Congo Brazzaville: voci dalla rivolta


Come in Senegal, Burkina Faso e Congo Rd, anche a Brazzaville i giovani si mobilitano. Trascinati dai loro eroi musicali, i rapper, scendono in piazza. Chiedono democrazia e diritti. Con coraggio, rivendicano un futuro diverso da quello dei loro padri. Il movimento di chi «ne ha abbastanza» cerca di svegliare i congolesi.

Martial Pa’nucci si definisce artista-rapper, attivista, autore, compositore e poeta urbano. Di certo è un giovane congolese che si è messo in gioco per il suo paese. Lo abbiamo sentito per il suo ruolo di portavoce del movimento sociale giovanile «Ral-le-bol», che si è opposto alla ricandidatura e rielezione di Denis Sassou Nguesso a presidente della Repubblica. E per questo ne ha subito le conseguenze.

Il suo nome da artista, Martial, lo ha voluto in italiano, «perché – ci dice – sono un fan della cultura italiana». Si tratta di un acronimo, Pa’nucci, il cui significato è: Purista, a’ccro (ovvero: attaccato al rap puro), negro, ultra-rivoluzionario, cosciente e contro l’ingiustizia.

Ral-le-bol, invece, in francese significa letteralmente esasperazione, «en avoir ral-le-bol», vuol dire avee abbastanza. Martial accetta di rispondere alle domande di MC sulla situazione del paese.

Come si caratterizza il vostro movimento e cosa chiedete?

«Ral-le-bol è un movimento pro democrazia che lotta per il risveglio della coscienza cittadina. Quando ancora c’erano le autorità in Congo – adesso non c’è più uno stato legittimo – chiedevamo il rispetto dell’ordine costituzionale. Ma la Costituzione del nostro paese è stata purtroppo violata e oggi chiediamo ancora uguaglianza per tutti, acqua potabile, cibo, casa. Sono problemi di base, ma continuano a porsi con una certa ampiezza in Congo. Noi rivendichiamo la giustizia sociale, il benessere, il rispetto dei diritti umani e della democrazia.

Il movimento Ral-le-bol è nato nel dicembre 2014, ben prima che la situazione precipitasse, ed è stato un “ral-le-bol” di giovani, studenti, artisti, che ne avevano abbastanza di vedere il paese in continua regressione, i diritti umani non rispettati, la gente che non mangia a sazietà, la qualità dell’educazione che non è buona, la mancanza di acqua ed elettricità, la violenza poliziesca continua. Vediamo tutti i momenti delle ingiustizie, il saccheggio dei beni pubblici e dei fondi. Così siamo nati per cercare di portare una soluzione a tutti questi problemi, utilizzando lo strumento della rivendicazione».

Chi sono i membri di Ral-le-bol?

«È un movimento con molti giovani, direi dai 20 ai 30 anni. All’inizio eravamo in maggioranza artisti e studenti, ma poi si sono uniti lavoratori, funzionari, disoccupati. È un movimento che raggruppa tutti. Io sono musicista rapper e scrittore».

Cosa avete fatto per il referendum e per le elezioni e come ha reagito il potere?

«Per lottare contro la modifica della Costituzione, nel 2015 abbiamo iniziato a portare la Carta verso i cittadini, per spiegare loro perché è importante rispettarla. E anche se ci sono delle modifiche da fare, occorre che si prenda il tempo necessario. Il presidente della Repubblica aveva terminato i suoi mandati e il testo gli proibiva di ricandidarsi. Abbiamo cominciato quindi con campagne di sensibilizzazione su tutto il territorio nazionale, in particolare a Brazzaville e Point Noire, le due città principali del paese, dove c’è una forte concentrazione di popolazione.

È stato un “porta a porta” per sensibilizzare, e alla fine abbiamo organizzato, insieme ad altri movimenti, una marcia di protesta pacifica il 9 ottobre 2015. Purtroppo questa manifestazione è stata repressa dalla polizia e dalla gendarmeria che ci hanno dispersi, e hanno arrestato 6 dei nostri attivisti. Questi sono stati giudicati, e condannati a 3 mesi di prigione e a una multa di 150.000 franchi (ca. 228 euro). Intanto, quelli che erano scampati all’arresto non erano tranquilli perché temevano che la polizia volesse prendere tutti. Fortunatamente sono stati risparmiati. Gli arrestati sono stati condannati a torto in quanto esigevamo solo il rispetto della Costituzione e il diritto alla manifestazione».

Sostenitori del presidente Denis Sassou Nguesso
/ AFP PHOTO / MARCO LONGARI

Con voi c’erano altri movimenti sociali?

«Assieme a noi, il 9 ottobre c’era il movimento dei giovani cittadini (Mjc), che purtroppo dopo si è alleato alla maggioranza presidenziale, e ha tradito la causa. Il leader di questo movimento si è poi ritrovato consigliere di uno dei ministri eletti alle elezioni truccate. E c’era l’Amicale nell’organizzazione di questa manifestazione di protesta».

Anche tu sei stato arrestato?

«No, fortunatamente sono riuscito a salvarmi e sono fuggito, quando hanno iniziato a tirare le bombe lacrimogene. Perché sapevo che sarebbe finita con degli arresti. In seguito il mio ruolo è stato capitale nella denuncia della situazione attraverso certi media inteazionali, cosa che ha evitato che i nostri amici fossero accusati di essere ribelli. Infatti i governativi, al loro arresto, per accusarli hanno messo loro in mano delle armi. Trenta minuti dopo abbiamo informato la stampa internazionale, che ha fatto fallire questa messa in scena».

Dopo gli arresti del 2015 avete avuto altri problemi con le autorità?

«Due mesi dopo la marcia è stato arrestato un altro nostro militante, Andy Bemba, che è stato rilasciato solo a fine agosto. Ha passato otto mesi senza processo, poi è stato liberato anche grazie a delle pressioni nazionali e inteazionali. Recentemente, non più tardi di qualche giorno fa, (20 ottobre) abbiamo ancora subito attacchi al nostro movimento, con minacce di arresto per Franck Nzila, un altro militante. Sono andati al suo ristorante, hanno arrestato il suo cuoco perché lui non c’era e poi lo hanno liberato dopo 5 giorni di detenzione. È stato poi liberato con l’aiuto dell’Ocdh (Organizzazione congolese per i diritti umani, ndr)».

Poi ci sono state le elezioni presidenziali anticipate.

«La posizione di Ral-le-bol era quella di rimandare le elezioni, perché secondo noi non c’erano le condizioni affinché si tenessero consultazioni libere, trasparenti e rispettose di tutte le regole democratiche. Abbiamo pubblicato un comunicato su questo, ma il potere, che si manifesta sempre con la forza, ha fatto in modo che si tenessero a tutti i costi il 20 marzo. Avevamo anche messo in piedi un’operazione di prossimità, per dire ai cittadini che eravamo contro queste elezioni, perché il presidente si sarebbe imposto con la forza.

Abbiamo detto alla gente, quando votate, restate sul posto per aspettare i risultati, per mostrare alla comunità nazionale e internazionale come questo signore froderà. Nella notte del 20 marzo tutti sapevano già che Sassou aveva perso le elezioni. E aspettavamo di vedere cosa sarebbe successo. Ma il seguito è stato drammatico.

In effetti tutte le previsioni lo davano perdente. A causa delle condizioni nelle quali ha messo il paese, i congolesi non volevano rieleggerlo. Sassou ha sempre imbrogliato e non ha mai vinto un’elezione in maniera trasparente. La prima votazione libera fu nel 1992, e lui la perse.

Per questo noi di Ral-le-bol, sapevamo che avrebbe perso ma che avrebbe voluto imporsi».

Protesta contro il presidente, giocando sull’assonanza di parole: Sossou/ça suffit – basta! / AFP PHOTO / Laudes Martial Mbon

Parlando della società civile in Repubblica del Congo, oggi a che punto siamo?

«È molto indebolita. Sassou sapeva che è stata proprio la società civile a farlo cadere nel 1992. Così appena è tornato al potere, con le armi, ha fatto di tutto per metterla all’angolo. Oggi in Congo possiamo dire che una parte della società civile è comprata dal potere e parla il suo stesso linguaggio. Poi c’è qualche piattaforma di organizzazioni che riesce ad andare avanti, ma è debole e con il clima di terrore che regna nel paese non riescono a fare grandi cose. Quindi è allo stesso tempo indebolita o asservita al potere. E un paese non può svilupparsi con una società civile di questo tipo.

Posso dire che tra noi c’è collaborazione, perché con certe piattaforme riusciamo a comunicare e anche a collaborare. Parlo ad esempio della fondazione Ebina, che fa parte delle Ful-d (Forze unite per la libertà e la democrazia), dell’Ocdh e dell’Associazione per la promozione della cultura, la pace e la nonviolenza».

Siete in una rete internazionale?

«Abbiamo collegamenti con movimenti di cittadinanza attiva come il nostro in altri paesi africani. Con le tecnologie di oggi possiamo comunicare regolarmente e scambiare idee. Talvolta riusciamo a incontrarci in occasione di qualche festival. Penso a Balai Citoyen del Burkina Faso, Filimbi e Lucha della Rdc e Y en a marre del Senegal, con i quali collaboriamo e scambiamo idee. In particolare ci siamo ispirati ai senegalesi, che sono stati i primi a costituirsi».

Come fate a finanziare le vostre attività, i viaggi, gli incontri?

«Nel rispetto dei testi statutari di Ral-le-bol noi funzioniamo grazie alle quote associative dei membri, ma accettiamo anche doni, aiuti e finanziamenti che possono aiutarci a realizzare le attività. Questo non vuol dire che ne abbiamo già ricevuti, finora abbiamo potuto contare solo sui nostri mezzi.

Come membri attivi siamo un centinaio e come membri con partecipazione saltuaria e simpatizzanti siamo a circa 500».

Cosa sta succedendo nel dipartimento del Pool?

«A livello ufficiale c’è una ribellione che sarebbe ricominciata. Quello che si può dire è che da ottobre 2015 a oggi, Sassou ha iniziato un processo nel quale chiunque si opponga al regime o esiga il rispetto della legge, o chieda giustizia, è sistematicamente arrestato, oppure scompare, o viene torturato. Oggi ci sono circa 100 persone in prigione per questi motivi, di cui diversi oppositori, ma il governo sostiene che non ci sono detenuti politici in Congo.

Il 4 aprile 2016 il potere di Brazzaville ha fomentato un colpo di mano. Lo stesso momento in cui hanno iniziato a sparare, verso le 2 del mattino, si proclamavano i risultati ufficiali delle presidenziali. E gli scontri sono proseguiti fino alle 16. Si sparava nei quartieri Sud di Brazzaville. Questo è stato fatto per evitare che la gente scendesse in strada a protestare contro i risultati. Ma non è stato sufficiente, e allora si è cercato un capro espiatorio per dire che c’era un colpevole. Per questo si è accusato Pasteur Ntumi di essere alla testa di un gruppo di ninja, quando tutti sappiamo che questi sono stati disarmati oltre 15 anni fa. Come hanno avuto le armi per attaccare e fare la guerra? I ninja si nasconderebbero nel Pool e così si è cominciato a bombardare la popolazione civile. Sono i civili innocenti che stanno morendo nel Pool, non sono dei guerriglieri.

In quale paese si può accettare che l’esercito bombardi con elicotteri militari la popolazione disarmata? Non è uno scontro con un altro paese. È terribile quello che sta succedendo».

La comunità internazionale, i cosiddetti «amici del Congo», le potenze come Francia e Usa, cosa fanno?

«Oggi i congolesi sono molto delusi dal comportamento della Francia che appoggia ancora il regime di Brazzaville. Perché non dimentichiamo cosa ha detto Hollande quattro giorni prima del referendum anticostituzionale del 2015. Di fatto ha autorizzato il governo a violare la Costituzione, quando qualche tempo prima all’Assemblea generale della Francofonia (organizzazione mondiale che raggruppa i paesi francofoni, ndr), in Senegal, si era opposto alla ricandidatura di Nguesso.

Sono delusi del comportamento della comunità internazionale, perché tutte le nazioni che si dicono protettrici dei diritti dell’uomo, quando si tratta di altri paesi parlano, ma quando si tratta del Congo tacciono. In Congo continuano a morire cittadini che non hanno nulla a che vedere con la politica. Ed è terribile vedere che si continui a uccidere congolesi senza che la Francia dica qualcosa. Siamo molto delusi da tutti questi paesi che non fanno assolutamente nulla per aiutare il Congo a uscire dalla dittatura».

Pensi sia dovuto agli interessi per il petrolio?

«La Francia e gli altri stati guardano le situazioni dei paesi con gli occhi dei loro interessi. Ovvero se hanno affari in un paese, e questi sono garantiti, allora si possono anche uccidere le persone, tutti i giorni. Non è un loro problema. Ma questo è triste perché sono paesi che si dicono culla dei diritti e delle libertà.

Gli Usa hanno condannato la deriva in atto, ma questo non basta. Occorrono sanzioni, bisogna tagliare gli aiuti e la cooperazione, è così che si può aiutare la popolazione. È necessaria un’inchiesta internazionale, ma non è in agenda.

Inoltre si parla poco della Repubblica del Congo a livello di media inteazionali.

Quando, durante le elezioni, siamo rimasti quasi una settimana isolati dal mondo, poco si è scritto. E dopo un tale black out, Sassou si è imposto con la forza e ha utilizzato l’esercito contro la popolazione. Ma nessuno ne parla. Non lo trovo normale. L’opinione pubblica non capisce perché i congolesi si rivoltano, ma noi sappiamo che questo potere è illegittimo, illegale».

Pa’Nucci concert

Qual è la vostra visione sul futuro del paese?

«Il movimento Ral-le-bol esiste soprattutto per far crescere la coscienza cittadina. Come ci sono problemi oggi, ce ne saranno in futuro. Ma bisogna che tutti i congolesi si alzino in piedi come un solo uomo per dire no all’ingiustizia. E noi continueremo a lavorare su questo terreno. Siamo sicuri che il Congo sarà libero ma occorrerà che tutti i congolesi possano impegnarsi per lottare contro la dittatura e i crimini economici che si stanno perpetrando.

C’è infatti anche una grave crisi economica, la cui causa è il governo. Ma chi detiene il potere crea diversivi, come la presunta guerriglia, in modo da non essere scoperti e continuare a dirigere il paese.

Noi vogliamo che il Congo sia un paese di diritto, giustizia e uguaglianza e che quelli che lo hanno messo in questa situazione siano giudicati e paghino per quanto hanno fatto».

Marco Bello




Congo Brazzaville lo spettro della guerra


Per la gente del Congo Brazzaville l’ultimo anno è stato particolarmente difficile. Ha visto una modifica costituzionale e un’elezione, entrambe fortemente contestate. La coscienza civica e democratica è elevata, ma la risposta del potere è la repressione. E il sistema tende a fagocitare lo stato di diritto.

È il 30 settembre scorso, quando un gruppo di armati assalta il treno che corre tra la capitale, Brazzaville, e Pointe Noire, città costiera, ritenuta la capitale economica della Repubblica del Congo. Quattordici sono i morti. Nello stesso periodo si verificano altri attacchi con vittime, tutti nel dipartimento del Pool, regione da sempre «calda» nel Sud del paese. I media parlano della rinascita di una guerriglia, e il ministro della Giustizia si affretta a dire che si tratta di ex miliziani ninja-nsiloulou, noti dalla guerra civile (1999-2003). Ma la questione resta controversa e i dubbi sono molti.

Intanto i vescovi del Congo Brazzaville, nel loro messaggio conclusivo della 45esima assemblea plenaria (10-16 ottobre) chiedono, tra l’altro: « […] ai nostri responsabili politici di operare nel senso del dialogo, allo scopo di un ritorno definitivo della pace in Congo in generale e nel Pool in particolare. Lo stato prenda le sue responsabilità di garante della pace e dell’unità nazionale».

Ma cosa è successo negli ultimi mesi nella Repubblica del Congo? Si è davvero preparata una nuova guerra? E quali le cause? Occorre fare un passo indietro.

Il paese del presidente

Denis Sassou Nguesso è presidente della Repubblica del Congo dal 1979. Fa eccezione il periodo di presidenza di Pascal Lissouba dal 1992 (tramite elezione) al 1997 anno in cui Nguesso riprende il potere con la forza. È la fine della prima guerra civile. Sarà poi eletto nel 2002 e 2009.

La Costituzione del Congo, nella sua revisione del 2002, prevede due soli mandati presidenziali di sette anni per la stessa persona, e un limite di età di 70 anni. Nguesso, 71 anni, alle elezioni del 2016 ha due impedimenti per succedere a se stesso. Ma è una vecchia volpe, e, come ci dice un giornalista congolese, «un seguace di Machiavelli. È bravo a creare situazioni strane per controllare tutto e tutti».

Fin dal 2013 il presidente trama per organizzare un referendum di modifica costituzionale, che è annunciato nel 2014 e si realizza il 25 ottobre 2015. Le manifestazioni organizzate contro il referendum dai movimenti della società civile e dall’opposizione sono represse nel sangue: almeno quattro i morti e numerosi gli arresti tra i leader dei militanti anti Nguesso.

Diritti umani cercasi

«La situazione dei diritti umani in Congo è da sempre preoccupante ma dal 2013 a oggi assistiamo a un peggioramento totale», ci dice Trèsor Nzila, direttore esecutivo dell’Observatornire Congolais pour les Droits de l’Homme (Ocdh), autorevole organizzazione di difesa dei diritti umani con base a Brazzaville, raggiunto telefonicamente. «Assistiamo a un’intensificazione della repressione delle libertà politiche. Sono finiti in carcere una cinquantina di prigionieri d’opinione, come diversi membri dell’opposizione. I giornalisti che hanno linea editoriale critica rispetto al deficit di democrazia sono sanzionati a più riprese dal Consiglio superiore per la libertà di comunicazione. I difensori dei diritti umani sono minacciati; i movimenti sindacali sono attaccati. La giustizia è strumentalizzata. Le forze di polizia torturano, uccidono e reprimono le manifestazioni pubbliche in totale impunità. Non c’è un settore dei diritti umani in cui si può dire che ci sia un miglioramento».

Il referendum fa il suo corso e il risultato, contestato da opposizione e società civile, introduce una modifica della Costituzione, rendendo il presidente Sassou rieleggibile.

«In Congo la nuova Costituzione è stata imposta con la violenza alla popolazione», ci racconta un altro attivista dei diritti umani, di Pointe Noire. «Questo referendum aveva carattere politico, ma quello di cui il popolo aveva bisogno non era il cambiamento costituzionale affinché il presidente rimanesse lo stesso, quanto piuttosto l’avere dei dirigenti scelti dagli elettori, che governano in modo responsabile, rendendo conto del loro operato. Un governo che risponda alle aspirazioni della popolazione in termini di rispetto delle libertà e in particolare dei diritti economici e sociali», continua la nostra fonte, che chiede l’anonimato. «La Costituzione com’è oggi non è stata votata dalla maggioranza della popolazione. La prova è che i congolesi che si sono opposti a questo processo sono stati repressi nella violenza. È stato un vero colpo di stato istituzionale».

Le elezioni precotte

Il 20 marzo 2016 è il giorno delle elezioni. Denis Sassou Nguesso – chiamato monsieur huit pour cent (signor otto per cento), perché si diceva che non avrebbe avuto più dell’8% – capisce di essere in svantaggio. Come sua abitudine «ha comprato parte dell’opposizione e parte della società civile. Chi resiste riceve intimidazioni. Oggi a Brazza se sei nell’opposizione che il potere chiama “radicale”, vieni arrestato arbitrariamente e imprigionato, o muori in condizioni strane, avvelenato, nella tua casa incendiata. Diversi attivisti sono morti così», ci racconta una giornalista che ora vive in esilio e chiede l’anonimato.

«La gente è andata a votare in massa, sperava nel cambiamento, perché c’era stato un lavoro per sensibilizzare la popolazione alla partecipazione. Era pure addestrata a sorvegliare il proprio voto», ci spiega Christian Mounzeo, presidente del Rencontre pour la paix et les droits de l’homme (Rpdh). Ma il governo impone il black out delle comunicazioni interrompendo collegamenti telefonici, messaggistica e internet per 48 ore per pretese misure di ordine pubblico, in realtà per impedire l’organizzazione di possibili rivolte. Un gruppo di 200 militanti viene disperso dalla polizia a seggi chiusi, perché vuole seguire lo spoglio.

Continua Mounzeo: «Sono rimasti fino a tardi nei pressi dei seggi per tentare di verificare il conteggio. Dalla somma dei risultati delle zone a maggiore densità di popolazione ci si accorge che il presidente non ha vinto. Ad esempio a Point Noire, la seconda città del paese (circa un milione di abitanti, ndr), Nguesso ha avuto una percentuale piuttosto bassa. Come anche a Brazzaville, dove la maggioranza della popolazione ha votato per Guy-Brice Parfait Kolelas (arrivato poi secondo con 15,05% di voti, ndr). Se si fa la somma anche con altre città del Sud, il presidente non può aver vinto a livello nazionale». Ma i risultati ufficiali, proclamati dalla Corte Costituzionale alle 3,30 di notte, il 4 aprile, confermano la vittoria di Nguesso al primo tuo con il 60,39% dei voti. Il terzo arrivato secondo i risultati ufficiali è l’ex generale Jean-Marie Michel Mokoko con quasi il 14% degli scrutini.

L’ex generale e il presidente

Mokoko, nel ‘92, quando era Capo di stato maggiore, si era opposto all’idea di golpe di Nguesso contro Lissuba per difendere la democrazia. Era poi rimasto agli alti livelli dell’esercito, ma la gente lo ricorda per la sua integrità e perché lo considera estraneo ai circuiti di corruzione.

Ricorda la giornalista: «A un certo punto la gente ha cominciato a sollecitare Mokoko, perché voleva un cambio nella gestione del paese, allora lui ha deciso di presentarsi, ma Sassou, non ha apprezzato. Durante la campagna elettorale c’è stato un sentimento di rinnovamento e di speranza per questa candidatura. Pur essendo un uomo del Nord (come il presidente, ndr), la gente lo voleva anche a Point Noire, e lo ha accompagnato ai comizi con molto calore. Quando ha depositato la sua candidatura, il numero di iscrizioni sulle liste elettorali è triplicato».

All’indomani della votazione, mentre a Brazzaville scoppiano disordini, Mokoko e altri esponenti dell’opposizione vengono arrestati. Per Mokoko le accuse sono gravi: attentato alla sicurezza dello stato, detenzione di armi e creazione di disordini. In pratica, secondo il regime, avrebbe tentato un colpo di stato. «Ma il dossier d’accusa è vuoto», sostiene la giornalista.

Toano i ninja?

L’opposizione ritiene che i risultati siano «rubati» e chiama la popolazione alla mobilitazione pacifica subito dopo la votazione.

Il 3 e il 4 aprile nei quartieri Sud di Brazzaville, uomini armati attaccano posizioni governative e si scatena uno scontro armato con le forze dell’ordine. I quartieri Sud, abitati da popolazioni del Sud del paese, sono sempre stati in opposizione al presidente Nguesso. Il governo denuncia subito un ritorno delle milizie ninja, all’epoca della guerriglia comandate da Frédéric Bintsamou, detto pasteur Ntumi.

Ma un altro militante dei diritti umani ci confida: «Non c’erano i ninja. Le ultime elezioni presidenziali dal punto di vista dell’opposizione sono state organizzate in modo civile. Anche alle manifestazioni, la gente era cosciente che qualsiasi sbavatura avrebbe dato adito al potere per dargli addosso. Inoltre, le manifestazioni si svolgevano sotto il controllo dell’esercito, della polizia. Ma ci sono delle milizie (filo governative, ndr) che hanno realizzato la repressione».

La giornalista ci spiega: «Il governo ha detto che erano stati i ninja ad attaccare, ma quando si incrociano le testimonianze, ci si rende conto che non è vero. L’attacco è cominciato la sera stessa della proclamazione ufficiale dei risultati. Delle informazioni dicono che erano milizie vicine al potere che hanno sparato per creare una diversione e poi proclamare la vittoria di Nguesso».

Si chiede Trèsor Nizila: «È una strategia per bloccare la mobilitazione che sarebbe seguita la proclamazione dei risultati?». In effetti oltre ad esercito e polizia, sono presenti diverse milizie che «suppliscono» a certi lavori che i corpi ufficiali non possono fare.

«Il potere compra tutti, a colpi di milioni. È facile comprare dei giovani. Ad esempio c’è un gruppo di ex ninja che aveva fatto alleanza con un deputato vicino al potere. Vengono chiamati il gruppo dei Douze apotres (dodici apostoli, ndr) e sono loro alla base degli attacchi del 4 aprile. Questo gruppo non è sotto Ntumi. E la gente non si riconosce con loro. Ho l’impressione che la popolazione sia presa in ostaggio, non ci sono vere rivendicazioni».

Repressione «scientifica»

È da sottolineare che una repressione selettiva nei quartieri Sud della capitale è iniziata fin dall’indomani del referendum dell’ottobre 2015. Una testimone ci racconta: «Nei quartieri Sud tutte le sere la polizia prelevava dei giovani, e della gente sospettata di militare nell’opposizione. Li bastonava e chiudeva nel commissariato quelli che resistevano, gli altri morivano per le botte e la polizia ha iniziato a gettare corpi nei quartieri o nel fiume. Ma tutti avevano paura e non dicevano niente».

In seguito agli scontri a Brazzaville, il 5 aprile scorso il governo manda gli elicotteri a bombardare la regione del Pool, storicamente contestataria. L’effetto è che almeno 5.000 persone lasciano le proprie case per rifugiarsi nella foresta.

Racconta la giornalista: «Hanno lanciato le operazioni ad aprile, con il pretesto di andare a prendere Ntumi e ucciderlo, ma da allora hanno isolato il Pool e bombardano tutti i giorni. Mons. Portella Mbuyu, vescovo di Kinkala, capoluogo del Pool, ha denunciato queste violenze. Anche se si cercano i ribelli, quando si bombarda è la popolazione che subisce. Hanno poi proibito alle Ong di andare sul posto, in modo da sigillare il dipartimento».

Inoltre, in questa zona passa la via di comunicazione più importante tra le due maggiori città del Congo: Brazzaville e il porto di Pointe Noire. Oggi la strada si può percorrere solo in convogli, mentre la ferrovia è bloccata dall’assalto al treno del 30 settembre. Così rifornire di merce Brazzaville è diventato difficile.

«Il potere dice che ex ninja di Pasteur Ntumi hanno attaccato posizioni dell’esercito. A nostro avviso non è una tesi credibile», sostiene il direttore dell’Ocdh. «Non ci convince perché Ntumi è stato integrato nel potere, come consigliere speciale del capo di stato fino alla vigilia di questi attacchi, dal 2007, quando ha lavorato con il presidente. E Nguesso non era al corrente che il suo collaboratore stava addestrando una milizia e si rifoiva di armi? Inoltre il dipartimento di Pool è un dipartimento sotto controllo totale ed effettivo dello stato. Non si capisce come le forze di sicurezza e i servizi segreti non sapessero cosa si stesse muovendo.

Hanno deciso di bombardare i villaggi per cercare un individuo, costringendo così cittadini poveri e traumatizzati a vivere nella foresta in condizioni difficili. Non sembra credibile per un governo che si rispetti e che si prenda cura della popolazione».

In effetti i ninja sono stati smobilitati dopo il 2007, mentre anche la città di Brazzaville è blindata dalle forze dell’ordine, per cui è difficile spiegare pure gli attacchi del 3 e 4 aprile.

Gli «amici» alla finestra

La Francia, gli Stati Uniti e l’Unione europea non hanno riconosciuto le elezioni. Ma, sempre secondo Nzila, «ho l’impressione che la comunità internazionale non voglia interessarsi alla situazione politica e dei diritti umani in Congo, nonostante sia molto preoccupante. Questo silenzio mi sciocca. È inammissibile che istituzioni come l’Ue e le Nazioni unite che promuovono i diritti umani, i valori democratici, lo stato di diritto, non siano in grado di assistere la popolazione congolese in questo momento difficile, quando i suoi governanti la reprimono».

Parlando di futuro, secondo la giornalista: «Questo è un potere che non scende a patti. Crea le condizioni per rendere precaria la vita della gente. Mette il paese sotto pressione, uccide le contestazioni. Crea la paura, fa tornare la psicosi della guerra nella gente che ha già vissuto le sue atrocità, per poterla quindi controllare».

Uno scenario possibile che Trèsor Nzila vede è: «Il malcontento sociale aumenterà e porterà la gente a esprimersi, a fare scioperi per paralizzare le istituzioni. La prima risposta del potere sarà la repressione. Fino a dove andrà la contestazione e fin dove la repressione, non si sa».

Marco Bello