Italia. Israeliani e palestinesi per la pace

 

Nonviolenti palestinesi e israeliani in Italia per testimoniare il loro lavoro comune per la pace e chiedere la fine della guerra.

Due attivisti israeliani e due palestinesi, accomunati dall’obiezione alla guerra, dal 16 ottobre stanno girando l’Italia per portare le loro testimonianze e il loro appello alla pace in diverse città dal Nord al Sud, incontrando cittadini, studenti, istituzioni.

Chiedono alle istituzioni, all’Unione europea, al nostro governo, di riconoscere lo status di rifugiati politici a tutti gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che fuggono dalle guerre e chiedono asilo e protezione.

«Vengono da Israele e Palestina, dove il diritto internazionale viene calpestato – recita un comunicato del Movimento nonviolento, organizzatore del tour nell’ambito della Campagna di obiezione alla guerra -, per rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza! Lavorano insieme e rifiutano la guerra, l’esercito, le armi, l’odio».

Sono gli israeliani Sofia Orr e Daniel Mizrahi e le palestinesi Tarteel Al-Junaidi e Aisha Omar.

Sofia Orr ha rifiutato di arruolarsi per il servizio militare obbligatorio nell’Idf, l’esercito israeliano, nel febbraio 2024, ed è stata condannata al carcere militare. Daniel Mizrahi, figlio di coloni ebrei nei territori occupati, ha fatto anche lui obiezione di coscienza, subendo la stessa sorte. La palestinese Tarteel Al-Junaidi è attivista nonviolenta per i diritti umani. Aisha Omar, cresciuta nella Territori palestinesi occupati, sostiene gli obiettori israeliani e ne fa conoscere ai palestinesi l’attività contro la guerra e l’occupazione.

I quattro rappresentano due importanti movimenti: Mesarvot, una rete di giovani israeliani obiettori di coscienza al servizio militare, e Community peacemaker teams (Cpt), sezione palestinese, che sostiene la resistenza nonviolenta contro l’occupazione israeliana.

Mesarvot è una rete che si oppone al regime di occupazione dei territori palestinesi con manifestazioni congiunte israelo-palestinesi in tutto il Paese, chiedendo un accordo sugli ostaggi, la fine del genocidio a Gaza, del conflitto in Medioriente e il raggiungimento di una soluzione diplomatica.

I suoi attivisti portano l’attenzione sui crimini commessi dall’esercito e incoraggiano i giovani israeliani ad assumersi la responsabilità personale di disobbedire al governo. In più forniscono sostegno, anche legale, a chi decide di rifiutare il servizio militare in un paese nel quale gli obiettori subiscono lunghe detenzioni e le voci dissidenti vengono represse brutalmente.

Il Cpt è uno tra i molti gruppi palestinesi di resistenza nonviolenta. Lavora contro la violenza dell’occupazione israeliana, in particolare in Cisgiordania, ad esempio con il monitoraggio dei posti di blocco israeliani attraversati dai bambini palestinesi per andare a scuola, documentando le continue violazioni dei diritti umani. Il docufilm «Light», proiettato durante il giro italiano dei quattro attivisti, racconta proprio l’impegno del Cpt.

Il tour è partito il 16 ottobre da Milano, ha toccato le città di Verona, Bologna, Parma, Reggio Emilia e Firenze, ed è arrivato a Roma il 23. Si concluderà domani a Bari in coincidenza della Giornata di mobilitazione nazionale per la pace, «Fermiamo le guerre, il tempo della pace è ora!» organizzata da Rete italiana pace e disarmo in diverse città italiane, tra cui, oltre a Bari, Torino, Firenze, Cagliari, Palermo, Roma, Milano.

Nelle varie tappe (di cui si può leggere il diario sul sito di «Azione nonviolenta»), i quattro testimoni hanno incontrato la cittadinanza durante incontri pubblici, studenti, giornalisti, sindaci, vescovi.

Ieri, 24 ottobre, hanno fatto un’audizione alla Commissione permanente per i diritti umani della Camera dei deputati seguita da un incontro pubblico, un incontro presso il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano e integrale e da una conferenza stampa a Montecitorio.

Come ha scritto Pasquale Pugliese, già presidente del Movimento nonviolento, su Comune.info, «Mentre nessuna organizzazione internazionale sembra essere in grado di fermare la violenza cieca dell’esercito israeliano, che dopo oltre 42.000 vittime palestinesi tra Gaza e Cisgiordania invade il Libano, attacca le basi Unifil, colpisce la Croce Rossa, cerca la guerra con l’Iran; mentre nessun governo occidentale, anche apparentemente dissentendo in pubblico con le sue scelte belliche, si decide in verità a interrompere l’invio di armi al governo di Netanyahu; mentre da oltre un anno grandi manifestazioni in ogni parte del mondo, e nella stessa Israele, non riescono a spezzare la spirale di violenza e di odio; mentre accade tutto questo c’è chi trova il coraggio di resistere dal basso, proprio dentro il cuore di tenebra della guerra, rifiutando la logica della violenza, del nemico e dell’odio: ha il volto di giovanissimi israeliani che rifiutano il servizio militare e di altrettanto giovani palestinesi impegnati nella resistenza nonviolenta».

Luca Lorusso




Giordania. Nel paese di Rania


Pur senza vere risorse, la monarchia hashemita è vitale per l’area mediorientale. Da sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra mondo arabo e Occidente, ospita circa tre milioni di palestinesi.

Umm Qays (Gadara). Infuocate dalla luce del sole del tramonto, le antiche facciate di Petra raccontano storie di un tempo passato, mentre le caotiche strade della capitale Amman pulsano di una vita vibrante e moderna. La Giordania è un crocevia di culture e tradizioni, un luogo dove il passato incontra il presente in una danza armoniosa che si interrompe subito al di là del fiume Giordano e del Mar Morto.

I territori di Israele e della Palestina sono sempre ben visibili a chi percorre la strada che da Umm Qays, nell’estremo Nord del Paese, raggiunge Aqaba, quattrocento chilometri più a Sud. Sullo sfondo delle proprie foto, i turisti vedono il lago di Tiberiade, il sito del battesimo di Gesù, la sponda palestinese del Mar Morto, le luci di Gerusalemme. Tutti dovrebbero ricordare che questa terra, spesso trascurata dai pellegrinaggi, è parte integrante di quella che i cristiani chiamano Terra Santa.

I luoghi che rimandano a storie bibliche ed evangeliche, si intrecciano con destinazioni turistiche alla moda, ma anche con castelli arroccati su aride alture che celebrano le gesta degli ordini monastici crociati che, in queste aree, sono nati e hanno scritto la loro storia.

Per i giordani, invece, osservare le Alture del Golan occupate da Israele (dal 1981), la città di Gerico, i grattacieli di Gerusalemme, la recinzione che delimita il confine con Israele ad As Safi, significa ricordare quanto sia precaria la pace sociale e politica che il regno hashemita – dal 1999 guidato da re Adb Allah II e dalla regina Rania – è riuscito a ottenere negli anni Novanta. E questo dopo il conflitto con Israele del 1967 (nota come «Guerra dei sei giorni»), ma anche i massacri e la guerra tra la stessa Giordania e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) del settembre 1970 (passata alla storia come «Settembre nero»).

La famiglia reale hashemita al completo (i coniugi con i due figli e le due figlie). Foto dal sito queenrania.jo.

Tra Israele e Palestina

Se la contrapposizione con Tel Aviv pulsa ancora nel cuore della popolazione giordana, i drammatici fatti del Settembre nero sembra siano stati dimenticati, almeno dalla gente comune. I giordani sono teoricamente solidali con il popolo palestinese (anche se, in realtà, molti palestinesi residenti nel Paese continuano a essere relegati ai margini della società), mentre il governo, conscio della potenziale destabilizzazione che potrebbero portare frange estremiste, è più cauto nell’esprimere il proprio appoggio, anche se la voce più autorevole per la difesa dei diritti dei palestinesi proviene dall’interno della stessa casa reale.

La voce della regina

Nata in Kuwait da genitori palestinesi, la regina Rania, amatissima dai giordani, all’indomani dell’invasione di Gaza, ha sempre criticato la narrazione occidentale affermando che «la maggior parte delle reti televisive sta coprendo la storia con il titolo di “Israele in guerra”, ma per molti palestinesi dall’altra parte del muro di separazione e del filo spinato, la guerra non se n’è mai andata. Questa è una storia vecchia di 75 anni; una storia di morte e di sfollamento per il popolo palestinese. Il contesto di una superpotenza regionale dotata di armi nucleari che occupa, opprime e commette quotidianamente crimini documentati contro i palestinesi è assente dai racconti fatti in Occidente».

Il suo accorato appello, assieme alle posizioni progressiste a favore dell’emancipazione femminile e alle sue campagne per garantire l’istruzione capillare a tutta la popolazione giordana, è un ammonimento che però non ha pieno riscontro nella politica di Amman, sempre attenta a rispettare un equilibrio tra le istanze filoarabe e quelle filoccidentali.

Dromedari nel deserto di Wadi Rum; questi animali sono ancora parte importante dell’economia beduina; oltre a fornire latte e carne, il dromedario è stato inserito nell’industria turistica e nei circuiti delle corse che si tengono a Wadi Rum. Foto Piergiorgio Pescali.

La Giordania è Palestina?

La narrazione secondo cui il piano a medio termine del governo di Netanyahu sarebbe quello di costringere tutta la popolazione di Gaza a trasferirsi nel Sinai egiziano e quella della Cisgiordania (o West Bank) nella Transgiordania (o East Bank) giordana, trova moltissimi sostenitori in Giordania ed è uno dei temi più caldi che oggi il governo di Amman si trova ad affrontare.

Storicamente si basa sulla teoria in voga sin dagli anni Settanta nella destra israeliana, secondo cui «la Giordania è Palestina». Teoria che, agli occhi dei nazionalisti, giustificava la politica di espansione di Israele verso i territori appartenenti ai palestinesi a occidente del Giordano.

Nonostante la regina Rania sia palestinese e la Giordania sia l’unico Stato arabo a concedere la cittadinanza ai palestinesi, la Casa reale non vuole che il regno si trasformi in uno Stato palestinese. Non lo vogliono soprattutto i transgiordani, gli abitanti della vecchia Transgiordania, la parte a est del Mar Morto e del fiume Giordano, che si reputano i legittimi rappresentanti della cultura giordana e, come tali, i legali amministratori politici ed economici della nazione.

Da qui il risentimento dei giordani di cultura palestinese che dal 1970 (dopo Settembre nero), si sono sentiti esclusi dalla vita politica. Mentre i transgiordani dominano il settore pubblico, agricolo e rurale, i cisgiordani palestinesi prevalgono in quello privato e religioso, contribuendo in maniera consistente alle entrate della West Bank e penetrando in modo massiccio i movimenti islamici.

Questa polarizzazione caratterizza la vita sociale giordana.

Da una parte i transgiordani accusano i grandi proprietari privati di alimentare la corruzione che le riforme introdotte dal governo su richiesta del re non sono riuscite a mitigare. Dall’altra, i giordani palestinesi e i rifugiati palestinesi accusano la casa reale di impotenza nella gestione dei luoghi santi di Gerusalemme.

Lo «Status quo», un accordo informale redatto nel 1967 a conclusione della guerra dei Sei giorni che vede il Waqf islamico giordano amministrare la Spianata delle moschee mentre Israele ne controlla la sicurezza e l’accesso, è stato più volte infranto dalle forze israeliane e da gruppi di ebrei che, in violazione dell’accordo, entrano nella spianata a pregare, a volte anche a voce alta. Questo ha causato non solo scontri a Gerusalemme e in Palestina, ma ha minato il prestigio stesso della casa hashemita, impotente di fronte a queste trasgressioni, attirando le critiche dei gruppi palestinesi più radicali.

La piazza principale di As Salt, città in cui nel 1921 i britannici proclamarono l’emirato di Transgiordania ponendo alla sua guida la dinastia hashemita. Foto Piergiorgio Pescali.

Per la stabilità del Regno

Nonostante le enormi divergenze ideologiche e politiche, re Adb Allah II e Netanyahu condividono l’idea che rapporti pacifici fra i due Stati siano indispensabili per mantenere la stabilità della Giordania (e, quindi, della dinastia hashemita) e contenere le minacce iraniane e siriane.

Questo ruolo di mediatore ha trasformato una terra composta da miriadi di tasselli tribali, difficile da governare ed economicamente priva di interesse, in uno dei fulcri nevralgici per la pace in Medio Oriente. «È il miracolo della dinastia hashemita di Giordania che, dopo la Grande rivolta araba, l’assassinio di re Adbullah I da parte di un palestinese, le disastrose guerre con Israele, è comunque riuscita a sopravvivere alle faide tribali diventando un solido punto d’appoggio per gli Stati Uniti nell’area», ci dice Rawan Rawa- shdeh, studentessa alla Irbid national university.

Secondo l’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi del Vicino Oriente, in Giordania vivrebbero 2,2 milioni di palestinesi, ma in realtà, il loro numero raggiungerebbe i tre milioni. In più si aggiungono i 717mila rifugiati, principalmente siriani (643mila) e iracheni (52mila), ma anche sudanesi, yemeniti, somali che fuggono dalle guerre in atto nei loro Paesi e 80mila lavoratrici domestiche, per lo più filippine, srilankesi, indonesiane.

In totale, il governo di Amman deve garantire acqua, cibo, alloggio, servizi essenziali ad altri quattro milioni di persone, oltre agli 11,3 milioni di cittadini giordani. Una percentuale enorme che pesa come un macigno sulla già non florida economia dello Stato arabo e che sarebbe insostenibile senza gli aiuti che provengono dalla comunità internazionale, in particolare da Stati Uniti e Unione europea.

Il Jordan Compact, l’accordo che nel 2016 il governo ha stipulato con i Paesi donatori per garantire l’integrazione nel mondo del lavoro e dell’istruzione ai rifugiati siriani, ha permesso a 252mila di loro di trovare un’occupazione, ma solo al 25% dei rifugiati in età scolare di frequentare una scuola. La maggior parte dei 230mila profughi potenzialmente in diritto di avere un’istruzione, ne è impedito per motivi culturali, logistici (mancano le infrastrutture e i trasporti) ed economici.

Il lavoro minorile è ormai una costante tra le file non solo dei rifugiati, ma tra gli stessi giordani, soprattutto nelle zone rurali.

Il problema parte dalla scuola primaria e dalla differenza di genere. I dati, ricavati dai rapporti della Banca mondiale e delle varie agenzie dell’Onu, sono preoccupanti: solo il 37% degli studenti che affrontano il secondo e terzo grado della scuola primaria sono in grado di leggere e comprendere un testo semplice e se è vero che la carriera lavorativa della donna si prepara sin dalla adolescenza, quando la famiglia deve investire nella scolarizzazione, il 38% della popolazione femminile non è iscritta ad alcun programma scolastico, liste di disoccupazione o di addestramento professionale.

Solo il 13,8% della forza lavoro è composta da donne nonostante esse rappresentino il 50,4% dei giordani in età di lavoro, mentre la disoccupazione femminile è il doppio rispetto a quella maschile. Il 90% delle donne che non ha un diploma di scuola secondaria rimane disoccupata, percentuale che cala al 61% per le donne che ha un diploma di scuola media secondaria o universitario.

Tutto questo pone la Giordania al 126° posto su 146 Paesi nella classifica del Global gender gap index report.

Sebbene questo sia dovuto principalmente a una tradizione discriminante verso la donna, l’emancipazione femminile è in parte frenata anche dai recenti sviluppi del conflitto israelo-palestinese.

Nonostante la Giordania sia un Paese sicuro, il turismo, settore in cui le donne ricoprivano il 20% della forza lavoro pre Covid, ha subito una battuta d’arresto. Nei primi due mesi del conflitto di Gaza, le presenze alberghiere in Giordania sono crollate del 50-75% e il turismo proveniente da Israele, che nel 2023 rappresentava il 17% degli arrivi totali, si è azzerato.

Negli alberghi e nei ristoranti, fatta eccezione per le grandi catene internazionali, il personale è per la quasi totalità maschile, così come le guide che accompagnano i turisti nei luoghi più frequentati come Petra, Wadi Rum, i siti archeologici.

Piergiorgio Pescali


In visita al Sesame

I miracoli (a metà) della scienza

Assieme all’Egitto, Israele è il principale fornitore energetico della Giordania. Tel Aviv invia gas naturale al Paese dal giacimento offshore «Leviathan». Se questo dovesse mancare, la Giordania sarebbe costretta a importare gas attraverso il porto di Aqaba a prezzi decisamente superiori a quelli israeliani.

«Quando parliamo di Paesi del Medio Oriente, pensiamo che siano ricchi di petrolio e non abbiano problemi energetici», mi dice Khaled Toukan, già ministro dell’istruzione, ingegnere nucleare. «In realtà la Giordania è una nazione senza grandi risorse energetiche e ha bisogno di importare quasi tutto il suo fabbisogno dall’estero. È per questo che stiamo progettando di costruire una centrale nucleare, in particolare installando reattori Smr (reattori di piccole dimensioni, installabili nel giro di 2-3 anni dall’approvazione, possono alimentare una città di medie dimensioni e producono poche scorie, ndr). Il nucleare ci aiuterebbe anche ad aumentare la disponibilità idrica desalinizzando l’acqua marina».

Oltre a essere una personalità di spicco nel mondo politico e scientifico giordano, Khaled Toukan è soprattutto il direttore di Sesame (Synchrotron-light for experimental science and application in the Middle East), un fiore all’occhiello della ricerca applicata non solo in Giordania, ma in tutto il Medio Oriente. In questo centro, situato a pochi chilometri da Amman, fondato alla fine del secolo scorso con il decisivo supporto dell’Europa e del Cern, si trova l’unico sincrotrone (acceleratore di particelle che produce radiazione elettromagnetica collimata che serve per analizzare la struttura dei materiali in diversi campi, ndr) dell’intera regione araba, ma la sua importanza trascende il  valore scientifico.

Sesame è, infatti, un esempio di «diplomazia scientifica». Oltre alla Giordania e l’Egitto, tra gli otto Stati membri, vi sono nazioni che non hanno relazioni diplomatiche tra loro: Turchia e Cipro, ma anche Israele, Iran, Palestina, Pakistan. «Sin dalla nascita di Sesame, tutti gli Stati membri hanno partecipato alle riunioni semestrali, nonostante i conflitti che attanagliano la nostra regione – ci spiega Toukan -. Sesame è un posto in cui veramente regna la pace». «Sesame è nato prima di tutto nell’ottica del miglioramento dei rapporti tra Israele ed Egitto e il sincrotrone che oggi è l’anima del centro proveniva da Berlino su proposta di Herman Winick, il padre degli ondulatori», spiega il direttore scientifico, l’italiano Andrea Lausi. «È una storia bellissima: una macchina che da una città divisa, Berlino, va a unire due Paesi come Egitto e Israele che, all’epoca, erano ai ferri corti. Dal punto di vista politico era una storia accattivante che, all’epoca, generò titoli suggestivi sui giornali».

Tra tante difficoltà, non solo finanziarie, Sesame è un progetto di cooperazione che continua ancora oggi. Tuttavia, a dimostrazione di quanto sia difficile superare le barriere culturali anche nella scienza, Khaled Toukan confessa che «non abbiamo progetti di ricerca misti che coinvolgano, per esempio, scienziati turchi con scienziati egiziani o scienziati israeliani con quelli iraniani. Eppure – conclude il direttore -, il valore politico di questa cooperazione  è di grande importanza per il futuro del Medio Oriente».

P.P.

Khaled Toukan, ingegnere nucleare, direttore di Sesame, presidente della Commissione giordana per l’energia atomica e più volte ministro. Foto Piergiogio Pescali.

 




Nessun luogo è sicuro


Quello che sta accadendo nella striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023 è qualcosa di gravissimo e senza precedenti. Tutti dobbiamo interrogarci e tutti ne pagheremo le conseguenze. Un giornalista lo ha definito «il peggior massacro della storia moderna».

Il 19 giugno scorso è stato presentato alla 56ª sessione dell’Human rights council dell’Onu il rapporto della Commissione internazionale indipendente del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati, Gerusalemme est e Israele. L’inchiesta, coraggiosa, dichiara (al punto 73) che «le autorità israeliane e i gruppi armati palestinesi sono responsabili di crimini di guerra e altre gravi violazioni».

«Le autorità israeliane – si legge ai punti 80 e 81 del rapporto – sono responsabili di crimini di guerra, dell’uso della fame come metodo di guerra, di uccisioni e omicidio volontario, di dirigere intenzionalmente gli attacchi contro i civili, di trasferimenti forzati, di violenza sessuale e trattamenti inumani e crudeli, di detenzione arbitraria e oltraggio verso la dignità personale». E inoltre: «Crimini contro l’umanità come sterminio, assassinii, persecuzione» ai danni della popolazione civile di Gaza.

A sua volta Israele accusa la Commissione d’inchiesta di «discriminazione sistematica anti israeliana».

L’uso dei bombardamenti con armi pesanti, anche in luoghi scelti dallo stesso esercito israeliano come zone di assembramento degli sfollati – ricordiamo, tra tutti, quello della scuola di Nuseirat dell’Unrwa (agenzia Onu per il soccorso dei profughi palestinesi), tra il 5 e il 6 giugno scorso, nel quale sono morte 45 persone di cui 14 bambini -, l’impedire i corridoi umanitari e la distribuzione del cibo, gli assalti e la distruzione degli ospedali che privano i civili malati o feriti delle cure necessarie, non vuol dire attaccare Hamas, ma tutta la popolazione civile di Gaza. E significa prenderla per fame, bombe e privazione delle cure.

Uomini, donne, bambini. Questi ultimi, sulle oltre 37mila vittime conteggiate al momento in cui scriviamo, sarebbero almeno 15mila (al 24 giugno) su una popolazione di circa due milioni di persone. Senza contare i traumi che si porteranno per tutta la vita i sopravvissuti.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), anch’essa parte delle Nazioni Unite, dichiara che «la situazione di fame nella striscia è catastrofica».

Se la condanna degli atti di Hamas del 7 ottobre e successivi, e il rapimento di civili israeliani, è assoluta e incondizionata, essa non giustifica il massacro in atto nella striscia. Inoltre, il governo estremista di Netanyahu sta facendo il gioco degli stessi terroristi, che usano i civili palestinesi come scudi umani e per i loro scopi politici. Il leader di Hamas, Yahya Sinwar, lo scorso giugno ha detto: «Le vittime civili? Sacrifici necessari».

L’operazione a Gaza sta facendo aumentare il sentimento anti israeliano in tutto il mondo (in America come in Europa), a tutto vantaggio degli estremisti palestinesi.

Prioritaria, inoltre, per il governo israeliano dovrebbe essere la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, ma pare che non lo sia.

Le Nazioni Unite stanno denunciando, questa volta con coraggio, gli accadimenti, attirandosi la rabbia di Israele. Pensiamo, invece, che i governi dei «grandi» della terra, a partire dagli Usa, non stiano facendo abbastanza per fermare la carneficina.

Opporsi non significa essere contro Israele e il suo diritto a esistere in pace, significa opporsi a una strage di civili comandata da ragioni politiche da un gabinetto di guerra politico. Una cieca vendetta che peserà sul mondo intero: con ondate di antisemitismo e altri innocenti nel mirino di altri estremisti.

Non è questione di essere pacifisti a oltranza, come qualcuno ci accusa di essere. È solo questione di restare umani.

Marco Bello

 

 

 




Mondo. Conflitti in aumento

 

Gli studiosi dell’istituto indipendente Peace research institute Oslo (Prio), analizzando i dati pubblicati annualmente dall’Uppsala conflict data program, hanno pubblicato il report Conflict Trends. A Global Overview, 1947-2023 sullo stato dei conflitti nel mondo.

Il 2023 è stato identificato come il terzo anno più violento dalla fine della Guerra fredda, superato solo da 2021 e 2022. Le numerose vittime provocate dai conflitti, negli ultimi tre anni, sono riconducibili soprattutto a tre contesti: la guerra civile nel Tigray in Etiopia, l’invasione russa dell’Ucraina e gli attacchi di Israele contro Gaza.

Conflitti statali
Nel corso del 2023, i ricercatori hanno individuato 59 conflitti statali – scontri dove almeno una parte era governativa – in 34 Paesi del mondo. In un apparente controsenso, lo scorso anno è stato registrato il maggior numero di conflitti dal 1946, ma in un numero minore di Stati. In realtà la spiegazione è semplice: è aumentato il numero di Paesi con due o più conflitti. Nel 2023, dieci Stati ne registravano due, mentre otto, tre o più.

Il già elevato numero di decessi del 2023 (122mila), secondo i ricercatori, aumenterà ulteriormente nel 2024 a causa del conflitto israelo-palestinese (che già lo scorso anno ha provocato 23mila vittime in soli tre mesi) e della prosecuzione della guerra tra Russia e Ucraina (71mila decessi nel 2023). Si aggiungono poi le 5mila morti per la guerra civile sudanese, che ha generato anche una delle peggiori crisi umanitarie mondiali.
I tre conflitti appena citati sono annoverati anche tra le nove guerre in atto nel mondo nel 2023, assieme alle violenze in Burkina Faso, Etiopia, Myanmar, Nigeria, Somalia e Siria. Perché un conflitto sia classificato come guerra è infatti necessario che in un anno causi almeno mille vittime.
Come si può intuire già dall’elenco delle guerre, l’Africa è la regione mondiale con il maggior numero di conflitti statali (28, in aumento rispetto ai 15 di dieci anni fa), seguita da Asia (17) e Medio Oriente (10).

Conflitti non statali
Se negli scontri non sono coinvolti attori governativi, i conflitti sono classificati come non statali. Per la prima volta dal 1946, le Americhe hanno registrato il maggior numero al mondo di questa tipologia di conflitti, scalzando l’Africa dalla testa della classifica.
Un incremento dovuto soprattutto alla crescente violenza tra i cartelli della droga in Messico e Brasile dove si sono verificate 19mila delle 21mila morti registrate in tutto il mondo. Il Messico, in particolare, continua a essere il Paese più violento del globo per questa tipologia di conflitti.

Violenza unilaterale
L’ultima forma di conflitto che i ricercatori hanno analizzato è la violenza unilaterale, cioè atti di violenza realizzati unilateralmente – sia da attori statali che da gruppi formalmente organizzati – nei confronti dei civili.
Nel caso dei governi, è stato individuato un netto declino nei decessi tra il 2021 (5.600) e il 2023 (2mila), dovuto soprattutto alla fine della guerra civile nel Tigray. Al contrario, sono invece aumentate le morti causate da attori armati non statali: 8.200, il picco dal 2015.
Buona parte della violenza unilaterale avviene in Africa subsahariana. In particolare, nell’Est della Repubblica democratica del Congo – dove operano numerosi movimenti armati – e in Africa occidentale – a causa della presenza di diversi movimenti jihadisti.

Conflitti senza fine
La fotografia che emerge è abbastanza drammatica, soprattutto se si volge lo sguardo al futuro. Lo scoppio del conflitto israelo-palestinese infatti rischia di far impennare il numero di morti nel corso del 2024, rendendolo l’anno più violento dalla fine della Guerra fredda. Anche perché la guerra russo-ucraina è ancora ben lontana da una risoluzione, così come le violenze in Sudan.
In un mondo sempre più complesso – dove le potenziali micce di conflitto sono estremamente diffuse – il rischio è che la violenza possa solo aumentare, con un impatto drammatico sui civili.

Aurora Guainazzi




Israele-Palestina, Russia-Ucraina. La giustizia è una chimera

Karim Khan è un giurista inglese di origini pachistane. Dal febbraio 2021 è il procuratore capo (prosecutor) della Corte penale internazionale (Icc, nell’acronimo inglese), organo di giustizia internazionale con sede a l’Aia, nei Paesi Bassi. Lo scorso 20 maggio Khan ha chiesto l’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità dei tre capi di Hamas (Yahya Sinwar, Mohammed al-Masri e Ismail Haniyeh) e di due leader israeliani, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant. Spetterà ai diciotto giudici della Corte emettere un mandato di arresto o una citazione a comparire.

Il giudice inglese di origini pachistane Karim Khan è – da febbraio 2021 – il procuratore capo della «Corte penale internazionale» (Icc).

Ciò che fa più discutere della richiesta di Khan è di aver posto sullo stesso piano accusatorio Hamas e il governo israeliano. Entrambe le parti in causa hanno respinto con sdegno le (pesanti) imputazioni del procuratore. Per parte sua, il mondo si è diviso evidenziando una volta di più le enormi fratture che caratterizzano questo periodo storico.

D’altra parte, le decisioni della Corte penale internazionale hanno risonanza mondiale, ma scarse conseguenze pratiche. La questione principale nasce dal fatto che essa è riconosciuta soltanto dalle 124 nazioni che hanno sottoscritto il Trattato di Roma del 1998. Non vi aderiscono paesi importanti tra cui Cina, Russia, ma neppure Stati Uniti e Israele.

Pertanto, al di là delle sue decisioni, l’efficacia della Corte è scarsa. Un esempio recente: nel marzo 2023, con riferimento all’aggressione dell’Ucraina, essa ha (giustamente) dichiarato Vladimir Putin «criminale di guerra», ma il presidente russo ha continuato a governare e a viaggiare senza problemi.

Nella stessa città olandese ha sede la Corte internazionale di giustizia (Icj, in inglese), organo delle Nazioni Unite che giudica le dispute tra gli Stati. Il 29 dicembre del 2023 il Sud Africa ha presentato alla Corte una denuncia contro Israele accusando lo stato ebraico di genocidio nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza. Lo scorso 24 maggio la Corte, presieduta (da febbraio) dal giudice libanese Nawaf Salam, con 13 voti contro due ha ordinato a Israele di fermare immediatamente l’offensiva su Rafah e di aprire il valico. Finora sono state parole al vento.

Il giudice libanese Nawaf Salam è da febbraio 2024 il nuovo presidente della «Corte internazionale di giustizia» (Icj).

Nel febbraio 2022, subito dopo l’aggressione di Mosca, l’Ucraina aveva fatto al Icj la stessa denuncia contro la Russia. A oggi, nessun verdetto è stato emanato.

Si tratti del conflitto tra Israele e Palestina o di quello tra Russia e Ucraina, al momento entrambe le Corti sembrano, dunque, confermare che una giustizia internazionale giusta e super partes rimane una chimera.

Paolo Moiola