Australia. Senza voce a casa propria
È la condizione che vivono i popoli indigeni dell’Australia. Da quando – era il 1788 – gli inglesi arrivarono a occupare la loro terra.
Ormai è trascorso un anno, ma quella data – 14 ottobre 2023 – rimarrà nella storia del Paese come un giorno nero.
Gli elettori australiani erano stati chiamati a un referendum per approvare o respingere una modifica alla Costituzione riguardante i popoli indigeni del Paese. Ovvero per dire sì o no alla formazione di un organismo consultivo chiamato «Aboriginal and Torres Strait Islander Voice». Detto organismo avrebbe avuto il compito di presentare istanze al Parlamento e al Governo su questioni relative alle popolazioni indigene.
La proposta è stata però respinta sia a livello nazionale che in ognuno dei sei stati (Australia Meridionale, Australia Occidentale, Nuovo Galles del Sud, Queensland, Tasmania, e Victoria). Insomma, la maggioranza degli australiani ha detto no a un emendamento costituzionale di buon senso, a una riparazione (sia pure molto tardiva) che avrebbe posto fine a secoli di dominazione sui popoli nativi.
Dagli olandesi alla conquista inglese
I primi stranieri ad approdare sulla Terra australis (Terra meridionale) furono gli olandesi. Un navigatore al servizio della Compagnia olandese delle Indie orientali, Willem Janszoon, nel 1605 sbarcò a Capo York, penisola nordorientale del continente australiano, nella regione successivamente chiamata Queensland.
Dopo le sporadiche visite degli olandesi, trascorsi oltre centocinquanta anni, furono gli inglesi a iniziare un vero e proprio insediamento nel continente australiano.
Nel 1770, il capitano James Cook tracciò la costa orientale dell’Australia e la rivendicò per la Gran Bretagna. Tornò a Londra con resoconti favorevoli alla colonizzazione a Botany Bay (oggi Sydney).
La prima flotta di navi britanniche arrivò a Botany Bay nel gennaio 1788 per fondarvi una colonia penale. Tra il 1788 e il 1868 furono deportati in Australia più di 162mila detenuti, ospiti delle prigioni della Gran Bretagna e dell’Irlanda. Di questi, solo nel 1833 ne arrivarono quasi settemila.
Quelle terre erano abitate da una popolazione nativa considerata tra le più antiche del mondo: gli studi la fanno risalire a 65mila anni fa. «L’arrivo di portatori di una potente cultura imperialista – spiega l’enciclopedia Britannica – costò agli aborigeni la loro autonomia e il possesso indiscusso del continente». Le modalità e le conseguenze della conquista furono identiche a quelle accadute nelle Americhe e, in pratica, in ogni luogo del mondo abitato da popolazioni indigene.
Gli insediamenti europei iniziarono a espandersi nell’entroterra, venendo in conflitto con i nativi per il possesso della terra. «Quando divenne evidente – si legge sul sito dell’Australian war memorial (Awm) – che i coloni e il loro bestiame erano venuti per restare, si sviluppò la competizione per l’accesso alla terra e l’attrito tra i due modi di vita divenne inevitabile. […] Si stima che in questo conflitto morirono circa 2.500 coloni e poliziotti europei. Per gli abitanti aborigeni il costo fu molto più alto: si ritiene che circa 20mila siano stati uccisi nelle guerre di frontiera, mentre molte altre migliaia morirono di malattie e altre conseguenze involontarie dell’insediamento».
Come sempre avviene, sul numero dei nativi morti durante la conquista non c’è concordanza. Tuttavia, è comune – anche se controverso – parlare di «genocidio». Si ritiene, infatti, che la popolazione nativa passò da un numero stimato di 1-1,5 milioni di persone a meno di centomila agli inizi del Novecento.
Cittadini o stranieri?
L’indipendenza della colonia australiana da Londra (rimanendo essa nel Commonwealth e sotto la Corona britannica) arrivò con la Costituzione del 1901. Questa trattava diversamente i nativi dagli altri australiani.
Soltanto due parti si riferivano agli abitanti originari del Paese: la Sezione 51 (paragrafo XXVI) che conferiva al Commonwealth il potere di legiferare nei confronti di «persone di qualsiasi razza, diversa dalla razza aborigena, per la quale si ritiene necessario emanare leggi speciali»; e la Sezione 127 in base alla quale «nel computo del numero delle persone del Commonwealth, o di uno Stato o di un’altra parte del Commonwealth, i nativi aborigeni non devono essere conteggiati».
«Ciò significava – si legge sul sito di the Australian institute of aboriginal and Torres Strait islander studies (Aiatsis) – che gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres non venivano riconosciuti come parte della popolazione australiana».
Il referendum del 1967 mise fine a questa incredibile esclusione. Così, a partire dal Censimento del 1971 gli indigeni australiani entrarono – per la prima volta – nel computo dei cittadini australiani.
Per gli indigeni del continente la strada del riconoscimento dei propri diritti era però ancora molto lunga. Una delle proteste più famose e longeve – e tuttora in essere – prese il nome di «The tent embassy», l’Ambasciata della tenda.
Tutto ebbe inizio il 26 gennaio 1972, nella capitale Canberra. Quel giorno quattro indigeni installarono un ombrellone sui prati di fronte al Parlamento. L’ombrello (poi divenuto una tenda) venne denominato «Ambasciata aborigena». Dato che il governo non considerava i diritti indigeni sulla terra di cui erano storicamente proprietari, quella protesta voleva ricordare che il governo aveva reso gli indigeni australiani «stranieri nella propria terra» e, in quanto tali, avevano bisogno di un’ambasciata.
Sulla proprietà della terra la questione è ancora aperta, ma – come accade ovunque nel mondo – non stanno vincendo i popoli indigeni.
Secondo l’incipit di una dettagliata inchiesta del Guardian – titolata «Who owns Australia?» (17 maggio 2021) -: «Chi possiede l’entroterra australiano è una questione controversa. La vera risposta sono i popoli delle Prime nazioni, la cui proprietà risale a 60mila anni fa. La risposta giuridica è più complessa. È un pasticcio di titoli: proprietà, locazioni pastorali, locazioni della corona, terreni pubblici, titoli nativi e terreni detenuti da trust aborigeni».
Secondo dati governativi, «a livello nazionale, nel giugno 2023, il 16,2% della superficie terrestre australiana (1,25 milioni di Km quadrati, ndr) era posseduta o controllata da aborigeni e isolani dello Stretto di Torres».
Tanto o poco? Per avere un’idea delle proporzioni è utile confrontare i dati con le proprietà in mano a uno ristretto numero di privati e di multinazionali. Per esempio, la magnate Gina Rinehart – della multinazionale mineraria Hancock – possiede 9,2 milioni di ettari (92mila chilometri quadrati). Secondo Forbes, la donna è la persona più ricca dell’Australia, al 56° posto nella classifica mondiale.
Il razzismo esiste ancora
Anche il termine per definire i popoli nativi è stato oggetto di dibattito. Per lungo tempo essi sono stati conosciuti come «aborigeni» australiani. Questo termine è però troppo generico ed anche incorretto perché incompleto, non includendo gli indigeni dello Stretto di Torres, un ampio braccio di mare tra il Queensland e la Nuova Guinea che comprende ben 274 isole. Pertanto, è stato adottato il termine di Prime nazioni (First nations people) o di Popoli aborigeni e isolani dello Stretto di Torres (Aboriginal and Torres Strait islander people).
Essi non costituiscono una comunità omogenea, ma un insieme di centinaia di gruppi con lingue, storie e tradizioni diverse.
Secondo l’ultimo censimento, la popolazione indigena australiana conta poco meno di un milione di persone. Di essa il 41 per cento vive nelle città, il 44 per cento in aree interne e il restante 15 per cento in zone remote o molto remote del Paese. Dal punto di vista geografico, gli stati con la più alta percentuale di indigeni sono il Nuovo Galles del Sud (34 per cento) e il Queensland (28 per cento).
L’Australian institute of health and welfare (Aihw), ente pubblico, deve ammettere: «È riconosciuto che, in tutto il mondo, la colonizzazione ha avuto un impatto fondamentale sugli svantaggi e sulla cattiva salute dei popoli delle Prime nazioni, attraverso sistemi sociali che hanno mantenute le disparità. In Australia, gli effetti storici e attuali della colonizzazione e del razzismo hanno contribuito, almeno in gran parte, alle attuali disuguaglianze».
Un recente studio (Australian reconciliation barometer, 2020) ha rilevato che oltre la metà di tutti gli aborigeni e degli isolani dello Stretto di Torres ha sperimentato almeno una forma di pregiudizio razziale negli ultimi sei mesi, mentre il 60% di essi concorda sul fatto che l’Australia sia un Paese razzista.
Emarginazione e razzismo fanno sì che i popoli indigeni australiani abbiano i peggiori indicatori socioeconomici: oltre 120mila indigeni vivono al di sotto della soglia di povertà; i tassi di disoccupazione indigena sono doppi di quelli delle popolazioni non indigene nelle città e nei centri regionali ma molto più alti nelle aree remote.
Quel «no» alla riconciliazione
Il clamoroso risultato del referendum del 14 ottobre 2023 è stato un colpo ferale per i popoli indigeni australiani e i loro sostenitori. Come Marcia Langton, antropologa aborigena (Yiman), in prima linea nella lotta per il riconoscimento dei diritti indigeni.
«È molto chiaro – ha detto senza mezzi termini la docente universitaria – che la riconciliazione è morta. La maggioranza degli australiani ha detto “no” all’invito dell’Australia indigena, con una proposta minima, a darci voce in capitolo sulle questioni che riguardano le nostre vite. Penso che i sostenitori del “no” abbiano molto di cui rispondere per aver avvelenato l’Australia contro questa proposta e contro l’Australia indigena».
Paolo Moiola