Vietnam. Un solo partito, tante speranze


Le prove di avvicinamento tra uno degli ultimi Paesi comunisti e il Vaticano sembrano dare frutti. Ma i punti di vista sono diversi e occorre tempo. Intanto la società vietnamita evolve rapidamente. E la Chiesa locale fatica a stare al passo. Reportage.

Hanoi. È sera. Siamo seduti sulle basse sedie che si usano qui, sul marciapiede di fronte al piccolo bar, bevendo una bibita per contrastare il caldo e l’umidità della giornata. Siamo sul ciglio di una strada che si immette nella rumorosissima e centrale via Hang Bong. I marciapiedi sono usati come parcheggio di motorini, posizionamento di mercanzia di ogni tipo, e, appunto, come spazi per sedie e tavolini. Per camminarci sopra, occorre fare uno slalom continuo.

Ci troviamo nel centro della città, vicino al cosiddetto quartiere vecchio, e non lontano dal lago Hoan Kiem, ombelico di questa metropoli di otto milioni di abitanti. Qui, al contrario di altri quartieri più moderni, ci sono ancora gli altoparlanti agli incroci che trasmettono messaggi di comunicazione del Governo.

Questa sera, il 19 luglio, sentiamo ripetersi due messaggi di pochi minuti, ma non ci facciamo caso più di tanto, anche perché, essendo in vietnamita, non capiamo nulla.

Sono circa le 18. Solo mezz’ora più tardi mi arriva un messaggio da un’amica di Hanoi che rimanda un appuntamento, perché «è morto il Segretario generale del partito». Verifico rapidamente: Nguyen Phu Trong è deceduto poco dopo le 13, dicono vari siti vietnamiti.

Era l’uomo forte del Paese, la carica più importante. Gli altri tre sono il presidente della Repubblica, che ha compiti più rappresentativi, il primo ministro e il presidente dell’Assemblea nazionale. Trong, inoltre, non è stato un segretario generale come gli altri.

Vietnam. Cartelloni politici a Città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)

Chi era Nguyen Phu Trong

In carica dal 2011, aveva iniziato un terzo mandato nel 2021. Fatto inusuale perché di solito ci si ferma a due. Ma soprattutto è stato un leader che ha saputo posizionare il Paese a livello internazionale e mantenere buoni rapporti con tutte le grandi potenze, applicando la «diplomazia del bambù»: pianta robusta, ma flessibile e con salde radici. Basti pensare che, da settembre 2023 a giugno 2024, Trong ha ricevuto Joe Biden, Xi Jinping e Vladimir Putin. Trong ha condotto una lotta anticorruzione interna al Partito comunista vietnamita (Pcv), chiamata «braci ardenti», e ha spinto lo sviluppo economico che sta avendo il Paese. «È stato un uomo che si è dedicato alla patria», ci dice un osservatore straniero che da anni vive in Vietnam.

Per la sua morte, vengono decretati tre giorni di lutto nazionale e celebrati solenni funerali di Stato in tre località: Hanoi, la capitale, Città Ho Chi Minh, ex Saigon (ma ancora sovente chiamata così) capitale del Sud, e a Lai Dà, il suo villaggio di origine, nei pressi di Hanoi.

Il giorno dopo, l’atmosfera cittadina non pare molto cambiata. Il traffico è caotico come sempre. Migliaia di motorini inondano le strade, mentre a ogni angolo, a ogni via, c’è un localino in cui mangiare e gente seduta davanti a una scodella di zuppa.

I giornali e i siti sono usciti in colore nero anziché rosso, mentre sui social impazzano commenti. Un’amica di Hanoi ci mostra alcune foto del segretario da giovane, prese dal suo profilo Facebook.

Sulla spianata di fronte al mausoleo di Ho Chi Minh, il padre del Vietnam moderno, i turisti stranieri, ma anche molti vietnamiti da varie province del Paese, scattano foto ricordo.

Una presenza sicura

Il Partito comunista del Vietnam (Pcv), partito unico al governo della Repubblica socialista del Vietnam, sembra sullo sfondo. Nella realtà, è bene presente nella società vietnamita.

Arrivati all’aeroporto di Città Ho Chi Minh, la prima cosa che vediamo uscendo all’aperto sono tre gigantesche bandiere rosse con al centro il simbolo della falce e il martello in giallo, la bandiera del partito.

Bandiere grandi e piccole del Paese (stella gialla su sfondo rosso) sono presenti un po’ ovunque, talvolta con discrezione, come sui pali della luce, talvolta in modo più appariscente, come le grandi stelle di neon colorati a Città Ho Chi Minh e Nha Trang, o le centinaia di bandierine appese ai fili che attraversano alcune vie pedonali della movida. Poi, nelle diverse città, ci sono grandi cartelloni propagandistici, come quelli dei 70 anni della vittoria contro i francesi a Diem Bien Phu (maggio 1954) che mise fine all’occupazione coloniale, o quelli su Ho Chi Minh, o ancora sulla scuola o altri servizi dello stato.

Sono cartelloni con disegni in tipico stile comunista, come si vedevano nei paesi socialisti europei e in Unione Sovietica, ma qui stonano accanto ai mega schermi, diffusi nelle grandi città, che promuovono a ritmo continuo le grandi marche occidentali di ogni cosa, lusso compreso.  Eppure, ci conferma un nostro interlocutore straniero, che chiede di mantenere l’anonimato: «C’è un certo controllo da parte del Governo, e anche in modo capillare. Di noi stranieri sanno tutto, in particolare di chi vive nelle città. Dopo la pandemia da Covid-19, inoltre, c’è stata una stretta, dovuta anche alla maggiore instabilità a livello mondiale». Uno degli strumenti usati per monitorare le persone è attraverso i social network e le app di messaggistica, come la vietnamita «Zalo», che il nostro interlocutore dice essere «in mano all’esercito». «Nelle grandi città, a livello di quartieri, la polizia si avvale di informatori locali che riportano di passaggi e movimenti inusuali, come visite dall’estero», conclude.

Vietnam. Città Ho Chi Minh, la via Bui Vien famosa per i locali notturni. (Foto Marco Bello)

Sorrisi e controllo

Un altro straniero, che ha vissuto a lungo nel Paese, ci conferma: «Il governo è presente, deve verificare cosa dice la gente. Se un giornalista o una persona della Chiesa critica, dopo può avere dei problemi. Il Governo dà un po’ di libertà e poi le riprende. Ci sono movimenti di apertura seguiti da altri di chiusura. Ma è difficile sapere qual è il livello di denuncia e controllo, soprattutto quando vivi sul posto».

Continua: «Devo dire però che non è una nazione che vive nell’oppressione ogni giorno. I vietnamiti hanno la propria vita personale, il loro quotidiano, il piacere di mangiare insieme, incontrare gli amici, uscire dalla città a vedere posti nuovi. Ci sono tante cose positive. Non è un paese in cui manchi la gioia».

Questo lo si vede in tutte le città. Dai giovani che affollano i locali di tendenza sul lungofiume del Saigon a Città Ho Chi Minh, dagli innumerevoli ristoranti, dalle manifestazioni musicali e fiere, dai coloratissimi áo dài indossati dalle donne. E dai parchi cittadini o i viali resi pedonali e abbelliti da luci colorate, nei quali le famiglie vanno a passeggiare la sera. Un qualsiasi viaggiatore osserverà molta vitalità, voglia di divertirsi, di stare insieme e mangiare bene.

Sebbene sia un popolo di persone generalmente riservate, notiamo una certa attitudine al sorriso. Basta guardarsi e ci si sorride.

Vietnam. Megaschermo installato sulla riva destra del fiume Saigon, di fronte al centro di città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)

Le sfide irrisolte

Il vero aspetto negativo di questo sistema sembra essere la presenza di alcune importanti sfide sulle quali non è possibile aprire un dibattito, proprio perché non ci sono gli spazi di confronto, per cui non si discutono e, molto sovente, non vengono affrontate.

Il nostro testimone ce ne elenca alcune. «L’educazione è una grande sfida. È ancora di tipo tradizionale e non prepara i giovani alle difficoltà del lavoro moderno. Occorre allocare dei fondi per andare in questa direzione. Un’altra sfida è l’arricchimento di una piccola parte della popolazione, che poi tende a mandare i figli a studiare all’estero. La speculazione immobiliare, molto diffusa. L’abbandono delle campagne da parte dei giovani, perché la vita è meno confortevole, per andare a ingrossare le città. La mancanza di investimenti sulla cultura e sull’arte. Anche da questo si vede il livello di sviluppo di un Paese. E poi non c’è una rilettura critica della storia».

Per contro, a livello sociale, nelle grandi città del Vietnam non esistono quartieri molto poveri o degradati, come ci sono in Europa, nelle periferie di Parigi o Roma, tanto per fare due esempi.

È pur vero che si tratta di una società che viene dal mondo rurale e si è modernizzata rapidamente, negli ultimi venti o trent’anni.

Vietnam. Il portale di uscita della chiesa Sacro Cuore di Gesù di Cholon, il quartiere cinese di Città Ho Chi MInh. (Foto Marco Bello)

La Chiesa che c’è

A Città Ho Chi Minh visitiamo una comunità dei padri dello Spirito Santo. Attualmente sono tutti vietnamiti. Ci dicono che hanno una buona collaborazione con il Governo. Ad esempio, nelle attività di assistenza alle fasce più disagiate della popolazione. «Un ente dello Stato ci fornisce riso che distribuiamo ai poveri – ci conferma padre Peter -. Inoltre, noi religiosi siamo stati molto apprezzati durante il periodo della pandemia, grazie al volontariato che facevamo per contrastare l’emergenza». I missionari dello Spirito Santo sono presenti nel Paese dal 2007. Stanno lavorando in particolare in una zona rurale di recente urbanizzazione, vicina alla metropoli. Qui c’è una popolazione immigrata, giunta da varie provincie interne del Paese per lavorare nelle grandi fabbriche di manifattura, che in quest’area (come anche alla periferia di Hanoi) si trovano in grande numero.

Ci sono diverse altre congregazioni presenti in Vietnam, come i Salesiani, presenza storica, o i Camilliani, con le loro attività in ambito sanitario. Il rapporto con le autorità è generalmente buono, ma ovviamente, non si deve entrare nella sfera politica.

Più in generale, la Chiesa cattolica in Vietnam è coesa, forse a causa delle persecuzioni che ha subito in passato e anche nella storia recente.

Oggi è diverso, ed è in corso un processo di avvicinamento, anche ufficiale, tra il Vaticano e la Repubblica socialista del Vietnam. Le relazioni diplomatiche ufficiali si erano interrotte nell’aprile 1975, quando la Repubblica democratica del Vietnam (il Nord) insieme alla guerriglia rivoluzionaria del Sud (i cosiddetti vietcong) vinsero la guerra contro la Repubblica del Vietnam (governo del Sud) e i suoi alleati statunitensi.

Un avvicinamento costante

I rapporti sono ripresi timidamente nei primi anni Novanta. Dal 2010 è stato costituito un gruppo di lavoro congiunto Vietnam-Santa Sede che si occupa di questo processo. I lavori hanno inizialmente portato a scambi e visite ufficiali di rappresentanti del Vaticano e poi alla presenza della figura di un Rappresentante pontificio non residente dal 2011. Il 27 luglio 2023 il presidente Vo Van Thuong è stato in visita da papa Francesco. Lo stesso giorno la delegazione vietnamita ha incontrato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, ed è stato firmato un accordo per l’istituzione di un Rappresentante pontificio residente (Rpr). Una figura ad hoc che, di fatto, espleta le funzioni di nunzio, senza però esserlo. Il presidente Vo ha anche invitato papa Francesco a visitare il Paese (Vo si è dimesso nel marzo di quest’anno, nell’ambito della campagna anticorruzione, e a maggio è stato nominato l’attuale presidente To Lam).

Il 23 dicembre scorso, monsignor Marek Zalewski, nunzio apostolico a Singapore e già rappresentante non residente in Vietnam, è stato nominato rappresentante pontificio residente. Ha quindi aperto l’ufficio di rappresentanza nella capitale Hanoi, a gennaio di quest’anno. L’auspicio espresso da papa Francesco durante l’incontro con il presidente Vo, ripreso poi da monsignor Zalewski, è stato: «Che cattolici del Vietnam realizzino la propria identità di buoni cristiani e buoni cittadini». Frase che sottolinea l’importanza dello Stato.

Vietnam. Celebrazione di un matrimonio nella cattedrale di Nha Trang. (Foto Marco Bello)

Le porte sono aperte

I cattolici in Vietnam sono circa 7 milioni su 100 milioni di abitanti. Questo rendendo la religione cattolica seconda per fedeli, mentre la prima è il Buddhismo con oltre 10 milioni di vietnamiti che si dichiarano tali. «Il numero di cattolici è in crescita – ci dice don Joseph Ta Minh Quy, rettore della cattedrale di Hanoi, che in passato si occupava di comunicazione per l’arcidiocesi -. Però è un po’ inferiore della crescita della popolazione».

Continua don Joseph, che ci ha accolti nel suo ufficio dietro la cattedrale: «I cattolici del Nord sono molto attivi, amano gli incontri di famiglia, di comunità. Sono molto socievoli. Il concetto di comunità è molto forte. Nel Sud è un po’ diverso, e c’è un investimento maggiore sul rapporto personale e sulla fede».

Nelle diverse città del Vietnam, i cattolici non si nascondono. Abbiamo visto ovunque chiese sormontate da grosse croci e rese molto evidenti, spesso illuminate di notte. Continua don Joseph dicendo che il rapporto con il Governo è buono: «Nei nostri spazi possiamo fare tutte le attività che vogliamo, senza alcun problema. Diverso è se vogliamo occupare suolo pubblico, allora occorrono degli speciali permessi. C’è poi abbastanza differenza tra la città e la campagna. In ogni caso, là dove siamo, le nostre porte sono aperte e invitiamo chiunque a venire».

«Una sfida della Chiesa in Vietnam oggi – ci dice uno dei rari missionari nel Paese -, è l’influenza della società secolarizzata. Tanti, soprattutto i giovani, si stanno allontanando. Anche a causa della migrazione interna. Molti di loro lasciano le province per le grandi città, per studiare o lavorare. Ma qui perdono i riferimenti. Così diminuiscono fede e vocazioni». Nella cattedrale di Nha Trang, vivace città nel centro del Paese, si sta celebrando un matrimonio. La sposa indossa un áo dài candido e lo sposo camicia bianca e cravatta. Nel coro ordinato, una decina di donne sfoggia degli áo dài coloratissimi. Gli uomini sono vestiti all’occidentale. È l’immagine di una società vivace e variopinta ma allo stesso tempo ligia e rispettosa delle regole.

Marco Bello

Vietnam. Famiglie a passeggio di sera nel centrale corso Le Loi nei pressi del municipio di Città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)


Il nuovo segretario generale

Il comitato centrale del Partito comunista, il 3 agosto scorso ha nominato To Lam nuovo Segretario generale. Lam è l’attuale presidente della Repubblica, che così concentra su di sé due delle quattro cariche più importanti del Paese. Lam è stato capo della polizia e ministro della Sicurezza pubblica.


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Cina. L’offensiva culturale di Xi


L’attacco agli Stati Uniti e all’Occidente da parte del presidente cinese è sistematico e  totale. Mira a sostituire idee e valori con la visione cinese. Ma a una disamina attenta emergono le molte contraddizioni di Pechino.

Si dice fosse la città più grande al mondo, con lunghe mura di argilla e un imponente palazzo reale all’interno. Stiamo parlando delle antiche rovine di Liangzhu, risalenti a 5.300 anni fa, ben mille anni prima della dinastia Shang, la prima ad apparire nella documentazione storica scritta.

Quella fiorita sul delta del fiume Azzurro, nell’area che oggi corrisponde alla periferia di Hangzhou, viene considerata tra le culture neolitiche tecnologicamente più avanzate al mondo: quelle rovine ospitano i resti della più antica struttura di ingegneria idraulica di tutta la Cina.

Liangzhu non è però solo la culla della civiltà cinese. Il sito archeologico offre anche i presupposti ideologici per un nuovo ordine internazionale, così come vagheggiato da Pechino: più «democratico» e inclusivo rispetto all’architettura mondiale definita dall’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale.

Può sembrare strano, ma le ambizioni riformiste (qualcuno dirà «revisioniste») della leadership cinese attingono a piene mani a quel lontano passato. Per capire perché, occorre arrotolare il nastro al 15 marzo 2023, quando il presidente Xi Jinping, intervenendo a un meeting con i partiti politici stranieri, ha proposto una nuova soluzione alle «molteplici sfide globali»: «Tolleranza, coesistenza, scambi e apprendimento reciproco tra le diverse civiltà svolgono un ruolo insostituibile nel far avanzare il processo di modernizzazione dell’umanità», ha spiegato Xi.

La globalizzazione «armonica» di Xi

Da quel discorso ha preso forma uno dei pilastri della politica estera cinese: la Global civilization initiative (Gci), l’ultima di tre iniziative che, insieme, suggeriscono come perseguire lo sviluppo economico mondiale (la Global development initiative), il mantenimento della sicurezza internazionale (la Global security initiative), e appunto la gestione delle relazioni diplomatiche (la Gci). Secondo quest’ultima, ogni Stato ha una sua cultura specifica e specifici valori che meritano rispetto. Pertanto, è possibile convivere armoniosamente solo rinunciando all’imposizione di relazioni gerarchiche e astenendosi dall’interferire nelle questioni interne degli altri paesi. Non esiste un modello politico economico migliore o universalmente valido.

Si tratta di una visione che promuove la saggezza degli antichi principi confuciani e taoisti (dell’«armonia senza uniformità» e «della coesistenza armoniosa delle differenze») come ricetta per affrontare guerre, discriminazioni razziali, competizioni geopolitiche tra paesi: i mali della contemporaneità che Pechino attribuisce alle vecchie potenze occidentali, smaniose di esportare il proprio sistema democratico in giro per il mondo. Oltre che da Confucio e Laozi, il trittico Gdi-Gsi-Gci trae ispirazione dal concetto di «comunità dal destino condiviso», teorizzato dalla leadership cinese negli anni Novanta. Xi lo ha reso uno dei principi cardinali della sua politica estera prima ancora di avviare la Belt and road initiative (Bri), il progetto infrastrutturale volto a riportare l’ex Celeste Impero al centro delle dinamiche economiche e geopolitiche globali. Il presupposto è che «il futuro di tutti i paesi è oggi strettamente connesso» e che «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono «aspirazioni comuni» verso cui tendere.

Relativizzazione dei valori e nessuna ingerenza

Se la Bri punta soprattutto a infondere sviluppo materiale, le tre nuove sigle gettano invece i presupposti teorici per un nuovo modello di governance mondiale. Ergo, alla Cina non basta più presentarsi come il paese in via di sviluppo diventato seconda economia mondiale. Vuo-le che allo status economico corrisponda un riconoscimento politico e culturale.

È un’ambizione maturata nel corso di decenni, oggi più esplicita alla luce dei «profondi cambiamenti mai visti in cento anni di storia», come direbbe Xi: le guerre in Ucraina e Medio Oriente hanno evidenziato come una cospicua parte di mondo condivida il malcontento di Pechino nei confronti della postura occidentale nei due conflitti. Per quanto discutibile e largamente retorica, nel cosiddetto Sud globale la «neutralità» cinese viene apprezzata più della conclamata vendita di armi americane a Kiev e Tel Aviv.

Sul giudizio pesano le promesse mancate del Nord del mondo in merito alla necessità di riformare gli organi multilaterali, ancora troppo poco rappresentativi dei paesi emergenti. Esigenza di cui la Cina si è resa portavoce, dall’interno, incoraggiando l’ampliamento delle vecchie istituzioni internazionali (come il G20 e il Consiglio di sicurezza dell’Onu); dall’esterno, incentivando la nascita di piattaforme concorrenziali, a partire dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che nel 2024 hanno accolto altri quattro membri (Etiopia, Egitto, Iran ed Emirati arabi uniti).

Come appare evidente, gli effetti della Gci non sono esclusivamente «culturali», almeno non in senso stretto. Difficile non notare come la relativizzazione dei valori promossa dalla sigla smentisca l’universalità dei diritti umani, che Pechino subordina al raggiungimento del benessere economico. Mentre, sottoposta a un’interpretazione westfaliana della sovranità (lo Stato-nazione), l’ingerenza della comunità internazionale nelle dinamiche politiche dei paesi viene respinta sempre e comunque. Anche davanti all’«operazione militare speciale» di Putin in Ucraina o a una possibile (ri)unificazione di Taiwan alla Cina continentale.

Teoria e realtà

C’è chi ritiene che la missione civilizzatrice di Xi strizzi l’occhio alle autocrazie amiche. Riferimenti alla Gdi, Gsi e Gci, sono ormai una costante nei comunicati congiunti durante gli incontri con gli emissari del Sud globale. Eppure, l’approccio autoreferenziale dell’iniziativa cinese rischia di limitare notevolmente la cerchia degli ammi-

ratori. Se «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono principi incontestabili, è impossibile non riscontrare come nel mondo reale Pechino fatichi a rispettarne il significato letterale. Basta pensare all’espansionismo militare nel Mar cinese meridionale, che la Repubblica popolare rivendica quasi tutto per sé e dove negli ultimi mesi pescherecci e guardia costiera delle Filippine sono stati respinti a cannonate d’acqua. O alla repressione delle minoranze musulmane nello Xinjiang, la provincia cinese al confine con l’Asia centrale. Difficile parlare di rispetto per le differenze culturali quando le diversità vengono annullate persino dentro i confini nazionali.

La superiorità cinese

Scricchiola anche l’assioma dell’«equità», tanto caro al Sud globale. A parole la Cina sostiene la tradizionale architettura internazionale con al centro le Nazioni Unite: l’organizzazione, che meglio esprime le istanze dei paesi in via di sviluppo, figura esplicitamente nei documenti fondativi delle tre nuove iniziative globali di Pechino. Eppure, balza all’occhio come la retorica dei media statali spesso non esiti a rimarcare l’eccezionalità della tradizione cinese.

In una lettera scritta per commemorare il sito archeologico di Liangzhu, Xi ha affermato che la civiltà cinese, essendo «aperta e in costante cambiamento» da oltre 5.000 anni, «assorbe le parti migliori di altre civiltà da tutto il mondo». Riprendendo lo stesso concetto sulla rivista teorica Qiushi, lo scorso maggio il presidente spiegava senza giri di parole che «dal punto di vista della tradizione culturale, la civiltà cinese è l’unica civiltà al mondo che è continuata fin dall’antichità senza interruzioni. L’effetto combinato di molteplici fattori ha consentito alla nazione cinese di modellare gradualmente una mentalità nazionale e una psicologia culturale indipendenti e autonome nel suo sviluppo storico».

Questa autonomia, profondità e longevità – aggiunge il leader – attribuisce alla civiltà cinese «un fascino unico che è diverso dalle altre civiltà del mondo».

Tra le righe, si scorge una malcelata forma di «suprematismo culturale» molto antica che, se in epoca imperiale si manifestava nei confronti dei paesi «vassalli» del vicinato asiatico, oggi spesso emerge per scoperchiare i «doppi standard» degli Stati Uniti, modello di democrazia solo quando si tratta di criticare i paesi rivali.

Non potendo ancora rivendicare una superiorità economica (che, peraltro, oggi pare allontanarsi), a Pechino non resta che reclamare un primato immateriale: il tema della pochezza culturale degli Stati Uniti, il «nuovo mondo» senza storia, ricorre frequentemente sui media cinesi. D’altronde, oltre la Muraglia, proprio lo scontro geopolitico con Washington sembra aver rinvigorito quell’orgoglio per il passato negli ultimi vent’anni un po’ offuscato dai numeri luccicanti del Pil.

Il rapporto con gli Stati Uniti

Nelle relazioni con gli Usa, c’è un prima e c’è un dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, nel 2017. Quello è stato il momento in cui la competizione sino-americana è debordata sul piano ideologico. Che sia stato così, è diventato evidente, però, solo nell’aprile di due anni dopo quando, parlando al Future security forum, l’ex direttore della pianificazione politica del Dipartimento di stato degli Usa, Kiron Skinner, ha rimarcato come per «la prima volta» Washington si trovasse a fronteggiare «una grande potenza» non caucasica.

Da quel momento, per parte dell’establishment americano, la cultura e l’identità razziale sono diventate criteri per stabilire la natura – cooperativa o conflittuale – delle relazioni con gli altri Stati. Tanto che l’autorevole analista cinese Wang Jisi recentemente ha constatato come ormai «il dibattito politico e ideologico tra la Cina e gli Stati Uniti è essenzialmente definito dalle direttrici del nazionalismo, della cultura e della civiltà – “l’Oriente contro l’Occidente” – non tra socialismo e capitalismo, o tra proletariato e borghesia».

Contro le contaminazioni

È quindi la Cina che attacca o va considerata «legittima difesa»? Come spiega Xi sul Qiushi, «Sin dai tempi moderni, l’afflusso delle tendenze culturali occidentali ha avuto un impatto sulle tradizioni culturali e sul mondo spirituale del popolo cinese. Alcune persone hanno gradualmente perso la loro soggettività culturale. Come riconquistare la spina dorsale culturale è diventata una questione importante, legata alla sopravvivenza e allo sviluppo della nazione cinese». Un compito spettante al Partito comunista che, investito di una «missione storica», lo porterà avanti concentrandosi da una parte «sulla civiltà materiale», dall’altra «sulla civiltà spirituale». Il messaggio è chiaro: la prosperità economica non può prescindere dallo «sviluppo della cultura socialista». Non solo perché, come dice Xi, la Cina si sente minacciata dalle contaminazioni ideologiche esterne, ma anche perché dietro l’apparente sicurezza della leadership cinese si nascondono timori e debolezze. Impossibile non notare, infatti, come l’enfasi attribuita al passato glorioso serva a sviare l’attenzione dalle difficoltà del presente.

In patria, il rallentamento della crescita economica (scesa al 5% dal 10% del 2010) sta affossando gli stipendi; oltreconfine le disponibilità economiche più contenute hanno indotto una riduzione degli investimenti nel Sud globale.

Radici confuciane e marxismo

In cerca di nuove fonti di legittimazione, Pechino guarda indietro. Erede della Cina imperiale e maoista, la leadership comunista guidata da Xi sta investendo massicciamente nell’archeologia e nella ricerca storica per valorizzare tanto le radici confuciane quanto i «geni rossi» del Paese. Nella stanza dei bottoni viene utilizzato il termine «le due integrazioni», formula che sta a indicare la capacità con cui il Partito ha saputo armonizzare «i principi fondamentali del marxismo con le realtà specifiche della Cina e il meglio della sua cultura tradizionale, adattando continuamente il marxismo al contesto cinese e alle esigenze dei tempi».

Occorreranno mesi, forse anni, prima di poter giudicare il valore geopolitico della controffensiva culturale di Xi.

Dall’altro lato del Pacifico qualche perplessità già c’è. Per R. Evan Ellis, docente presso il United states army war college, in molte parti del mondo – proprio quelle a cui ammicca la Gci -, i concetti di «civilizzazione» e «modernità» sono ancora associati alla dominazione coloniale e all’emarginazione delle popolazioni indigene.

Senza bisogno di guardare troppo lontano, nello Xinjiang usi e costumi locali vengono considerati sintomo di arretratezza in contrapposizione al progresso economico e sociale delle province cinesi abitate dall’etnia maggioritaria Han. A quanto pare, i «doppi standard» non sono una prerogativa solo dell’Occidente.

Alessandra Colarizi




Carta d’identità: taiwanesi

Testo Mirco Elena |


La grande maggioranza degli abitanti della «provincia ribelle» (come Pechino definisce l’isola) si sente taiwanese. E il dato è ancora maggiore tra i giovani. Tuttavia, sono una minoranza coloro che vorrebbero l’indipendenza dalla Cina, opzione giudicata troppo rischiosa, e pochissimi quelli che vorrebbero l’unificazione. Per il momento, a Taiwan pare meglio il mantenimento dello «status quo»: né unificazione, né indipendenza.

Un recente studio, pubblicato dal quotidiano United Daily News1, sostiene quanto segue: il 73% della popolazione dell’isola dichiara di sentirsi taiwanese, mentre cinese solo l’11%2. Un’analoga inchiesta effettuata vent’anni prima, trovava valori rispettivamente del 44% e del 31%. Se ne può quindi dedurre come un certo spirito indipendentista si sia molto rafforzato. Ancora più impressionante appare il cambiamento se si considera che, nella fascia d’età 20-29 anni, questo dato sale addirittura all’85%. Per completare il quadro, si noti che il 10% della popolazione si sente sia taiwanese che cinese, mentre il 6% delle persone si è rifiutato di rispondere alle domande dell’indagine. Una domanda più politica ha infine riguardato l’indipendenza del paese, con il 46% della popolazione che si è dichiarata in favore della prosecuzione indefinita dell’attuale situazione, mentre il 19% preferirebbe muovere velocemente verso l’indipendenza e solo il 4% vorrebbe invece una rapida unificazione con il continente. Il 17% è infine a favore dell’indipendenza, ma preceduta da un lungo status quo. Considerando tutti quelli in vario modo a favore dell’indipendenza, si nota infine che il loro numero è aumentato dell’8% rispetto all’anno precedente.

Essendo chiaro a tutti che il processo di distacco formale dall’idea di una Cina unificata potrebbe comportare gravi rischi, l’indagine ha anche esaminato il prezzo che i cittadini sarebbero disposti a pagare, pur di ottenere l’indipendenza formale. Ne è risultato che il 43% della popolazione complessiva taiwanese potrebbe accettare un drastico calo dei turisti provenienti dalla Cina; per un 20%, l’isola potrebbe sopportare la perdita della maggior parte dei suoi circa 20 alleati diplomatici all’Onu, e addirittura una guerra. Il 16% affronterebbe un blocco economico. Infine poco più del 20% della popolazione pensa invece che l’indipendenza dell’isola non meriti alcun sacrificio.

Tsai Ing-wen, prima donna presidente di Taiwan, osserva l’addestramento dell’esercito taiwanese (25 maggio 2017/ AFP PHOTO / SAM YEH

Più giapponesi che cinesi

Quando si arriva a Taipei, capitale di Taiwan, ci si potrebbe attendere di trovarsi in un ambiente tipicamente cinese. Certamente lo è, per gli ideogrammi presenti ovunque, per la simbologia religiosa, per le decorazioni, ma basta poco per rendersi conto che ci sono alcune notevoli differenze rispetto alla Cina continentale. Se la popolazione di quest’ultima è, per certi aspetti e modi di fare, molto simile a quella italiana3, i taiwanesi sono in un certo senso molto più «tedeschi» (ma, per ragioni geografiche e storiche, meglio sarebbe dire «giapponesi»). La capitale taiwanese è più pulita rispetto alla media cinese; la gente ha un maggior civismo e senso dell’ordine.

Da quanto detto in precedenza, risulterà facile capire come questa differenza si possa probabilmente far risalire all’effetto del mezzo secolo di colonizzazione giapponese, durata dal 1895 al 1945. Con tipica efficienza nipponica l’amministrazione isolana di quel periodo operò in modo da inculcare nella popolazione locale i modi ed i valori propri dell’arcipelago del sol levante: pulizia, ordine, efficienza, senso del dovere. Quando subentrarono i nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek, questi portarono con loro alcune tradizionali caratteristiche cinesi antitetiche a quelle giapponesi: burocrazia arrogante, familismo, corruzione diffusa, disorganizzazione, individualismo anarcoide ed egoistico. Non proprio quello cui erano stati abituati i taiwanesi. Aggiungiamoci l’esercizio della violenza per reprimere ogni protesta e dissenso ed ecco che l’origine dell’insoddisfazione di molti taiwanesi diventa comprensibile. Se ciò non bastasse, ricordiamo come un ruolo non trascurabile debba averlo giocato anche la notizia delle atrocità e delle distruzioni perpetrate dalle guardie rosse al tempo della rivoluzione culturale scatenata da Mao sulla terraferma.

Taipei, © Tsaiian

Piccoli esempi di quotidianità taiwanese

Quanto ancor oggi ci sia di «giapponese» nella società taiwanese lo possiamo dedurre da qualche episodio, successo direttamente all’autore di queste righe o riferitogli da fonti affidabili. Iniziamo da quel che capita un sabato quando alle quattro di mattina mi trovo a dover attraversare una strada cittadina a quattro corsie per prendere l’autobus che avrebbe dovuto poi portarmi all’aeroporto di Taipei. Traffico zero. Nessuno in giro. O quasi. Quando arrivo al semaforo che regola l’attraversamento pedonale c’è lì un signore che disciplinatamente attende che diventi verde. La tentazione di attraversare, pur col rosso, è forte. Mi pare illogico e inutile aspettare in quelle condizioni; oltre a noi due non c’è anima viva né traccia di autoveicoli nei dintorni. Lui, tranquillo, aspetta; io fremo. Mi dà però fastidio l’idea di mostrarmi un ospite cafone, che arriva in una nazione e ne viola le regole. Allora attendo anch’io. Il silenzioso e paziente signore, forse senza nemmeno volerlo, mi ha dato una lezione di civismo.

La disciplina dei taiwanesi appare chiara anche al momento di salire su un mezzo di trasporto pubblico, o di avvicinarsi ad uno sportello. Anziché gettarsi all’assalto, come tende ad avvenire sulla terraferma, i cittadini dell’isola si dispongono in fila e pazientemente attendono il loro turno. Come gentlemen inglesi.

Cyril, un francese stabilitosi sull’isola dopo aver sposato una ragazza locale, mi racconta che qui tantissime persone usano moto e motorini. Ma non era necessario che me lo dicesse lui; me ne ero già accorto, girando per la città. Quel che mi sorprende è invece la sua assicurazione che tutti usano lasciare il casco (che si deve obbligatoriamente indossare quando si è sul mezzo) semplicemente appoggiato sulla moto, quando questa viene parcheggiata; anche quando la si lascia per la notte a lato della strada. Nessuno lo fissa con un lucchetto, dato che non c’è chi pensi di rubarlo. O quasi. Cyril mi confessa che, in dodici anni di permanenza sull’isola, gliene hanno involato solo uno, nuovissimo e rosso brillante, proprio il giorno in cui lo aveva comperato. Il commento del filosofico Cyril è semplicemente «era troppo bello, avrebbe fatto gola a chiunque!». Ancora in fatto di furti, mi dice che, per la sua esperienza di insegnante di lingue, se uno scolaretto trova per terra una banconota da cento dollari, la prima cosa che fa è andare dalla polizia o da un vigile a consegnarla. Non proprio il tipo di comportamento che ci si aspetta di trovare in Cina continentale (ma nemmeno in Italia, a essere sinceri).

Da questi piccoli esempi non possiamo certo trarre nulla di più che qualche modesta indicazione sull’animo, la cultura, i modi di fare dei taiwanesi. Resta il fatto che, come si è visto un poco anche alle ultime elezioni, l’insofferenza per Pechino è forte in ampi settori sociali.

© Mirco Elena

Preservare lo «status quo» (per evitare il peggio)

Come si esce da una situazione in cui potrebbe bastare un errore di valutazione, una dichiarazione azzardata, un intervento esterno mal progettato e peggio eseguito per scatenare uno scontro militare di ampie e imprevedibili proporzioni? Abbiamo già detto che gli Usa sono da tempo impegnati a difendere Taiwan nel caso venisse attaccata dalla Cina. Data anche la loro tendenza storica ad usare la forza per risolvere intricati problemi politici, questo potrebbe facilmente portare ad uno scontro tra le due grandi potenze4, che potrebbe sfociare in uno scambio nucleare. Nonostante la disparità di forze in campo (la Cina ha circa 300 ordigni, mentre gli Usa oltre 5.000, di cui «solo» 1.500 operativi) gli esiti sarebbero certo pesanti per entrambe le nazioni e l’intero quadrante geopolitico Est asiatico (se non addirittura quello mondiale) potrebbe venirne stravolto.

© Mirco Elena

La modalità più sicura per evitare problemi così seri sarebbe certo quella di ridurre la tensione e la probabilità del ricorso ai mezzi militari. Potrebbe risultare decisiva una ribadita adesione taiwanese all’idea di una sola grande Cina, immaginata, almeno in prospettiva, riunificata. In subordine potrebbe bastare, almeno per il momento, il mantenimento dello status quo, in cui Taiwan non si esprime chiaramente né a favore né contro l’unificazione o l’indipendenza.

Un utile passo avanti si potrebbe poi avere se lo speciale regime autonomo vigente a Hong Kong5 continuasse ad avere successo nel garantire le libertà politiche, economiche e sociali. In tal modo assicurando i taiwanesi che, anche nell’ipotesi di una riunificazione con Pechino, le caratteristiche fondamentali della loro democrazia sarebbero preservate e protette.

Positiva sarebbe anche una maggior comprensione da parte americana delle sensibilità della Repubblica popolare, così da evitare mosse interpretate come provocatorie ed offensive. Purtroppo, specie in epoca Trump, questo appare niente più che un evanescente sogno.

Non si dimentichi tuttavia che proprio la Cina ha bisogno di una situazione di perdurante pace, per poter continuare il proprio ambizioso programma di ammodernamento e di miglioramento degli standard di vita di tutta la popolazione. Inoltre la sua attuale forte inferiorità militare può e deve indurre Pechino ad essere prudente, anche nel caso debba ingoiare qualche indigesto rospo a stelle e strisce.

Sulla base di queste considerazioni, e ricorrendo abbondantemente all’ottimismo, possiamo confidare che, nonostante le periodiche tensioni e le loro accentuazioni, non si giunga a scontri militari potenzialmente in grado di portare a una situazione catastrofica. Questo detto, forse è meglio che chi ha fede, preghi che davvero sia così. E chi non crede, incroci le dita.

Mirco Elena
(seconda parte – fine)

 

Note

(1) Giornale che si caratterizza per una posizione fondamentalmente a favore dell’unificazione con la Cina.

(2) Rilevazione compiuta tra il 15 e il 19 febbraio 2016, su un campione di 1.019 persone, con un margine di errore dichiarato del +/-3,1%.

(3) Si veda il libro «Cina e Italia allo specchio», di Mirco Elena e Yu Jin, pubblicato nel 2015 dal «Centro studi Martino Martini per le relazioni culturali Europa-Cina» di Trento.

(4) Certo si potrebbe pensare che la promessa americana costituisca nulla più che un bluff, dato che la Cina ha la capacita di lanciare missili con testata nucleare in grado di raggiungere il territorio statunitense, con ciò disponendo di un potente strumento di dissuasione nei confronti degli statunitensi.

(5) Riassunto nel motto «Un paese, due sistemi».

© Mirco Elena


La situazione religiosa

La libertà è un mosaico

Dalle religioni d’origine cinese al cristianesimo, a Taiwan il mosaico religioso è composto di molti tasselli.

Al contrario che nella Cina continentale a Taiwan la libertà religiosa è assicurata. Questo ha generato un mosaico di fedi assai variegato.

L’ultima inchiesta pubblica – condotta dalla sezione affari religiosi del ministero dell’Interno – sulla situazione a Taiwan risale al 2005. Secondo questo studio, il 35% della popolazione taiwanese si considera buddhista e un 33% taoista. Di rilievo sono anche alcune religioni sincretiche di origine cinese come il Yiguandao (I-Kuan Tao), che attinge da buddhismo, taoismo e confucianesimo, ma anche dal cristianesimo. Questa religione è illegale nella Cina continentale.

La ricerca del 2005 evidenzia anche la presenza di circa un milione di aderenti al Falun Gong, la disciplina spirituale che utilizza elementi della cultura tradizionale cinese (ma che in Cina è fuorilegge dal 1999).

Il cristianesimo arrivò a Taiwan (allora nota come Formosa, dal nome affibbiato all’isola dai marinai portoghesi) con gli spagnoli (1626-1642) e con gli olandesi (1624-1662), che alla fine prevalsero. I primi vi portarono il cattolicesimo, i secondi il protestantesimo. Oggi si contano più di 900mila cristiani, di cui 600mila protestanti e 300mila cattolici. I cristiani – pari a circa il 3,9 per cento della popolazione totale – sono soprattutto tra le popolazioni aborigene (appartenenti queste al gruppo austronesiano) e tra gli immigrati filippini. Anche l’islam è presente, ma quasi esclusivamente tra gli immigrati indonesiani.

Pa.Mo.

Comunita? filippina nella cattedrale di Hsinchu. © Ugo Pozzoli




Usa-Cina 2017:

Il capitalista e il comunista


A inizio aprile il presidente statunitense Trump e quello cinese Xi Jinping si sono incontrati per la prima volta. Hanno discusso soprattutto dei temi economici su cui Pechino e Washington (e i paesi occidentali) rimangono distanti. La Cina opera con successo sui mercati internazionali, ma è restia ad adeguarsi alle regole del commercio mondiale. Proprio durante i colloqui, Trump ha trovato il tempo per lanciare 59 missili contro una base siriana mostrando i muscoli ad amici e nemici.

Lo scorso 6 aprile per la prima volta il capitalista americano Trump e il comunista cinese Xi, a capo delle due nazioni più potenti al mondo, si sono stretti la mano, con al fianco le loro eleganti signore. Lo hanno fatto in una lussuosa villa-castello, la Mar-a-Lago Club, proprietà della famiglia Trump, sulla spiaggia delle palme in Florida, a un tiro di schioppo dal Mar dei Caraibi.

Figlia delle riforme di apertura economica che Deng Xiaoping avviò all’inizio degli anni Ottanta, con l’abbandono della dura autarchia maoista, la Cina contemporanea, entrata a far parte nel 2001 dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), si può sedere oggi allo stesso tavolo del presidente degli Stati Uniti, per trattare da pari a pari di commerci internazionali, di multinazionali, di tassi di cambio, pur continuando ad essere guidata dal più grande partito comunista della storia con i suoi 90 milioni di iscritti.

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. UN-Photo_Evan-Schneide

Le tensioni esistenti

Oggi comunisti e capitalisti sembrano andare a braccetto. Sono remoti i tempi della crisi dei missili che nel 1962 contrappose, di fronte alle coste caraibiche di Cuba, l’arsenale nucleare statunitense a quello sovietico. Il mondo attuale per fortuna non è più lo stesso, la guerra fredda è finita, ma i comunisti cinesi, a differenza di quelli sovietici, sono ancora al loro posto.

Possiamo quindi parlare di vicinanza, ma non di alleanza. Infatti molti sono ancora i punti di attrito tra la potenza nucleare cinese e quella statunitense. Solo per citare quelli che rischiano di portare allo scontro i due paesi, possiamo elencare: crisi Nord coreana, tensioni tra Giappone e Cina sulle isole Senkaku/Diaoyu, ritorno di Taiwan alla Cina, contenzioso territoriale nel Mar cinese meridionale tra Cina e paesi rivieraschi.

Serve ancora tempo. Cina e America sono ormai una coppia di fatto, ma per nulla affiatata. Le moderne relazioni tra Stati Uniti e Repubblica popolare si sono riallacciate pienamente solo all’inizio degli anni Settanta, preparando le condizioni internazionali che avrebbero portato trent’anni dopo i comunisti cinesi nel Wto.

Dal ping pong al Wto (1971-2001)

Nella primavera del 1971, con la guerra del Vietnam in corso, il governo cinese fece invitare alcuni giocatori statunitensi di tennis da tavolo a Pechino, per giocare qualche partita con i colleghi cinesi. Da questa piccola iniziativa nacque quella che venne definita «la diplomazia del ping pong», che aprì le porte alle relazioni sino-americane interrotte dalla conclusione della seconda guerra mondiale.

Alla fine dello stesso anno gli Stati Uniti tolsero il veto e a Pechino venne assegnato il seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu al posto di Taipei.

Nel 1972 il presidente americano Richard Nixon fece visita al paese guidato da Mao Zedong. Nell’estate del 1981 Deng Xiaoping, erede di Mao al comando dei comunisti cinesi, tracciò una riga di condanna sugli errori del maoismo, avviando il paese verso un difficile e lungo percorso di riforme, non solo economiche, ma anche istituzionali, con alterne vicende e tensioni con Europa e Usa.

Infine nell’autunno del 1992 Jiang Zemin, al potere in Cina dopo Deng, lanciò la politica di internazionalizzazione dell’economia cinese, coronata dall’ingresso della Cina nel Wto nell’inverno 2001. Da quel momento in avanti e per tutto il decennio che ne seguì, la Cina, guidata da Hu Jintao, colse i frutti di questa nuova appartenenza al circuito dei commerci mondiali, si arricchì molto, anche se non sempre contribuì pienamente al rispetto delle nuove regole imposte dal Wto.

La classe dirigente americana ha sempre confidato nel fatto che la Cina, una volta aiutata a uscire dal regime di autarchia in cui l’aveva condotta il maoismo, con l’arrivo degli ingenti investimenti esteri, affluiti nel paese, dopo l’inizio della politica di apertura e delle riforme economiche, avrebbe con il tempo introdotto anche le riforme politiche, avviandosi ad essere un paese liberaldemocratico.

Mercato sì, comunismo anche

La Cina resta, e lo resterà a lungo, un paese socialista, che utilizza i meccanismi dell’economia capitalista per rafforzarsi, sotto l’aspetto economico e sociale, ma restando inamovibile sul controllo e la direzione che il Partito comunista deve esercitare sull’ideologia di governo, sulle istituzioni statali e sui settori strategici dell’economia.

Questa è anche l’accusa che hanno sempre mosso gli Stati Uniti alla Cina. Cioè quella di approfittare dei vantaggi offerti dal mercato internazionale, senza però consentire nel suo territorio una libera circolazione delle merci e dei capitali, attraverso pratiche protezionistiche e a volte truffaldine, come il furto di tecnologia e di proprietà intellettuale, lesive della libera concorrenza.

I cinesi sanno bene che il mercato perfetto è solo un’astrazione, buona per i manuali di economia, difficilmente però applicabile alle concrete relazioni internazionali. Le condizioni di sviluppo economico e la maturità tecnologica dei vari paesi non sono sullo stesso piano. La semplice applicazione meccanica di regolamenti astratti rischierebbe seriamente di compromettere le economie più deboli, invece di condurle verso il pieno sviluppo economico e sociale. Probabilmente anche in futuro i cinesi resteranno impegnati nella realizzazione delle riforme socioeconomiche necessarie, ma senza farsi dettare da nessuno l’agenda dei tempi e delle scadenze.

Ad esempio, è prevedibile che nei prossimi anni le industrie strategiche resteranno in mano pubblica, che i settori ad alta tecnologia nell’industria e nei servizi, prima di essere aperti alla concorrenza internazionale, verranno rafforzati, puntando ad essere credibili multinazionali leader nei vari settori commerciali. 

La Cina per molti anni ha potuto definirsi un paese in via di sviluppo, così da richiedere maggiore indulgenza su tutte le sue documentate mancanze, nel campo della libera concorrenza, della politica monetaria, delle tariffe doganali, delle quote di importazione, della proprietà intellettuale, delle liberalizzazioni ecc… Ma la misura sembra essere colma, se la stessa Europa un anno fa, in linea con le valutazioni del Congresso degli Stati Uniti, ha rifiutato alla Cina lo status di economia di mercato. Fino a quando però le aziende americane ed europee fiuteranno la speranza delle immense possibilità di fare business in una società cinese più libera e orientata ai consumi, le relazioni tra Cina e Occidente resteranno tese, ma non si spezzeranno.

Stile Trump: la pistola sul tavolo

Tornando ad aprile. L’incontro al Mar-a-Lago Club è stato impeccabilmente organizzato dalle due delegazioni, almeno fino al dessert. Poiché a quel punto Trump ha deciso, prima di congedare ufficialmente i suoi ospiti, di fare un colpo di teatro, mettendo la pistola sul tavolo, come si usava fare nei vecchi film western tra giocatori di poker in un saloon, dando cioè l’ordine alle navi da guerra della sesta flotta, che incrociavano nel Mediterraneo, di lanciare una sessantina di missili sull’aeroporto militare siriano da cui erano partiti gli aerei del presidente Assad, sospettati di un precedente attacco chimico sulla città di Idlib, in mano alle milizie islamiste anti Assad.

Un paio di giorni dopo ha ordinato alla terza flotta, guidata dalla portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson, di lasciare Singapore per dirigersi in assetto da guerra di fronte alle coste della Nord Corea, che nel frattempo aveva annunciato di voler condurre l’ennesimo test nucleare o l’ennesimo lancio di missili balistici. Infine, ancora pochi giorni dopo, ha ordinato il lancio, su una base del terrorismo islamico in Afghanistan, della nuova, e mai usata prima, potentissima bomba «Moab», in grado di distruggere i bunker più corazzati, un chiaro avvertimento al regime della Corea del Nord e indirettamente alla Cina. Gli antichi cinesi direbbero «far rumore a Est per colpire a Ovest». E i cinesi sono abituati a gestire i colpi di teatro statunitensi, siano essi ordinati da un presidente repubblicano o da un presidente democratico poco importa. Ricordiamo tutti nel 1999, sotto la presidenza del democratico Clinton, i missili che distrussero l’ambasciata cinese di Belgrado in Serbia durante la guerra del Kosovo. Errore o ennesimo avvertimento da cowboy?

Non c’è che dire, Trump ha il suo stile nel condurre gli affari di stato e lo fa in linea con gli obiettivi definiti da anni dal Pentagono come territori ostili agli interessi americani: Siria, Afghanistan, Corea del Nord. Ma è prevedibile che in futuro altri paesi entrino a far parte dell’elenco, a cominciare dall’Iran, a suo tempo anch’esso considerato da Bush figlio uno «stato canaglia».

La Cina e gli interventi militari degli Stati Uniti

Ai cinesi però non piacciono i colpi di teatro e le azioni unilaterali, soprattutto quando portano il caos e danneggiano i loro interessi. Nello specifico, la Siria, l’Afghanistan, l’Iran sono paesi a cui la Cina guarda con grande interesse, per aprire nuovi mercati di sbocco per le sue merci. Il grande progetto infrastrutturale, costituito dalla nuova «Via della Seta», prevede una serie di collegamenti commerciali, basati su strada, ferrovia, linea aerea, che mettano in contatto diretto, come avveniva nell’antichità, l’oceano Pacifico occidentale al mar Mediterraneo orientale, contribuendo allo sviluppo economico di tutti i paesi attraversati.

La pacificazione del continente euroasiatico è anche un interesse degli Stati Uniti? Agli occhi dei cinesi sembrerebbe proprio di no. Infatti il caos, cioè le tragedie sociali, economiche, umanitarie, create di fatto in Medioriente dalle politiche interventiste statunitensi degli ultimi venticinque anni e la maggiore diffusione del terrorismo, che ne è seguita, sono considerati dai cinesi una diretta conseguenza dell’avventurismo militare degli americani.

Così se guardiamo alla storia che segue la caduta del Muro di Berlino, si evidenzia da parte degli Stati Uniti un continuo susseguirsi di interventi militari (da Panama all’Iraq, dalla Somalia alla ex Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia, dalla Siria forse alla Nord Corea), a conferma del fatto che gli obiettivi di politica estera e gli obiettivi economici dell’apparato militar-industriale degli Stati Uniti trovano sempre una sinergia funzionale.

Di fronte a questa consapevolezza la Cina non può far altro che ribadire in tutti gli incontri bilaterali e in tutte le sedi diplomatiche, come ripetuto anche recentemente riguardo alla crisi nord coreana, che l’interventismo militare è foriero di disastri e non di soluzioni, che è una sconfitta per tutti senza un reale vincitore. Così la Cina ritiene che, nonostante le difficoltà evidenti con gli Stati Uniti nel campo della sicurezza e della bilancia commerciale, continuino ad esserci molti più vantaggi da cogliere dalla reciproca collaborazione, a fronte degli infiniti disastri umani ed economici, anche a livello internazionale, che certamente scaturirebbero da un loro scontro aperto.

La variabile Trump

Nei rapporti con i comunisti cinesi il presidente Trump, da uomo d’affari tra i più ricchi del pianeta, non può essere considerato uno stupido. Se appare istintivo, ondivago nelle intenzioni, passando da dichiarazioni roboanti a marce indietro più diplomatiche, si ha l’obbligo, fino a prova contraria, di giudicare questo suo comportamento come la classica strategia che si adotta in una trattativa difficile, quando non conviene mostrare subito le proprie carte, così come non conviene mostrarsi alla controparte troppo prevedibili. Senza dimenticare che i cinesi la sanno lunga e da un cowboy si aspettano che, prima o poi, metta mano alla pistola.

Gianni Scravaglieri
(cinaforum.net)




Albania: Il call center dell’Europa


Durante la lunga dittatura comunista l’isolamento del paese era scalfito soltanto dalle televisioni commerciali italiane. L’italiano divenne la lingua straniera più parlata. Dopo l’arrivo (nel 1992) di un regime più democratico, l’Albania è rimasta un paese con molte contraddizioni ma in rapida crescita. Il sistema economico liberista e i bassi salari hanno attratto consistenti investimenti. Con l’Italia in prima fila.

Non c’è paese dove l’Italia sia più rilevante, eppure per la maggioranza degli italiani l’Albania rimane il più lontano dei posti vicini: un «Oriente sotto casa». Tra le due sponde adriatiche la storia ha pesato più della geografia. Nei due millenni dell’era cristiana, il navigatissimo canale d’Otranto ha funto anche da fossato culturale: di qui Roma, Rinascimento e capitalismo; di là Bisanzio, Impero Ottomano e comunismo. In tempo di Guerra fredda, l’Italia costituzionale fu ben lieta di scordare l’ex colonia mussoliniana. Paradosso dei paradossi, in quegli stessi anni le nostre Tv commerciali esercitarono un ineguagliabile potere fascinatorio sulle vittime del comunismo più isolato d’Europa. Frutto della contingenza internazionale, questa sorta di colonialismo involontario riuscì la fare ciò che il fascismo non avrebbe osato sognare: fece dell’italiano la seconda lingua d’Albania, e dell’Italia «Lamerica» degli albanesi. A venticinque anni dall’attracco della nave Vlora al porto di Bari (8 agosto 1991; si legga a pag. 27, ndr), sebbene risiedano in Italia mezzo milione di albanesi, è ancora difficile parlare di «reciproca conoscenza». Questo perché tra i due paesi il rapporto non è mai stato alla pari. I pregiudizi degli anni Novanta sono finalmente tramontati, ma allo «stereotipo leghista» è andata via via sostituendosi una narrazione giornalistica tanto positiva quanto plastificata: l’Albania indicizzata su Google è un paese dinamico che ha davanti a sé la crescita che gli italiani hanno già consumato. Buona o cattiva che sia, anche questa semplificazione non rende giustizia alla realtà: è un disinteresse con il segno più. Chi, da italiano, voglia conoscere l’Albania, dovrà smettere di usare se stesso come unità di misura. «Mi ricorda il Sud Italia del dopoguerra» o «il mare è bellissimo, sembra la Grecia» sono frasi che parlano di noi.

In questo articolo proveremo a fare un po’ d’ordine partendo dalla storia per arrivare fino ai giorni nostri.

Dentro i confini del 1913

Gli albanesi esistono da prima del loro stato. Sulle origini (illiriche?) della lingua e dell’etnia albanese esistono discussioni accorate ma meno studi, quello che è certo è che sangue e idioma furono le basi ideologiche della Rilindje, il Risorgimento albanese. Inizialmente restii ad abbandonare la compagine ottomana, i patrioti che il 28 novembre 1912 proclamarono da Valona la nascita dell’Albania – nello stesso simbolico giorno in cui, cinquecento anni prima, l’eroe nazionale Skanderbeg aveva dichiarato guerra ai turchi dal suo feudo di Kruja -, lo fecero con il placet della potenze europee, nel tentativo di arginare l’espansionismo serbo e greco che, da Nord e da Sud, spingeva sulle province albanesi della Sublime Porta (termine indicante l’Impero ottomano, ndr). La nascita dello stato albanese somiglia a quella di altri stati emersi dalla dissoluzione dei grandi imperi multietnici. È una storia fatta di visione e di afflato ideale, ma anche di contingenza e di realismo politico. Il riconoscimento internazionale arrivò nel luglio 1913, durante la Conferenza di Londra (sostenitrice della necessità di uno stato albanese era proprio l’Italia liberale). Nel febbraio dell’anno seguente gli stati europei fissarono confini e governo del Principato d’Albania: per dare un’idea del livello di empatia che gli albanesi del tempo dovettero provare nei confronti del nuovo assetto statuale basti ricordare che a insediarsi sul trono fu un perfetto estraneo: il principe Guglielmo di Wied, uno dei nipoti della Regina Elisabetta di Romania. Giunta al porto di Durazzo il 7 marzo 1914, sotto la protezione di una sparuta milizia olandese, la famiglia reale resistette fino al 3 settembre, quando una rivolta la costrinse ad abbandonare il paese. Da quel giorno, l’indipendenza formale dell’Albania ha subito diverse interruzioni – all’occupazione italiana durante la Grande guerra seguirono il debole regno di Zog, l’occupazione fascista del 1939 e mezzo secolo di comunismo – ma i confini stabiliti dagli ambasciatori del 1913, i quali non includono tutti gli albanesi entici, sono gli stessi dell’Albania odierna.

Il comunismo di Hoxha

Questi precedenti giocarono un ruolo determinante all’indomani della II guerra mondiale. Scelto dagli iugoslavi nel fuoco della Resistenza condotta contro i nazisti che dopo l’8 settembre avevano occupato i territori italiani della Balcania (Badoglio lasciò in Albania 130 mila soldati privi di ordini), il comandante partigiano Enver Hoxha governò l’Albania comunista dal 1944 al 1985 (anno della sua morte) combinando spregiudicate alleanze internazionali a un discorso politico nazionalista di stampo appunto risorgimentale. Nei primi anni del dopoguerra l’Albania sembrava avviata a diventare la settima repubblica della Federazione Jugoslava, ma nel giugno del 1948 Stalin ruppe con Tito. Per conservarsi al potere, Hoxha preferì schierarsi con l’Urss, lasciando il Kosovo alla Jugoslavia e resuscitando sul piano interno la secolare narrazione anti serba. Un decennio dopo, il copione sarebbe stato simile: ribelle alle ingerenze sovietiche dello «slavo Krusciov» l’Albania Popolare siglò un’improbabile alleanza con la Cina di Mao: tra gli applausi dell’Occidente, i sottomarini sovietici abbandonarono i porti mediterranei mentre la scelta dottrinaria del marxismo-leninismo isolava il piccolo paese balcanico anche all’interno del Secondo mondo (quello, appunto, orbitante attorno all’Urss).

Il comunismo albanese fu una risposta violenta ai bisogni di una società agropastorale, rimasta a livelli di vita primordiali: ad appena un milione di abitanti – per l’80% contadini poveri, con il 9% della terra del paese a disposizione – un leader finalmente «autoctono» offrì la possibilità di credere al progresso materiale della propria patria. Il prezzo pagato dagli albanesi per la modernizzazione realizzata da Hoxha non è ancora materia di storici altrettanto «locali». Le difficoltà che gli albanesi incontrano nella rielaborazione del loro passato recente si devono al fatto che in quella dittatura «il comunismo» fu poco più di una grammatica dell’economia e della propaganda: una lingua straniera utilizzata per adattare al contesto della Guerra fredda quella peculiare narrazione etnica che affonda le sue radici nell’identità culturale albanese e il cui frutto moderno è, appunto, lo stato albanese. Studiare il regime enveriano implicherebbe la sua comprensione all’interno della storia che lo ha preceduto; se, ancora oggi, quest’operazione viene rimandata è perché l’intoccabile mito nazionalista fonda anche l’Albania democratica. Purtroppo, nessuna coscienza storica ha mai illuminato il cammino della nascente democrazia albanese: né a livello accademico, né a livello di élite politiche. Il risultato, visibile, sono ferite non rimarginate. Lasciate senza spiegazioni, le persone comuni, cresciute lacerate tra due mondi, sanno soltanto che si stava peggio (o meglio) «quando c’erano i comunisti»: come se anche questi ultimi fossero invasori venuti da fuori.

Passaggi complessi

L’Albania è uno stato balcanico e in quanto tale si pensa e si racconta come «unico» (il nazionalismo balcanico è fondato sull’appartenenza etnica) e «mutilato» (non soltanto del Kosovo, ma anche di parte della Macedonia e del Sud della Grecia). Nel 2014 hanno fatto il giro del mondo le immagini di Serbia-Albania, partita valida per la qualificazione all’Europeo di Francia, sospesa per rissa dopo che un drone telecomandato aveva fatto piovere sullo stadio una bandiera dell’«Albania etnica» munita di Kosovo. L’accaduto venne derubricato a «poco edificante folklore sportivo», ma non sfuggì alle cancellerie europee la rinuncia del primo ministro albanese Edi Rama alla storica visita in programma pochi giorni dopo a Belgrado (gli ultimi leader a incontrarsi erano stati Hoxha e Tito, nel 1948). Se il mito risorgimentale della nazione rimane il discorso politico più comprensibile all’opinione pubblica interna, l’Europa è oggi presente nelle esternazioni di tutti i politici albanesi, indipendentemente dall’appartenenza di partito. Come lo stesso Rama ama ricordare in ogni visita all’estero, «l’Albania è il paese più europeista d’Europa». Un’asserzione che contiene elementi di verità, ma che non indaga le ragioni di questa propensione. Per la maggior parte degli albanesi l’Ue – che il giornalismo albanese confonde volentieri con la Germania di Angela Merkel – è un club di paesi ricchi dal quale non si vuole venire esclusi. Che l’integrazione esiga dei doveri è chiaro a tutti, ma che questa implichi il superamento culturale dell’idea di confine nazionale non è ben spiegato ai cittadini albanesi: né dai propri politici nazionali, ferventi europeisti anzitutto quando parlano in inglese, né dalla delegazione della Commissione europea aperta a Tirana, che con i suoi report monitora l’avanzamento delle riforme necessarie all’apertura dei negoziati d’adesione, faticando a rendersi comprensibile al di fuori di una ristretta cerchia di privilegiati della capitale.

Lo sbandierato «europeismo» di un’Albania, che – dal 2014 – è ufficialmente candidata all’Ue, va dunque collocato all’interno di quella generica e ingenua «esterofilia» che ha accompagnato il passaggio del paese dal socialismo paranoico al liberismo selvaggio. Da questo punto di vista, la discontinuità incarnata dal governo Rama si ridimensiona.

Dopo Sali Berisha

Le elezioni politiche del 2013 hanno posto fine all’era di Sali Berisha – il leader del Partito democratico (la destra albanese) che dal 1992 aveva gestito, seppur con qualche interruzione, la transizione dal comunismo. Ma, nonostante la vittoria di una ritrovata coalizione socialista, la strategia economica del paese rimane appiattita sul paradigma neoliberista: apertura alla delocalizzazione estera, riassorbimento della domanda di lavoro affidato agli investimenti stranieri, nessuna tutela per i lavoratori albanesi che rimangono in patria. La proliferazione di call center internazionali che lucrano sul plurilinguismo dei giovani retribuendolo 200 euro al mese è la manifestazione più simbolica dell’assenza di politica nazionale. Più di dieci anni fa, sulle pagine di questa stessa rivista, Pier Paolo Ambrosi osservava che «finché una parte importante della popolazione, a causa delle serie condizioni di povertà in cui vive, rimane praticamente esclusa dal circuito economico, essa non avrà alcun legame né interesse verso le forme di pratica della democrazia». Questa drammatica considerazione è altrettanto attuale oggi, e trova conferma nelle promesse clientelari che precedono ogni tornata elettorale, nell’elezione del faccendiere Ilir Meta a presidente del parlamento, nelle proteste di diversi governi europei per le domande d’asilo che ancora giungono dall’Albania e nel fenomeno di «spedizione» di minori non accompagnati denunciato di recente proprio dai servizi sociali italiani. I gommoni non ci sono più, ma la corruzione, il disagio sociale, la disillusione e il conseguente sogno d’emigrazione a tutti i costi sono lungi dall’essersi esauriti.

Tra corruzione e riforme

Per cercare di traghettare il paese nel futuro, il nuovo governo «socialista» ha rilanciato con abilità l’immagine dell’Albania all’estero – talvolta sbandierando che «qui da noi non ci sono i sindacati», talvolta ottenendo importanti riconoscimenti come l’agognata candidatura all’Europa – ma ha anche affrontato difficili riforme, come quella dell’Università, mirata a fare ordine nel caotico panorama degli istituti privati, e quella della giustizia, che dovrebbe aprire la strada a una magistratura finalmente indipendente. Nonostante la corruzione del sistema politico e sebbene il parlamento continui a dimostrarsi permeabile agli interessi della criminalità organizzata, la riforma della giustizia è passata all’unanimità. La stampa internazionale e le istituzioni europee hanno salutato con soddisfazione il «risultato epocale», fingendo di non sapere che nei giorni immediatamente precedenti la delegazione Ue e l’ambasciatore americano in persona avevano minacciato i deputati albanesi di pesanti ritorsioni nel caso in cui avessero votato contro. In attesa che il futuro ci dimostri che in questo caso il fine europeo ha giustificato i mezzi, è doloroso constatare come una volta superato lo strapotere di Berisha la «democrazia albanese» non possa ancora togliersi le virgolette.

Ammessi i ritardi socio economici, dopo vent’anni di sviluppo caotico ma ininterrotto, l’Albania continua a possedere un notevole potenziale. Stiamo parlando di un paese demograficamente giovane, straripante di bellezze naturalistiche e seduto su un invidiabile patrimonio storico: al confine (strategico) tra Oriente e Occidente, balcanica ma non iugoslava, ex comunista ma non ex sovietica, musulmana ma occidentalizzata, la storia di questo piccolo stato è costellata di apparenti contraddizioni che una volta accettate dal popolo, che ne è custode, potrebbero sprigionare la loro inestimabile ricchezza.

Statue, piramidi, rifugi

Per godere delle contraddizioni albanesi, basta una passeggiata nel centro di Tirana: una città cui la speculazione edilizia degli anni Novanta ha negato per sempre l’aggettivo «turistica», ma che anche per questo risulta interessante a tutti i visitatori stranieri, peraltro in crescita esponenziale. Facciamo due passi in piazza Skanderbeg: in quale altra piazza del mondo s’incontrano a distanza di pochi metri gigantismo sovietico, neoclassico italiano e una moschea ottomana? Circondato dal pastiche architettonico dei dominatori stranieri, al centro della piazza campeggia la statua equestre dell’eroe dell’etnia: uno Skanderbeg invincibile, mitologico e, in quanto tale, poco propenso a valorizzare le strepitose contaminazioni che, certo figlie delle sconfitte, hanno reso unica l’Albania. Pochi metri più a Sud, lungo il boulevard di costruzione italiana, si trova la «Galleria nazionale delle arti». Se al suo interno un piano è dedicato alle opere del regime, la celebre statua di Stalin che, fino al 1968, occupava il posto di Skanderbeg è nascosta, incappucciata, dietro l’edificio. Nello stesso oblio versa l’incredibile piramide che la figlia del dittatore volle erigere a memoria del padre (1988). Per tutta la transizione democratica, questi segni, fonte di fascino e d’interesse per i forestieri, sono stati ragione d’imbarazzo per gli albanesi: il «Baffo» è rimasto in punizione dietro la galleria che poteva ospitarlo e la piramide, altrettanto abbandonata, ha rischiato a più riprese la demolizione. Soltanto nel novembre 2014, in occasione dei 70 anni dalla Liberazione, Edi Rama ha finalmente messo mano alla memoria collettiva, aprendo alla cittadinanza il rifugio militare che Hoxha fece costruire tra il 1970 e il 1972 alle pendici del monte Dajti. Ogni ambiente del sotterraneo, furbescamente ribattezzato Bunk’Art, è oggi adibito a museo. In una delle stanze più visitate, nominata «camera di Hoxha», foto a mezzo busto del dittatore circondano una televisione d’epoca: in onda, a loop, le immagini del suo funerale. Sono indimenticabili le facce dei bambini albanesi che si assiepano davanti a quella Tv. I genitori, timorosi di un passato che hanno vissuto, in genere fanno per tirarli via; ma i piccoli insistono, ipnotizzati da una storia che in fin dei conti è anche loro. Sono quei bambini, e non vecchi eroi a cavallo, il futuro, l’unico possibile, dell’Albania. Futuri cittadini cui i governanti attuali dovranno saper fornire una memoria e una direzione: un motivo per rimanere. Quando la giovane Albania democratica si dimostrerà capace di accettare, ricostruire e raccontare in autonomia la propria complessa storia, nel cuore dei suoi giovani figli nasceranno senza dubbio nuove motivazioni, il desiderio di scriverne il seguito.

Nicola Pedrazzi*

* Nicola Pedrazzi (Bologna, 1986) è giornalista pubblicista e redattore dell’agenzia stampa NEV-Notizie Evangeliche. A nome dell’Università di Pavia ha speso in Albania tre anni di ricerca dottorale. È stato corrispondente da Tirana per l’Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc) e per Kosovo 2.0.