Cina. L’offensiva culturale di Xi


L’attacco agli Stati Uniti e all’Occidente da parte del presidente cinese è sistematico e  totale. Mira a sostituire idee e valori con la visione cinese. Ma a una disamina attenta emergono le molte contraddizioni di Pechino.

Si dice fosse la città più grande al mondo, con lunghe mura di argilla e un imponente palazzo reale all’interno. Stiamo parlando delle antiche rovine di Liangzhu, risalenti a 5.300 anni fa, ben mille anni prima della dinastia Shang, la prima ad apparire nella documentazione storica scritta.

Quella fiorita sul delta del fiume Azzurro, nell’area che oggi corrisponde alla periferia di Hangzhou, viene considerata tra le culture neolitiche tecnologicamente più avanzate al mondo: quelle rovine ospitano i resti della più antica struttura di ingegneria idraulica di tutta la Cina.

Liangzhu non è però solo la culla della civiltà cinese. Il sito archeologico offre anche i presupposti ideologici per un nuovo ordine internazionale, così come vagheggiato da Pechino: più «democratico» e inclusivo rispetto all’architettura mondiale definita dall’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale.

Può sembrare strano, ma le ambizioni riformiste (qualcuno dirà «revisioniste») della leadership cinese attingono a piene mani a quel lontano passato. Per capire perché, occorre arrotolare il nastro al 15 marzo 2023, quando il presidente Xi Jinping, intervenendo a un meeting con i partiti politici stranieri, ha proposto una nuova soluzione alle «molteplici sfide globali»: «Tolleranza, coesistenza, scambi e apprendimento reciproco tra le diverse civiltà svolgono un ruolo insostituibile nel far avanzare il processo di modernizzazione dell’umanità», ha spiegato Xi.

La globalizzazione «armonica» di Xi

Da quel discorso ha preso forma uno dei pilastri della politica estera cinese: la Global civilization initiative (Gci), l’ultima di tre iniziative che, insieme, suggeriscono come perseguire lo sviluppo economico mondiale (la Global development initiative), il mantenimento della sicurezza internazionale (la Global security initiative), e appunto la gestione delle relazioni diplomatiche (la Gci). Secondo quest’ultima, ogni Stato ha una sua cultura specifica e specifici valori che meritano rispetto. Pertanto, è possibile convivere armoniosamente solo rinunciando all’imposizione di relazioni gerarchiche e astenendosi dall’interferire nelle questioni interne degli altri paesi. Non esiste un modello politico economico migliore o universalmente valido.

Si tratta di una visione che promuove la saggezza degli antichi principi confuciani e taoisti (dell’«armonia senza uniformità» e «della coesistenza armoniosa delle differenze») come ricetta per affrontare guerre, discriminazioni razziali, competizioni geopolitiche tra paesi: i mali della contemporaneità che Pechino attribuisce alle vecchie potenze occidentali, smaniose di esportare il proprio sistema democratico in giro per il mondo. Oltre che da Confucio e Laozi, il trittico Gdi-Gsi-Gci trae ispirazione dal concetto di «comunità dal destino condiviso», teorizzato dalla leadership cinese negli anni Novanta. Xi lo ha reso uno dei principi cardinali della sua politica estera prima ancora di avviare la Belt and road initiative (Bri), il progetto infrastrutturale volto a riportare l’ex Celeste Impero al centro delle dinamiche economiche e geopolitiche globali. Il presupposto è che «il futuro di tutti i paesi è oggi strettamente connesso» e che «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono «aspirazioni comuni» verso cui tendere.

Relativizzazione dei valori e nessuna ingerenza

Se la Bri punta soprattutto a infondere sviluppo materiale, le tre nuove sigle gettano invece i presupposti teorici per un nuovo modello di governance mondiale. Ergo, alla Cina non basta più presentarsi come il paese in via di sviluppo diventato seconda economia mondiale. Vuo-le che allo status economico corrisponda un riconoscimento politico e culturale.

È un’ambizione maturata nel corso di decenni, oggi più esplicita alla luce dei «profondi cambiamenti mai visti in cento anni di storia», come direbbe Xi: le guerre in Ucraina e Medio Oriente hanno evidenziato come una cospicua parte di mondo condivida il malcontento di Pechino nei confronti della postura occidentale nei due conflitti. Per quanto discutibile e largamente retorica, nel cosiddetto Sud globale la «neutralità» cinese viene apprezzata più della conclamata vendita di armi americane a Kiev e Tel Aviv.

Sul giudizio pesano le promesse mancate del Nord del mondo in merito alla necessità di riformare gli organi multilaterali, ancora troppo poco rappresentativi dei paesi emergenti. Esigenza di cui la Cina si è resa portavoce, dall’interno, incoraggiando l’ampliamento delle vecchie istituzioni internazionali (come il G20 e il Consiglio di sicurezza dell’Onu); dall’esterno, incentivando la nascita di piattaforme concorrenziali, a partire dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che nel 2024 hanno accolto altri quattro membri (Etiopia, Egitto, Iran ed Emirati arabi uniti).

Come appare evidente, gli effetti della Gci non sono esclusivamente «culturali», almeno non in senso stretto. Difficile non notare come la relativizzazione dei valori promossa dalla sigla smentisca l’universalità dei diritti umani, che Pechino subordina al raggiungimento del benessere economico. Mentre, sottoposta a un’interpretazione westfaliana della sovranità (lo Stato-nazione), l’ingerenza della comunità internazionale nelle dinamiche politiche dei paesi viene respinta sempre e comunque. Anche davanti all’«operazione militare speciale» di Putin in Ucraina o a una possibile (ri)unificazione di Taiwan alla Cina continentale.

Teoria e realtà

C’è chi ritiene che la missione civilizzatrice di Xi strizzi l’occhio alle autocrazie amiche. Riferimenti alla Gdi, Gsi e Gci, sono ormai una costante nei comunicati congiunti durante gli incontri con gli emissari del Sud globale. Eppure, l’approccio autoreferenziale dell’iniziativa cinese rischia di limitare notevolmente la cerchia degli ammi-

ratori. Se «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono principi incontestabili, è impossibile non riscontrare come nel mondo reale Pechino fatichi a rispettarne il significato letterale. Basta pensare all’espansionismo militare nel Mar cinese meridionale, che la Repubblica popolare rivendica quasi tutto per sé e dove negli ultimi mesi pescherecci e guardia costiera delle Filippine sono stati respinti a cannonate d’acqua. O alla repressione delle minoranze musulmane nello Xinjiang, la provincia cinese al confine con l’Asia centrale. Difficile parlare di rispetto per le differenze culturali quando le diversità vengono annullate persino dentro i confini nazionali.

La superiorità cinese

Scricchiola anche l’assioma dell’«equità», tanto caro al Sud globale. A parole la Cina sostiene la tradizionale architettura internazionale con al centro le Nazioni Unite: l’organizzazione, che meglio esprime le istanze dei paesi in via di sviluppo, figura esplicitamente nei documenti fondativi delle tre nuove iniziative globali di Pechino. Eppure, balza all’occhio come la retorica dei media statali spesso non esiti a rimarcare l’eccezionalità della tradizione cinese.

In una lettera scritta per commemorare il sito archeologico di Liangzhu, Xi ha affermato che la civiltà cinese, essendo «aperta e in costante cambiamento» da oltre 5.000 anni, «assorbe le parti migliori di altre civiltà da tutto il mondo». Riprendendo lo stesso concetto sulla rivista teorica Qiushi, lo scorso maggio il presidente spiegava senza giri di parole che «dal punto di vista della tradizione culturale, la civiltà cinese è l’unica civiltà al mondo che è continuata fin dall’antichità senza interruzioni. L’effetto combinato di molteplici fattori ha consentito alla nazione cinese di modellare gradualmente una mentalità nazionale e una psicologia culturale indipendenti e autonome nel suo sviluppo storico».

Questa autonomia, profondità e longevità – aggiunge il leader – attribuisce alla civiltà cinese «un fascino unico che è diverso dalle altre civiltà del mondo».

Tra le righe, si scorge una malcelata forma di «suprematismo culturale» molto antica che, se in epoca imperiale si manifestava nei confronti dei paesi «vassalli» del vicinato asiatico, oggi spesso emerge per scoperchiare i «doppi standard» degli Stati Uniti, modello di democrazia solo quando si tratta di criticare i paesi rivali.

Non potendo ancora rivendicare una superiorità economica (che, peraltro, oggi pare allontanarsi), a Pechino non resta che reclamare un primato immateriale: il tema della pochezza culturale degli Stati Uniti, il «nuovo mondo» senza storia, ricorre frequentemente sui media cinesi. D’altronde, oltre la Muraglia, proprio lo scontro geopolitico con Washington sembra aver rinvigorito quell’orgoglio per il passato negli ultimi vent’anni un po’ offuscato dai numeri luccicanti del Pil.

Il rapporto con gli Stati Uniti

Nelle relazioni con gli Usa, c’è un prima e c’è un dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, nel 2017. Quello è stato il momento in cui la competizione sino-americana è debordata sul piano ideologico. Che sia stato così, è diventato evidente, però, solo nell’aprile di due anni dopo quando, parlando al Future security forum, l’ex direttore della pianificazione politica del Dipartimento di stato degli Usa, Kiron Skinner, ha rimarcato come per «la prima volta» Washington si trovasse a fronteggiare «una grande potenza» non caucasica.

Da quel momento, per parte dell’establishment americano, la cultura e l’identità razziale sono diventate criteri per stabilire la natura – cooperativa o conflittuale – delle relazioni con gli altri Stati. Tanto che l’autorevole analista cinese Wang Jisi recentemente ha constatato come ormai «il dibattito politico e ideologico tra la Cina e gli Stati Uniti è essenzialmente definito dalle direttrici del nazionalismo, della cultura e della civiltà – “l’Oriente contro l’Occidente” – non tra socialismo e capitalismo, o tra proletariato e borghesia».

Contro le contaminazioni

È quindi la Cina che attacca o va considerata «legittima difesa»? Come spiega Xi sul Qiushi, «Sin dai tempi moderni, l’afflusso delle tendenze culturali occidentali ha avuto un impatto sulle tradizioni culturali e sul mondo spirituale del popolo cinese. Alcune persone hanno gradualmente perso la loro soggettività culturale. Come riconquistare la spina dorsale culturale è diventata una questione importante, legata alla sopravvivenza e allo sviluppo della nazione cinese». Un compito spettante al Partito comunista che, investito di una «missione storica», lo porterà avanti concentrandosi da una parte «sulla civiltà materiale», dall’altra «sulla civiltà spirituale». Il messaggio è chiaro: la prosperità economica non può prescindere dallo «sviluppo della cultura socialista». Non solo perché, come dice Xi, la Cina si sente minacciata dalle contaminazioni ideologiche esterne, ma anche perché dietro l’apparente sicurezza della leadership cinese si nascondono timori e debolezze. Impossibile non notare, infatti, come l’enfasi attribuita al passato glorioso serva a sviare l’attenzione dalle difficoltà del presente.

In patria, il rallentamento della crescita economica (scesa al 5% dal 10% del 2010) sta affossando gli stipendi; oltreconfine le disponibilità economiche più contenute hanno indotto una riduzione degli investimenti nel Sud globale.

Radici confuciane e marxismo

In cerca di nuove fonti di legittimazione, Pechino guarda indietro. Erede della Cina imperiale e maoista, la leadership comunista guidata da Xi sta investendo massicciamente nell’archeologia e nella ricerca storica per valorizzare tanto le radici confuciane quanto i «geni rossi» del Paese. Nella stanza dei bottoni viene utilizzato il termine «le due integrazioni», formula che sta a indicare la capacità con cui il Partito ha saputo armonizzare «i principi fondamentali del marxismo con le realtà specifiche della Cina e il meglio della sua cultura tradizionale, adattando continuamente il marxismo al contesto cinese e alle esigenze dei tempi».

Occorreranno mesi, forse anni, prima di poter giudicare il valore geopolitico della controffensiva culturale di Xi.

Dall’altro lato del Pacifico qualche perplessità già c’è. Per R. Evan Ellis, docente presso il United states army war college, in molte parti del mondo – proprio quelle a cui ammicca la Gci -, i concetti di «civilizzazione» e «modernità» sono ancora associati alla dominazione coloniale e all’emarginazione delle popolazioni indigene.

Senza bisogno di guardare troppo lontano, nello Xinjiang usi e costumi locali vengono considerati sintomo di arretratezza in contrapposizione al progresso economico e sociale delle province cinesi abitate dall’etnia maggioritaria Han. A quanto pare, i «doppi standard» non sono una prerogativa solo dell’Occidente.

Alessandra Colarizi




Hong Kong: La promessa e il tradimento

La storia non si cancella: fino al 1842, Hong Kong apparteneva alla Cina. Nel 1997 è tornata sotto il controllo di Pechino con uno status speciale. Un modello oggi compromesso dalle rivolte popolari e dal pugno duro della Cina.

Nel 1842, a Nanchino, Gran Bretagna e impero cinese firmarono un accordo che poneva termine alla prima guerra dell’oppio iniziata tre anni innanzi. Londra impose alla Cina l’apertura di porti tramite cui le compagnie vittoriane avrebbero potuto commerciare con l’entroterra e il Pacifico, il pagamento dei danni di guerra, un risarcimento per l’oppio confiscato agli inglesi e, soprattutto, la cessione definitiva e perpetua dell’isola di Hong Kong.

Il trattato di Nanchino fu il primo di una lunga serie di accordi iniqui che, con l’intervento di altre potenze occidentali (coinvolsero anche Giappone e Corea), segnarono l’inizio della dominazione britannica sulla regione di Hong Kong. Nel 1860 la Union Jack sventolò anche su Kowloon (l’area settentrionale), e nel 1898 il Regno Unito ottenne, con la seconda convenzione di Pechino, anche il controllo sui cosiddetti Nuovi Territori, questa volta concessi in affitto a Londra per 99 anni. Solo nel 1984 il premier cinese Zhao Ziyang e il primo ministro britannico Margareth Thatcher si accordarono affinché l’affitto fosse esteso su tutta la colonia. Londra avrebbe quindi rinunciato al possesso dell’intera area di Hong Kong una volta scaduto il contratto (1898-1997). Da parte sua, la Cina promise di concedere a tutti i territori di cui avrebbe ripreso possesso ampia autonomia secondo un modello ideato dal presidente Deng Xiaoping, denominato «un paese, due sistemi». Secondo questa formula, la «regione ad amministrazione speciale di Hong Kong» (Hong Kong special administrative region, Hksar) sarebbe stata sottoposta alla sovranità cinese. Pechino avrebbe controllato la politica militare e estera, mentre il governo locale avrebbe amministrato la regione secondo criteri di autonomia economica, giuridica e istituzionale per cinquant’anni a partire dal 1° luglio 1997, giorno in cui Hong Kong sarebbe stata riconsegnata alla Repubblica popolare cinese.

Un pendolare legge una copia del Apple Daily su un treno di Hong Kong l’11 agosto 2020, il giorno dopo l’arresto di Kong Jimmy Lai, proprietario del quotidiano, magnate dei media e sostenitore dei movimenti pro-democrazia. Due settimana dopo, il 26 agosto, vengono arrestati anche due deputati dell’opposizione. Foto di Isaac Lawrence / AFP.

La «legge di base»

Venne redatta la Hong Kong Basic law – legge di base, una sorta di Costituzione -, che avrebbe dovuto garantire ai cittadini dell’ex colonia britannica i diritti concepiti nel 1984. Il governatore avrebbe assicurato il rispetto della legge sotto il controllo di un Consiglio esecutivo e di un apparato giudiziario che operavano in piena indipendenza. Per alcuni versi la Basic law funzionò, seppur a singhiozzo: gli abitanti di Hong Kong godevano di diritti che ai loro concittadini in altre regioni della Cina erano negati o ristretti. Le libertà di stampa e di critica venivano rispettate, compresa la possibilità di manifestare contro le decisioni del governo locale o di ricordare la repressione di Tienanmen avvenuta nel 1989. Pechino, seppur storcendo il naso, sopportava.

Del resto, anche la Hong Kong britannica non era stata un esempio di democrazia: allo sfrenato liberismo economico si contrapponeva una legge coloniale che impediva alla quasi totalità della popolazione di partecipare alle elezioni. Questa segregazione politica venne ereditata e perpetuata da Pechino: nonostante la Basic law preveda che a Hong Kong ci sia il suffragio universale, ancora oggi meno dell’1 % dell’elettorato (circa milleduecento persone) ha diritto a scegliere il governatore tra una rosa di candidati che deve essere preventivamente approvata dal governo centrale. Anche i diciotto consigli distrettuali in cui è divisa la Hksar, che dovrebbero consentire ai cittadini una partecipazione amministrativa, sono visti con sospetto dagli abitanti in quanto vengono considerati alla stregua di tentacoli di Pechino per tenere sotto controllo politico la regione.

Forze di polizia schierate per le strade di Hong Kong per contrastare i manifestanti. Foto di Etan Liam.

La protesta e l’avvento di Xi jinping

Dopo il 1997, a differenza di quanto accadeva nel periodo britannico, i cittadini di Hong Kong iniziarono a interessarsi maggiormente alla politica e a impegnarsi nel controllare l’operato del governatorato.

Il Partito comunista cinese tentò in più modi di entrare a far parte di questo interesse cercando di indirizzare i movimenti giovanili verso la propria ala, ma tutti questi sforzi non produssero risultati.

Nel 2014 le prime proteste del movimento Occupy iniziarono a scuotere la vita sociale di Hong Kong. Il motivo delle contestazioni verteva sulle nuove norme introdotte da Pechino riguardo la candidatura e l’elezione del governatore che, una volta scelto, prima di entrare in carica avrebbe dovuto essere approvato dal governo centrale. Era una chiara violazione della Basic law, ma qualche mese prima, in occasione dell’anniversario delle proteste studentesche del 4 maggio 1919, Xi Jinping, da poco eletto presidente della Repubblica popolare, aveva tenuto un discorso all’Università di Pechino affermando che «Prosperità, democrazia, civiltà e armonia sono i valori richiesti a livello dello stato; libertà, uguaglianza, giustizia e governo della legge sono i valori richiesti a livello della società; patriottismo, dedizione al lavoro, affidabilità e amicizia sono i valori richiesti a livello del cittadino».

Carrie Lam, la controversa governatrice di Hong Kong. Foto di Seb Daly / RISE via Sportsfile

Parlando agli studenti di Pechino, Xi Jinping lanciava un segnale anche ai giovani di Hong Kong: era il primo passo verso quella che sarebbe stata la nuova politica di Pechino verso la Hksar. Separando democrazia, potere legislativo e giudiziario, Xi Jinping poneva le basi per un cambio radicale nei rapporti con l’ex colonia britannica. Al popolo (cittadino) era chiesto solo di essere fedele ai principi di unità (patriottismo), lealtà (affidabilità) e armonia (amicizia). La politica doveva essere lasciata al partito. Non a caso, sempre nello stesso discorso, Xi ricordava le guerre dell’oppio, le stesse che portarono alla cessione di Hong Kong alla Gran Bretagna, come causa prima della disgrazia nazionale.
I princìpi cinesi dovevano essere rispolverati e rivisti in chiave moderna, così come il confucianesimo, il ruolo del funzionario e del Partito comunista. Il primo (confucianesimo) garantiva le virtù tradizionali su cui la nuova Cina doveva puntellare la propria rinascita, mentre il funzionario, legato indissolubilmente al partito, doveva assumere un ruolo di guida. Un nuovo timoniere.

E Xi Jinping incarnava questa figura di novello timoniere: il 1° ottobre 2019, settantesimo anniversario della proclamazione della Repubblica popolare cinese (1949), si presentò indossando la casacca maoista. Accanto a lui c’era Carrie Lam che, dal 2017, proprio grazie a quella legge contestata dal movimento Occupy, era governatrice di Hong Kong e fedelissima di Xi.

Era il compimento di un percorso iniziato nel 2014, rafforzato nel 2017 quando il XIX Congresso del Pcc aveva ufficializzato il «Pensiero di Xi Jinping», e che nel 2018 aveva trovato la sua apoteosi legale con l’emendamento costituzionale che poneva un uomo solo al comando della nazione.

Xi Jinping si poneva, dunque, come l’anello di congiunzione tra la Cina socialista di Mao Zedong e la Cina prospera ed economicamente forte di Deng Xiaoping. Questa saldatura non poteva che unire anche Hong Kong alla madrepatria ancora più saldamente di quanto fosse stato fino ad allora.

Un gruppo di manifestanti pro-Cina festeggia con bandiere e brindisi l’approvazione della legge cinese sulla sicurezza nazionale (30 giugno 2020). Foto di Anthony Wallace / AFP.

La legge di estradizione

Nel febbraio 2019 Carrie Lam propose una legge sull’estrazione che allargava anche alla Repubblica popolare la possibilità di estradare cittadini colpevoli di reati gravi quali omicidio, violenza sessuale, ma non per reati a sfondo economico e politico.

Gli studenti iniziarono a scendere in piazza temendo che la legge potesse essere usata da Pechino per richiedere l’estradizione di dissidenti politici rifugiatisi a Hong Kong o per limitare i diritti umani e politici dei cittadini della Hksar.

A fine 2015 l’autonomia giuridica e istituzionale di Hong Kong era già stata scossa con la scomparsa di cinque importanti librai della città di cui, in seguito, si seppe erano detenuti in prigioni cinesi, con il divieto di pubblicare vignette satiriche riguardanti il corpo della polizia e l’appello fatto alla televisione locale, la Rthk, di non trasmettere interviste inerenti ai diritti umani. Logico, quindi, che la legge sull’estradizione scalfisse ulteriormente quell’idea di autonomia regionale tanto cara ai suoi abitanti. In più, la governatrice Carrie Lam era vista come l’alter ego di Xi Jinping. Il suo passato politico l’aveva vista confrontarsi duramente con i leaders del movimento Occupy chiudendo ogni forma di dialogo. Già da allora, ancora prima di essere eletta a governatrice, era chiaro che la sua politica era di applicare alla lettera i precetti dell’«Arte della guerra» di Sun Tzu: non battersi mai direttamente contro i nemici lasciando piuttosto che si fiacchino da soli.

La legge venne poi ritirata il 23 ottobre 2019, ma nel frattempo i manifestanti avevano allargato le loro richieste chiedendo le dimissioni di Lam, il suffragio universale per l’elezione del Consiglio legislativo e del governatore, il rilascio dei manifestanti arrestati, un’inchiesta sulle violenze perpetrate dalla polizia.

Ormai, però, il dado era stato tratto: le riforme cinesi erano state avviate e Xi Jinping non aveva intenzione di arrestarle.

La pandemia da Sars-CoV-2 ha dato inaspettatamente una mano ai governi di Pechino e Hong Kong togliendo i manifestanti dalle piazze per poi lasciare via libera al varo – a fine giugno 2020 – della contestatissima «Legge di sicurezza nazionale» e, infine, posticipare di un anno le elezioni legislative previste inizialmente per il 6 settembre.

Joshua Yong, il giovanissimo (è nato nel 1996) leader dei contestatori, mostra la domanda di candidatura alle elezioni; successivamente, queste sono state posticipate dalle autorità di un anno (al 5 settembre 2021) adducendo a motivo il Covid-19. Foto di Anthony Wallace / AFP.

Giugno-agosto 2020: la legge e gli arresti

Proprio la Legge sulla sicurezza nazionale, redatta in tutta segretezza quando il governo centrale aveva capito che le idee del partito comunista non avrebbero potuto attecchire in un substrato culturale arato e fertilizzato da decenni di liberismo economico, ha riavviato le polemiche dell’opposizione dividendo nettamente il mondo politico internazionale. I paesi occidentali, con Regno Unito e Stati Uniti in testa, hanno fortemente criticato la legge, i paesi asiatici, africani e alcuni latinoamericani guidati dalla Russia, l’hanno invece appoggiata.

I 66 articoli della legge, il cui contenuto non era noto neppure a Carrie Lam sino alla sua ufficializzazione, racchiudono punti che puniscono con la prigione a vita reati più gravi come il tentativo di minare l’autorità del governo centrale, il terrorismo (la cui voce comprende anche il danneggiamento dei trasporti pubblici), la cooperazione con forze straniere e la secessione. Tutti coloro che si rendono colpevoli dei crimini ascritti alla legge, potranno essere processati in Cina, e Pechino si riserva anche il diritto di decidere l’interpretazione della legge in caso questa non sia chiara. A Hong Kong si stabilirà un ufficio di sicurezza con personale cinese sotto l’autorità del governo centrale e nella Commissione di sicurezza nazionale di Hong Kong un posto sarà riservato a un consigliere nominato da Pechino.

Queste misure hanno portato molti analisti a definire chiusa la stagione «un paese, due sistemi» e convinto alcuni dei leader della rivolta a sciogliere i loro movimenti. È stato il caso, ad esempio di «Demosistō», fondato il 10 aprile 2016 da Joshua Wong (nato nel 1996) e Agnes Chow (anche lei del 1996), ufficialmente sciolto il 30 giugno 2020.

Da parte sua, la Cina – e con essa Carrie Lam – afferma che nulla è cambiato e cambierà nella legislazione dell’Hksar ammonendo i governi critici verso il suo operato, di non interferire con gli affari interni.

E proprio l’accusa di collaborazionismo con organizzazioni straniere è stata usata per compiere il primo arresto eccellente in ottemperanza alla legge. Il 10 agosto è stato infatti incarcerato Lai Chee-Ying, meglio noto come Jimmy Lai, editore e finanziatore di numerosi gruppi pro democrazia e proprietario della famosa catena di abbigliamento Giordano. Il 26 agosto e il 6 settembre sono stati arrestati molti altri oppositori.

Un incredibile alveare d’abitazioni, l’altra faccia della metropoli asiatica. Foto di Philippssal – Pixabay.

La tecnologia contro la galassia del dissenso

A proposito dell’interferenza straniera, i media pro Cina sono andati a nozze quando una sparuta, ma organizzata, minoranza di manifestanti ha invocato l’intervento di Trump-Usa-Gran Bretagna a difesa della democrazia ad Hong Kong sventolando bandiere a stelle e strisce o del Regno Unito. La stampa occidentale ha dato a questi gruppuscoli più peso di quanto ne abbiano avuto localmente, ma in questo modo Pechino ha avuto buon gioco nel presentare l’intero movimento di protesta come diretto e orchestrato dall’esterno.

In realtà, le anime dell’ondata di dissenso che sta ancora oggi agitando le acque del «porto profumato» (questo il significato del nome «Hong Kong») sono molteplici: dagli ultraliberisti agli ultranazionalisti, dai gruppi di «sinistra» ai nostalgici del colonialismo. Non vi è un vero e proprio centro direzionale, una leadership univoca: tutto è atomizzato, un’onda fatta da miriadi di gocce che si infrange contro gli scogli dei due poteri che regnano a Hong Kong: quello centrale di Pechino e quello locale. Non esiste neppure una linea programmatica: tutto si decide tramite Facebook, WeChat, WhatsApp, Line e l’agenda è decisa ora per ora.

«Siamo acqua, siamo hongkongers!», è il motto che unisce la maggior parte dei movimenti. Adattarsi alle situazioni istante per istante per essere pronti a penetrare i più piccoli anfratti e, da lì, proprio a causa di questa estrema mobilità e difficoltà di prevederne le mosse, le autorità hanno predisposto una delle più sofisticate reti di riconoscimento facciale e di tracciatura al mondo, collegandosi al modello già in uso nello Xinjiang e in altre provincie più delicate della Cina. Ecco, dunque, il motivo dell’accanimento dei dimostranti contro le telecamere e le webcam che tutto registrano e tutto controllano ad Hong Kong.

Nel frattempo, un’altra nazione, la cui storia condivide un passato travagliato con la Repubblica popolare, sta guardando con interesse ciò che accade nell’ex colonia britannica: Taiwan. Se davvero – come affermano molti analisti – il modello «un paese, due sistemi» sta fallendo ad Hong Kong, l’unificazione di Taipei con Pechino potrebbe allontanarsi ancor più di quanto sia distante attualmente.

Piergiorgio Pescali

Una spettacolare veduta della Hong Kong notturna. Foto di Skeeze – Pixabay.