Australia. Senza voce a casa propria


È la condizione che vivono i popoli indigeni dell’Australia. Da quando – era il 1788 – gli inglesi arrivarono a occupare la loro terra.

Ormai è trascorso un anno, ma quella data – 14 ottobre 2023 – rimarrà nella storia del Paese come un giorno nero.
Gli elettori australiani erano stati chiamati a un referendum per approvare o respingere una modifica alla Costituzione riguardante i popoli indigeni del Paese. Ovvero per dire sì o no alla formazione di un organismo consultivo chiamato «Aboriginal and Torres Strait Islander Voice». Detto organismo avrebbe avuto il compito di presentare istanze al Parlamento e al Governo su questioni relative alle popolazioni indigene.

La proposta è stata però respinta sia a livello nazionale che in ognuno dei sei stati (Australia Meridionale, Australia Occidentale, Nuovo Galles del Sud, Queensland, Tasmania, e Victoria). Insomma, la maggioranza degli australiani ha detto no a un emendamento costituzionale di buon senso, a una riparazione (sia pure molto tardiva) che avrebbe posto fine a secoli di dominazione sui popoli nativi.

Dagli olandesi alla conquista inglese

Donna aborigena a caccia di varani della sabbia in Australia, Comunità aborigena Warlpiri di Alice Spring. Foto: Fred Muller – Biosphoto via AFP.

I primi stranieri ad approdare sulla Terra australis (Terra meridionale) furono gli olandesi. Un navigatore al servizio della Compagnia olandese delle Indie orientali, Willem Janszoon, nel 1605 sbarcò a Capo York, penisola nordorientale del continente australiano, nella regione successivamente chiamata Queensland.

Dopo le sporadiche visite degli olandesi, trascorsi oltre centocinquanta anni, furono gli inglesi a iniziare un vero e proprio insediamento nel continente australiano.

Nel 1770, il capitano James Cook tracciò la costa orientale dell’Australia e la rivendicò per la Gran Bretagna. Tornò a Londra con resoconti favorevoli alla colonizzazione a Botany Bay (oggi Sydney).

La prima flotta di navi britanniche arrivò a Botany Bay nel gennaio 1788 per fondarvi una colonia penale. Tra il 1788 e il 1868 furono deportati in Australia più di 162mila detenuti, ospiti delle prigioni della Gran Bretagna e dell’Irlanda. Di questi, solo nel 1833 ne arrivarono quasi settemila.

Quelle terre erano abitate da una popolazione nativa considerata tra le più antiche del mondo: gli studi la fanno risalire a 65mila anni fa. «L’arrivo di portatori di una potente cultura imperialista – spiega l’enciclopedia Britannica – costò agli aborigeni la loro autonomia e il possesso indiscusso del continente». Le modalità e le conseguenze della conquista furono identiche a quelle accadute nelle Americhe e, in pratica, in ogni luogo del mondo abitato da popolazioni indigene.

Gli insediamenti europei iniziarono a espandersi nell’entroterra, venendo in conflitto con i nativi per il possesso della terra. «Quando divenne evidente – si legge sul sito dell’Australian war memorial (Awm) – che i coloni e il loro bestiame erano venuti per restare, si sviluppò la competizione per l’accesso alla terra e l’attrito tra i due modi di vita divenne inevitabile. […] Si stima che in questo conflitto morirono circa 2.500 coloni e poliziotti europei. Per gli abitanti aborigeni il costo fu molto più alto: si ritiene che circa 20mila siano stati uccisi nelle guerre di frontiera, mentre molte altre migliaia morirono di malattie e altre conseguenze involontarie dell’insediamento».

Come sempre avviene, sul numero dei nativi morti durante la conquista non c’è concordanza. Tuttavia, è comune – anche se controverso – parlare di «genocidio». Si ritiene, infatti, che la popolazione nativa passò da un numero stimato di 1-1,5 milioni di persone a meno di centomila agli inizi del Novecento.

Cittadini o stranieri?

L’indipendenza della colonia australiana da Londra (rimanendo essa nel Commonwealth e sotto la Corona britannica) arrivò con la Costituzione del 1901. Questa trattava diversamente i nativi dagli altri australiani.

Soltanto due parti si riferivano agli abitanti originari del Paese: la Sezione 51 (paragrafo XXVI) che conferiva al Commonwealth il potere di legiferare nei confronti di «persone di qualsiasi razza, diversa dalla razza aborigena, per la quale si ritiene necessario emanare leggi speciali»; e la Sezione 127 in base alla quale «nel computo del numero delle persone del Commonwealth, o di uno Stato o di un’altra parte del Commonwealth, i nativi aborigeni non devono essere conteggiati».

«Ciò significava – si legge sul sito di the Australian institute of aboriginal and Torres Strait islander studies (Aiatsis) – che gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres non venivano riconosciuti come parte della popolazione australiana».

Il referendum del 1967 mise fine a questa incredibile esclusione. Così, a partire dal Censimento del 1971 gli indigeni australiani entrarono – per la prima volta – nel computo dei cittadini australiani.

Mappa dell’Australia con i sei stati federati (più due territori).

Per gli indigeni del continente la strada del riconoscimento dei propri diritti era però ancora molto lunga. Una delle proteste più famose e longeve – e tuttora in essere – prese il nome di «The tent embassy», l’Ambasciata della tenda.

Tutto ebbe inizio il 26 gennaio 1972, nella capitale Canberra. Quel giorno quattro indigeni installarono un ombrellone sui prati di fronte al Parlamento. L’ombrello (poi divenuto una tenda) venne denominato «Ambasciata aborigena». Dato che il governo non considerava i diritti indigeni sulla terra di cui erano storicamente proprietari, quella protesta voleva ricordare che il governo aveva reso gli indigeni australiani «stranieri nella propria terra» e, in quanto tali, avevano bisogno di un’ambasciata.

Sulla proprietà della terra la questione è ancora aperta, ma – come accade ovunque nel mondo – non stanno vincendo i popoli indigeni.

Secondo l’incipit di una dettagliata inchiesta del Guardian – titolata «Who owns Australia?» (17 maggio 2021) -: «Chi possiede l’entroterra australiano è una questione controversa. La vera risposta sono i popoli delle Prime nazioni, la cui proprietà risale a 60mila anni fa. La risposta giuridica è più complessa. È un pasticcio di titoli: proprietà, locazioni pastorali, locazioni della corona, terreni pubblici, titoli nativi e terreni detenuti da trust aborigeni».

Secondo dati governativi, «a livello nazionale, nel giugno 2023, il 16,2% della superficie terrestre australiana (1,25 milioni di Km quadrati, ndr) era posseduta o controllata da aborigeni e isolani dello Stretto di Torres».

Tanto o poco? Per avere un’idea delle proporzioni è utile confrontare i dati con le proprietà in mano a uno ristretto numero di privati e di multinazionali. Per esempio, la magnate Gina Rinehart – della multinazionale mineraria Hancock – possiede 9,2 milioni di ettari (92mila chilometri quadrati). Secondo Forbes, la donna è la persona più ricca dell’Australia, al 56° posto nella classifica mondiale.

Il razzismo esiste ancora

Anche il termine per definire i popoli nativi è stato oggetto di dibattito. Per lungo tempo essi sono stati conosciuti come «aborigeni» australiani. Questo termine è però troppo generico ed anche incorretto perché incompleto, non includendo gli indigeni dello Stretto di Torres, un ampio braccio di mare tra il Queensland e la Nuova Guinea che comprende ben 274 isole. Pertanto, è stato adottato il termine di Prime nazioni (First nations people) o di Popoli aborigeni e isolani dello Stretto di Torres (Aboriginal and Torres Strait islander people).

Essi non costituiscono una comunità omogenea, ma un insieme di centinaia di gruppi con lingue, storie e tradizioni diverse.

Secondo l’ultimo censimento, la popolazione indigena australiana conta poco meno di un milione di persone. Di essa il 41 per cento vive nelle città, il 44 per cento in aree interne e il restante 15 per cento in zone remote o molto remote del Paese. Dal punto di vista geografico, gli stati con la più alta percentuale di indigeni sono il Nuovo Galles del Sud (34 per cento) e il Queensland (28 per cento).

L’Australian institute of health and welfare (Aihw), ente pubblico, deve ammettere: «È riconosciuto che, in tutto il mondo, la colonizzazione ha avuto un impatto fondamentale sugli svantaggi e sulla cattiva salute dei popoli delle Prime nazioni, attraverso sistemi sociali che hanno mantenute le disparità. In Australia, gli effetti storici e attuali della colonizzazione e del razzismo hanno contribuito, almeno in gran parte, alle attuali disuguaglianze».

Un recente studio (Australian reconciliation barometer, 2020) ha rilevato che oltre la metà di tutti gli aborigeni e degli isolani dello Stretto di Torres ha sperimentato almeno una forma di pregiudizio razziale negli ultimi sei mesi, mentre il 60% di essi concorda sul fatto che l’Australia sia un Paese razzista.

Emarginazione e razzismo fanno sì che i popoli indigeni australiani abbiano i peggiori indicatori socioeconomici: oltre 120mila indigeni vivono al di sotto della soglia di povertà; i tassi di disoccupazione indigena sono doppi di quelli delle popolazioni non indigene nelle città e nei centri regionali ma molto più alti nelle aree remote.

Manifestazione in favore del «sì» al referendum del 1967 sui popoli indigeni australiani (l’esito fu favorevole al contrario di quello dell’ottobre 2023). Foto sbs.com.au.

Quel «no» alla riconciliazione

Il clamoroso risultato del referendum del 14 ottobre 2023 è stato un colpo ferale per i popoli indigeni australiani e i loro sostenitori. Come Marcia Langton, antropologa aborigena (Yiman), in prima linea nella lotta per il riconoscimento dei diritti indigeni.

«È molto chiaro – ha detto senza mezzi termini la docente universitaria – che la riconciliazione è morta. La maggioranza degli australiani ha detto “no” all’invito dell’Australia indigena, con una proposta minima, a darci voce in capitolo sulle questioni che riguardano le nostre vite. Penso che i sostenitori del “no” abbiano molto di cui rispondere  per aver avvelenato l’Australia contro questa proposta e contro l’Australia indigena».

Paolo Moiola

Camberra, gennaio 1972: un’immagine della protesta nota come «Ambasciata aborigena» (Aboriginal embassy o The tent embassy) contro il trattamento riservato alle popolazioni indigene.
Foto: Ken Middleton collection, National Library of Australia.




Nigeria: Estremisti fulani, armati e impuniti

testo di Marta Petrosillo di ACS |


Meno noti dei terroristi di Boko Haram, uccidono più di loro. Gli islamisti fulani, nella cintura centrale del paese, fanno migliaia di vittime, anche per motivi religiosi. Nell’impunità e nell’indifferenza del mondo.

Nel 2018 la Nigeria è stato il secondo paese al mondo per numero di vittime da terrorismo: per il Global terrorism index 2019 (Gti), le vittime sono state 2.040, meno dell’Afghanistan (7.379), più dell’Iraq (1.054).

In un rapporto dello scorso settembre, la Croce rossa internazionale ha illustrato cifre da guerra: nell’ultimo decennio gli attacchi del noto gruppo islamista Boko Haram hanno provocato, soprattutto nel Nord, 27mila morti, 22mila dispersi, di cui più della metà minorenni, e più di 2 milioni di sfollati.

Delle 2mila vittime del 2018 contate dal Gti, però, ben 1.158 sono attribuite non a Boko Haram, ma agli estremisti fulani.

Se gli sforzi dell’esercito nigeriano, infatti, ottengono finalmente qualche vittoria contro Boko Haram, cresce però il pericolo dei pastori islamisti che, nella cintura centrale del paese, uccidono impuniti.

Un problema che affligge gli agricoltori cristiani almeno dal 2013, ma di cui il mondo si è accorto solo nell’aprile 2018, dopo l’attacco alla chiesa di Sant’Ignazio nel villaggio di Mbalom, nello stato di Benue. Quel giorno sono stati trucidati 17 parrocchiani e due sacerdoti.

Storia di un popolo

I Fulani sono un popolo semi nomade dedito alla pastorizia, presente in larghe parti dell’Africa occidentale, dalla Mauritania al Camerun. Dei circa 20 milioni totali, 14 milioni vivono nella sola Nigeria.

Si tratta di un’etnia con una lunga storia alle spalle: è possibile trovarne menzione già in antichi scritti arabi.

Molti di loro hanno iniziato a dedicarsi all’allevamento del bestiame tra il XIII e il XIV secolo. La tribù ha vissuto il suo momento di maggiore espansione prima del periodo coloniale, tra il XVIII e il XIX secolo, assumendo il nome di califfato di Sokoto, e si ritiene che si debba a essa la diffusione dell’Islam nell’Africa occidentale. Con l’arrivo dei colonizzatori francesi e britannici, tuttavia, l’impero fulani è collassato.

Sebbene vi siano anche dei Fulani sedentari, la cultura tradizionale è stata preservata principalmente dai nomadi.

Radicalizzati e armati

I mandriani fulani in Nigeria hanno sempre fatto pascolare liberamente il loro bestiame nel Nord del paese e nella cosiddetta Middle Belt, la cintura di stati che si frappone tra il Nord a maggioranza musulmana e il Sud a maggioranza cristiana.

Alcuni attribuiscono l’escalation di violenza degli ultimi anni a fattori di tipo etnico o economico. Certamente le tensioni tra agricoltori e pastori, aggravate dalla diversa appartenenza etnica, sono sempre state presenti. È anche vero che i cambiamenti climatici e la riduzione delle terre da pascolo stanno spingendo i Fulani a spostarsi in zone nuove. Ma negli ultimi anni gli attacchi si sono fatti sistematici, più feroci e, soprattutto, con una connotazione religiosa.

Gli obiettivi, infatti, sono spesso cristiani, così come le aree sono quelle a maggioranza cristiana.

Don Polycarp Lamma, della diocesi di Jalindo, non ha dubbi sul fatto che le violenze siano religiosamente motivate: «Quando attaccano, gridano “Allah u Akbar”. Se volessero semplicemente attaccare un diverso gruppo etnico, perché gridare una simile frase? Vogliono attaccare i cristiani».

Sebbene il Gti spieghi che gli eventi attribuiti agli estremisti fulani riflettono l’uso del terrorismo come una tattica utilizzata nel conflitto tra pastori e agricoltori, e che non ci sia un vero e proprio gruppo unico e organizzato, è innegabile che molti tra di loro si sono radicalizzati e, soprattutto, si sono dotati di armi di ultima generazione che prima non possedevano.

Nigeria, Kaduna / © Aid to the Church in Need

I sospetti sul potere

«Prima i Fulani portavano le mandrie assieme alle loro famiglie e avevano con sé dei semplici bastoni – ci racconta mons. William Amove Avenya, vescovo di Gboko, nello stato a maggioranza cristiana di Benue -, oggi sono armati di fucili Ak 47. Armi costose che non possono permettersi. Chi le fornisce loro? Poi, in quelle aree ci sono check point ogni due chilometri. Perché nessuno li ferma?».

Nonostante i ripetuti massacri, nessun colpevole è stato fino a oggi indagato, arrestato o condannato.

Secondo alcuni, il principale motivo di questa assenza di misure di contrasto alla violenza, sta nell’appartenenza dell’attuale presidente Mohammed Buhari proprio all’etnia fulani.

«Vogliono colpire i cristiani, e il governo non fa nulla per fermarli, perché anche Buhari è di etnia fulani», ha dichiarato lo scorso anno ad Acs, Aiuto alla Chiesa che soffre il vescovo di Lafia, nello stato di Nassarawa, mons. Matthew Ishaya Audu.

A lui si unisce anche monsignor Peter Iornzuul Adoboh: «È triste, ma dobbiamo constatare che è come se vi fosse un ordine da parte del governo federale di non intervenire. E così i Fulani uccidono, distruggono e poi fuggono, mentre nessuno fa niente. Anzi, se la polizia trova la gente locale con le armi che cerca di difendersi, generalmente arresta questi anziché i Fulani. I mandriani si sentono forti, perché c’è un loro uomo al potere che li protegge».

Buhari è perfino il patrono della principale organizzazione di pastori fulani, la Miyatti Allah cattle breeders association of Nigeria, Macban, che, secondo alcune Ong locali, dovrebbe essere perseguita per terrorismo. E, come fa notare la Ong nigeriana International society for civil liberties & the rule of law (nota come Intersociety), l’ondata di violenze dei Fulani si è intensificata già a partire dal giugno 2015, un mese dopo l’elezione di Buhari a presidente.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Difficile da definire, chiaro nella sua gravità

Se il Gti parla di 1.158 vittime degli estremisti fulani nel 2018, e Amnesty international cita, per lo stesso anno, 2.000 morti e 182mila sfollati, Intersociety sostiene addirittura che i morti siano 2.400, a testimonianza di quanto sia ancora difficile da descrivere e monitorare il fenomeno.

Intersociety aggiunge che tra il giugno 2015 e il dicembre 2018, gli estremisti fulani hanno ucciso non meno di 6mila cristiani e incendiato o distrutto più di mille chiese. Una tendenza che purtroppo non pare invertirsi nel 2019: nei primi quattro mesi dell’anno, infatti, i fondamentalisti hanno massacrato tra i 550 e i 600 cristiani, e distrutto centinaia di abitazioni e dozzine di chiese. Un numero superiore anche alle vittime di Boko Haram che, nello stesso periodo, ha ucciso «solo» 200 cristiani.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Il fattore religioso

Difficile sostenere la tesi secondo la quale quello religioso non sia almeno uno dei fattori all’origine delle violenze. Così come riteniamo sia improprio descrivere quanto accade oggi in Nigeria come un «conflitto etnico tra pastori e agricoltori».

Il numero delle vittime – che si contano anche tra i Fulani – è troppo sbilanciato da una parte.

«I mandriani arrivano di notte, mentre la gente dorme – spiega mons. Adoboh -. Le abitazioni dei contadini in genere sono isolate, perché circondate dai terreni e, dunque, gli assassini possono agire indisturbati.

Lo schema è semplice: danno fuoco alla casa costringendo gli abitanti a uscire. Poi li massacrano. Adulti, bambini, donne incinte, anziani. Sono davvero scene orribili. I contadini cristiani non hanno le armi per difendersi, mentre i fulani sono armati fino ai denti».

Sì perché a inizio 2018, mentre le violenze dei Fulani si facevano più numerose e cruente, il governo nigeriano ha disposto il sequestro o la consegna volontaria di tutte le armi da fuoco personali. Un passo mirato a rastrellare le armi in vista delle elezioni generali del febbraio 2019, e a ridurre le violenze. Un provvedimento comprensibile in un paese come la Nigeria, nella quale circola gran parte degli otto milioni di armi dell’intera Africa occidentale, e dove il 59% dei loro detentori sono civili, solo il 38% membri delle forze armate governative, il 2,8% poliziotti.

Il problema, però, è che tale misura non è applicata ai Fulani.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Espansione islamista

«Viviamo nel terrore. I Fulani sono ancora qui e rifiutano di andarsene. E noi non abbiamo armi per difenderci», scriveva nel gennaio 2018 su Twitter padre Joseph Gor, ucciso poi mentre celebrava la messa assieme a padre Felix Tyolah e a 17 fedeli il 24 aprile a Mbalom.

La piccola chiesa di Sant’Ignazio a Mbalom è stata colpita mentre i vescovi della Nigeria si trovavano a Roma per la visita ad limina apostolorum. Ma anche a distanza l’episcopato si è fatto sentire attraverso un comunicato ufficiale nel quale ha apertamente messo sotto accusa la mancanza di azione da parte del governo. «Il fatto che sia stato teso un agguato ai due sacerdoti, assieme ai loro parrocchiani, proprio durante la celebrazione della santa messa di mattino presto, suggerisce che il loro omicidio sia stato accuratamente pianificato. Questo atto malvagio non può essere definito un attacco per vendetta (come spesso è stato sostenuto in questi casi). Per quale motivo sono stati attaccati? Perché nessuno è intervenuto?».

All’indomani del tragico attacco a Mbalom, mons. Wilfred Chikpa Anagbe, vescovo di Makurdi, ha dichiarato ad Acs: «C’è una chiara agenda, un piano per islamizzare tutte le aree a maggioranza cristiana della Middle Belt nigeriana».

Lo stato di Benue, tra i pochi nell’area a maggioranza cristiana è, infatti, quello più colpito dalle violenze. Tra i cristiani è forte il sospetto che vi sia un piano per espandere l’influenza islamista nella cintura centrale e nella Nigeria meridionale.

Impunità

Più volte i vescovi hanno richiamato le autorità federali al proprio dovere. Anche il 22 maggio 2018, la giornata in cui si sono celebrati i funerali delle vittime di Mbalom e si sono tenute in tutto il paese marce di protesta pacifiche per chiedere al governo di porre un freno agli attacchi. Quel giorno i vescovi hanno intimato al presidente Buhari di fare il proprio dovere. Primo fra tutti, l’allora arcivescovo di Abuja, il card. John Onaiyekan, che, in un messaggio al presidente, ha affermato: «Proteggi le nostre vite oppure fatti da parte. I nigeriani continuano a venire uccisi e molti di noi si stanno chiedendo se esiste ancora un governo nella nostra nazione».

Eppure la risposta è stata debole. La proposta di Buhari è stata semplicemente quella di creare delle aree per permettere ai Fulani di far pascolare le proprie mandrie; aree, peraltro, che dovrebbero essere sottratte ai contadini. Vi è stata perfino una campagna dal provocativo slogan: «Meglio vivi senza la terra, che morti con la terra».

© ACN / Diocesi di Makurdi

Sotto gli occhi di tutti

Intanto si aggrava di giorno in giorno il bilancio delle vittime. Nella notte del primo agosto scorso un gruppo di uomini armati ha ucciso un sacerdote, don Paul Offu, parroco di Saint James the Greater (Ugbawka) nella diocesi di Enugu. È stato il sito web della diocesi a riferire che, con tutta probabilità, è stato ucciso da mandriani fulani.

Stessa sorte era toccata precedentemente, sempre nell’area di Enugu, a padre Clement Rapuluchukwu Ugwu, parroco di San Marco. Il sacerdote, rapito nella notte del 17 marzo 2019, è stato poi trovato morto nella boscaglia dai suoi parrocchiani.

Il 15 luglio 2019 una donna incinta è stata brutalmente uccisa assieme ad altri due cristiani ad Ancha, nello stato nigeriano di Plateau. Cinque giorni dopo, il 20 luglio, nella diocesi di Jalindo nello stato di Taraba, il giovane agricoltore cristiano Solomon Yuhwam è stato ucciso nella sua abitazione da mandriani fulani. Nel marzo del 2014 era riuscito a salvarsi – fingendosi morto – da un altro attacco fulani che era invece costato la vita a suo fratello e a tanti altri cristiani del suo villaggio.

La lista è lunga, così come è elevato il numero di cristiani che fuggono dalle proprie case, spingendo le diocesi dell’area ad aprire campi di accoglienza.

Eppure sembra che nessuno possa o voglia fermare le violenze, nonostante i ripetuti appelli, anche all’Occidente, da parte dei vescovi nigeriani. «Non commettete lo stesso errore che è stato fatto con il genocidio in Ruanda – ha più volte ribadito monsignor William Amove Avenya, vescovo di Gboko -. Era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lo ha fermato».

Marta Petrosillo




I Perdenti 30:

Ezechiele Ramin, martire della carità

Conosciuto familiarmente come «Lele» in Italia ed «Ezequiel» in Brasile, fu definito «martire della carità» da papa Giovanni Paolo II, dopo essere stato assassinato in Brasile a causa del suo impegno in favore dei piccoli agricoltori e degli indios Surui, comunità indigene situate nello stato di Rondônia (territorio parte della vasta area amazzonica brasiliana), e della loro lotta contro i latifondisti locali.

Ezechiele nasce a Padova nel 1953, in una famiglia di modeste condizioni economiche. È il quarto di sei figli. Dopo le scuole dell’obbligo, frequenta il liceo classico presso il Collegio Vescovile Barbarigo. In quel periodo incomincia a prendere coscienza degli squilibri e delle disuguaglianze presenti nel mondo. Ciò lo spinge fin dai primi anni della giovinezza ad aderire e collaborare con Mani Tese, associazione per la quale organizza diversi campi di lavoro per raccogliere fondi in sostegno di progetti di sviluppo e promozione umana.
Nel 1972 entra nell’Istituto dei missionari Comboniani, studia teologia prima allo studio teologico fiorentino di Firenze, poi a Venegono Inferiore (Va) al seminario arcivescovile di Milano e, infine, a Chicago negli Stati Uniti, dove si laurea alla Catholic Theological Union. Dopo aver fatto esperienze missionarie dapprima con un gruppo emarginato di nativi americani nel Sud Dakota e poi, per un anno, nella Bassa California in Messico, viene ordinato sacerdote il 28 settembre 1980 nella sua città natale.
Dopo l’ordinazione sacerdotale, è assegnato ad una parrocchia gestita dai comboniani a Napoli. Negli anni trascorsi in Campania partecipa in prima persona ai tragici avvenimenti del terremoto dell’Irpinia del 1980. In quei giorni si prodiga in maniera encomiabile a San Mango sul Calore in provincia di Avellino per assistere le vittime del sisma.
Nel 1981 ritorna a Napoli, dove organizza una delle prime manifestazioni non violente contro la Camorra. L’anno successivo è trasferito a Troia in provincia di Foggia dove ricopre il ruolo di animatore vocazionale per le Puglie. Nel gennaio 1984 i superiori lo inviano in Brasile, dove raggiunge la comunità dei padri Comboniani che operano in Rondônia. Dopo alcuni mesi di studio della lingua portoghese viene inviato a Cacoal, sperduta cittadina dell’Amazzonia. Preoccupato della situazione che incontrerà accetta il nuovo incarico con le parole: «Se Cristo ha bisogno di me, come posso rifiutare?».

Per la nostra chiacchierata partiamo proprio da qui: la pastorale della Chiesa brasiliana aveva bisogno di una stabile presenza missionaria nel vivo della foresta amazzonica e tu – pur essendo l’ultimo arrivato – non ti tirasti indietro…

A dire il vero un po’ di paura l’avevo, ma già che ero in ballo… e fidandomi completamente del Signore, accettai di essere inviato a Cacoal dove tra l’altro operavano da tempo altri missionari comboniani.

Che situazione incontrasti in quella realtà?

Incontrai una situazione complessa e difficile. I molti piccoli agricoltori presenti sul territorio erano oppressi, con mezzi sia legali che illegali, dai latifondisti locali. Inoltre la tribù indigena dei Surui era stata da poco costretta a diventare sedentaria dal governo brasiliano che aveva forzatamente assegnato loro della terra da coltivare, e questo nuovo modo di vivere, al quale gli indios non erano stati preparati, stava iniziando a creare dei problemi.

Tra le tue letture giovanili – se non sbaglio – un autore ti aveva particolarmente attratto: Dietrich Bonhoeffer, il teologo protestante che aveva militato nella resistenza antihitleriana. La sua testimonianza divenne un punto fermo della tua vita spirituale e di conseguenza nelle tue scelte pastorali…

Infatti le sue lettere dalla prigione, raccolte nel libro autobiografico «Resistenza e resa», erano state a lungo sul mio tavolino quando ero studente di teologia a Firenze. La categoria bonhoefferiana dell’«esistere-per-gli-altri» aveva orientato fin da allora tutte le mie scelte e quindi la prospettiva di una morte violenta era ben presente tra le possibilità del mio percorso esistenziale.

Ispirato quindi dagli insegnamenti del tuo amato maestro ti esponesti in prima persona nella lotta per la giustizia di quelle genti, tentando di persuaderli a intraprendere la strada della protesta pacifica piuttosto che quella della lotta armata, o sbaglio?

Dirò di più, ero fiero di servire una Chiesa che aveva fatto la scelta preferenziale per i poveri, che promuoveva le comunità di base e si riconosceva nella Teologia della Liberazione. Il mondo latinoamericano che mi affascinava da sempre, mi aveva completamente conquistato. Mi sentivo in sintonia con le sue angustie e le sue grandi speranze.

Dì la verità. Più ti inserivi in quella realtà, più capivi che dovevi schierarti apertamente a fianco di quelle comunità che caratterizzavano la Chiesa brasiliana di quegli anni…

Il cammino me lo avevano indicato le Comunità Ecclesiali di Base, che promuovevano la crescita integrale della persona, i senza terra che lottavano per il riconoscimento dei propri diritti e gli indios che resistevano all’invasione del loro habitat indispensabile per sopravvivere secondo la loro cultura.

Si può dire che avevi fatto tue le parole di Bonhoeffer: «Solo chi grida per salvare la vita agli ebrei può cantare il gregoriano». Solo chi alza la sua voce contro l’ingiustizia, può annunciare il Vangelo.

Denunciando le ingiustizie che si consumavano a ripetizione sulle popolazioni indigene ero consapevole di mettere a rischio la mia vita: sapevo bene che non si può difendere i poveri in Amazzonia senza avere problemi, ma capivo anche che non potevo non difenderli, avrei tradito la mia vocazione sacerdotale e missionaria.

Il 24 luglio 1985 padre Ramin, insieme a un sindacalista locale, partecipò a un incontro nella Fazenda Catuva ad Aripuanã nel vicino Mato Grosso con l’intenzione di persuadere i piccoli agricoltori lì impiegati a non prendere le armi contro i latifondisti. Al ritorno, fu vittima di un’imboscata da parte di sette sicari armati di pistola, che lo colpirono con oltre 50 proiettili. Prima di morire, riuscì a sussurrare le parole «Vi perdono». Poiché la salma di padre Ramin non poté essere recuperata dai suoi confratelli prima di 24 ore dopo l’omicidio, un gruppo di indios Surui vegliarono su di essa fino al loro arrivo. Alcuni giorni dopo il suo omicidio, papa Giovanni Paolo II definì padre Ezechiele Ramin un «martire della carità».
I missionari comboniani stanno promuovendo il riconoscimento ufficiale di Padre Ezechiele come martire (e quindi come Beato e, possibilmente, come Santo) da parte della Chiesa cattolica, anche se la comunità comboniana in Brasile sembra riluttante in quanto «per loro e per la gente che lo conosceva, padre Lele Ramin è già un santo».
Nel 1988 due degli uomini che uccisero padre Ramin, Deuzelio Goncalves Fraga e Altamiro Flauzino, furono condannati rispettivamente a 24 e 25 anni di reclusione dal tribunale di Cuiabá. Gli altri sicari non sono stati ancora identificati.
Nell’aprile 2016 è stata aperta la rogatoria presso la diocesi di Padova per la sua beatificazione e canonizzazione.

Don Mario Bandera




Brasile: La lotta per la terra


Pur essendoci una enorme disponibilità di terreni coltivabili, in Brasile la terra è un privilegio riservato a pochi. Mentre quattro milioni di famiglie senza terra («sem terra») debbono lottare per la sopravvivenza quotidiana, i latifondisti – grandi sostenitori del governo golpista di Temer – sono oggi più spregiudicati che mai. Secondo l’annuale rapporto della «Commissione pastorale della terra» (Cpt), nel 2016 i conflitti rurali sono stati 1.079. Ecco perché in Brasile, il paese più violento al mondo, per la terra si uccide e si muore.

Colniza, cittadina del Mato Grosso, 19 aprile 2017. Quattro pistoleri, assoldati da un impresario del legno (madeireiro), uccidono 9 contadini tra i 23 e i 57 anni che si erano insediati su un’area in disputa. Vari corpi vengono trovati legati e due con la gola tagliata: la perizia stabilirà che le vittime sono anche state torturate.

«Questo massacro – scrive il 21 aprile la locale prelatura di São Félix do Araguaia (guidata da dom Adriano Ciocca Vasino e dom Pedro Casaldáliga, vescovo emerito) – accade in un momento storico di usurpazione del potere politico attraverso un golpe istituzionale (la destituzione della presidenta Dilma e la sua sostituzione con Temer, ndr). […] Viviamo in una situazione di “terra senza legge”, una vera guerra civile nel nostro paese».

Pau d’Arco, cittadina del Pará, maggio 2017. Fazenda Santa Lúcia, 5.694 ettari di terra di proprietà della famiglia Babinski. Dal 2013, su un’area non utilizzata della fazenda, si susseguono varie occupazioni di piccoli gruppi di contadini senza terra (sem terra) e azioni di recupero del possesso da parte del (supposto)1 proprietario (ações de reintegração de posse). Il 24 del mese la situazione precipita. Le forze di polizia – civile e militare, 29 persone in totale -, in combutta con l’impresa di sicurezza della fazenda (la Elmo Segurança Especializada), uccidono 10 contadini sem terra, compresa una donna.

Nel silenzio delle istituzioni, la presa di posizione congiunta di cinque importanti organismi della Chiesa cattolica brasiliana2 è immediata e durissima: «La versione ufficiale degli organi pubblici dello stato – si legge nella nota pubblicata il 31 maggio – è stata che le morti sono avvenute in un confronto armato, in quanto gli agenti di polizia erano stati accolti a fucilate. Questa versione pretende di far credere che il popolo brasiliano sia imbecille e non abbia capacità di discernimento. Com’è possibile che, in un confronto armato, nessuno dei 29 poliziotti coinvolti nell’azione sia stato ferito? Perché la scena del crimine è stata smantellata, con gli stessi poliziotti che hanno trasportato i corpi in città?».

«È evidente – continua la nota – che questa esacerbazione dei conflitti agrari per numero e violenza è collegata alla crisi politica e al prevalere delle forze dell’agroindustria sui poteri dello stato brasiliano».

A parte i due episodi qui raccontati (i più eclatanti a causa del numero delle vittime), nei primi sette mesi del 2017 sono stati assassinati 48 contadini. Secondo Conflitos no campo Brasil 2016, il rapporto della «Commissione pastorale della terra», lo scorso anno nel paese ci sono stati 1.079 conflitti agrari e 61 persone assassinate, 5 al mese.

I conflitti legati alla terra sono una costante del Brasile, paese che, tra l’altro, detiene – con 60.000 omicidi all’anno – il (poco lusinghiero) primato mondiale nella classifica della violenza3.

Brasnorte, MT, Brasil: Área de plantação de soja próxima ao município de Brasnorte, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

La concentrazione fondiaria e le terre improduttive

La causa prima della questione agraria in Brasile nasce dal latifondo e dalla concentrazione della terra in pochissime mani.

Basandosi sui dati (prudenziali)4 raccolti da Incra (Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária) con riferimento al 2010, il 55,8 per cento delle terre disponibili è in mano al 2,5 per cento dei proprietari (i latifondisti). Il restante delle terre si divide tra: il 19,9 per cento in mano a medi proprietari (7% dei proprietari), il 15,5 per cento a piccoli proprietari (26%, pari a circa 1,3 milioni di famiglie) e 8,2% a proprietari di minifondi (64%, circa 3,3 milioni di famiglie). Anche se la definizione di grande, media, piccola e mini non è stabilita dal numero di ettari, ma dai cosiddetti moduli (unità di misura variabili che tengono conto di vari parametri)5, è evidente che la maggior parte dei proprietari di piccoli fondi o di minifondi hanno vita dura, spesso ai limiti della sopravvivenza. Al fondo di questa scala della diseguaglianza, ci sono circa 4 milioni di famiglie contadine, corrispondenti a 20 milioni di persone, che non hanno accesso alla terra: sono i cosiddetti sem terra. In questo quadro fondiario s’inserisce un altro dato essenziale, quello delle terre improduttive: il 72 per cento dei latifondi – pari a 2,3 milioni di chilometri quadrati – è considerato tale.

Delle terre improduttive si è occupata la Costituzione del 1988 – negli articoli 184 e 185 -, prevedendo la loro espropriazione per interesse sociale e per i fini della riforma agraria.

 

La riforma agraria e l’Incra

L’Incra, nata nel 1970, è l’organismo federale che ha il compito di attuare la riforma agraria. Come?

Stando alla prima delle sue cinque direttive strategiche, essa dovrebbe promuovere la democratizzazione dell’accesso alla terra attraverso la creazione di insediamenti rurali sostenibili e la regolarizzazione delle terre pubbliche; la sua azione dovrebbe inoltre contribuire allo sviluppo sostenibile, alla riduzione della concentrazione della struttura fondiaria e alla riduzione della violenza e della povertà nelle campagne.

Se facciamo riferimento ai numeri da esso divulgati, l’istituto avrebbe beneficiato con un lotto di terra quasi un milione di famiglie brasiliane, per l’esattezza 977.039. Non è dato tuttavia sapere quante di esse siano ancora sulla terra assegnata e quante l’abbiano abbandonata o venduta.

«So – racconta fratel Carlo Zacquini da Boa Vista – di molti terreni abbandonati perché gli agricoltori non potevano viverci; non avevano la possibilità di vendere i loro prodotti, o non avevano accesso ad assistenza medica. Insomma, dovevano scegliere tra la terra e la vita».

Si calcola che un 12% dei lotti assegnati tornino all’Incra. Gli esperti spiegano che il problema dell’abbandono dipende dalla mancanza di una politica agricola (ad esempio, incentivi per produrre) e di infrastrutture negli insediamenti rurali.

In ogni caso, in Brasile la questione agraria rimane più viva che mai. Anzi, in questi ultimi venti anni si è aggravata per l’entrata in scena di una nuova, potente variabile: l’agronegócio.

I costi sociali e ambientali dell’agrobusiness

Dagli anni 2000 il panorama agricolo brasiliano è radicalmente mutato: alle tradizionali monocolture di canna da zucchero, caffè e cotone si sono aggiunte le grandi monocolture industriali – piantagioni di soia, coltivazioni per biocombustibili (sia biodiesel che etanolo), miglio, foreste coltivate a eucalipto e pino – e l’allevamento estensivo, bovino e avicolo. L’agronegócio (agrobusiness, in inglese) vale oggi il 23% del Prodotto interno lordo del Brasile. È l’unico settore produttivo che, in questi anni di grave crisi economica per il paese, ha continuato a crescere.?Anche nel 2017, nonostante lo scandalo della carne adulterata6.

Detto del suo peso e della sua importanza in ambito economico, occorre enumerare le conseguenze negative che l’agrobusiness comporta: accaparramento delle terre e conseguente incremento della loro concentrazione; inquinamento ambientale da utilizzo intensivo di agrotossici; devastazione ambientale causata dalla deforestazione e dalla perdita di biodiversità; riduzione della forza lavoro agricola e sfruttamento di quella impiegata; emarginazione e morte dell’agricoltura familiare. A ben guardare, dunque, i benefici economici dell’agrobusiness sono di gran lunga superati dai costi sociali e ambientali che lo stesso comporta.

Come ha ricordato la Conferenza dei vescovi brasiliani in un documento del 2014 sulla questione agraria, il predominio politico e ideologico dell’agrobusiness ha trasformato la terra in una merce qualunque, in palese contrasto con la funzione sociale e ambientale stabilita dalle norme costituzionali del 1988.

Il Movimento dei sem terra, la Chiesa, le occupazioni

Qualche anno prima dell’88, nel gennaio del 1984, a Cascavel, nello stato del Paraná, era nato il Movimento dei sem terra (Mst), un’organizzazione contadina che in poco tempo sarebbe diventata una protagonista della storia brasiliana. Già nel suo primo congresso, celebrato nel gennaio del 1985, il Movimento adotta il principio dell’«occupazione della terra come forma di lotta» (a ocupação de terra como forma de luta).

«I latifondisti – scrivono le autrici del libro La lunga marcia dei senza terra – definiscono le occupazioni di terre “invasioni”, un attentato al sacro diritto di proprietà garantito dalla Costituzione, e lo dicono senza pudore, come se le loro sterminate proprietà non fossero il frutto dell’invasione di terre indigene, del furto di terre pubbliche e del grilagem ai danni di piccoli proprietari e posseiros. […] L’occupazione, evidenziano [i senza terra], è in perfetto accordo con la Costituzione, la quale stabilisce che tutte le proprietà improduttive devono essere espropriate»7.

Il Movimento dei sem terra ha trovato un modus vivendi anche con la Chiesa cattolica brasiliana, come racconta bene La lunga marcia dei senza terra: «Se, negli anni Sessanta, la Chiesa cattolica aveva sostanzialmente appoggiato la dittatura militare, l’orientamento, grazie allo sviluppo della teologia della liberazione, era in seguito cambiato, traducendosi nella nascita della Cpt e nella formazione di una schiera di vescovi progressisti. Così, [sottolinea João Pedro Stédile, leader dei sem terra] “se in precedenza la linea della Chiesa era stata: “Non preoccuparti, avrai la tua terra in paradiso”, il nuovo indirizzo diventa: “Considerando che hai già la terra in paradiso, lottiamo perché tu l’abbia anche qui”»8.

Assai meno comprensivi della Chiesa cattolica sono i media, in particolare Rede Globo, la prima rete televisiva del paese, e Veja, il principale settimanale brasiliano. Questi non perdono occasione per attaccare frontalmente l’Mst, accusato di ogni cosa, finanche di terrorismo.

Il Movimento però non arretra. Anzi, nell’attuale clima di grave crisi politica, economica e morale, da luglio 2017 esso ha accentuato le occupazioni. Al grido di «Corrotti, ridateci le nostre terre», gruppi di senza terra hanno occupato fazendas di persone importanti. O di politici. Come una fazenda di Rondonópolis, nel Mato Grosso, appartenente al gruppo Amaggi, impresa della famiglia del ministro dell’agricoltura Blairo Maggi, fazendeiro, uno dei più grandi produttori mondiali di soia (e uomo simbolo in tema di conflitto d’interessi).

Se il danno patrimoniale conta di più

Sotto il governo di Temer (persona indagata per corruzione, ma disposta a qualsiasi concessione alle lobbies parlamentari pur di rimanere in sella)9 la situazione sociale nel paese si è aggravata.

«La criminalizzazione e la destrutturazione di Incra e Funai (l’organismo che si occupa delle terre indigene, ndr) – si legge in un recente rapporto del Comitato brasiliano dei difensori dei diritti umani – sono utili per il proposito della bancada ruralista del Congresso nazionale di farla finita con le politiche agrarie che riguardano le lavoratrici e i lavoratori rurali sem terra, gli indigeni, i quilombolas10 e i restanti popoli della campagna, della foresta e delle acque»11.

Che il clima sia pesante per i diritti delle frange più deboli della popolazione lo si capisce anche dalla cronaca quotidiana. Lo scorso 9 agosto, a Belém, capoluogo del Pará, un giudice ha stabilito l’immediata liberazione degli 11 poliziotti militari e dei 2 poliziotti civili che erano stati incarcerati per il massacro del 24 maggio a Pau d’Arco, nel Sud dello stato, in cui erano rimasti uccisi 10 contadini (e di cui abbiamo parlato all’inizio).

Una decisione probabilmente avventata e incomprensibile, ma legittima, presa da un organo autonomo dello stato. Tuttavia, si fa notare, che i 22 contadini accusati di aver assaltato il 28 ottobre 2016 la Fazenda Serra Norte, a Eldorado dos Carajás (sempre nel Pará)12, sono ancora in carcere.

Davanti a questi fatti, si arriva alla conclusione che, nel Brasile del 2017, un danno patrimoniale è più grave di un omicidio. O almeno è così se la morte riguarda dei sem terra.

Paolo Moiola

Colniza, MT, Brasil: Área degradada no município de Colniza, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

Note

  • (1) Sulla fazenda in questione circolano voci di grilagem. Con tale termine si definisce l’occupazione di terre a partire da una frode e da una falsificazione di titoli di proprietà.
  • (2) Comissão Pastoral da Terra (Cpt), Conselho Pastoral dos Pescadores (Cpp), Serviço Pastoral do Migrante (Spm), Cáritas Brasileira, Conselho Indigenista Missionário (Cimi).
  • (3) Fonte: Ipea-Fbsp, Atlas da violência 2017, Rio de Janeiro, giugno 2017.
  • (4) La classificazione di Incra è stata fatta con i dati dichiarati dai proprietari.
  • (5) Un modulo è un’unità di misura, espressa in ettari, che tiene conto non soltanto dell’estensione, ma anche delle condizioni geografiche e ambientali che caratterizzano quella proprietà rurale. Un modulo può quindi variare da regione a regione e da municipio a municipio. Per esempio, un modulo dell’Amazzonia ha una dimensione diversa da quella delle regioni del Nordest o del Sud. Per approfondire la (complessa) tematica si consulti il sito di Incra.
  • (6) Si tratta dello scandalo carne fraca («carne debole»). Riguarda l’esportazione di carne – sia di bovino che di pollo – adulterata con prodotti chimici. Ha coinvolto anche i giganti brasiliani del settore: JBS e BRF.
  • (7) In Claudia Fanti – Serena Romagnoli – Marinella Correggia, La lunga marcia dei senza terra, pag. 47.
  • (8) Ibidem, pag. 25.
  • (9) Pur coinvolto in uno scandalo di corruzione, il presidente golpista Michel Temer è stato salvato dal voto della maggioranza del Congresso nazionale (2 agosto). Un salvataggio che lo pone ancora più in balia dei gruppi parlamentari che lo sostengono. Ultimo dazio pagato è il decreto presidenziale che estingue la riserva amazzonica Renca, aprendo quel territorio incontaminato alle mire delle compagnie estrattive (23 agosto).
  • (10) Sono comunità etniche – quasi sempre costituite da popolazione nera – con tradizioni e pratiche culturali proprie. Si stima che nel paese siano oltre 3.000.
  • (11) In Vidas en luta, rapporto del «Comitê Brasileiro de Defensoras e Defensores de Direitos Humanos», 2017, pag. 20.
  • (12) Eldorado dos Carajás è la località tristemente famosa per il massacro di 19 sem terra, avvenuto il 17 aprile del 1996, a opera della polizia militare dello stato del Pará.

 

Bibliografia

  • Claudia Fanti – Serena Romagnoli – Marinella Correggia, La lunga marcia dei senza terra, Emi, Bologna 2014;
  • Conferência Nacional dos Bispos do Brasil (Cnbb), A Igreja e a questão agrária brasileira no início do séc XXI, 2014;
  • Comissão Pastoral da Terra, Conflitos no campo 2016, maggio 2017;
  • Comitê Brasileiro de Defensoras e Defensores de Direitos Humanos, Vidas em luta: criminalização e violência contra defensoras e defensores de direitos humanos no Brasil, 2017;
  • R.S.Caldart – I.B.Pereira – P.Alentejano – G.Frigotto (curatori), Dicionário da Educação do Campo, Rio de Janeiro – São Paulo 2012.

Siti web


Popoli indigeni e sem terra

Evitare una guerra tra poveri e defraudati

Colniza, MT, Brasil: Toras de madeira em pátio de serraria próximas ao município de Colniza, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

La questione della terra riguarda sia i contadini che i popoli indigeni. Con differenze sostanziali.

Quali relazioni esistono tra la terra dei popoli indigeni e la terra reclamata dai sem terra? Sono soggetti in contrasto per uno stesso obiettivo? Un articolo pubblicato sul sito del Mst (25 aprile 2017) si concludeva così: «La alleanza tra sem terra e popoli indigeni è cruciale per affrontare il capitalismo e per combattere l’agrobusiness».

Al di là di una teorica alleanza (comunque non così scontata), ci sono situazioni che non possono non produrre contrasti, anche gravi: come comportarsi quando dei sem terra invadono e occupano un territorio indigeno? E se arrivano dei piccoli allevatori di bestiame? O dei contadini senza terra che si sono trasformati in garimpeiros (cercatori d’oro) o madeireiros (tagliaboschi)?

Detto questo, le differenze tra popoli indigeni e sem terra rispetto alla terra sono sostanziali.

Per l’aspetto socioeconomico e antropologico – I sem terra sono dei contadini che vedono la terra come elemento economico per il sostentamento loro e delle proprie famiglie. Essi praticano un’agricoltura di tipo stanziale. Per i popoli indigeni la terra ha in primis una valenza culturale e religiosa, mentre l’aspetto economico è secondario e anzi l’aggettivo «economico» risulta forzato. All’agricoltura stanziale gli indigeni preferiscono la caccia, la pesca e la raccolta dei frutti della foresta. È vero tuttavia che, dopo alcuni secoli di contatto (quasi sempre disastroso) con i non indigeni, alcuni popoli o singoli individui hanno acquisito abitudini occidentali e abbandonato usanze proprie.

Per l’aspetto giuridico – La politica agricola, quella fondiaria e la riforma agraria sono trattate dagli articoli 184-191 della Costituzione federale del 1988. Tuttavia, per i diritti dei sem terra occorre fare riferimento alla legge ordinaria. Per esempio, alla legge n. 4.504 del 30 novembre del 1964 che organizza la riforma agraria e la politica agraria. Per i popoli indigeni invece la fonte primaria dei loro diritti sulla terra è data dalla stessa Costituzione

del 1988, la prima tra le fonti del diritto. Gli articoli costituzionali 231 e 232 stabiliscono il diritto dei popoli indigeni al possesso permanente delle terre tradizionalmente occupate e all’uso esclusivo delle ricchezze del suolo, dei fiumi e dei laghi che su quella terra si trovano. I popoli indigeni non ne sono però i proprietari e dunque, per esempio, non possono vendere la terra. La proprietà della stessa è del governo brasiliano, il quale si riserva anche il diritto di sfruttarne il sottosuolo. A livello giuridico internazionale, per i popoli indigeni è importante ricordare anche la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), che il Brasile ha sottoscritto.

Per l’aspetto istituzionale – I sem terra debbono fare riferimento all’«Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária» (Incra). L’organo federale di riferimento per i popoli indigeni è invece la «Fundação Nacional do Índio» (Funai). Sia Incra che Funai sono oggi sotto attacco da parte del governo e del Congresso nazionale. Un ruolo molto importante riveste, infine, il «Ministério Público Federal» (Mpf), il guardiano della Costituzione del 1988.

Paolo Moiola




Sotto il cielo di Corumbá

 


Nella cittadina brasiliana di Corumbá un missionario salesiano, nativo del Veneto, ha fondato un’organizzazione che segue neonati, bambini e ragazzi di famiglie bisognose. Da 0 a 18 anni, centinaia di giovani entrano nelle tre strutture di padre Pasquale Forin. Per crescere attraverso il gioco, l’istruzione e una sana alimentazione. Un’organizzazione efficiente che vive grazie al volontariato e alle donazioni internazionali. E alla perseveranza del suo fondatore. Ecco cosa abbiamo visto e cosa lui ci ha raccontato.

 

Corumbá. Ci avviciniamo a una fermata di mototaxi. Fa caldo, caldissimo. «No, oggi non è
caldo», ci spiegano i conduttori. Prima di infilare il casco, proviamo a convincerci che hanno ragione loro. Partiamo.

Sulla scia di Ernesto Sassida

Le strade di Corumbá, cittadina di 100 mila abitanti nello stato brasiliano del Mato Grosso del Sud, sono comode e poco trafficate. Le moto avanzano veloci.
Passiamo davanti alla Citade Dom Bosco, la Città Don Bosco, una grande struttura – comprende scuole, centri ricreativi e assistenziali – fondata da padre Ernesto Sassida, salesiano sloveno scomparso nel marzo 20131. Sulla stessa Rua Dom Aquino sta la parrocchia São João Bosco, nostro luogo di destinazione. La chiesa è una costruzione moderna, semplice ed elegante ad un tempo. Davanti all’ingresso campeggia un grande quadro con il volto inconfondibile di san Giovanni Bosco. Ci accoglie il parroco. Lui si chiama Pasquale Forin, missionario salesiano nato nella provincia di Padova, «ma – precisa – con familiari in Piemonte, a Nizza Monferrato e Alessandria». Veneto o piemontese poco importa ormai: padre Pasquale è in Brasile da 53 anni e a Corumbá da 26.
Corumbá è sorta a lato del fiume Paraguay e del Pantanal, una grande pianura alluvionale dalle caratteristiche uniche (leggere riquadro). «Forse a causa delle mie origini contadine – spiega padre Pasquale -, fin dal mio arrivo ho sempre accompagnato il cammino delle comunità rurali del Pantanal». Il missionario segue gli insediamenti contadini per un totale di 1.500 famiglie, comprese quelle degli indigeni guató. L’appoggio va dall’assistenza legale per difendere la terra dagli appetiti altrui fino al microcredito.
Basterebbe il lavoro svolto con le comunità rurali per qualificare come fuori dell’ordinario l’opera del salesiano. Ma esso non è che un aspetto della sua attività. Con la parrocchia padre Pasquale ha dato vita a tre progetti: un ospedale diurno per bambini denutriti (Casa de Recuperação infantil padre Antonio Müller, Cripam); un centro di doposcuola per ragazzi dai 7 ai 18 anni (Centro de Apoio Infanto Juvenil, Caij); una struttura per bambini abbandonati (Casa Irma Marisa Pagge). Per capirne la portata occorre visitarli.

 

Via dalla strada, via dalle tentazioni

Il bairro (quartiere) si chiama Cristo Redentor. Il Caij è in un’ampia costruzione circondata da mura color verde pallido.
«Non è una scuola – ci spiega padre Pasquale -, ma un centro d’accoglienza per ragazzi dai 7 ai 18 anni provenienti da famiglie povere e con problemi. Arrivano da noi quando non c’è scuola. È un modo per evitare che stiano sulla strada, dove ci sono molti pericoli, soprattutto quelli legati alla droga (consumo e spaccio). Come in tutto il Brasile, anche qui si può comprare una dose di crack, maconha o cola con un solo real2».
Il Caij ospita 560 ragazzi, a cui viene offerto tutto: lo svago, i pasti, l’assistenza. E poi un aiuto scolastico in accordo con gli istituti. Un impegno notevole, come dimostrano le 30 persone che vi lavorano.
Entriamo. Una targa affissa al muro ricorda che il padiglione del Caij è stato costruito con risorse provenienti da Spagna, Italia, Slovenia e Belgio.
Le aule sono state costruite attorno a un campetto sportivo, protetto da una copertura e dotato anche di una piccola tribuna. È occupato da un folto gruppo di ragazze e ragazzi che, divisi in gruppi, stanno gareggiando accompagnati dal sottofondo musicale regalato da un’orchestrina. «Gli istruttori sono ragazzi cresciuti qui dentro, che ora sono diventati volontari», spiega padre Pasquale.
Entriamo nel refettorio. La cucina è divisa dalla sala mensa da un semplice muretto. Tre donne – Maria, Cristiane e un’altra Maria – stanno preparando il cibo per l’imminente pranzo. Tutto è ordinato e pulitissimo. Sui fornelli, posti al centro della cucina, bollono alcune pentole: carne, verdure, gli immancabili fagioli. Una cuoca è intenta a spellare cipolle e spicchi di aglio. Un’altra sta preparando un impasto. «Se vuoi punire un ragazzo, digli che andrà a casa senza pranzo» racconta sorridendo padre Pasquale. Il comune di Corumbá offriva il cibo fino a gennaio 2013, poi ha smesso per – così è stato spiegato – problemi di bilancio.
Accanto al Caji, c’è la struttura del Cripam. Si tratta di un ospedaletto diurno per minori denutriti da 0 a 6 anni. Uno dei pochi esistenti in Brasile.
Entriamo in una stanza dove ci sono una quindicina di bambini, alcuni dei quali con problemi psicomotori. Stanno giocando sotto lo sguardo vigile delle maestre. «Andiamo a prenderli ogni mattina con un pullmino. E la sera li riportiamo alle loro case» spiega padre Pasquale.
Nelle stanze a fianco, disposte in file ordinate, ci sono una trentina di culle di colore bianco. Ventilatori al soffitto, pareti rallegrate con disegni colorati, giochi. Non manca nulla.
È ora di mangiare. Le maestre mettono i più piccoli sui seggioloni e i più grandicelli sulle sedie attorno al tavolo. Un paio debbono essere presi in braccio a causa dei problemi fisici.
Prima di uscire, c’è tempo per un’altra sorpresa. Scopriamo che in una sala si preparano gelati. «È un modo per autofinanziarci», spiega padre Pasquale. I gelati si chiamano Sabor da solidariedade, il sapore della solidarietà.

 

Volontarie

L’ultima tappa del nostro tour all’interno dell’organizzazione fondata da padre Pasquale è alla Casa Irma Marisa Pagge, così chiamata in ricordo di una suora italiana dell’Operazione Mato Grosso3. Come le precedenti, anche questa è una bella costruzione, con tre case indipendenti collegate da un giardino molto curato, con alberi in fiore e altalene.

Nella struttura sono ospitati bambini da 0 a 6 anni che sono stati abbandonati o che sono stati tolti, per gravi motivi, alle famiglie d’origine. «Rimangono qui – spiega il padre – finché saranno reinseriti in famiglia oppure dati in adozione».

Due targhe poste all’entrata ricordano i principali benefattori: varie città italiane (Torino, Alessandria, Valenza, Pietra Ligure, Desenzano, Borghetto) e l’associazione Rotary. Anche in questo caso i soldi raccolti sembrano stati impiegati al meglio. Il luogo appare molto accogliente, pulitissimo e funzionale.

Incontriamo due volontarie internazionali: Venus è un’insegnante di Londra che si fermerà un anno; Maria Vicenta è basca ed è qui da 5 anni, pur avendo figli e nipoti in Spagna. Maria ci accompagna nella stanza dove, nelle culle, stanno dormendo due bambini di pochi mesi, un maschio e una femmina. La bambina è stata portata al Centro perché la mamma è una consumatrice di droghe. «Nella quasi totalità dei casi i bambini – ci viene spiegato – provengono da famiglie composte dalla sola mamma».

Pane e liberazione

«Non riesco a parlare di Dio a chi non ha da mangiare», confessa padre Pasquale. Pare un’affermazione della teologia della liberazione, un mondo a cui i salesiani – per scelta e per tradizione – non sono mai stati molto vicini. «Questa – spiega convinto il missionario – è la vera teologia della liberazione. Quella di Hélder Câmara e Luciano Mendes». In verità, poco importa incasellare l’azione di padre Pasquale Forin. Mai come nel  suo caso vale il detto popolare: «Più delle parole contano i fatti». Fatti che a Corumbá si possono vedere e toccare con mano.

Paolo Moiola
  Note             

1 – Padre Eesto Sassida è morto il 13 marzo 2013 all’età di 93 anni.
2 – Il crack è un sottoprodotto della coca; la maconha è la marijuana; la cola è la colla; il real (reais, al plurale) è la moneta brasiliana. Un euro vale 2,7 reais (quotazione a giugno 2013).
3 – Nome di un movimento di volontariato nato nel 1967, legato ai salesiani.



     Il bioma del Pantanal                                                  

Uno?scrigno?sotto?assedio

Il Pantanal, la più grande zona umida del mondo, è in pericolo. Il cambio climatico sta modificando l’alternanza delle stagioni secca e piovosa. Le monocolture e le mandrie bovine distruggono la vegetazione e uccidono i fiumi. A?pagae le conseguenze, è l’intero ecosistema. E gli abitanti più poveri.

Corumbá. Dalla terrazza si ammira il corso placido del Rio Paraguay e dietro di esso un’estensione verde e piatta che si perde all’orizzonte. È la pianura del Pantanal, con la sua vegetazione a prevalenza di arbusti e manto erboso. Il Pantanal – che in portoghese significa «palude» – ha una superficie di circa 210 mila chilometri quadrati distribuiti su tre paesi: la Bolivia, il Paraguay e soprattutto il Brasile. È infatti quest’ultimo che ospita quasi il 70% del bioma. Precisamente nel sud dello stato di Mato Grosso e nel nord-est dello stato di Mato Grosso do Sul.

Durante la stagione delle piogge (da ottobre a marzo), l’acqua defluisce dagli altipiani circostanti alle terre basse del Pantanal ingrossando i fiumi che straripano inondando gran parte del territorio. Durante la stagione secca, l’acqua si ritira nei letti dei fiumi, le lagune e i piccoli canali (corixos) si riducono o addirittura scompaiono. A causa delle sue peculiarità, il Pantanal è un santuario della biodiversità, ospitando un campionario di animali, pesci, uccelli e piante che non ha eguali nelle Americhe. Oggi anche questo bioma unico è in pericolo.

I rischi e i danni ambientali arrivano dal cambio climatico (che ha prodotto inondazioni devastanti o siccità), ma anche e soprattutto dalle attività umane sugli altipiani circostanti, nel Mato Grosso e nel Mato Grosso do Sul: l’espansione delle attività agroindustriali (con annesse deforestazioni e uso di prodotti agrochimici, soprattutto per la coltivazione della soia), la crescita esponenziale dell’allevamento bovino1 (con un enorme impatto ambientale), le attività minerarie (estrazione aurifera in testa) hanno contaminato le acque che arrivano nel Pantanal; la costruzione di dighe ha modificato, ampliato o reso permanenti una parte delle zone inondate.

Con oltre 25 anni di permanenza nel Pantanal padre Pasquale Forin può testimoniare personalmente i cambi avvenuti nell’ecosistema naturale e umano.  «In alcune colonie – racconta il missionario -, prima si arrivava in barca, adesso si cammina per ore e ore dal fiume fino alle case. In questi anni io ho visto le trasformazioni del Rio Taquari, uno degli affluenti principali del Rio Paraguay: il suo corso naturale è stato deviato, il suo letto ridotto dai sedimenti, la vita nelle sue acque ammazzata dai fertilizzanti chimici». I mutamenti nel Rio Taquari sono testimoniati da un dato impressionante: nel corso dell’ultimo decennio, la pesca nel fiume è diminuita di sette volte, passando da 485 tonnellate all’anno a soltanto 622.

I cambi nell’ecosistema si sono riflessi pesantemente anche sugli abitanti del Pantanal. Relativamente pochi (poco più di 200 mila, 2 per chilometro quadrato), essi si distinguono in Pantaneiros (compresi alcuni gruppi indigeni: Kadiwéu, Guató, Terena, Umutina, Bororo, spesso composti da poche decine di individui) e in assentados. Questi ultimi sono arrivati con le assegnazioni di terra da parte dell’Istituto per la riforma agraria (Incra)3.

«Ai contadini assegnatari di terra hanno dato un contentino – si lamenta padre Pasquale -. La misura minima doveva essere 25 ettari. Qui l’Incra ha dato 13-16 ettari. E la terra è quella del Pantanal, che non è fertile come quella di altri stati brasiliani. Dopo uno-due anni la terra non è più produttiva, soprattutto in presenza di acqua calcarea, non adeguata per le coltivazioni. Da coltivatori i coloni diventano allevatori. Ma lo spazio necessario è di due ettari di terra per ogni capo di bestiame. Si prendono così capi di bestiame di qualità inferiore per produrre un po’ di latte per l’autoconsumo o per il mercato. Noi interveniamo per costruire pozzi e cisterne per l’acqua potabile e con progetti di microcredito, per consentire l’acquisto di sementi o di strumenti di lavoro. Tuttavia, in questa situazione di precarietà molti giovani lasciano gli insediamenti rurali, dove rimangono soltanto i vecchi a coltivare manioca in attesa di raggiungere l’età della pensione. Senza dire di quelle famiglie che, a causa di un’inondazione, hanno perso tutto e hanno dovuto indebitarsi o abbandonare la terra».

Poi ci sono – in Brasile non mancano mai – i latifondisti (terratenientes), proprietari delle fazendas. L’ultimo rapporto redatto dalla Commissione pastorale della terra (Cpt)4, encomiabile come sempre, segnala numerosi conflitti per la terra tra latifondisti e gruppi indigeni locali negli stati del Mato Grosso e Mato Grosso do Sul.

Come in tutto il Brasile, anche nel Pantanal ci sono famiglie o gruppi indigeni che si tramandano la terra da generazioni, ma che spesso non ne hanno la proprietà formale. Di questa situazione cercano di approfittare i latifondisti attraverso la pratica del grilagem5.

«Anche noi abbiamo dovuto – racconta padre Pasquale – difendere molte famiglie dai latifondisti perché non fossero sfrattate da un giorno all’altro. E abbiamo rischiato la vita: questa è gente che non scherza. Arrivavano con i trattori per buttare giù le loro case. E le donne con i bambini si mettevano davanti ai mezzi. Mi hanno raccontato di un grileiro che ordinò all’autista di passare sopra alle persone che si opponevano e che questi era sceso dal trattore rispondendo “Se vuole, lo faccia lei”. Oggi, per fortuna, la maggioranza delle famiglie da noi seguite ha il titolo di proprietà».

Nell’anno 2000 dichiarato dall’Unesco Patrimonio naturale dell’umanità e riserva della biosfera, il Pantanal ha accresciuto in questi anni la propria visibilità, richiamando un numero crescente di turisti. Come si sa il turismo è un’attività economica non esente da rischi, anche gravi. Tuttavia, se gestito in maniera adeguata, può essere la scelta meno impattante per preservare un bioma unico ma fragilissimo.

Paolo Moiola
   Note                 
 1 – I dati sulle mandrie bovine sono impressionanti. Il Mato Grosso, con una popolazione di appena 3,1 milioni di abitanti, ha 28,6 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Indea Mt). Il Mato Grosso do Sul, con una popolazione di soli 2,5 milioni di abitanti, conta 21,5 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Ibge).
2 – «Instituto Nacional de Colonização e Reforma agrária». Il sito: www.incra.gov.br.
3 – Dati dell’«Instituto de Preservação e Control ambiental» diffusi da Embrapa Pantanal: www.cpap.embrapa.br.
4 – Comissão Pastoral da Terra (Cpt), Conflitos no Campo Brasil 2012, aprile 2013. Il sito: www.cptnacional.org.br.
5 – Termine con cui si indica una falsificazione di documenti per divenire proprietari di una terra.
 

 

Il volontario                                        

«Per fare la mia parte»

Giorgio Roz, di Chieri (Torino), arrivò a Corumbá con l’«Operazione Mato Grosso». Da quel giorno sono trascorsi 12 anni.

Corumbá. «Anche a Madonna di Fatima, il bairro dove abito, gira molta droga. Fino a qualche mese fa c’era una boca – un punto di vendita – anche vicino a casa mia. Il problema della droga deriva spesso da altre questioni, sia sociali che personali. Giovani e adolescenti entrano in quel mondo perché alle spalle non hanno una struttura familiare forte. A sua volta questa mancanza è conseguenza della povertà che sovente porta a una destrutturazione della famiglia».

Giorgio Roz, 47 anni ben portati, è un volontario di Chieri, comune non lontano da Torino. È arrivato a Corumbá tramite l’«Operazione Mato Grosso», un movimento fondato nel 1987 da alcuni missionari salesiani1 che operavano nella regione brasiliana2. Il movimento, diffuso in tutta Italia, ha come obiettivo la crescita dei giovani attraverso il lavoro gratuito in favore dei più poveri.

«Sono cresciuto – racconta Giorgio – in ambienti di parrocchia, con i salesiani ma anche con i gesuiti. Il gruppo cui appartenevo era in contatto con padre Pasquale Forin, missionario a Corumbá, che ci visitava a ogni suo rientro in Italia. Un giorno, come avevano fatto altri amici, decisi di tentare anch’io un’esperienza di volontariato. Dopo due periodi (uno di un anno e un altro di un mese), al terzo – era l’ottobre del 2000 – decisi di fermarmi».  Perché?, gli domandiamo. «Per fare la mia parte», risponde Giorgio con invidiabile semplicità. «All’epoca il Mato Grosso era una regione di povertà totale, materiale e spirituale. Quando arrivai qui, in molte zone della periferia c’erano soltanto capanne e baracche fatte con materiale di recupero. La necessità principale era quella di alimentarsi».

Da allora le cose sono cambiate. Il Brasile è divenuto la sesta potenza mondiale. «Ma – osserva Giorgio -, se vediamo certe zone, è ancora Terzo mondo. Il Brasile è il paese dei contrasti, delle contraddizioni assurde. Si passa dalla ricchezza estrema alla povertà estrema. Oltre alla questione della distribuzione della ricchezza, io credo che il problema maggiore sia quello dell’educazione (il paese è agli ultimi posti nel mondo), seguito da quello sanitario. Esistono poche strutture sanitarie pubbliche, mentre quelle private non sono accessibili da parte dei poveri».

Chiediamo a Giorgio della riforma agraria, che avrebbe dovuto costituire un punto qualificante della presidenza del Partito dei lavoratori (Pt), prima con Lula e oggi con Dilma. «A Corumbà – spiega -, da 15 anni fa a oggi, sono stati distribuiti molti lotti di terra nella zona rurale. Peccato che non siano stati foiti anche i mezzi per coltivarla. Oltre tutto si tratta di terreni di piccola dimensione. Succede così che una parte dei coloni, quella che sputa sangue, riesce a tirare fuori il proprio sostentamento, mentre gli altri sopravvivono male. Per contro, anche qui esistono latifondi lunghi decine di chilometri dove vengono usati trattori enormi guidati dal Gps e vengono sparsi diserbanti con piccoli aerei».

Nel Mato Grosso do Sul la crescita economica è rilevante3 ma i problemi, le contraddizioni e le ingiustizie del sistema sono ben visibili come in tutto il paese. Per i volontari come Giorgio Roz il lavoro e le sfide di certo non mancano.

Paolo Moiola
       Note                

1 – I padri Pietro Melesi, Luigi Melesi e Ugo De Censi. Il movimento, oltre che in Mato Grosso, opera in Ecuador, Perù e Bolivia. Il sito
ufficiale dell’Operazione Mato Grosso: www.operazionematogrosso.it.
2 – Nel 1979 lo stato del Mato Grosso venne diviso in due entità indipendenti: il Mato Grosso e il Mato Grosso do Sul.
3 – Ad aprile 2013, il governatore del Mato Grosso do Sul,?André Puccinelli, è stato in tour in Italia per incontrare imprenditori disposti a
investire nello stato brasiliano. Puccinelli ha parlato di grandi opportunità e di forti incentivazioni fiscali per gli investitori.