presentato un’istanza formale al Punto di contatto nazionale svizzero dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in merito alle attività del Wwf in Camerun. Secondo Survival, il Wwf ha collaborato alla creazione di aree protette, anche se il governo aveva mancato di ottenere il consenso libero, previo e informato delle comunità sui progetti di conservazione avviati nelle loro terre ancestrali. A dicembre, con una decisione senza precedenti, il Punto di contatto ha ritenuto l’istanza meritevole di approfondimento. È la prima volta che un’organizzazione no profit come il Wwf viene esaminata in questo modo.

I cacciatori Boscimani del Botswana

«Mi siedo e mi guardo attorno. Dovunque ci siano i Boscimani, c’è selvaggina. Perché? Perché noi sappiamo come prenderci cura degli animali. Sappiamo come cacciare, non ogni giorno ma secondo le stagioni», Dauqoo Xukuri, Boscimane, Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette ad abbandonare questo stile di vita, ma la Central Kalahari Game Reserve del Botswana (Ckgr) è ancora la casa dove gli ultimi Boscimani possono vivere in gran parte di caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta corte ha confermato il loro diritto a vivere e cacciare nella riserva.

Nonostante la sentenza, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della tribù nemmeno una licenza. La caccia di sussistenza praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro famiglie.

Survival riceve molte segnalazioni di Boscimani torturati fino dagli anni ‘90. Nel 2012, due Boscimani sopravvissero alle torture inflitte loro dalle guardie del parco perché avevano ucciso un’antilope.

Survival chiede al governo del Botswana di fermare i violenti abusi commessi contro i Boscimani e riconoscere il loro diritto di cacciare nella terra ancestrale.

Survival International

Note

1- «Pigmei» è un termine collettivo usato per indicare diversi popoli cacciatori-raccoglitori del bacino del Congo e di altre regioni dell’Africa centrale. Il termine è considerato dispregiativo e quindi evitato da alcuni indigeni, ma viene utilizzato da altri come il nome più facile per riferirsi a se stessi.

2- Prove e testimonianze sono contenute nell’Istanza formale che Survival ha presentato al Punto di contatto nazionale (Pcn) svizzero dell’Ocse.

I parchi hanno bisogno di loro

I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

È verificato che i popoli indigeni sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni. Le loro pratiche ancestrali mantengono la biodiversità, controllano gli incendi e fermano la deforestazione. Ma nei parchi quasi sempre quello che fanno è proibito. Per questo sono arrestati. E le condizioni della biosfera dell’area peggiorano.

I popoli indigeni dipendono dall’ecosistema in cui vivono sia a livello pratico che spirituale e sono quindi fortemente motivati ed efficaci nel proteggerlo. Il tema dell’utilizzo delle risorse naturali è centrale nella gestione indigena della terra: nei secoli, i popoli tribali hanno sviluppato complessi sistemi sociali per amministrare la raccolta dell’ampia varietà di specie da cui dipendono in modo da assicurarsi abbondanza e sostenibilità nel tempo. Al contrario, una visione più ristretta della protezione della natura giudica questa modalità di utilizzo della terra e delle sue risorse inconciliabile con la conservazione.

Coloro che dipendono dalle loro terre per sopravvivere sono certamente più motivati a proteggere l’ambiente in cui vivono rispetto a guardie forestali malpagate, trasferite lontano dalle famiglie, spesso incapaci o riluttanti a perseguire i veri criminali e quindi inclini a concentrare le loro energie su obiettivi più facili: le popolazioni locali.

«Noi, i popoli indigeni, siamo stati parte integrante della biosfera dell’Amazzonia per millenni. Abbiamo usato e protetto le sue risorse con grande attenzione e rispetto, perché è la nostra casa e perché sappiamo che la nostra sopravvivenza e quella delle generazioni future dipendono da questo. La nostra profonda conoscenza dell’ecologia della nostra casa, il nostro modo di convivere con le peculiarità della biosfera, la riverenza e il rispetto che abbiamo per la foresta tropicale e i suoi abitanti, piante o animali che siano, sono la chiave per garantire il futuro del bacino amazzonico, non solo per il nostro popolo, ma per l’intera umanità», Coica, Confederazione delle Organizzazioni Indigene del Bacino dell’Amazzonia, 1989.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, sfrattare i popoli indigeni dalle loro case trasformate in aree protette, raramente contribuisce alla conservazione della natura. Anzi, è spesso controproducente perché circonda il territorio di persone risentite, che spesso continuano a dipendere dalle risorse del parco. Inoltre, nega un’evidenza sempre più palese: quando coloro che se ne sono sempre occupati in maniera sostenibile sono costretti ad andarsene, gli ecosistemi soffrono. Alcune recenti ricerche* stanno sconvolgendo la logica conservazionista. In seguito allo sfratto delle comunità indigene, gli incendi incontrollabili, il bracconaggio e le specie invasive spesso aumentano. Uno studio condotto all’interno del Chitwan National Park del Nepal* ha addirittura mostrato una minore densità di tigri nel cuore dell’area liberata dalla presenza umana. Sembra che il modo in cui le comunità gestivano le aree circostanti creasse un habitat migliore per le tigri stesse.

Ragazza Penan, Malaysia.

Incrementano la biodiversità

La coltivazione a rotazione, chiamata anche debbio, si riferisce a una tecnica di coltivazione a cicli, che prevede prima la pulizia del terreno da coltivare (di solito utilizzando il fuoco) e poi il suo abbandono per alcuni anni, per permettergli di rigenerarsi. In tutto il mondo, governi e gruppi ambientalisti hanno cercato a lungo di eliminare la coltivazione a rotazione, spesso definendola in termini peggiorativi «taglia e brucia».

Oggi gli scienziati hanno compreso che questa tecnica può «dare spazio a sorprendenti livelli di biodiversità»*. Le comunità che la utilizzano, come i Kayapò del Brasile, riescono a tenere sotto controllo le varie specie di piante che compongono la foresta. Ciò influisce positivamente sulla biodiversità e crea habitat di grande importanza. Contribuisce inoltre a incrementare la biodiversità disegnando un mosaico di habitat differenti.

Ricerche condotte sulle attività di sostentamento dei cacciatori-raccoglitori nel bacino del fiume Congo* dimostrano che le loro tecniche portano a un significativo miglioramento dell’ambiente come habitat di fauna selvatica, inclusi gli elefanti.

Eppure, nonostante i benefici ecologici del debbio siano sempre più riconosciuti, in molti altri casi questa pratica è bandita o le comunità che dipendono da essa vengono sfrattate. L’impatto sulle comunità indigene coinvolte è serio, anche dal punto di vista della salute.

Nelle riserve delle tigri dell’India, i villaggi che si trovano all’interno creano pascoli per animali che spesso si rivelano prede importanti per le tigri. Quando vengono rimossi, il Dipartimento Forestale deve trovare altri modi per mantenere floridi questi pascoli, pena una diminuzione della biodiversità.

Controllano gli incendi

«I danni che abbiamo oggi (a causa degli incendi devastanti), potrebbero essere limitati permettendo agli Aborigeni di fare quello che hanno perfezionato nel corso di migliaia di anni». Professor Bill Gammage, Australian National University.

Sia in Australia che in Nord America, i primi colonizzatori notarono l’aspetto insolito del territorio, più simile a un parco che a delle foreste: alberi distribuiti su pianure sterminate ma nessuna traccia di sottobosco. Un intrinseco pregiudizio impedì loro di capire che quei paesaggi erano il risultato di una cura del territorio molto sofisticata ed estesa. Bill Gammage, esperto di tecniche aborigene di gestione del territorio, ha dimostrato che quelle popolazioni avevano sviluppato un sistema di utilizzo del fuoco che permetteva loro di ricavare dalla terra tutto ciò di cui avevano bisogno.

In Australia ci si sta sempre più rendendo conto che i sistemi aborigeni limitavano il rischio di grandi e devastanti incendi. Negli ultimi novant’anni gli incendi boschivi sono costati al governo australiano quasi sette miliardi di dollari Usa. Allo stesso modo, in Amazzonia, l’incidenza di incendi è molto più bassa nei territori abitati dagli indigeni.

Ma, così come è accaduto per la coltivazione a rotazione, anche gli incendi controllati sono stati dichiarati illegali, e vengono persino criminalizzati.

Fermano la deforestazione

Le immagini satellitari* forniscono una prova evidente del ruolo che i territori indigeni giocano nel prevenire la deforestazione. Quando i popoli tribali vivono nelle loro terre con diritti pieni e riconosciuti, e la certezza che quelle terre rimarranno sempre nelle loro mani, usano le foreste in modo di gran lunga più sostenibile dei nuovi venuti: allevatori, taglialegna e contadini che abbattono gruppi di alberi in un colpo solo.

Un’analisi su vasta scala* condotta sia sulle aree protette sia nelle foreste gestite dalle comunità indigene ha dimostrato che queste ultime resistono meglio alla deforestazione rispetto alle prime. E non sorprende se si pensa che le comunità hanno molti buoni motivi per proteggere e gestire efficacemente le foreste da cui dipendono per sopravvivere, mentre molte aree protette esistono solo sulla carta e vengono gestite miseramente da staff spesso sottopagato, immotivato e a volte corrotto.

«Abbiamo protetto le foreste per migliaia di anni, ora ci cacciano come animali. Ma ogni giorno, alberi immensi vengono tagliati di nascosto e venduti di contrabbando. I funzionari della foresta hanno deciso di mandarci via, così che queste attività possano continuare indisturbate», portavoce degli Adivasi Iruliga, Bangalore, India.

Fermano lo sfruttamento eccessivo

Prove storiche inconfutabili* dimostrano che ai popoli indigeni bastava cacciare un numero limitato di animali da branco per controllarne la popolazione e prevenire lo sfruttamento eccessivo dei pascoli. Studi condotti a Yellowstone*, ad esempio, mostrano che i loro metodi erano molto efficaci nel controllare la popolazione dei cervi e dei bisonti. Dopo lo sfratto delle tribù dal parco, invece, i guardaparco hanno dovuto sparare a 13.000 cervi nel tentativo di controllarne il numero. L’eliminazione selettiva dei bisonti a Yellowstone continua ancora oggi.

Controllano il bracconaggio

I popoli indigeni conoscono la loro terra intimamente. Nel corso di generazioni hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna autoctone e delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i più efficienti ed efficaci manager delle loro terre.

Sistemi complessi di controllo della caccia e della raccolta aiutano a mantenere l’ordine sociale della tribù, e allo stesso tempo proteggono le risorse da cui la comunità stessa dipende. In molte etnie è vietato uccidere animali giovani, gravidi o considerati totem; mentre eccedere nello sfruttamento delle specie, e caccia e pesca sono consentiti solo in alcuni periodi. Il risultato di questi tabù e pratiche è l’efficace razionamento delle risorse nel territorio, che arricchisce la biodiversità e dà a piante e animali il tempo e lo spazio necessari a prosperare.

Bambino boscimano nel Botswana, 2004.

Caccia di sussistenza e sostenibilità

I Boscimani del Kalahari vengono picchiati, torturati e arrestati se cacciano per sfamare le loro famiglie. Sebbene il governo li etichetti come bracconieri, non esistono prove che la loro caccia di sussistenza sia insostenibile. Al contrario, è perfettamente compatibile con la conservazione: i Boscimani sono motivati a proteggere la fauna selvatica dalla quale dipendono più di chiunque altro. Ma quando le iniziative di conservazione strappano ai popoli tribali il controllo di terre e risorse, la loro capacità di auto-sostentarsi viene compromessa. E quando questo accade, essi rischiano di diventare complici dei bracconieri piuttosto che dei conservazionisti verso i quali hanno imparato a nutrire risentimento.

In quanto «occhi e orecchie» della foresta, i popoli indigeni si trovano nella posizione migliore per prevenire, individuare e denunciare le attività di bracconaggio. Ma una volta rimossi dalle loro terre, perdono la possibilità e, forse, anche la motivazione a farlo. Per controllare il bracconaggio devono quindi essere investiti fondi ingenti in armi e guardie. Spesso queste misure sono inefficaci e portano a una crescente corsa agli armamenti tra bracconieri e guardiani. E perdono tutti, natura inclusa.

Un rapporto sullo sfratto dei Masai dalle terre di Ngorongoro (Tanzania) dello United Nations Environment Program (2009)* si chiude con questa constatazione: «L’allontanamento di questi guardiani naturali – e a basso costo – dalle loro terre, ha portato a un incremento dell’attività di bracconaggio e alla susseguente quasi totale estinzione dei rinoceronti».

Survival International

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

Per i popoli indigeni la terra non è un’entità da sfruttare bensì un universo da sostenere e mantenere in equilibrio a cui l’uomo appartiene al pari di qualsiasi altro essere vivente. Difenderla è semplicemente il loro modo di vivere, e non un dovere, perché dal suo stato di salute dipende la loro stessa sopravvivenza e quella delle future generazioni.

Alla base del concetto di «conservazione» c’è invece una concezione dualistica del rapporto uomo-natura che considera la natura come un dominio autonomo distinto dalla sfera delle azioni umane. Un luogo incontaminato in cui l’uomo si pone solo come una mera forza distruttiva finché non interviene a esercitare la sua giurisdizione per assicurarne la preservazione.

Ma secondo i popoli indigeni la natura non è «vergine» né «selvaggia», se non nell’immaginario occidentale. E a conferma della loro visione, oggi esistono prove scientifiche che dimostrano che la fisionomia della maggior parte delle regioni ecologicamente più importanti del pianeta, così come le conosciamo oggi, sono il prodotto culturale di una manipolazione molto antica della flora e della fauna, operata da società umane a loro volta condizionate e plasmate da secoli di convivenza con esse.

L’approccio non potrebbe essere più distante. Da un lato un rapporto dell’uomo con la natura fondato su valori di uguaglianza, reciprocità ed equilibrio: la visione ecocentrica dei popoli indigeni, capaci di sfruttare le risorse dei loro ambienti senza mai alterarne i principi di funzionamento e i cicli di riproduzione. Dall’altra un movimento conservazionista radicale e razzista che a partire dagli Usa del XIX secolo si è espanso soprattutto in Africa e Asia sfrattando illegalmente milioni di indigeni dalle loro floride terre ancestrali per farne santuari inviolabili, liberi da qualsiasi presenza umana, con conseguenze drammatiche.

È tempo di fermare brutali violazioni dei diritti umani che danneggiano anche l’ambiente. Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni e ha lanciato una campagna per promuovere un nuovo modello di conservazione che rispetti i diritti dei popoli indigeni e riconosca il loro ruolo di migliori custodi del mondo naturale.

Survival lotta per una svolta radicale nelle politiche della conservazione: per lo smascheramento del suo “lato oscuro” e l’esplorazione di soluzioni innovative fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo il diritto alla proprietà collettiva della terra e a proteggere e alimentare le terre natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti come i migliori custodi delle loro terre e, di conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo.

Survival International

Per maggiori informazioni sulla campagna visita la pagina: www.survival.it/conservazione

Nota

* Per tutti gli studi e le ricerche citati, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.

Fonti

  • M. Chapin, A Challenge to Conservationists, WorldWatch, novembre-dicembre 2004.
  • M. Colchester, Conservation Policy and Indigenous Peoples, Cultural Survival Quarterly 28, no. 1 (2004).
  • M. Dowie, Conservation Refugees: The Hundred-Year Conflict Between Global Conservation and Native Peoples, Mit Press (2009).
  • R. Duffy, Are we hearing a “call to arms” from wildlife conservationists?, Just Conservation (2014).
  • M. Gauthier e R. Pravettoni, Come si costruisce un parco naturale, Il Post (2016).
  • Iucn, Sacred Natural Sites: Conservation of Biological and Cultural Diversity, Earthscan (2010).
  • J. Vidal, The tribes paying the brutal price of conservation, The Guardian (2016).
  • Altre fonti sul sito www.survival.it/conservazione.

Questo dossier è stato firmato da:

  • Survival International È il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro. Le società industrializzate sottopongono i popoli indigeni a violenza genocida, a schiavitù e razzismo per poterli derubare di terre, risorse e forza lavoro nel nome del «progresso» e della «civilizzazione». La missione di Survival è prevenire il loro sterminio, e ottenere un mondo in cui questi popoli siano rispettati come società contemporanee e i loro diritti umani tutelati. A finanziare il lavoro di Survival, che è rigorosamente apartitica e aconfessionale, sono quasi esclusivamente le donazioni dei singoli, insieme ai proventi di piccole iniziative di raccolta fondi. Tra le campagne più urgenti del momento c’è quella per un nuovo modello di conservazione della natura, tema di questo dossier.
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • foto: Le immagini di questo dossier sono state fornite da Survival International, www.survival.it.